Untitled - Strategie Evolutive

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Untitled - Strategie Evolutive
 Il destino dell'Iguanodonte
(e altri pettegolezzi paleontologici)
seconda edizione riveduta
e ampliata
Davide Mana
Il Destino dell'Iguanodonte by Davide Mana is licensed under a Creative Commons Attribuzione ­ Non commerciale ­ Non opere derivate 3.0 Unported License.
Gli scienziati si lamentano del fatto che nel nuovo film Dinosaur, i dinosauri siano mostrati insieme ai lemuri, che non comparvero se non un milione di anni dopo. Temono che il film darà ai ragazzi una impressione sbagliata. Che dire del fatto che i dinosauri ballino e cantino?
Jay Leno, The Tonight Show
Questo è dedicato ai miei colleghi dell'Università di Urbino
Introduzione
Sono diventato geologo perché mi piacevano i dinosauri.
Mi sono laureato in geologia in una università (quella di Torino) che all'epoca non aveva un dipartimento di paleontologia dei vertebrati.
Ho studiato infinite conchiglie.
Oggi sono micropaleontologo – lavoro sul plancton fossile.
Ma la passione per i dinosauri è rimasta.
Quello che segue è un rimaneggiamento di diversi lavori – articoli, conferenze, post sul web – che per anni sono serviti come valvola di sfogo per la mia passione per i dinosauri, e la mia ammirazione per coloro che per primi li scavarono.
Gli anglosassoni parlano di edutainment – figlio del connubio di education e entertainment.
Questo ebook non ha pretese né nell'ambito dell'educazione che in quello dell'intrattenimento.
Si tratta di pettegolezzi paleontologici.
Buona lettura.
Davide Mana
Castelnuovo Belbo, Asti
Estate 2011­Inverno 2012
Parte Prima
Il Vecchio Mondo
Effetti del Clima sul Tempo Libero della Upper
Class Britannica
Fra il 1300 ed il 1800 l’Europa venne interessata da quella che gli addetti ai lavori chiamano “La Piccola Glaciazione” (Little Ice Age); le cause sono tutt’ora oggetto di dibattito – forse delle massicce eruzioni vulcaniche oscurarono i cieli con le loro ceneri, forse un anomalia inceppò la corrente del golfo. Di sicuro, dopo tre secoli nei quali il tempo si mantenne tendente al bello ed il clima fu sufficientemente caldo da garantire l'impiantamento di vigneti nelle isole britanniche, con il quattordicesimo secolo si avviò una tendenza opposta.
Se tutti gli studiosi concordano invece sulla conclusione dell’Era Glaciale nella metà del 19° secolo, l’inizio della Piccola era Glaciale è oggetto di discussione, ed a seconda dei dati e delle località considerate potrebbe coincidere con diversi eventi:
1250, con l’inizio della crescita del Pack Atlantico
1300, con la scomparsa di estati calde regolari in Nord Europa
1315, con l’anno più piovoso del secolo, e la Grande Carestia del 1315/1317
1550, con l'anno in cui si teorizza una globale espansione dei ghiacciai
1650, per coincidenza con il primo minimo termico assoluto
A metà del quindicesimo secolo, scomparvero i vigneti britannici ­ gli inglesi che fino a quel momento avevano avuto una loro produzione di vino nazionale, si ritrovarono a secco. E non fu quello il problema più grave.
Faceva freddo.
A testimonianza della Piccola Era Glaciale – in realtà un'altalena di temperature variabili ma progressivamente tendenti ad un generale abbassamento ­ ci rimangono la definitiva scomparsa degli insediamenti vichinghi in Groenlandia, l'avanzata dei ghiacciai alpini (che raggiunsero la loro massima estensione nel 1670), le pitture di Brueghel con paesaggi innevati e laghi gelati a Pasqua, e le Frost Faires che si tennero durante gli inverni londinesi, con falò, balli e caccia alla volpe sul Tamigi ghiacciato.
Non furono certo solo gite sui pattini e falò sotto le stelle – le carestie si susseguirono nel periodo della Piccola Glaciazione, uccidendo migliaia di persone, complici colture ancora sottosviluppate e amministrazioni miopi.
Tuttavia le cose cominciarono a migliorare, localmente, attorno ai primi anni del 1700, quando, forse grazie alla riattivazione della Corrente del Golfo, il clima si fece nuovamente mite e piacevole in Inghilterra. Il bel tempo portò ad un incremento nella produzione di grano, che di conseguenza portò ad una esplosione demografica – in base al principio che dei primati con la pancia piena hanno una maggior propensione a riprodursi.
Il boom delle nascite reso possibile dal miglioramento delle condizioni alimentari costituì il motore di quella parte della rivoluzione industriale che non poteva andare a vapore – i bambini lavoravano duro e consumavano poco, occupavano poco spazio ed erano facilmente rimpiazzabili, perché ce n'erano tanti.
Rese popolari dai romanzi di Dickens, le condizioni terribili nelle quali versava la forza lavoro minorile nell'Inghilterra vittoriana fanno impallidire i pur esecrabili moderni casi di sfruttamento della manodopera.
A titolo di esempio si consideri un caso fortemente atipico: un gentiluomo di nome Robert Owen gestiva a metà '800, a Londra, una piccola ma ben avviata industria per bambini – i piccoli risiedevano e lavoravano nello stesso edificio, minimizzando così i tempi morti, ospitati a gruppi di trenta in comode stanze da quindici letti, che venivano pulite (cambiando la paglia dei pagliericci) una volta ogni sei settimane. I ragazzini mangiavano due volte al giorno, si lavavano una volta ogni due settimane, estate e inverno, presso la locale pompa pubblica dell'acqua, e lavoravano appena sedici ore al giorno.
Robert Owen venne duramente criticato per il lassismo della sua struttura, che non poteva che stimolare le peggiori abitudini dei piccoli ospiti.
L'ozio è, dopotutto, il padre dei vizi. E lo era anche nell'epoca vittoriana.
Non dobbiamo d’altra parte sorprenderci se le successive attività del pericolosamente sovversivo mister Owen furono nel campo del neonato movimento socialista.
Accoppiata con la nascente rivoluzione industriale e con il fenomeno delle enclosures (la privatizzazione di vaste aree di territorio demaniale), la crescita demografica indotta dal miglioramento del tempo permise lo sviluppo, in capo ad un paio di generazioni, di una ricca borghesia con molto danaro e molto tempo libero.
Danaro e tempo libero che le classi superiori inglesi spesero volentieri con la pratica del Grand Tour, vasto giro del continente per visitare i luoghi fondamentali dell’antichità classica (e probabilmente anche luoghi di perdizione quali Parigi e Venezia); in sostanza, una variazione sugli antichi pellegrinaggi clericali fra una sede universitaria e l’altra, e l’antenato un po’ più dignitoso dei temibili package tour, quelle cose del tipo “Visitate tutta l’Europa in dieci giorni”, oggi sinistramente popolari e che già nel diciannovesimo secolo che erano comunque dietro l’angolo…
Pare che un individuo intraprendente e privo di scrupoli abbia sviluppato il progetto di condurre quaranta o cinquanta persone da Londra a Napoli e ritorno, per una tariffa fissa. Per contratto li trasporterà, darà loro da mangiare, e fornirà l’intrattenimento… Venuto a conoscenza del piano, mi augurai che una simile speculazione fallisse. Immagino che la caratteristica indipendenza degli inglesi si rivoltasse contro un sistema che riduce il viaggiatore al livello dei suoi bauli ed oblitera ogni traccia e tratto dell’individuo. Sbagliavo. Mentre scrivo, le città italiane sono sommerse da una quantità di simili creature.
[Charles Lever, lettera a Blackwood’s Magazine, (1860)]
Fu durante un Grand Tour, anche se piuttosto sui generis, che Lord Byron si innamorò della Grecia.
E prima di lui, sempre durante un Grand Tour, l’avvocato aspirante geologo Charles Lyell osservò fori di molluschi fossori su colonne romane a Pozzuoli e sviluppò le proprie teorie sull’uniformismo, sbagliando in pieno.
Lyell ragionò che, al fine di produrre dei fori su delle colonne evidentemente già in posto (gli antichi romani non avevano, insomma, usato marmi tarlati), gli antichi edifici dovevano aver subito un lento, graduale, bradisismico fenomeno di inabissamento, e di successivo, altrettanto lento, innalzamento; al momento dell'osservazione (nel 1828), i ruderi di Pozzuoli stavano nuovamente inabissandosi. Al suo ritorno in Inghilterra, Lyell decise di scriverci su un libro....
Il tempio di Giove Serapide
– Questo celebre monumento dell'antichità fornisce, da solo, l'inequivocabile prova che il livello del mare è cambiato due volte a Pozzuoli, dall'inizio dell'era cristiana, e che ciascuno di questi movimenti di innalzamento e subsidenza ha superato i venti piedi.
[Charles Lyell, Principles of Geology, 1830]
Oggi sappiamo che i movimenti tettonici testimoniati dalle tracce che Lyell vide sulle colonne a Pozzuoli erano probabilmente episodici, non graduali (così come sappiamo che quelle sono le colonne di un mercato, non di un tempio dedicato ad una divinità egizia), ma a partire da quelle osservazioni – più parecchi anni di lavoro in Gran Bretagna, in Arvernia e in Italia – Lyell nel 1830 pubblicò i suoi Principles of Geology ­ il primo grande best­seller geologico – e inventò quasi per caso la geologia moderna.
Ammesso che non l'avesse già inventata Stenone, naturalmente.
Popolarissimo fra i suoi contemporanei per lo spirito acuto, per le doti quasi sovrumane di anatomista e per un paio di colorite controversie accademiche nelle quali venne implicato da colleghi poco scrupolosi, beatificato dalla Chiesa Cattolica nel 1988, Nicola Stenone (o, nella grafia danese, Niels Stensen) fu secondo alcuni l’uomo che “inventò” la geologia, quando questa scienza non aveva ancora un nome. Avendo riconosciuto i fossili per quello che erano (resti sepolti di organismi un tempo viventi, e non scherzi della natura), applicò le sue notevoli doti di osservatore empirico per studiare le successioni rocciose. Ebbe la fortuna di svolgere le proprie ricerche, sotto l’egida della famiglia Medici, in Italia centrale, dove l’abbondanza di successioni sedimentarie ricche di fossili non gli fece mai venire meno la materia prima per i suoi studi.
Stenone non fu certo il primo ad intuire la natura dei fossili. Senofane di Kolophon, nel sesto secolo avanti Cristo, aveva già descritto le conchiglie rinvenute fra i monti dell’Italia come prova del fatto che quelle montagne erano emerse dal mare; e lo stesso Erodoto giunse a conclusioni simili pochi decenni dopo.
Ma Erodoto e Senofane non erano così popolari, nel diciottesimo secolo, e non avevano il vantaggio della fama derivata a Stenone dalle sue famose dissezioni pubbliche.
Le conclusioni alle quali giunse Stenone, pubblicate nel 1769, furono davvero sorprendenti, probabilmente, anche per lui: se i fossili erano stati organismi vivi e se le successioni sedimentarie non mentivano, allora il passato della Terra era molto più complicato e lungo di quanto non si ricavasse dalla Bibbia.
Il benessere economico ed il tempo libero che stavano a tal punto stimolando la paleontologia in Gran Bretagna erano pure alla base del nascente movimento illuminista scozzese. Usciti dalle guerre civili con una economia sufficientemente solida (basata sul commercio e sulla lavorazione della lana), con crescenti investimenti all’estero e le casse ben foderate di monete, i membri della borghesia scozzese potevano ora dedicarsi alle più varie attività intellettuali.
