Il mare è severo Mia madre era una donna di spigoli. Spigoloso era
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Il mare è severo Mia madre era una donna di spigoli. Spigoloso era
Il mare è severo Mia madre era una donna di spigoli. Spigoloso era il suo fisico, con ossa puntute che sembrava volessero bucare la carne: gli abbracci che le davo da bambina non erano mai caldi e rassicuranti, ma insidiosi. Il suo essere spigolosa mi spingeva a essere sempre all’erta, a non lasciarmi andare: era come essere intrappolata in un’amorevole vergine di Norimberga. Ovviamente non lo faceva di proposito: era la mia mamma, mi voleva bene. Ma essere frastagliata era la sua natura; era un animo che non trovava pace, un cane che si mordeva la coda. Le diagnosticarono il disturbo bipolare quando io andavo alle scuole elementari, ma di fatto le medicine non cambiarono il modo in cui io la vedevo. La geometria che studiavo in quel periodo mi venne in aiuto: mia madre era linea spezzata, e i dottori erano come le gomme di una matita che no, cambiavano idea e cercavano di trasformarla in linea curva. Eppure il disegno cancellato restava visibile, inciso com’era nel foglio: ormai faceva parte della sua natura, poco importava che qualcuno lo avesse superficialmente eliminato. Per anni sono rifiutata di cancellare. Non avevo mai una gomma con me; rompevo quelle delle matite. Non vedevo errori, ma solo realtà che andavano rispettate. Non credevo nel cambiamento, ma avevo profonda fiducia in un’essenza che permane al di là del visibile e del percepibile. Mio padre invece era un intellettuale lento e morbido, sia nel fisico che nella personalità. Se mia madre era il vento che spazza la neve sulle vette di giovani montagne, lui era onda di mare che si srotolava placida sulla riva. Erano diversi: infatti lui la abbandonò. Aveva conosciuto una donna pacata e paziente, con il corpo a curve e anche i capelli a curve. Tutto in lei aveva movimenti ondulatori, anche la voce. Anche prima di conoscere mio padre aveva trasformato le parole taglienti che io le dicevo in carezze consolatorie: le assorbiva, le masticava come una mamma-uccello e una volta che le riversava su di me erano ormai poltiglia commestibile. Era la psicologa della scuola, ma a quanto pare riuscì ad essere più d’aiuto per mio padre di quanto lo fosse per me. Quando i miei genitori si separarono il giudice decise di separare anche me da mia madre. Avevo otto anni e piansi, piansi fino a perdere la voce. Quando me lo dissero c’era tutta la famiglia riunita, e i miei nonni paterni mi presero da parte. Accarezzandomi sulla testolina bruna, mi dissero: “Tesoro, la mamma è diversa da te, da noi. Tu sei una brava bambina, e il tuo papà avrà cura di te”. Per farmi stare buona mi avevano preso dei regali: un gigantesco orso di peluche da parte di mio padre, e un libro da colorare da parte di mia madre. Le matite che mi diede insieme al libro erano nuove e perfettamente temperate: avevano quel tipo di punta perfetto per incidere nella carta. L’abbraccio che mia madre mi diede quel giorno, prima di andarsene, fu del tutto simile a loro: ancora oggi me lo trovo inciso nella pelle e nello spirito. Se mi viene un livido, penso sempre alle sue ossa che premono sulla mia morbida carne di bambina. In fondo capivo il discorso di mio padre: io ero onda, e dovevo stare con lui. Insieme eravamo mare, mentre mia madre era un elemento incompatibile. Io e lui fluivamo, lei sbatteva con rabbia, senza riuscire né a proseguire né a scappare. Sono passati tanti anni, adesso. Quella è stata l’ultima volta che ho visto mia madre. I dottori dicono che aveva smesso di prendere le sue medicine, per questo si era lasciata annegare. Io sono convinta però che siamo stati io e mio padre a ucciderla: lei è morta tra i flutti, trascinata giù dalla corrente. Piansi per lei solo quando diventai più grande, quando mi resi conto che aveva tentato in tutti i modi di non essere spigolo. Piansi quando capii che mia madre voleva tentare di