rossiccioß255La Sindrome di Stoccolma

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La Sindrome di Stoccolma
Istituto Statale Superiore Eugenio Montale Pontedera, Pisa
Sarah Simonelli V Ap
Anno Scolastico 2010/2011
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la sindrome di stoccolma
Lentamente imparai che fra il bianco e il nero c’ erano molte sfumature
di grigio: il grigio acciaio, perla, tortora. E anche sfumature di bianco:
nemmeno le vittime erano sempre innocenti Gli assassini sono tra noi, Simon
Wiesenthal.
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la sindrome di stoccolma
Indice
Introduzione
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la sindrome di stoccolma
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Introduzione
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onrad Hassel, un agente dell’ FBI in seguito ad un
episodio di rapina che si aggravò con il sequestro di alcuni impiegati di una banca di Stoccolma, in Svezia, nel 1973 parlò
per la prima volta di “Sindrome di Stoccolma”.
I dipendenti della banca rimasero sotto sequestro per 6 giorni e, al loro rilascio, manifestarono, tra la sorpresa di tutti,
uno spirito di solidarietà nei confronti dei sequestratori. Si
tratta chiaramente di un particolare stato psicologico, in cui
viene a trovarsi chi è vittima di abusi o violenze, una sorta di
alleanza tra vittima e carnefice, una manifestazione di sensazioni positive verso l’aggressore che possono sfociare in veri e
propri coinvolgimenti emotivi ed innamoramenti.
Esistono vari casi “eclatanti” di Sindrome, i più noti sono
sicuramente quelli di Patty Hearst e di Elizabeth Smart. La
prima, rapita nel febbraio del 1974, prese parte ad una rapina in banca insieme a due dei suoi rapitori due mesi dopo. Fu
arrestata nel settembre del 1975 ma la sua difesa non riuscì a
far valere la tesi della mancanza di colpevolezza a causa della
manifestazione della sindrome di Stoccolma. Elizabeth Smart
fu rapita e stuprata da un uomo, affetto da malattie mentali,
che la considerava sua moglie: tra il 2002 ed il 2003, la Smart
trascorse diversi mesi insieme al suo aguzzino, senza alcuna
costrizione fisica.
Un caso dubbio di Sindrome si Stoccolma è, invece, quello
di Natascha Kampusch.
La Kampusch ha vissuto segregata col suo rapitore (Wolfgang Priklopil) dal marzo 1998 al 23 agosto 2006, giorno in
cui è scappata. Ha testimoniato di avere avuto più volte la
possibilità di fuggire, ma ha preferito restare col rapitore. Il
motivo della fuga, infatti, non è stato un desiderio di libertà, ma un litigio col rapitore stesso. Agli investigatori e agli
psicologi che si sono presi cura di lei ha testimoniato dicendo
che non si sentiva privata di niente e che era dispiaciuta della morte del suo rapitore (suicidatosi dopo la sua fuga). La
ragazza, però, intervistata dalla televisione austriaca il 6 settembre 2006, ha smentito le voci sulla sua presunta sindrome
di Stoccolma, aggiungendo di non aver mai pensato di rinunciare alla fuga e di aver solo manifestato pietà per il rapitore
suicida e per la sua famiglia.
Fig. 1: I dipendenti della banca subito dopo la
rapina
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Fig. 2: Al centro Wolfgang Priklopil, ai lati
Natascha Kampusch
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la sindrome di stoccolma
La sindrome di Stoccolma è talvolta citata in riferimento ad
altre situazioni simili, quali le violenze sulle donne e gli abusi
sui minori.
In questi casi le vittime non sono state rapite o sradicate
dal loro originario ambiente familiare, esse si trovano da sempre in ambienti familiari e sociali in generale, che impediscono
la presa di coscienza della realtà. Si tratta di vittime che,
non sentendosi tali, giustificano tutti i malumori, il cattivo
carattere, l’indifferenza, i tradimenti.
Sono persone che si sentono offese dai comportamenti irrispettosi nei loro confronti tenuti da coloro che si possono
ritenere “aguzzini”, ma sono profondamente convinte che la
colpa sia loro, che siano loro a provocare reazioni violente,
perchè non sono abbastanza attraenti o affettuose se si tratta
di donne, mogli o fidanzate, ubbidienti e brave a scuola, o a
casa, se si tratta di figlie o sorelle.