L’illuminista scozzese James Hutton mise in pratica i principi di Stenone e si prese semplicemente la briga di calcolare il tempo necessario per l’erosione e la deposizione di un singolo strato sedimentario, e poi di tutti gli strati sedimentari che poteva vedere ogni giorno. Hutton ruppe perciò con la scuola di pensiero dominante, e peraltro già in crisi, che riconduceva ogni elemento del paesaggio ad eventi biblici quali il Diluvio Universale, e si limitò a postulare che gli stessi lenti processi che plasmano il paesaggio sotto i nostri occhi fossero all’opera, con la stessa velocità e la stessa potenza, nel passato preumano.
Quindi forse la geologia la inventò lui.
Ma Stenone si rifugiò in convento, terrorizzato dalle logiche conclusioni del proprio lavoro, ed il lavoro di Hutton, per quanto all’avanguardia, non venne mai applicato, e quindi noi oggi consideriamo Stenone padre della Stratigrafia, Hutton padre del Tempo Profondo, e Charles Lyell padre della Geologia, così sono tutti contenti.
La vera forza del lavoro di Lyell è da ricercarsi nel titolo completo del suo lavoro – che oggi apparentemente non viene più letto, perché (pare, da ciò che mi assicurarono colleghi e docenti a suo tempo) non aiuta a superare rapidamente gli esami universitari. Notoriamente un bastian contrario, io me ne procurai una copia prima di affrontare l'esame di Geologia, e venni prontamente segato.
Il libro di Lyell si intitola Principi di Geologia, ma è il sottotitolo ad essere veramente importante “ovvero un tentativo di spiegare i precedenti cambiamenti della superficie terrestre facendo riferimento alle cause ora in atto”.
Ciò che accade oggi è accaduto anche in passato, i fenomeni sono gli stessi. Sui tempi dovremo lavorarci, ma Lyell, con quelle due righe a caratteri più piccoli sul frontespizio del suo testo, ha delineato le regole del gioco.
Un’idea all’epoca straordinaria, che andava contro alle posizioni tenute dai massimi nomi della nascente Geologia, a cominciare da Georges Cuvier e William Buckland – che oltretutto era stato insegnante di Lyell.
Ma di Buckland parleremo, estesamente, fra poco...
La nascita della Geologia in Gran Bretagna fra la fine del diciottesimo secolo e la prima metà del diciannovesimo è strettamente legata alla rivoluzione industriale.
Non solo la rivoluzione industriale crea una middle­class con abbastanza tempo e denaro a sufficienza per dedicarsi ad interessi intellettuali e alle scienze naturali in particolare, ma lo sviluppo della nascente industria incide (letteralmente) sul paesaggio, portando alla luce molti dei segreti delle (moderate) profondità della terra. Lo scavo dei canali e di trincee ferroviarie, le miniere di carbone il cui prodotto alimenta treni e piroscafi, sono altrettante finestre aperte su una realtà fino ad allora sconosciuta ­ rocce stratificate, piegate, dagli stupefacenti contenuti fossiliferi.
Le meraviglie un tempo limitate alla costa atlantica, all'isola di Wight (meta di pellegrinaggio di molti dei protagonisti dei prossimi capitoli), diventano quasi una costante del paesaggio britannico.
Quasi impossibile evitare lo sviluppo di una scienza che se ne interessi.
Intanto, sul continente, le peregrinazioni di Byron per l'Europa continentale lo portarono a risiedere sulle rive di un certo lago svizzero con alcuni amici – ed amiche.
Nel corso di una notte di gozzoviglie (si parlò di oppio e scambio delle coppie, molto in sintonia con la vita un po' da rock star del poeta inglese – Ken Russel ci fece un film), quando la discussione virò verso gli esperimenti di Galvani, i limiti della scienza e della ragione umana e il sovrannaturale, i presenti si sfidarono nella scrittura di un romanzo che sintetizzasse le rispettive posizioni sull'argomento.
Byron concluse un po' poco.
Il suo amico dottor Polidori scrisse Il Vampiro, prima uscita letteraria di uno dei pilastri della narrativa orrifica, uno dei “famous monsters of filmland” dei secoli a venire – chissà quanto ispirato dalle leggende popolari che Byron aveva probabilmente sentito in Grecia e certamente raccontato in Svizzera.
Ma il colpaccio lo fece Mary Shelley, che scrisse quello che alcuni (incluso Brian Aldiss) hanno identificato come il primo romanzo di fantascienza ­ Frankenstein, o il Moderno Prometeo.
Il debito della scienza e della letteratura verso la pratica del Grand Tour è quindi enorme.
Ricalcolando oggigiorno il costo di un Gran Tour “medio”, questo si aggirerebbe fra i diecimila ed i quindicimila euro (cinquemila per il Tour di Byron, che evidentemente era un tipo oculato, nonostante la nomea di scialacquatore).
Cifre colossali, insomma.
Non fu però una questione di costi a mandare in crisi il grand tour come attività delle classi abbienti britanniche.
Fra la fine del 18° e l’inizio del 19° secolo, gli effetti della Piccola Glaciazione si sentivano ancora nell’Europa continentale; il popolo Francese non aveva pane, e non avendo neppure (nonostante le opinioni di alcuni VIP dell'epoca) brioches, diede il via ad una “grande sommossa popolare” (come cita l’autorevole Dizionario Storico Oxford) destinata a cambiare il volto del continente.
E della narrativa popolare.
A cavallo fra diciottesimo e diciannovesimo secolo, la Rivoluzione Francese e, successivamente, quel fastidioso e persistente parvenu corso e piantagrane, Napoleone Bonaparte, resero improvvisamente la pratica del Gran Tour quanto meno pericolosa per i cittadini britannici.
Molti continuarono a viaggiare – di solito in uniforme.
La guerra è stata per lungo tempo un mostruoso parallelo del turismo.
Nella maggior parte dei casi, tuttavia, gli inglesi in cerca di reperti storici, rovine classiche e del più generale brivido del passato dovettero accontentarsi di ciò che avevano in casa propria.
Vi fu una rinascita dell'interesse per il druidismo, i siti megalitici e le leggende arturiane (ci arriveremo), sorsero società antiquarie e circoli nei quali si dibattevano i lavori dei grandi pensatori dell'epoca – Cuvier e Buckland, ma anche Lyell, ad esempio, e più tardi Darwin.
Più in generale, le classi medie e superiori inglesi presero ad andare in vacanza in località di interesse “antiquario”, associando (come sempre) all'ozio, la solleticazione di interessi intellettuali elevati, e tenendo così i vizi a bada.
Fra le destinazioni turistiche dell’epoca, oltre alla già citata Isola di Wight, ebbe notevole successo Bath, località termale già nota ai tempi della presenza romana in Britannia, molto opportunamente costellata di antichi marmi e mosaici, ed immortalata quale terminale monumento al tedio ed alla leziosità nei romanzi di Jane Austen.
A pochi chilometri da Bath si trova la ridente cittadina costiera di Lyme Regis.
Ed a Lyme Regis ci sono un sacco di fossili.
Punch, la famosa rivista satirica, si riempì di vignette con signore in crinolina ritratte carponi sulle spiagge a cercare fossili: la paleontologia era diventata improvvisamente molto popolare in Gran Bretagna.
In capo ad un secolo, sarebbe diventata una passione planetaria.
Eroi Popolari
Stando al Chambers' Journal del 1855, gli affari maggiori delle località di mare, dopo i bagni di mare, riguardavano ormai "la raccolta di conchiglie e alghe, e cose che strisciano."
Era il 1855, e la storia naturale era diventata la moda del momento ­ trasformandosi nel corso di trent'anni da stramberia a interesse legittimo a passatempo popolare. Imperdibile era il volume dell'anno precedente, Glaucus: or the Wonders of the Shore, del reverendo Charles Kingsley, testo che prometteva, a chi avesse deciso di dedicarsi alla ricerca di esemplari naturalistici sulle spiagge inglesi, meraviglie "più strane di quelle mai sognate da un oppiomane."
Ma già nei decenni precedenti le riviste avevano cavalcato la nuova moda ­ e Penny Magazine, fra il 1833 ed il 1834, aveva pubblicato una serie di dispense sul Mondo Minerale, inclusa un'ampia sezione sui fossili.
E proprio mentre Kingsley pubblicava le sue meraviglie della spiaggia, nel 1854 Charles Dickens si faceva beffe della mania naturalistica nel suo Tempi Difficili.
La popolazione britannica era in preda ad una nuova, prepotente passione.
E come qualsiasi appassionato di sport, musica (opera lirica o jazz o rock'n'roll), cinema o letteratura non faticherà a confermarvi, le grandi passioni popolari hanno bisogno di eroi.
Bartali & Coppi, Pelé o Zeno Colò, la Callas o Janis Joplin, Jack Kerouac o Agatha Christie, Orson Welles o John Wayne, ogni passione ha un proprio pantheon di numi tutelari, eroi, icone, davanti alle quali gli appassionati si genuflettono, superando rivalità meschine e interminabili questioni per ammettere che si, ci fu un tempo in cui i giganti camminavano sulla terra.
Per la paleontologia non può essere diverso – e lo fu dal momento in cui decine di seriosissimi cittadini (e gentili consorti) si insabbiarono le scarpe a Lyme Regis.
Uno dei primi eroi folk della paleontologia popolare anglosassone è Mary Anning, la bambina che scoprì il drago a Lyme Regis.
Cominciamo da lei, in questa carrellata, perché è l'unica signora di questa variegata compagnia, è la prima donna alla quale sia stato attribuito il titolo di paleontologo, ed anche perché la sua storia non manca di una certa dimensione spettacolare, che il lettore certamente apprezzerà.
Mary Anning è infatti un personaggio degno del miglior polpettone dickensiano: orfana di padre (scomparso in mare), Mary portava il nome della sorellina maggiore, morta di malattia mentre era ancora in fasce; un fulmine uccise la sua balia mentre la reggeva in braccio (Mary ne uscì incolume, anche se, immaginiamo, lievemente scossa), ed una mareggiata si portò via il piano terreno di casa sua.
Per aiutare la madre, anch’essa chiamata Mary (e naturalmente malata) a far quadrare il bilancio domestico, la povera Mary ed il fratello maggiore Joseph erano soliti battere le scogliere di Lyme, in cerca di fossili da vendere poi ai turisti.
La raccolta e vendita di fossili ai turisti era pratica diffusissima Lyme Regis (ricordate ­ seconda voce nel bilancio delle località marittime dopo i bagni); la madre della Anning era stata essa stessa una cacciatrice di fossili – e data la loro omonimia, risulta a volte difficile determinare cosa venne trovato dalla madre e cosa dalla figlioletta.
Una specie di piccola fiammiferaia della paleontologia, Mary Anning.
E faceva anche buoni affari – vendette la sua prima ammonite per una corona (un ottavo di sterlina) e un cranio di ittiosauro le procurò la cifra ragguardevole di 23 sterline.
Fino a che, sulla scogliera spazzata dal vento e dalle onde dell'Atlantico, un giorno Mary ed il fratello fecero il colpo del secolo, rinvenendo un intero scheletro di Ittiosauro, una grande lucertola (più o meno) simile ad un delfino.
Fu la consacrazione della Anning a dea della paleontologia.
“La più grande cacciatrice di fossili di tutti i tempi” venne definita all'epoca, un ruolo che ricoprì informalmente per una trentina d'anni, fino a che un male incurabile – tragicamente in linea con la sua biografia ­ non la stroncò.
Un suo scritto autografo – la descrizione di uno scheletro di Ittiosauro – è esposto al Museo di Scienze Naturali di Londra, a testimonianza del peso scientifico dell’opera di questa improbabile eroina dickensiana.