essere parte della corrente, di intrecciarsi con noi. E noi non glielo avevamo permesso, ci eravamo allontanati e le onde l’avevano ingoiata. Il mare è severo, con ciò che non riconosce come familiare. Io non so più cosa sono. La gente sostiene sempre che io assomigli in tutto e per tutto a mio padre, probabilmente più per delicatezza che per amore di verità. Nessuno vuole dire a una giovane donna che ricorda la madre suicida e psicologicamente disturbata: e come biasimarli. Certe volte credo che Lei venga ancora a trovarmi, nelle notti dei giorni in cui sono particolarmente felice con mio padre e la sua compagna. Una mattina mi sono svegliata con un livido, lo stesso tipo di livido che mi veniva da piccola quando mi abbracciava troppo forte. Lo guardai, e sfiorandolo mi sembrò di sentirla ancora sussurrarmi all’orecchio “sei l’unica cosa bella della mia vita, l’unica, l’unica cosa bella”. Oggi come allora mi ritrovai a toccarmi il viso umido: una volta erano sue le lacrime, e io non capivo. Ora le lacrime sono le mie ma continuo a non capire comunque. Forse pensava che la avessi tradita; forse temeva che la avrei dimenticata. Mamma! Io non sono più onda, niente dentro di me si muove più. L’acqua ristagna, sono solo palude. Sono sabbie mobili: il mondo sprofonda dentro il mio spirito. Non c’è acqua fluente e non c’è alito di vento: almeno tu provavi a scappare. Io sto ferma, dormo nello stesso letto dove dormivo da bambina, e i posti a tavola devono essere sempre gli stessi o mi sento perduta. Ho usato le matite che mi hai regalato, e quando hanno smesso di essere perfettamente temperate le ho buttate via. Poco tempo fa ho incontrato un ragazzo. L’ho conosciuto dopo un esame all’università, era il classico ansioso che cerca di confrontarsi con più persone possibili sulle risposte date. “Dipende se vuoi che ti dia la risposta giusta, oppure quella che ho scritto”, gli ho detto. Mi ha guardata confuso. “Mi sono accorta troppo tardi di aver sbagliato. Non credo nella cancellazione”. Abbiamo cominciato a uscire insieme. Lui si chiama Lorenzo, ha un nome ordinario e una vita normale. Un giorno mi ha abbracciata, e ridendo ha detto: “Che scapole ossute che hai. Sembra che vogliano bucarti la pelle per lasciare alle tue ali lo spazio di dispiegarsi e spiccare il volo”. Io iniziai a piangere, perché la verità era lì, più semplice di come me la ero immaginata in tutti gli anni che erano trascorsi. Avevo pianto così tanto, in quel periodo: tutto il mio essere mare doveva essersene andato così, in gocce salate. Lorenzo mi aveva fatto capire che anche io ero diversa. Diversa da lui, diversa da mio padre: non ero placida, non ero buona e morbida. Non ero più bambina. Aveva passato anni a respingere l’idea di avere anche l’essenza di mia madre dentro di me, semplicemente perché non capivo che tipo di essenza fosse. Non è normale, dicevano i miei parenti. Non è psicologicamente sana, dicevano i dottori. Ma era parte di me. Era diversa, nel senso universale secondo cui nessuna persona è esattamente uguale a un’altra. Era inquieta, quello sì. Ma era anche una combattente, e aveva cercato in tutti i modi di salvarsi: era un uccello in gabbia, che però nessuno aveva aiutato a uscire. Papà era un uomo buono, ma non era in grado di girare la chiave. Io ero la sua ancora di salvezza: lei si aggrappava a me, i lividi erano le sue richieste d’aiuto. Purtroppo mio padre era onda e mi aveva trascinata via con la corrente. E capii: i miei genitori avevo diversità incompatibili tra di loro. Non avevano saputo aiutarsi: erano entrambi appesi a un precipizio, e uno di loro è stato costretto a lasciare l'altro cadere per salvarsi la vita. Io però non ero mare. Non ero spigolo. Ero umana, ma avrei voluto volare. Guardai Lorenzo, lui guardò me e insieme capimmo che non ci importava che fossimo diversi. Io avevo ali frastagliate, ma incredibilmente perfette per catturare i suoi frammenti di spirito. Lo abbracciai più forte che potei. Il giorno dopo aveva i lividi.