Ma perchè tutto questo dovrebbe riguardare più le donne degli uomini? A tale domanda Robin Norwood, autrice
di “Donne che amano troppo”, risponde (e tale risposta è in
parte concordata da Marina Valcarenghi, autrice di “L’aggressività femminile”) che le donne, per ragioni storiche sono
più inclini a “pensare male di sè”. È stato loro insegnato che
appartengono al “sesso debole”, che sono dipendenti per natura, fragili, bisognose di protezione e di guida, perchè incapaci
di organizzare in maniere autonoma la propria vita e vivere
liberamente la propria esistenza. Gli uomini, da parte loro,
sono da sempre andati alla ricerca di una donna che sapesse
aiutarli, controllare il loro comportamento, curarli, o “salvarli”. Spesso le motivazioni che stanno alla base di alcuni
comportamenti femminili nei confronti degli uomini si possono
rintracciare nella paura: di restare sole, di non essere degne
d’amore, di essere ignorate o abbandonate... Le donne (e anche
gli uomini, ovviamente, anche se, come detto, per ragioni forse
ancestrali essi riescono a reagire con maggior decisione e “aggressività”, come direbbe la Valcarenghi, a tutela della propria
personalità) dominate dalla paura si attaccano morbosamente
a qualcuno che ritengono indispensabile per la loro esistenza e,
anche se può sembrare contraddittorio, se non un’inversione di
ruolo tra la vittima e il carnefice, mettono in atto una serie di
meccanismi di controllo per “tenere l’altro nell’area del proprio
possesso”. La Norwood afferma, poi, la necessità di guardare indietro, verso l’infanzia, a quando sono stati fatti i primi
conti con i ruoli familiari (amore per il padre, attaccamento alla madre, esperienze di violenza, terrore dell’abbandono), nella
ricerca delle ragioni che fanno nascere queste terribili paure.
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la sindrome di stoccolma
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Sono stati editi numerosissimi saggi di psicologia sulla
Sindrome di Stoccolma, come ad esempio “Comportamenti
bizzarri, scritto da Franzini Louis e Grossberg John. I più
conosciuti sono però quelli che riguardano in generale i meccanismi di difesa dell’ “io” che l’individuo attua, più o meno
inconsciamente, per sopravvivere in una situazione tragica
o destabilizzante che mina fortemente la sua individualità e
identità (si veda ad esempio il celebre scritto della Freud “I
meccanismi di difesa dell’Io”). È anche vero, però, che questa
condizione psicologica ha spesso suscitato enorme interesse
negli studiosi, e non, per le dinamiche emotive e sentimentali
che si celano in profondità, in particolare quella dimensione di
passionalità e perdizione in cui gravita la vittima, una volta
che scopre nel suo carnefice una figura capace di donarle sicurezza e attenzione. È possibile ritrovare alcune tematiche e
determinati sviluppi della Sindrome di Stoccolma in una cospicua parte della letteratura moderna e contemporanea, come
anche in quella ancora meno recente.
Si pensi, ad esempio, alla celebre autrice americana di romanzi rosa, Johanna Lindsey. Il suo primo romanzo, “La
sposa rapita”, scritto nel 1977, è stato subito un gran successo
ed oggi, con più di 58 milioni di volumi pubblicati, tradotti in
ben 12 lingue, Johanna Lindsey è una delle autrici di romanzi d’amore storici più famose del mondo. La trama del libro
ruota intorno alla storia d’amore di Christina, un’incantevole ereditiera, e del figlio di uno sceicco arabo, che dopo averla
rapita, la tiene prigioniera in un villaggio, nascosto tra le dune. Ma per la fanciulla l’uomo non è uno sconosciuto: lei lo
ricorda bene alle feste in società, e non ha dimenticato la sua
incredibile domanda di matrimonio. Ora, però, è diventata la
sua schiava e non può più permettersi di respingerlo, ammesso
che lo desideri davvero. Per gli uomini delle dune, è la donna,
la sposa rapita, che finisce per rischiare la propria vita per
salvare quella del loro signore.
Oltre alla Lindsey, la quale scrive altri suoi capolavori dalle tematiche affini a quelle della “Sposa rapita”, risalendo
in tempi ancora più recenti, è possibile ricordare Stephenie
Meyer, autrice statunitense che pubblica tra il 2005 e il 2008
la Saga di Twilight”, un ciclo di quattro romanzi di genere
fantasy, avventura, romantico che tratta le avventure di Isabella Swan, un’adolescente che si trasferisce nella piovosa
cittadina di Forks, nello stato di Washington, e si innamora
di un vampiro chiamato Edward Cullen.
È possibile ritrovare il tema trattato anche in romanzi di
autori ben più noti, che hanno fatto la storia della letteratura
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la sindrome di stoccolma
ottocentesca e novecentesca.