La Anning infatti – che era assolutamente autodidatta, oltre che evidentemente molto intelligente – godeva del rispetto di William Buckland – del quale discuteremo fra poco – e del di lui pupillo William Conybeare, considerato da molti il miglior geologo della sua generazione, anche se non esercitò mai (essendo troppo impegnato a fare il parroco), così come di gran parte dell’establishment scientifico dell’epoca.
Per l’epoca, il credito del quale godeva Mary Anning era fonte di non poca compiaciuta sorpresa da parte dei bempensanti.
È certamente una meravigliosa istanza di favore divino – che questa povera, ignorante ragazza debba essere a tal punto benedetta, che attraverso la lettura e la pratica sia arrivata ad un grado di conoscenza tale da scrivere abitualmente a professori e parlar con loro e con altri uomini dotti di tali argomenti, e tutti riconoscono il fatto che costei comprenda più scienza di chiunque altro nel regno.
[diario di Lady Silvester, 1824]
Si noti che Mary Anning non scoprì nulla di nuovo ­ il merito di aver “scoperto” (= osservato per la prima volta e dato un nome a) Ittiosauro e Plesiosauro se l'era preso comunque, pochi anni prima, il già menzionato William Conybeare, grazie ad alcuni ritrovamenti parziali e ad alcune collaborazioni proprio con Mary: la Anning rinvenne in effetti uno scheletro di Ittiosauro mancante del cranio nel 1820, ma a quel punto Conybeare aveva già dedotto l’esistenza di un secondo dinosauro marino sulla base di resti sfusi rinvenuti mescolati a quelli dell’Ittiosauro.
Solo anni dopo, quando la Anning recuperò e vendette un Plesiosauro completo (venduto per cento sterline al Duca di Buckingham), Conybeare fu in grado di presentare alla neonata Geological Society l’animale nella sua interezza – avvalendosi di uno schizzo eseguito proprio da Mary Anning. E William Conybeare si dimostrò sempre piuttosto ostile alla Anning ed al suo successo – definendo la donna, nei propri scritti, come la “proprietaria” dei fossili, non come la scopritrice.
In riconoscimento alla sua femminilità, alla Anning venne impedito di entrare nella Geological Society – salvo esservi ammessa, ad honorem, da morta.
La ragazzina abbarbicata ai piedi della scogliera che contempla i resti del drago marino colpì tuttavia profondamente e prepotentemente l'immaginario popolare ­ e attraverso articoli e pamphlet scritti da altri, Mary entrò così a far parte di quell'Olimpo di primi cacciatori di fossili.
Al vertice di questo Olimpo sedeva idealmente il francese Georges Cuvier, fisiologo extraordinaire, l'uomo che aveva classificato i sedimenti del bacino di Parigi e che stava creando dal nulla la paleontologia dei mammiferi.
Le teorie geologiche di Cuvier erano ancora arcaiche e superficiali, ma il suo ruolo indiscutibile – aveva definito il Cretaceo e scoperto lo Pterodattilo, rettile volante e certo uno dei quattro o cinque “dinosauri” (in senso molto lato) più popolari di tutti i tempi e più presenti nella cultura e nella narrativa popolari.
Le sue teorie erano apprezzate e dibattute in tutto l'occidente civilizzato, e le sue pubblicazioni erano la bibbia delle neonate scienze della terra, in particolare la celebrata Recherches sur les ossements fossiles de quadrupedes, pubblicata a Parigi nel 1812, con edizioni successive nel 1821 e nel 1825 ed il Discours sur les revolutions de la surface du globe, pubblicato a Parigi nel 1825.
Ma la fama di Cuvier era dovuta essenzialmente alla pubblicazione del Regne animal distribué d'après son organisation, compendio di tutte le esperienze dell’autore nel campo dell’anatomia comparata, in quattro volumi in ottavo (1817), che ebbe una seconda edizione (in cinque volumi) tra il 1829 e il 1830.
Lo incontreremo ancora, in questa narrativa, e sarà bene allora ricordare che Cuvier era assolutamente contrario all’ipotesi dell’estinzione – e vivendo in un mondo ancora in gran parte inesplorato poteva concedersi la convinzione che tutte le forme di vita create da Dio, comprese quelle trovate fossili nel bacino di Parigi, fossero ancora vive e pimpanti da qualche parte, non viste.
Se Cuvier era un gigante ineguagliato nel campo della paleontologia dei mammiferi, la Gran Bretagna poteva contrapporgli un altro colosso, l'eccentrico William Buckland, pastore protestante e docente di Mineralogia e (più tardi) di Geologia ad Oxford e forse a maggior diritto definibile come il padre della Paleontologia moderna.
Vero, fossili erano stati descritti (limitiamoci all'occidente) da tutti, a partire da Plinio per arrivare a Leonardo da Vinci, ma si era trattato di studi scoordinati e poco influenti.
Stenone li aveva usati per definire i suoi principi di sovrapposizione, ma come abbiamo visto non aveva osato spingersi oltre.
A Buckland si deve la scoperta e la descrizione del Megalosauro, il primo dinosauro (ma Buckland ancora non lo sapeva) della storia ad essere oggetto di uno studio pienamente scientifico.
Un osso appartenente ad un arto di megalosauro era stato scoperto nel 1677 da Robert Plot, il quale nel suo The Natural History of Oxfordshire si era domandato se potesse essere un resto di uno degli elefanti portati in Britannia dai Romani, ma aveva poi preferito concludere, più prudentemente, che si trattasse in effetti di un osso di gigante.
Buckland dedusse l’esistenza del Megalosauro da frammenti incompleti rinvenuti a Stonesfield – un femore “quasi da mammifero” lungo ottantaquattro centimetri ed una mandibola con denti aguzzi ed a crescita continua, tipicamente rettiliani. Lavorando sulle misure di questi ed altri pezzi (ed includendo nello studio anche alcuni reperti trovati a Tilgate dall'amico Gideon Mantell, del quale diremo in seguito), Buckland arrivò a descrivere un rettile terrestre gigantesco e bipede – il genere di creatura che mai prima di allora era stato descritto.
La pubblicazione nel 1824 di Notice on the Megalosaurus or Great Fossil Lizard of Stonesfield segna la nascita della paleontologia accademica.
Due anni prima, il reverendo aveva scoperto (nella Paviland Cave, nel Galles Meridionale) e descritto dei resti umani – identificandoli come i resti di una donna (erano invece resti maschili) ed appartenuti ad una strega (!); il fatto che si trattasse di una strega sarebbe stato deducibile dalla presenza, insieme con i resti umani, di una scapola di pecora, interpretata come primitivo strumento da divinazione (scapolomanzia); l’ipotesi che si potesse trattare di un semplice resto di cibo era apparentemente troppo banale per il pirotecnico Buckland.
Fedele al proprio stile colorito e debordante, Buckland non esitò a ribattezzare il reperto “La Strega Rossa”, per la delizia delle sue molte ammiratrici fra le classi superiori, salvo poi ripiegare su “la Dama Rossa di Paviland” per le pubblicazioni più seriose.
Lo stesso Lyell, studente di Buckland, commentò in una occasione che era spesso difficile capire quando il vecchio professore dicesse sul serio e quando scherzasse. Un problema, come vedremo che si acuì con la vecchiaia.
Altro segno di eccentricità tutta britannica, e fonte di imbarazzo per i bempensanti fu il vezzo gastronomico del reverendo Buckland, di voler mangiare ogni sorta di creatura anche solo vagamente commestibile – inclusi porcospini, serpenti, insetti di ogni genere e foggia, sorci e coccodrilli.
Il peggio, in termini di sapore, stando a Buckland stesso, era il bombo verdastro noto in inglese come “bluebottle”, seguito dappresso dalla talpa, di sicuro (a suo dire) il mammifero meno appetibile del lungo e variato menù di casa Buckland.
Né Buckland si limitò agli animali.
Stando alle memorie di Augustus Hare...
“Le chiacchiere riguardo a strane reliquie portarono alla menzione del cuore di un Re Francese conservato in una cassetta d’argento a Nuneham. Il dottor Buckland, guardandolo, esclamò ‘Ho mangiato un sacco di cose strane, ma non ho mai mangiato il cuore di un re,’ e prima che qualcuno potesse fermarlo, se n’era fatto un sol boccone, e quella preziosa reliquia andò così perduta per sempre.”
Pare si trattasse del cuore di Luigi XIV.
I metodi poco ortodossi utilizzati da Buckland nell'esporre le proprie teorie furono tuttavia molto più criticati delle sue abitudini alimentari, dei suoi tentativi di conciliare scienza e fede, o delle sue dubbie identificazioni di resti umani.
Solido ma dispersivo conferenziere, Buckland sosteneva la persistenza di una catena ininterrotta di organismi dal passato più remoto al presente, ed era molto apprezzato dal pubblico non specialistico per le sue indubbie doti teatrali; in un caso prese a correre avanti e indietro imitando l'andatura di grandi uccelli bipedi che a suo parere avevano lasciato antiche tracce fossili.
Queste stesse doti teatrali lo rendevano al contempo inviso ai colleghi più ortodossi, uno dei quali commentò in occasione del “numero” del volatile gigante “la volgarità dei gigioneggiamenti di Buckland è stata per me come un autentico emetico”. Evidentemente non aveva mai assaggiato la talpa salmistrata.
Nonostante il suo ruolo indiscusso di primo grande Geologo Inglese, l'aura della buffonaggine e del dilettantismo gravò sempre su Buckland, che pubblicò pure, nel 1836, un volume intitolato Geology and Minerology, parte di The Bridgewater Treatises on the Power, Wisdom and Goodness of God as Manifested in Creation – allo scopo di conciliare i crescenti ritrovamenti di fossili e l'evolvere delle conoscenze geologiche con i dogmi della dottrina cristiana. Era infatti convinzione di Buckland (e di buona parte degli inglesi timorati di Dio, naturalmente) che la storia della terra fosse stata caratterizzata da un solo diluvio (e non da una successione di più eventi catastrofici), e che tutti i resti fossili appartenessero a faune antidiluviane; a supporto di questa teoria, poteva portare una notevole esperienza come anatomista comparato.
Giudizi trancianti dei contemporanei a parte, al reverendo Buckland va pure il merito di aver fondato la coprologia (lo studio degli escrementi fossili) e la peraltro dubbia distinzione di aver definito chiaramente quale dovesse essere la tenuta del gentiluomo in campagna a caccia di fossili – tavole illustrate diffuse a scopo didattico lo ritraggono in un severo abito scuro, scarpe comode, un gran sacco ed, immancabile, un ombrello.
Un attimo di nostalgica reminiscenza...
Durante il mio primo anno da studente di geologia all'Università degli Studi di Torino, ebbi modo di seguire i corsi di un anziano e battagliero geologo “della vecchia scuola”, famoso tanto per le sue divagazioni durante le lezioni quanto per la volatilità (e l’elevata infiammabilità) in sede d'esame. Fu durante il corso di Geografia, mio primo contatto con la geologia accademica (fino a quel momento avevo incontrato come corpo insegnante solo quattro o cinque fisici, due matematici e tre chimici) che mi venne impartita una importante informazione: il geologo sul terreno si riconosce per il fatto che porta l'ombrello, che lo ripara dalla pioggia permettendogli al contempo di prendere delle accurate annotazioni sul suo indispensabile taccuino di campagna. Pura ortodossia bucklandiana, un secolo e mezzo dopo la morte del reverendo.
Commovente.