Un esempio magistrale della relazione vittima-carnefice può essere
individuato nel capolavoro di DoIntroduzione1_4.png
stoevskij La Mite . Si tratta di uno
dei racconti artisticamente più strug3: la copertina del romanzo “La
genti, profondi e intensamente poe- Fig.
mite” di Dostoevskji
tici del grande scrittore russo che
racconta la triste e tragica vicenda
sentimentale di un usuraio quarantenne e di una ragazzina sedicenne,
orfana di entrambi i genitori e costretta al matrimonio, dopo aver
venduto all’uomo tutto ciò che possedeva.
Dostoevskij, in questo racconto, mescola e confonde il male
e il bene, la vittima e l’aguzzino. In un lungo, ininterrotto
monologo, trabocca l’anima dell’usuraio, l’unico protagonista
della scena, lasciato solo di fronte alla morte, per lui assurda, della giovane moglie. Anche l’amore e il matrimonio con
la giovanissima orfana diventano un affare come un altro,
almeno all’inizio. Certo che voleva bene a quella giovane creatura, anche se si trattava di un amore distorto, malato, nato
da un rapporto di dipendenza, dove lui solo poteva esercitare
un potere, lui solo poteva disporre della vita di lei, ferirla con
un ostinato silenzio, isolarla nei timidi tentativi di instaurare un rapporto alla pari. Paradossalmente, proprio quando
il cinismo e la viltà del comportamento maschile, hanno compromesso per sempre la dignità e infranto i sogni della timida
ragazza, facendola lentamente precipitare nella melanconia e
nella depressione, l’uomo scopre di amarla per davvero. Ma è
troppo tardi: lei si ammala di febbre cerebrale e si suicida, gettandosi dalla finestra, con in braccio l’icona sacra della vergine, l’unico pegno che non aveva mai considerato in vendita,
dono della madre. Resta intatta l’enigmaticità di una storia
d’amore impossibile, nata fra due esseri umani lontanissimi
nei loro estremismi, incapaci di comunicare le loro diversità,
vittima e carnefice e per questo accomunati da un tragico destino. E’ anche il dramma sentimentale ed emotivo dell’unica
voce narrante, quella dell’usuraio, uomo forte esteriormente, ma che si scopre sempre più fragile e insicuro, smarrito di
fronte all’innocenza di quella ragazza mite, così mansueta
in apparenza, ma capace di forti sentimenti e che, pur di non
cedere nei propri ideali, sceglie di togliersi la vita. Impossibile non citare, poi, Gabriele D’Annunzio il quale, nel 1892,
propone con la sua inimitabile prosa, elegante e preziosa, un
quadro delle complesse e affascinanti dinamiche amorose della
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storia di Tullio Hermil, intellettuale perverso e volubile, passionale e fedifrago, e della moglie Giuliana, donna sensibile e
raffinata, intelligente e colta, che dissimula la straziante tristezza provocatale dalle continue mancanze del marito. Uno
degli esempi emblematici della relazione psicologica-emotiva
che lega la vittima al carnefice si ritrova all’interno di una
della favole più antiche, la favola della “Bella e la Bestia”.
Alla fine della storia la Bella finisce per superare la propria
naturale ripugnanza e arriva, persino, ad amare il mostro che
l’ha strappata alla sua famiglia per tenerla prigioniera in un
castello incantato, nonostante il suo aspetto animale. Accade
però un miracolo: la Bestia viene liberata dall’apparenza bestiale, per rivelarsi nella sua realtà non solo di essere umano,
ma di principe. “La Bella e la Bestia”, come tutte le favole narrate e ripetute per secoli, incarna una profonda verità
nel contesto di una storia affascinante. Il pregiudizio culturale che la favola sembra confermare è che una donna possa
cambiare un uomo, se lo ama abbastanza intensamente. Esso
appare riflesso più e più volte nei discorsi e nel comportamento
quotidiano e conferma il tacito assunto culturale che si possa
cambiare qualcuno in meglio con la forza dell’ amore e che,
nel sia loro dovere farlo: “Quando qualcuno che ci è caro non
risponde con le azioni o coi sentimenti nel modo che noi vorremo,cerchiamo di escogitare qualcosa per riuscire a cambiare il
comportamento o il carattere di quella persona” (R.Nerwood).
Anche i mass-media contribuiscono, riflettendolo, a rinforzare
questo sistema di credenze e perpetuarlo, con la loro influenza.
L’idea di cambiare una persona infelice, intrattabile, o qualcosa di peggio, in un partner perfetto affascina, e questo compito
è delegato alle donne, inoltre nell’etica giudeo-cristiana è insito il concetto di aiutare quelli che sono meno fortunati di noi :
non giudicare, ma piuttosto aiutare è un obbligo morale.
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