Due anni dopo, un compagno di corso intraprendente prese a ordinare dagli Stati Uniti degli speciali libretti di campagna appositamente progettati per i geologi, sulle pagine plastificate dei quali era possibile scrivere senza problemi anche sotto la pioggia ed in assenza di un ombrello. Divenne molto popolare fra i docenti, gli unici che si potessero permettere tali gadgets in grandi quantità, e che presero a rifornirsi da lui dei libriccini dalla copertina gialla. Un paio d'anni dopo ancora – era il 1992 – i miei compagni di corso all'Università di Londra mi mostrarono la potenza dell'evoluzione: basta infilare un qualsiasi blocco per appunti e le mani in un ampio sacchetto di plastica trasparente, per poter scrivere sotto le intemperie della primavera scozzese, con una spesa minima e senza l'ombrello (che il vento, sempre in agguato quando il geologo esce sul campo, ha la tendenza a rivoltare come in certe vignette umoristiche).
Per lo meno il mondo anglosassone, e per vie diverse, stava trascendendo l'insegnamento di Buckland.
Ma torniamo alla nostra storia.
Buckland sostenne pure l’importanza della sperimentazione – al punto di ospitare a casa propria la iena maculata Billy, allo scopo di verificare la modalità di masticazione dell’animale, e confrontare i resti dei suoi pasti con i resti fossili rinvenuti – in associazione con fossili di iena ­ nella grotta di Kirkdale.
Strenuo sostenitore dell’importanza dell’attività di terreno per chi pratichi la Geologia, Buckland aveva l’abitudine di attendere una giornata di pioggia torrenziale per portare i propri studenti a lavorare su affioramenti marnosi ed argillosi, di modo che le lunghe ore passate impantanati fino alle ginocchia nel sedimento fradicio imprimessero nella loro mente il comportamento di certi materiali se esposti all’acqua.
Il ricordo indelebile di lunghi giorni passati con i miei compagni di corso fra le marne fradice della zona di Ceva (in provincia di Torino) sotto la pioggia primaverile ad infangarmi fino alle ginocchia in cambio di un apporto didattico minimo e del ruvido umorismo del docente di Rilevamento Geologico mi porta a concludere che fossero molti i docenti dell’Università di Torino che non avevano fatto un solo passo avanti nei 150 anni che li separavano da William Buckland. Chissà se qualcuno di loro mangiava le talpe?
La cosa non mi sorprenderebbe.
William Buckland concluse la propria carriera accademica e la propria vita in un manicomio.
L'uomo che aveva popolato la propria casa di animali selvatici ­ oltre alla iena Billy, anche la scimmia Jacko e l’orso Tiglath Pileser (ma dove li trovava quei nomi?), oltre a serpenti, sciacalli e quant'altro – e che aveva l'abitudine di servire animali per lo meno insoliti ai propri ospiti a cena, non resse lo stress della continua presentazione e confutazione di teorie volte a spiegare, ad esempio, come fosse possibile, entro i termini della narrazione biblica, ritrovare animali endemici di climi africani nelle grotte dell'umida Inghilterra. La contraddizione fra fede e evidenza scientifica, accoppiata ad un carattere erratico ed eccentrico, lo condusse alla camera imbottita.
Sarebbe ricaduto su altri il compito di spiegare certe apparenti contraddizioni: Buckland si ritirò per sempre nei più bui anfratti della propria mente (o più sinistramente, era solo eccentrico ma i parenti lo fecero interdire).
Il suo ex­allievo, William Conybeare, più ricco e più fortunato (e fondamentalmente più antipatico), gli rimase vicino anche in quest’ultima fase.
Con la prospettiva dei secoli, William Conybeare, rimane quasi suo malgrado una figura di secondo piano – un buon anatomista versatissimo in geologia, benestante grazie ad una piccola rendita, capace di notevoli intuizioni ma perenne gregario di individui che considerava probabilmente suoi inferiori (Mary Anning, Gideon Mantell); un autore accademico molto preciso, ma al quale non giovò il fatto di essere spesso co­autore (o autore­fantasma) di William Buckland.
La ricostruzione del Plesiosauro fatta da William Conybeare è tuttavia estremamente importante per noi, poiché nell’osservare questo animale dal collo lunghissimo – oltre trentacinque vertebre del collo contro le circa venticinque della giraffa – Conybeare giunse alla conclusione che l’animale potesse avere le movenze di un cigno (altro animale dal collo lungo) e l’andatura lenta del rettile.
Esso nuotava in superficie o in prossimità di questa, piegando indietro il proprio collo, ad arco come un cigno, ed occasionalmente scagliandosi verso il basso per [catturare] dei pesci.
[...]
la lunghezza e la flessibilità del suo collo potrebbero aver compensato la mancanza di forza nelle mascelle, e la sua incapacità di rapido movimento attraverso l’acqua.
[William Conybeare, presentazione alla Geological Society, 20 febbraio 1824 (La stessa sera in cui Buckland presentò la propria relazione sul Megalosauro)]
Le vertebre del collo del plesiosauro tuttavia non permettono movimenti verticali come l’inarcare elegantemente il collo.
Tuttavia, l’immagine del rettile lento e ponderoso, che solca le acque con la testa levata in alto entrarono quasi immediatamente nell’immaginario popolare – complice anche una illustrazione di Henry De la Beche, paleontologo ed amico di Conybeare, e frequentemente indicato come amante o fidanzato di Mary Anning, sebbene non sopravvivano prove della presunta relazione; nel suo Duria Antiquior or Ancient Dorset, De la Beche ritrae un Plesiosauro attaccato da un Ittiosauro che gli azzanna il collo sinuoso, in una prima, influente istantanea di quel mondo selvaggio e terribile nel quale si pensava vivessero i grandi rettili.
L’immagine avrà la sua importanza – sopravvivendo tanto a De la Beche che a Conybeare, come vedremo.
Forse è vero che la fama di William Conybeare – geologo formidabile e principale bersaglio delle critiche di Lyell alle riunioni della Geological Society – venne offuscata dalla sua stretta associazione col vagamente scandaloso Buckland.
Nel suo appoggiare incondizionatamente Buckland, spesso Conybeare si ritrovò ad assumere posizioni indifendibili: nel propugnare la tesi bucklandiana che solo il Grande Diluvio avesse plasmato il paesaggio, Conybeare si trovò a sostenere che mai un fiume aveva approfondito il proprio corso, salvo poi lasciare il podio alla lettura di un articolo su come una piena avesse scalzato un ponte.
L’effetto generale fu tale da causare non poco imbarazzo in Conybeare, e da causare la cancellazione del secondo volume dell’opera di Buckland sulle teorie del “diluvianismo”.
O così riteneva Lyell.
Forse le ragioni furono altre.
Di sicuro, il secondo volume di Reliquiae Diluvianae, sui sistemi di caverne esplorati da Buckland, non venne mai pubblicato. E non fu quella la faccenda peggiore in cui Conybeare si sarebbe ritrovato per seguire il suo mentore Buckland. La Grande Truffa delle Ossa
La nostra creazione non è a principio, ma dal quarto giorno o generazione del Tempo, quando le luci del firmamento vennero create “per dare luce alla terra”. La storia antecedente del pianeta, così come scritta da Mosé, dimostrabile dall'applicazione della fisica più accreditata, non svela che gli scheletri rinsecchiti delle epoche pre­adamite, per la più chiara comprensione delle quali nulla può servire che possa essere meglio dell'accumulo progressivo di Resti Organici Fossili.
[Thomas Hawkins, Memoirs of Ichtyosauri and Plesiosauri – Extinct Monsters from the Ancient Earth(1834)]
Non tutti gli eroi della paleontologia ottocentesca passarono alla storia, ed alcuni dei più curiosi sono oggi solo ricordati dagli specialisti.
In compenso, alcuni individui meno che eroici si conquistarono una fama indelebile.
Fra questi, uno dei più eccentrici fu certamente Thomas Hawkins, autodidatta e di origine contadina, facoltoso collezionista di fossili liassici – ed uno dei migliori clienti di Mary Anning.
La sua ricchissima collezione di fossili era probabilmente il principale (unico?) motivo per il quale paleontologi più seri tolleravano il francamente insopportabile Hawkins, un individuo appartenente alla classe sociale sbagliata, capriccioso e fermamente convinto della propria infallibilità, oltreché, per motivi inspiegabili, convinto del fatto che l’Ittiosauro possedesse ghiandole mammarie. Rimane agli atti la profonda diffidenza (come vedremo ben giustificata) dichiarata dalla Anning nei confronti di Hawkins – nonostante le vendite a Hawkins costituissero una fetta non indifferente dei suoi introiti.
Memoirs of Ichtyosauri and Plesiosauri – Extinct Monsters from the Ancient Earth (1834), curiosa miscela di dati oggettivi e eccentriche ipotesi bibliche, era dedicato da Hawkins proprio a Buckland e Conybeare. I due – che con quaranta altri scienziati e appassionati pagarono in anticipo il libro per garantirne la pubblicazione e ne sottoscrissero il valore scientifico – si sentirono a riguardo, e Conybeare fu drasticamente tranciante come sua abitudine:
“Che spasso il libro di Hawkins. Mi piacerebbe solo che fosse stato pubblicato prima della morte di Walter Scott. Avrebbe potuto fornirgli un nuovo personaggio, un noioso pedante geologico molto più assurdo di qualsiasi altro avesse messo insieme.”
[lettera di Conybeare a Buckland]
Il primo e forse l'unico paleontologo a basare le proprie teorie più su motivi estetici che non su solide basi empiriche, Hawkins rifiutava le ipotesi gradualiste ed attualiste di Hutton e Lyell, definendole “eretiche”, e sentendosi più affine psicologicamente allo sturm und drang di un passato apocalittico, costellato di catastrofi e rivolgimenti improvvisi, dominato da una Divinità assoluta e assolutista, capricciosa ed un po' carogna; il mondo dei dinosauri di Hawkins apparteneva ai primi tre giorni della Genesi, ed era avvolto nelle tenebre e popolato di creature predaci e violente. In base alla teoria del fantasioso autodidatta, dinosauri e gli altri organismi fossili erano stati accoppati a più riprese dal Creatore, per lasciare il posto a forme nuove, la cui somiglianza a creature precedenti non doveva essere interpretata come prova della catena di organismi ipotizzata da Buckland, ma piuttosto come dimostrazione dell’inventiva di bricoleur di Dio.
Le illustrazioni di Scharf – il principale motivo di interesse per i contemporanei e colleghi nei confronti del libro di Hawkins ­ ritraggono rettili solitari in vasti paesaggi desolati, sotto cieli perennemente nuvolosi e privi di astri.
Hawkins aveva anche l’abitudine di creare nuove specie con liberalità, tramutando l’Ichtiosaurus communis in Ichtiosaurus chiroparamechostinus, per la dannazione dei tassonomisti. Ma per onestà dobbiamo anche osservare che le morfospecie utilizzate di Hawkins spesso erano più vicine alla realtà biologica delle più ortodosse categorie della tassonomia cuvieriana.
Dilapidato il proprio patrimonio nell'acquisto di fossili, nel 1834 Hawkins riuscì a convincere alcuni colleghi a certificare il valore della sua collezione, che poi procedette a rivendere al British Museum – per un totale di venti tonnellate di materiale, inclusi 4000 piedi quadrati (370 metri quadrati) di lastre di roccia. La sua prima richiesta era stata di 4000 sterline (circa un milione e mezzo di euro al cambio attuale), e successivamente era stato lo stesso Buckland a perorare la causa dell’impoverito collezionista, valutando i fossili di Hawkins attorno alle 1500 sterline; alla certificazione di Buckland fecero eco altri famosi collezionisti e paleontologi, fra loro Clift, Conybeare, De la Beche e Mantell ­ tutti su richiesta di Buckland. Gideon Mantell successivamente valutò la collezione a 1250 sterline, e il museo concluse la transazione. Pare accertato che il nuovo prezzo fosse stato determinato da Hawkins, e presentato ai potenziali acquirenti da Buckland e Mantell come favore personale per il collega.
Fu solo successivamente, nel 1835, che il curatore del museo, Charles König (personaggio di una solerzia inquietante, che nominato curatore della Collezione Mineralogica, aveva ritenuto opportuno riscrivere di persona le 12.000 etichette dei campioni), scoprì che la straordinaria qualità dei reperti acquistati da Thomas Hawkins era essenzialmente frutto delle manipolazioni dello stesso Hawkins, che non aveva esitato a completare fossili incompleti con parti estratte da altri, o a ricostruire con il gesso pezzi mancanti di scheletro – rivelando così il proprio maggior talento, quello di geniale restauratore di resti fossili danneggiati. Di fatto sembra che molti dei suoi colleghi sapessero come Hawkins manipolasse i resti, ed anzi ne ammirassero la perizia di restauratore e ricostruttore. Ciò che provocò lo scandalo fu, naturalmente, il fatto che una istituzione statale avesse scucito tanti quattrini per acquistare dei palesi falsi.
La decisione di rimuovere dalle collezioni i pezzi contraffatti e, nel caso di un eccellente esemplare di Ittiosauro, di dipingere in colori diversi le parti autentiche e le parti ricostruite, scatenò la furia dell'oltraggiato Hawkins, che abbandonò almeno nominalmente la paleontologia e spese gli ultimi anni della propria vita litigando col proprio padrone di casa, tentando di fomentare sommosse popolari ed accampando diritti assolutamente ingiustificati sul titolo di Duca del Kent.
Lo scandalo delle ossa contraffatte, che il Museo avrebbe preferito passare sotto silenzio per delicatezza verso Buckland, arrivò invece fino alla camera dei Lords; la consultazione parlamentare che seguì fu imbarazzante per tutti, e gettò una luce pessima su tutte le persone coinvolte, ed in particolare su coloro che avevano ingenuamente certificato il valore della collezione, tra loro il già citato reverendo William Buckland, il cinico William Conybeare, e Gideon Mantell.
Robert Grant, docente di Anatomia Comparata all’Università di Londra, affermò che la collezione Londinese rimaneva talmente indietro rispetto alla sua controparte parigina che qualsiasi paragone era “semplicemente ridicolo”.
Buckland e Hawkins scivolarono nella follia.
Conybeare scivolò nell’ombra.
Per ciò che riguarda il più grande eroe della paleontologia delle origini, il dottor Gideon Mantell, la sua tragedia era cominciata molto prima, e sarebbe finita molto tempo dopo.
La Tragedia dell'Iguanodonte
La sua scoperta dell’analogia fra i denti dell’Iguana ed i denti fossili è molto interessante, ma il nome che lei propone non può proprio andare, poiché sarebbe ugualmente applicabile ad una iguana recente. Iguanoides o Iguanodon andrebbero meglio.
[William Conybeare, lettera a Gideon Mantell, 1822]
Amico personale di Charles Lyell, il quale stimolò gli interessi geologici che il personaggio di Mary Anning aveva risvegliato in lui, Gideon Algernon Mantell fu, prima di essere un paleontologo, un buon medico.
E' stato fatto notare che in un’epoca in cui il tasso di mortalità delle puerpere era del tre per cento, Mantell riuscì a far venire al mondo 2400 bambini perdendo solo due pazienti.
Mantell era in gamba.
Quella di medico condotto era d’altra parte la professione ideale per un cacciatore di fossili: in primis, il curriculum di studi medico era quello che maggiormente dava spazio alle scienze naturali, comprendendo materie utili ad un paleontologo quali anatomia e fisiologia, più un bel po’ di chimica; in secondo luogo perché un medico di campagna, quale Mantell era, passava gran parte delle proprie giornate in calesse, spostandosi attraverso la regione sotto la sua responsabilità (il Sussex, nel caso specifico) per visitare i propri assistiti.
Per lasciar spazio alla pratica medica, Mantell lavorava sulle proprie ricerche paleontologiche di notte.
E’ ironico quindi che il ritrovamento che segnò la fortuna e avviò la tragedia di Gideon Mantell non sia stato opera sua, ma di sua moglie; secondo la tradizione, infatti, mentre il buon dottore visitava un paziente, la signora Mary Ann Mantell si mise a rovistare in un mucchio di ghiaia (il che ci dà la misura di quanto fosse forte e socialmente accettabile la passione per i fossili a quel tempo, vignette del Punch a parte) e rinvenne un dente dentro ad un ciottolo.
Ironico ma in ultima analisi falso; lo stesso Mantell fu spesso piuttosto vago riguardo al ritrovamento dei primi denti di Iguanodon, e pare probabile che il coinvolgimento di Mary Mantell sia stato minimo o nullo. La storia però è entrata a far parte del folklore paleontologico.
Successive indagini portarono Mantell ad una certa cava nei dintorni, nel bosco di Tilgate, ed al ritrovamento di resti di un grosso animale dai denti simili a quelli di una lucertola.
Comunicazioni con Cuvier (Charles Lyell in persona gli portò un dente da esaminare) diedero scarsi risultati – il francese identificò i denti come appartenenti ad un rinoceronte, ed anche se successivamente ci ripensò, non ebbe mai la cortesia di comunicare il proprio ripensamento a Mantell. Ed era tra l'altro opinione di Lyell che Cuvier avesse esaminato il materiale di Mantell dopo una festa fra amici, risentendo ancora dei postumi di abbondanti libagioni.
Nonostante la crescente ilarità causata dalle sue affermazioni, Mantell proseguì nelle proprie ricerche, e quasi per caso scoprì la somiglianza dei denti ritrovati da sua moglie con quelli delle iguana. Giunse perciò alla conclusione che i suoi campioni fossero i resti di un animale simile ad un’iguana, e lungo diciotto metri.
Su suggerimento del solito Conybeare, Mantell lo chiamò Iguanodon (o Iguanodonte), e ne pubblicò una ricostruzione. Su suggerimento di Buckland, collocò una punta d’osso trovata associata ai resti sulla cima del muso dell’animale (si sarebbe poi scoperto che era in realtà un analogo di un pollice primitivo).
E la ricostruzione del fossile fu solo l'inizio.
Nel 1825, Mantell pubblicò l'articolo “Notice on the Iguanodon, a Newly Discovered Fossil Reptile, from the Sandstone of Tilgate Forest, in Sussex”, che suscitò scalpore alla Royal Society, che elesse l'autore Fellow alla fine dello stesso anno.
Sulla scorta di quel solo lavoro, Mantell divenne pure membro onorario dell'istituto di Parigi, e successivamente, ricevette la Wollaston Medal della Geological Society di Londra, ed una medaglia dalla Royal Society.
Entusiasta, galvanizzato dal poter perseguire quella che era evidentemente la sua vera passione, Mantell cominciò a tenere conferenze a tema naturalistico, dimostrandosi un abile ed apprezzato oratore; in una occasione accorsero a migliaia per sentirlo dissertare sul tema “Una rana ed un ciottolo”.
Da sempre collezionista di fossili, prese ad accumularne in quantità sempre maggiori, con notevole spesa (come si sarà capito, gran parte dei “fossilisti” del diciannovesimo secolo acquistarono da terzi una parte rilevante delle proprie collezioni), trasformando la propria casa in una sorta di informale museo, e favoleggiò di un proprio vero e proprio museo paleontologico. Ne creò uno a Brighton (altra importante località turistica dell'epoca) ma questo andò fallito ben presto per l'abitudine del buon dottore di non far pagare il prezzo del biglietto ai visitatori (la collezione venne poi venduta al British Museum per la cifra di 4000 sterline, nel 1838, per pagare i debiti).
Pubblicò libri.
Pubblicò in particolare, nel 1838, un volume, intitolato Meraviglie della Geologia, il cui frontespizio era una mezzatinta del popolare pittore John Martin – specialista nell’illustrare storie gotiche e scene bibliche catastrofiche quali la Caduta di Babilonia o il Diluvio Universale – intitolato “Il Paese dell’Iguanodon”.
Fra la folla di visitatori che oggi hanno assediato la mia casa c’era mister John Martin (con sua figlia), il celebrato, meritatamente celebrato artista, le opere del quale sono fra i prodotti più raffinati dell’arte contemporanea. Il signor Martin si è dimostrato molto interessato ai resti dell’Iguanodon eccetera. Vorrei poter convincerlo a ritrarre il paese dell’Iguanodon: nessun’altra matita fuorché la sua dovrebbe affrontare un tale soggetto.
[Gideon Mantell, Diario, (1834)]
La stampa è a tinte fosche e rivela tutta la sensibilità gotica dell’artista: il paesaggio è scuro e scosceso, costellato qua e là da vaghe forme di piante simili a palme, che si stagliano contro un cielo nel quale nubi cariche di pioggia sembrano inseguirsi spinte da un vento furioso.
In primo piano, si consuma il dramma; l’iguanodonte di Mantell, una specie di cane/lucertola con un corto corno da rinoceronte sul muso ed una bella cresta frastagliata sulla schiena, come i draghi delle leggende, si batte contro due predatori simili a coccodrilli; una delle due bestiacce ne sta azzannando il garrese, e l’iguanodonte è colto dall’artista nell’atto di rivoltarsi, snudando i denti, pronto ad azzannare a sua volta l’aggressore. Uno pterodattilo che pare un pellicano zannuto osserva la scena.
Non c’è dubbio, nel guardare questa semplice figura, che il paese dell’Iguanodon sia alieno e pericoloso, popolato di creature selvagge che rispondono ad una legge violenta e priva di compromessi.
Un autentico mondo alieno.
Meraviglie della geologia.
Tale fu il successo di Meraviglie della Geologia, che gli imitatori si scatenarono nel tentativo di accaparrarsi una fetta del pubblico.
Fra gli epigoni di Mantell, il più astuto si rivelò ancora una volta il selvaggiamente eccentrico Thomas Hawkins che nel 1840 pubblicò The Book of the Great Sea­dragons, Ichthyosauri and Plesiosauri, Gedolim Taninum of Moses. Extinct Monsters of the Ancient Earth, ricucinando gran parte del proprio materiale sui dinosauri marini, pubblicato sei anni prima, ed affidando l'illustrazione del testo allo stesso John Martin che aveva illustrato il lavoro di Mantell.
Il frontespizio di “Sea­Dragons” ritrae una scena ­ “The Sea Dragons as They Lived” ­ che è palesemente un plagio di Martin verso se stesso, oltre che verso il vecchio dipinto (1824) di De la Beche su modelli di Conybeare: di nuovo animali selvatici si combattono, questa volta nelle tenebre del mondo pre­Adamitico immaginato da Hawkins sulla base della sua personale interpretazione della Genesi.
Nella risacca di un mare color della pece, un dinosauro molto simile a un coccodrillo affronta due plesiosauri dagli occhi a fanale, in un combattimento mortale fra i flutti. Sotto lo sguardo di uno pterodattilo che sembra un cormorano (se ne intuiscono altri sullo sfondo, ma non paiono interessati), uno dei rettili risponde all'attacco flettendo il collo ed attaccando il proprio assalitore.
La stessa scena ritratta tanto da De la Beche che da Martin, appena adattata alle specifiche quasi gotiche di Thomas Hawkins.
Come andò a finire, per Mantell ed i suoi amici con Hawkins e la sua famosa collezione lo abbiamo visto.
Spostiamoci allora avanti, ora, di venticinque anni, fino al 1863.
C’è un altro libro, con un’altra tavola stampata.
Il volume si intitola La Terra prima del Diluvio, ed è opera di Guillamme Louis Figuier, noto illustratore e divulgatore; la tavola incriminata si intitola “L’Iguanodon e il Megalosauro (Periodo Cretacico Inferiore)”.
L’immagine è relativamente chiara.
In un paesaggio sommariamente forestato, l’Iguanodonte, sempre una specie di cane/lucertola con un corno da rinoceronte, è nuovamente alle prese con un pericoloso carnivoro. La bestiaccia (un megalosauro, che sembra un bassotto grasso col muso di coccodrillo), lo sta azzannando ai quarti posteriori. L’iguanodonte si difende azzannando a sua volta l’aggressore.
A parte l’assenza di un secondo predatore, è quasi la stessa scena, semplicemente ritratta in controcampo rispetto a quella di Martin: il paesaggio è selvaggio ed alieno, la violenza affatto repressa è al suo apice.
Un mondo diverso dal nostro, crudele, selvaggio, violento.
Eppure ne è passata di acqua sotto ai ponti della paleontologia, in questi venticinque anni...
Gideon Mantell è morto, povero e solo, nel 1852, per overdose di oppio assunto al fine di lenire i dolori dovuti alla scoliosi (frutto di un brutto incidente), avendo mandato a gambe all’aria tanto la propria professione medica che il proprio matrimonio per dare la caccia ai fossili.
Un tempo stimato conferenziere, negli ultimi anni della sua vita la sua credibilità scientifica, minata dallo scandalo delle ossa contraffatte di Hawkins, è stata definitivamente distrutta dagli attacchi ripetuti e terribili di un personaggio che in Mantell ha trovato l’ideale bersaglio per il proprio ego straripante: l’astro nascente della paleontologia britannica, Richard Owen, che gli ha anche “soffiato” l’Iguanodonte.
Definito “pigro ed impudente” da un tutore che in giovane età pronosticò per lui “una pessima fine”, e bollato come “ideale malvagio della letteratura vittoriana” da un moderno commentatore, Richard Owen aveva deciso di dedicarsi alla paleontologia col dichiarato intento di diventare “il Cuvier Inglese”.
Una misura della personalità di Owen si può forse trovare nel fatto che definì il truffaldino Hawkins un individuo “valido ed affidabile”. Intelligente, arrogante, con le connessioni giuste nell'establishment politico (era amico personale del Primo Minisro Gladstone, ed era stato istitutore dei rampolli reali), Owen aveva studiato medicina ed era ferratissimo in campo anatomico – da un frammento d'osso lungo dieci centimetri riuscì a ricostruire correttamente l'intera struttura anatomica del Moa o Dinornis, il gigantesco uccello senz'ali della Nuova Zelanda, e per vent’anni tenne tre seminari alla settimana al Collegio di Medicina, senza mai ripetere due volte lo stesso argomento. Ma per contro, sostenne a spada tratta l’ipotesi che la piega verso il basso della coda dell’Ittiosauro fosse un artefatto del processo di fossilizzazione, solo per venire smentito sulla base di prove empiriche ineluttabili proprio da Thomas Hawkins.
Animato da un'ambizione divorante, Owen fece piazza pulita di qualsiasi concorrenza in campo paleontologico coniando il termine, Dinosauro (un geniale esempio di marketing), per indicare tutti i grossi rettili estinti, ed implicitamente appropriandosi dei ritrovamenti di tutti i suoi colleghi e predecessori, riducendoli a nient’altro che istanze singole del gruppo da lui “scoperto”.
La popolarità e la fama permisero a Sir Richard Owen di attaccare e demolire la ricostruzione fatta da Mantell dell’Iguanodonte (e le opinioni del più anziano paleontologo su molte altre faccende), salvo poi esporre al Crystal Palace nel 1854 i modelli di dinosauro creati insieme all’artista Benjamin Waterhouse Hawkins (nessuna parentela con Thomas), ispiratosi dichiaratamente proprio ai disegni che Martin aveva fatto per Mantell.
Il complesso che dal 1851 ospitò la Grande Esposizione a Hyde Park, un colosso di ferro e vetro (oltre un milione di piedi quadrati di vetro) che guadagnò immediatamente un posto nella storia dell'architettura al proprio creatore, l'architetto Sir Joseph Paxton,che lo progettò in soli dieci giorni.
Voluto, e parzialmente progettato, dal Principe consorte Alberto – che con questa trovata riuscì a liberarsi di parte almeno del ridicolo che da sempre lo perseguitava – il complesso era circondato da un parco di duecento acri, con oltre 12000 fontane individuali, attraverso le quali fluiva oltre un milione di litri d'acqua, a ciclo continuo; la più colossale, innalzava il proprio getto al oltre settantacinque metri da terra.
Una struttura colossale, tempio dell'Impero e monumento alla superiorità britannica, il Crystal Palace viene oggi prevalentemente paragonato al Millenium Dome, costruito a Londra dall'amministrazione Blair.
La principale differenza, forse, sta nel successo dell'impresa – con i proventi dell'Esposizione vennero finanziati tutti i grandi musei londinesi ­ Albert Hall, Science Museum, National History Museum, Victoria and Albert Museum. Il Millenium Dome ha per ora solo scatenato le ire degli estimatori dell'architettura classica londinese.
Ma il paragone, se generalmente corretto da un punto di vista ideologico e strumentale, non esprime il profondo significato dell'esposizione.
Cerchiamo di immaginare: al Crystal Palace c'era tutto.
TUTTO.
L'impatto psicologico e culturale dell'esposizione è probabilmente confrontabile, per la sua epoca, e per i sei milioni e duecentomila visitatori (molti provenienti dall'Europa continentale) che ne percorsero le sale, con la prima connessione a internet, agli albori della frontiera elettronica – l'improvvisa accessibilità a milioni di fonti, a milioni di opzioni, milioni di punti di vista diversi.
Tutto ciò che esisteva era presente a Crystal Palace, e la presenza all'esposizione era quasi una certificazione di realtà.
Al Crystal Palace convergevano passato e futuro.
L'esposizione – comprendente 13.000 mostre separate sotto uno stesso tetto – includeva le ultime novità in campo tecnologico (il telaio Jaccard a schede perforate, l'etichettatrice postale, la mietitrebbia arrivata direttamente dagli Stati Uniti); le delegazioni di tutti i paesi del mondo (teoricamente) erano presenti, con in primo piano le porzioni più esotiche dell'Impero Britannico – India, Australia, Nuova Zelanda.
La storia era rappresentata, dall'antico Egitto al Rinascimento Italiano, ed erano esposte copie di gran parte dei principali capolavori dell'arte mondiale.
Nel 1868 venne ospitata la prima mostra dell'aeronautica e nel 1935 – dopo che la struttura era stata trasferita a Sydenham Hill, South London – Baird vi dimostrò per la prima volta la televisione a colori, su uno schermo di tre metri e sessanta per tre metri.
Fra le attrazioni/esposizioni originali di Crystal Palace c'era anche un settore di parco dedicato – dal 1854 ­ alla ricostruzione di alcune semplici strutture geologiche, in un paesaggio “primitivo” popolato da creature preistoriche.
Più dei lavori di Buckland e Cuvier, più della carica mitica di Mary Anning o delle dotte conferenze di Gideon Mantell, l'esposizione di Crystal Palace collocò con precisione i dinosauri nella mappa intellettuale degli europei.
L'interesse generale per la paleontologia – e per i dinosauri – crebbe ulteriormente.
Fra i ventinove dinosauri del '54, a Crystal Palace c’era, naturalmente, anche l’Iguanodonte, ed Owen ancora una volta non perse occasione per dimostrare l’incompetenza di Mantell (che lo aveva “solo” scoperto).
Lo accompagnavano Hyalerosauro, Teleosauro, Pterodattili e Megalosauri assortiti – mentre Plesiosauro e Ittiosauro, che Owen aveva commissionato, erano stati cassati per motivi di costi e vennero inclusi solo successivamente.
Ciascun rettile era rappresentato in quello che si riteneva il suo ambiente naturale (sulla base dei sedimenti all'interno dei quali erano stati ritrovati i resti) e in posizioni ricostruite a partire dalla disposizione dei resti.
Alcuni di questi modelli contenevano trenta tonnellate di argilla, che doveva essere sorretta da quattro zampe, poiché le loro caratteristiche naturali non mi consentivano di ricorrere ad alcuno di quegli espedienti usati dagli scultori in situazioni ordinarie. Non potevo usare alberi o rocce, o cespugli, per sorreggere questi grandi corpi che, per essere naturali, dovevano essere sorretti per bene dalle loro quattro gambe. Nel caso dell'Iguanodonte, non fu diverso da costruire una casa su quattro colonne, e per ciò che riguarda i materiali di cui è fatto l'Iguanodonte, questi comprendono quattro colonne di ferro lunghe nove piedi e di sette pollici di diametro, 600 mattoni, 650 tegole da canaletta semicircolari da cinque pollici, 900 piastrelle normali, 38 sacchi di cemento, 90 sacchi di roccia macinata...
[Benjamin Waterhouse Hawkins, conferenza tenuta presso la Society of Arts, 1854]
La notte di capodanno del 1853, per celebrare l'installazione dei dinosauri al Christal Palace, Owen organizzò una cena sontuosa servita all'interno di un modello di Iguanodonte per venti luminari invitati all'uopo.
L’invito venne recapitato inciso su una falsa ala di pterodattilo.
Mantell, invitato, declinò cortesemente – soffriva molto per i danni alla schiena riportati in un incidente col calesse, e non aveva simpatia per simili ostentazioni (e probabilmente ancor meno simpatia per Owen).
Il padrone di casa non mancò di manipolare l'informazione ancora una volta – il colosso all'interno del quale si svolse la cena non era infatti uno dei modelli di Hawkins, ma il calco vuoto all'interno del quale uno degli iguanodonti era stato modellato.
Non che gli ospiti fossero nelle condizioni di poterci fare molto caso – stando alle cronache dell’epoca, i ventuno scienziati si ubriacarono come carrettieri, tanto da causare con il loro canto a squarciagola le proteste dei residenti nell’area. E sì che il Crystal Palace era parecchio distante dalle abitazioni circostanti.
Per i più curiosi, il testo della canzoncina intonata dai dotti avvinazzati all'interno del calco dell'Iguanodonte faceva così:
Ché mostri saggi sono i nostri Sauri
E saggiamente regneranno
Per divulgare rapida la conoscenza in ogni dove
sono tornati in vita
... Il gaio animale antico
non è morto
c’è ancora vita in lui.
Piuttosto imbarazzante.
Se Gideon Mantell fu sempre il bersaglio di elezione di Owen, questi fu altrettanto sbrigativo e tranciante nel gestire i propri rapporti con l’ex amico Charles Darwin.
Cristiano devoto, Owen vedeva la storia della vita sulla terra come una serie di esperimenti da parte del Creatore, una serie di successive Creazioni in cerca della perfezione. La casualità e la natura strettamente meccanicistica delle teorie di Darwin lo riempì di orrore e risentimento, e quasi istintivamente, passò al contrattacco.
Il volume in ottavo di oltre cinquecento pagine, che ha fatto la sua comparsa verso la fine dell'anno passato, è stato ricevuto e consultato con avidità, non solo dai naturalisti di professione, ma da una classe intellettuale ben più ampia che ora si interessa nelle più ampie generalizzazioni delle principali scienze. Lo stesso stile piacevole che contraddistingue i primi lavori del signor Darwin, ed una certa disposizione artistica ed il succedersi ordinato delle sue argomentazioni principali, hanno attirato più dappresso l'attenzione dei pensatori verso l'ipotesi dell'inconsistenza e trasmutazione delle specie, rispetto a quanto fosse accaduto con i precedenti sostenitori di simili vedute. Perciò molti, e forse la maggioranza, dei nostri naturalisti più giovani sono stati sedotti e portati ad accettare la forma omeopatica di ipotesi di trasmutazione ora presentata loro dal signor Darwin con l'espressione “Selezione Naturale”.
[Anonimo (Richard Owen),”Darwin on the Origin of Species”, Edinburgh Review, 3, 1860]
Si noti la soave velenosità del breve passaggio riportato (l'articolo completo è di 55 pagine). Il riferimento all'appeal della teoria darwiniana per i “non professionisti” e per i giovani (ovviamente poveri sventati, ma meritevoli di una certa indulgenza), attratti dai toni artistici e dall'esposizione ordinata delle proprie ipotesi (come se fosse un artificio e non un requisito di una buona analisi scientifica) – tutto è studiato per sminuire non tanto le ipotesi dell'autore, ma la lucidità dei suoi lettori, fin dall'inizio. E non si tratta neppure di idee originali, butta lì Owen, preparando il successivo attacco, nel quale si rivolgerà tanto contro Darwin quanto contro i suoi predecessori e contemporanei. Ma se il resto dell'articolo attacca lentamente ed inesorabilmente il lavoro di Darwin, al contempo non manca di profondersi in lodi sperticate per il lavoro dello stesso Owen (che pubblicò il lavoro anonimamente).
Un pessimo esempio di disonestà intellettuale. È stato ipotizzato che una componente notevole della velenosità di Owen derivasse dal fatto che, in qualità di amico di Charles Darwin, era stato lui a fornire tutte le interpretazioni sui fossili raccolti durante la crociera del Beagle, senza sapere che sarebbero state utilizzate per sostenere una tesi alla quale egli era fermamente opposto; ed in effetti Charles Darwin si guardò bene, in quel periodo, di menzionare all’amico la direzione che stavano prendendo i suoi studi.
Charles Darwin, come Gideon Mantel, fu un personaggio schivo e poco avvezzo ai bagni di folla, quasi indifeso davanti all'irruenza del fin troppo espansivo Owen, potente, ben inserito e rispettatissimo; ma a differenza di Mantell, Darwin poteva contare su due fondamentali vantaggi. In primo luogo, la novità e la complessità delle argomentazioni di Darwin a supporto della teoria dell'evoluzione della specie attraverso la selezione naturale erano tali da impedire un semplice “dirottamento” come quello che aveva permesso ad Owen di appropriarsi del lavoro di Mantell. Secondariamente, Darwin poteva contare sul supporto di Thomas Huxley, tradizionalmente definito “il bulldog di Darwin”, strenuo difensore delle teorie evoluzioniste e abile polemista. Fu quindi impossibile per Owen mettere in ombra Darwin e le sue teorie, nonostante i ripetuti attacchi alla teoria dell'evoluzione.
Al massimo del suo potere, Richard Owen veniva ritratto dal Punch seduto a capotavola ad un banchetto al quale partecipavano mostri anziché esseri umani: una metafora azzeccata del destino ultimo del Cuvier Britannico, che finì la propria esistenza circondato da fossili ma privo di rapporti umani.
Leader incontrastato della paleontologia britannica nonostante l'astro nascente di Darwin, Owen si batté per oltre venticinque anni per riuscire ad ottenere dal governo imperiale e dall'amministrazione londinese un nuovo museo dedicato alle scienze naturali, ed in particolare alla geologia ed alla Zoologia, che rimpiazzasse quello al quale Thomas Hawkins aveva piazzato i propri fossili manipolati.
L'apertura del museo proprio sul sito originariamente occupato dalla Grande esposizione fu per Owen un trionfo personale, e l'occasione per ribadire la propria avversione per le teorie di Darwin ventidue anni dopo la pubblicazione de L'Origine della Specie.
Molte colonne dell'edificio ­ così simile ad una cattedrale nella sua miscela di stili antiquati, dal neogotico al romanico ­ sono ornate da piante stilizzate, sulle quali scimmiette scolpite sono intente ad arrampicarsi, in aperto sberleffo alla teoria che forme di vita superiore si siano sviluppate e siano ascese a partire da semplici animali.
Ad oltre un secolo di distanza, solo alcuni creazionisti si compiacciono di questo dettaglio – e non capiscono le implicazioni più profonde del lavoro di Owen ­ mentre la maggior parte dei visitatori si lascia affascinare dal contenuto, più che dall'ornamentazione del contenitore.
Frattanto, il Megalosauro, fra tutti i fossili della prima generazione di cacciatori di mostri antidiluviani, aveva fatto il proprio ingresso nella letteratura popolare, grazie ai buoni auspici di Charles Dickens.
Nel Marzo del 1852, infatti, il primo capitolo del nuovo romanzo seriale di Dickens, Bleak House, si apriva con un passaggio paleontologicamente significativo...
Londra. Sessione autunnale da poco conclusa e il Lord Cancelliere tiene udienza a Lincoln’s Inn Hall. Impeccabile clima di novembre. Tento fango che nelle vie pare che le acque si siano da poco ritirate dalla superficie della terra e non stupirebbe incontrare un megalosauro, di quaranta piedi circa, che guazza come una lucertola gigantesca lungo Holborn Hill.
[Charles Dickens, Casa Desolata, 1852] Owen fu un grande estimatore di Dickens, che lo menzionò pure in uno dei suoi romanzi – Our Mutual Friend – ed esiste una sorta di giustizia poetica anche in paleontologia, e la vita di Owen, personaggio tanto “rampante” quanto spiacevole, ha in effetti un cinico finale Dickensiano – vecchissimo e potentissimo, con oltre seicento articoli scientifici pubblicati, inaridito e bilioso, quasi un modello per il personaggio di Scrooge, Owen sopravvisse a tutti i propri rivali (ed anche al proprio figlio, che morì suicida), solo per vedere il defunto Darwin trionfare inesorabilmente.
Come Owen aveva attaccato e distrutto Mantell, così Huxley attaccò e distrusse la ricostruzione e l’interpretazione data da Owen dell’Archaeopterix, minando la reputazione di anatomista massimo del collega ed al contempo segnando un punto fondamentale per il campo evoluzionista.
Richard Owen morì nel 1892.
L’uomo che aveva perduto la presidenza della Geological Society of London per aver pubblicato un cattivissimo necrologio alla morte prematura di Mantell (insinuando che Mantell si avvalesse di consulenti anonimi per compilare i propri articoli, mancandogli la preparazione accademica), e che aveva poi fatto asportare parte della colonna vertebrale del defunto per conservarla in formalina su uno scaffale (andò perduta durante la Seconda Guerra Mondiale), venne infine liquidato, poche ore dopo l’inumazione, come “un dannato bugiardo, che mentiva per Dio e per malizia” da un suo stimato collega. Tutti ormai lo detestavano.
Frattanto, il 28 febbraio 1878, a Bernissart, in Belgi, i minatori Jules Créteur e Alphonse Blanchard (membri della più bassa lower class immaginabile) rinvennero, a 322 metri di profondità in una miniera di carbone, il più grande giacimento di Iguanodonti della storia. Inizialmente i due credettero di aver imbattuto un pezzo di legno pietrificato – ma il loro ritrovamento si rivelò poi essere il primo resto fossile di un acumulo di trentotto iguanodonti, che vennero estratti a partire dal maggio successivo, e montati a partire dal 1882, ad opera di del paleontologo belga Louis Dollo.
Dollo – che dovette ingegnarsi, insieme con il collega Luis de Pauw, per preservare i resti, che si deterioravano rapidamente per via dell'ossidazione della pirite contenuta nelle ossa pietrificate – montò i dinosauri in aperta contraddizione alle ricostruzioni di Owen, avendo a disposizione materiale più che sufficiente per dimostrare gli errori dell'inglese.
Per la prima volta il “corno” nasale dell'Iguanodonte britannico veniva così piazzato nel posto che anatomicamente gli competeva – in corrispondenza del pollice. La presenza di tendini ossificati permise anche di stabilire che l'animale, bipede, non piegava la coda, ma la teneva tesa dietro di sé.
Insomma, la ricostruzione di Owen era completamente sbagliata – probabilmente di più di quella di Mantell, dopotutto basata su uno scheletro parziale.
Se fate un salto a Beissart alcuni degli scheletri montati da Dollo sono ancora là – al momento di scrivere queste righe, l'ingresso costa quattro euro.
Ma forse la beffa più colossale giocata dalla storia a Richard Owen fu proprio lo strano destino delle sue “terribili lucertole” ­ che in capo a pochi anni avrebbero cessato di avere validità come classe tassonomica, per venire consegnate a quel pubblico non specialistico ed entusiasta che tanto egli aveva deriso in vita.
Quanto ad Benjamin W. Hawkins ed ai suoi sauri, quando problemi finanziari impedirono la collocazione al Crystal Palace di altri modelli, di fauna terziaria e quaternaria (compreso un Mammuth), l'artista si trasferì negli Stati Uniti per popolare di ricostruzioni simili il neonato Central Park di New York, nel quale ancora i newyorkesi pascolavano greggi di pecore.
Il successo del parco dei dinosauri a Sydenham aveva risvegliato l’interesse dei membri del Comitato dei Commissari per il Central Park di New York, e questi nel 1868 decisero di replicare nella metropoli statunitense i fasti della Londra vittoriana.
Andrew Green, presidente del Comitato e principale fautore del progetto, contattò perciò Hawkins per l’allestimento del Grande Museo Paleozoico di New York, un’area coperta da una tettoia di ferro battuto e rampicanti sorretta da colonne neoclassiche, gli animali di calcestruzzo e mattoni di Hawkins avrebbero affascinato ed istruito i newyorkesi.
Una specie di catacomba fossile nella quale il visitatore, trattenendo il proprio sconcerto ed incoraggiando la propria comprensione, avrebbe vagolato circondato da forme di esistenza preadamitca, per poi fuggire nuovamente nella luce del sole come Marcello e Bernardo, ‘ridotti quasi in gelatina dall’effetto dell’orrore’.
... come avrebbe commentato uno scienziato dell’epoca.
Hawkins, allettato dalla proposta di Green, cominciò con l’acquisire la ricostruzione dell’Adrosauro dell’accademia delle scienze di Philadelphia.
Il suo progetto era di mostrare l’Adrosauro attaccato da Laelaps, mentre altri due Laelaps si sarebbero accaniti su una forma abbattuta. Poco lontano, un Elasmosauro sistemato in una piscina avrebbe osservato la scena.
Sullo sfondo, un armadillo gigante, un mastodonte, alci e bradipi tipici della fauna preistorica americana avrebbero fatto da contorno a una scena che – cambiando gli interpreti principali – poco si sarebbe comunque discostata dalla scena originariamente tracciata da Martin per il volume di Mantel.
Il tutto, al prezzo di 30.000 dollari dell’epoca.
Della cosa non si fece nulla.
Il famigerato William M. “Boss” Tweed arrivò sulla scena, e non riuscendo ad intascare una fetta delle spese per il Museo Paleozoico, boicottò il progetto presentandolo al pubblico come troppo costoso.
Tweed era il leader della Tammany Hall, una organizzazione politica il cui peso sull'amministrazione di New York era tanto pervasivo quanto perverso; Tweed aveva contatti a tutti i livelli nella politica e nell'economia cittadina, e non esitava ad usarli per i propri fini. Incarcerato nel 1870 per aver intascato una cifra imprecisata fra i 75 e i 200 milioni in fondi statali, Boss Tweed morirà in carcere nel 1878.
Tuttavia, Quando Hawkins decise di ignorare la stampa negativa (sperando che la neonata Smithsonoian Institution potesse subentrare come committente), vandali non identificati si introdussero nel suo laboratorio e distrussero a colpi di maglio tutti i modelli in lavorazione; Henry Hilton, braccio destro di Tweed, consiglò a Hawkins di smettere di occuparsi di animali morti, quando ce n’erano così tanti vivi di cui interessarsi.
Un'offerta che non si poteva rifiutare.
E Benjamin Waterhouse Hawkins cessa così di avere una parte attiva nella nostra storia.
In Gran Bretagna, il Crystal Palace venne distrutto da un incendio nel 1936, ed i terreni circostanti subirono i bombardamenti della Seconda Guerra mondiale. Il parco venne ricostruito, ed oggi è possibile vedere i dinosauri di Hawkins e Owen, restaurati nel sobborgo di Bromley. I lavori di restauro si sono svolti fra il 1994 ed il 1996, preservando l'ormai superatissima ricostruzione di Hawkins come monumento ad un momento preciso dell'evoluzione concettuale dei grandi rettili.
Eppure, l’iguanodonte ritratto da Figuier nel 1863, se è figlio di Mantell e Martin per una certa linea iconografica, se porta sul naso il corno immaginato da Buckland, da Owen ed Hawkins prende il suo tratto più immediatamente evidente – la staticità.
In questo senso, a differenza dell’immagine di Martin, che potremmo definire “quasi puramente” scientifica, l’immagine di Figuier porta anche e soprattutto un contenuto “ideologico” – non vuole solo illustrarci un episodio di vita del passato, ma anche e soprattutto veicolare le ipotesi dell’autore, forte sostenitore del dinosauro come creatura lenta, stupida, torpida. Non c’è infatti, nel disegno di Figuier, la frenesia plastica del lavoro di Martin; se là assistiamo allo scontro caotico e sanguinoso fra bestie selvagge, qui assistiamo al lento e sistematico macello di due creature torpide, forse addirittura troppo stupide per provare dolore per le ferite che si stanno reciprocamente infliggendo.
La scena ritratta da Figuier ha l’inevitabilità di uno scontro fra automobili ripreso al rallentatore.
Viaggi Staordinari
Mi accingo a sostenere quella che ai più parrà una strana tesi.
Affermo che i primi libri da mettere nelle mani dei più giovani che, mossi i primi passi della conoscenza, abbiano imparato a leggere, dovrebbero essere di Storia Naturale; che anziché risvegliare le capacità delle giovani menti all’ammirazione, attraverso le favole […] di prodotti della pura immaginazione, sarebbe meglio dirigerle la loro attenzione ammirata verso il semplice spettacolo della natura – alla struttura dell’albero, la composizione del fiore, gli organi degli animali, la perfezione delle forme cristalline dei minerali e soprattutto la storia del mondo in cui viviamo; la disposizione della sua stratificazione, e la storia della sua nascita, come riferiteci dai resti dei suoi molti rivolgimenti che possiamo cogliere nelle rocce sotto ai nostri piedi.
[Guillamme Luois Figuier, Tesi introduttiva a La Terra prima del Diluvio, (1863)]
Proprio nel 1863, mentre il francese Figuier pubblicava il suo Mondo prima del Diluvio, l’altrettanto francese Jules Verne (1828­1905), decise di imperniare la propria ultima fatica letteraria a quella che era la principale controversia scientifica del momento.
Verne era un ex seminarista, studente di legge e agente di cambio di Nantes che si era riciclato con un certo successo come librettista di operette prima e successivamente come popolare autore di narrativa avventurosa, forse influenzata da una giovanile passione per la geografia e l'esplorazione, instillatagli probabilmente dal suo insegnante di matematica e disegno Brutus de Villeroi, l'uomo che successivamente avrebbe sviluppato, per conto della marina degli Stati Uniti, il primo sottomarino.
L'incontro con l'editore Pierre­Jules Hertzel segnò la svolta per la carriera letteraria di Verne, che fino a quel momento aveva visto molti dei propri lavori rifiutati perché “troppo scientifici” (e deprimenti).
Hertzel svolse un indispensabile lavoro di editing sui primi lavori di Verne, aiutandolo a rafforzare il plot avventuroso senza annacquare eccessivamente i contenuti scientifici ed a stemperare di umorismo storie che all'origine erano state troppo politicamente impegnate e spesso stroncate da finali tragici.
Verne era infatti pesantemente critico e pessimista nei confronti della tecnologia – contrariamente alla sua immagine popolare, in effetti frutto della giudiziosa guida di Hertzel.
Hertzel non vide invece motivo per editare un certo pesante sciovinismo anti­britannico insito in molte delle opere di Verne, e che obbligò l'editore inglese dell'autore a tagliare dalle traduzioni lunghi paragrafi (o addirittura cassare personaggi secondari tout­court) perché politicamente imbarazzanti. Le edizioni inglesi vennero ulteriormente danneggiate dalla scarsa dimestichezza di traduttori ed editor con il sistema metrico. I calcoli e la matematica nelle storie di Verne, normalmente molto accurati, ne risultarono spesso stravolti, provocando all'autore francese una immeritata fama di trascuratezza nel mondo anglosassone.
Avventura, scienza d'avanguardia, umorismo e happy end divennero i quattro pilastri della produzione di Verne.
Ben conscio della formula vincente, Verne tenne d'occhio l'ambiente scientifico francese, all'epoca alquanto effervescente, in cerca di ispirazione.
Fra le idee possibili, quella dell'esplorazione dell'interno della terra parve piuttosto attraente.
Da alcuni anni, infatti, il mondo accademico era diviso riguardo alla questione dell'origine delle rocce granitiche in particolare,e più in generale fra coloro che sostenevano che tutte le rocce fossero di origine vulcanica (i plutonisti) e coloro che invece ne spiegavano l’origine esclusivamente attraverso i processi sedimentari (i nettunisti).
Il principale sostenitore del nettunismo era il tedesco Abraham Gottlob Werner, descritto come “un ometto grassottello e azzimato”, ma certo la persona che aveva fatto di più, in assoluto, per lo sviluppo di uno studio scientifico delle formazioni rocciose, e pertanto il padre fondatore, spesso dimenticato, della geologia moderna. Sua l’osservazione che le rocce stratificate avevano un proprio definito ordine di deposizione, sua la teoria che tale deposizione fosse avvenuta in ambiente marino, per fasi successive.
Da cui, la teoria del “Nettunismo”.
Hutton, introducendo il gradualismo, aveva in un certo senso complicato la faccenda, e dal dibattito non si erano astenuti neppure personaggi del calibro di Darwin (plutonista convinto).
La posizione di Hutton era che solo una minima parte delle rocce stratificate (le rocce sedimentarie) si fosse deposta in ambiente marino, mentre le altre erano invece il prodotto di processi vulcanici e magmatici (le rocce ignee).
Il romanzo a sfondo geologico di Giulio Verne si intitolava Viaggio al Centro della Terra, terzo nella serie dei Viaggi Straordinari e vide la luce in volume unico il 25 Novembre 1864; il suo successo fu tale che Verne abbandonò l’attività finanziaria per diventare scrittore a tempo pieno. Si tratta di un romanzo dichiaratamente plutonista (ampio spazio viene riservato ai fuochi interni della terra) e gradualista – tanto che lo si può considerare uno dei testi principali che contribuirono a familiarizzare il pubblico con la nuova scienza.
La storia si apre con la scoperta di un misterioso testo da parte del professor Otto Lindenbrock, docente di mineralogia ad Amburgo. Una volta decifrato, il messaggi contiene le indicazioni per raggiungere il centro della Terra attraverso il vulcano Snæffels, in Islanda. Il professore e il nipote Axel partono quindi con molta fretta da Amburgo per l'Islanda, dove raggiungono il cratere Jökull del vulcano Snæffels, da cui parte la via già percorsa dall’alchimista Arne Saknussemm verso il centro della terra, nel sedicesimo secolo. Il professore e il nipote sono accompagnati in questa impresa da Hulja, una guida locale . Il viaggio verso il centro della terra è opportunamente segnato da tracce lasciate da Saknussemm, e costellato di imprevisti, avventure e scoperte. I viaggiatori arrivano poi in una grande “caverna” descritta come il centro della terra, ed occupata da un mare, che i nostri eroi tentano di attraversare su una zattera. Durante “l’attraversata” assistono ad una lotta spettacolare tra un ittiosauro e un plesiosauro. Tornati inaspettatamente al punto di partenza, Liddenbrock e compagni esplorano la costa, incontrando un “troglodita” alto 12 piedi che pascola una mandria di mastodonti e rinvenendo uno scheletro. I viaggiatori ritrovano le tracce di Saknussemm ma il passaggio è bloccato da una frana. Cercando di aprirsi la strada con l’esplosivo, vengono scagliati nella bocca di un vulcano in eruzione. Risalendo attraverso un condotto magmatico, si ritrovano alle pendici dello Stromboli.
Del romanzo esistono decine di versioni e adattamenti – film, sceneggiati televisivi, cartoni animati, fumetti.
Nel 1959, il romanzo venne adattato per il grande schermo, con James Mason nel ruolo del professor Lindenbrock (inopinatamente tramutato in scozzese), il cantante Pat Boone in quella di suo nipote, e l'aggiunta di una statuaria Diane Baker in un poco probabile ruolo femminile creato per l'occasione. La vedova Göteborg affronta il viaggio al centro della terra con impeccabili tacchi a spillo e deve il proprio cognome alla malsana convinzione di uno sceneggiatore – che si disse che se un nome geografico è accettabile come cognome in inglese (London, York), deve esserlo anche in Svedese. La cosa non mancò di suscitare l'ilarità del pubblico svedese.
Terzo film tratto da Verne dopo 20.000 Leghe sotto i Mari della Disney (1954) e Il Giro del Mondo in 80 Giorni (1956) di Todd, e prodotto essenzialmente per incassare il successo delle pellicole tratte da Verne, anche “Journey” sbancò il botteghino, pur trattando piuttosto male il testo di origine.
I rimaneggiamenti della trama non si limitarono all'aggiunta di un personaggio femminile e di un paio di occasioni per Pat Boone di sfoderare le proprie doti canore.
Gran parte delle meraviglie descritte da Verne vennero eliminate per limitare i costi, ed il peggio toccò alla fauna preistorica, ridotta a poche lucertole ed una foresta di funghi giganti. La sezione finale del romanzo di Verne, con l'incontro con il troglodita, venne tagliata, e l’azione spostata ad Atlantide (perché no?) riciclando alcune scenografie di film peplum.
I dinosauri vennero messi in scena truccando pesantemente alcune lucertole domestiche, agghindate con flaccide creste dorsali. Le povere bestie, imbambolate e confuse, vennero obbligare a muoversi sotto la stimolazione del getto caldo di un asciugacapelli.
Il risultato è moderatamente divertente, ma terribilmente senz'anima, ed il finale a baci e abbracci (con tanto di matrimonio per la coppia Lindenbrock­Göteborg) è molto al di là di quanto Hertzel ebbe mai il coraggio di richiedere a Verne in nome della vendita, e che Verne avrebbe mai accettato di scrivere.
E il 18 gennaio 1974, alla Royal Albert Hall di Londra, Rick Wakeman, tastierista di formazione classica divenuto famoso con il gruppo progressive degli Yes eseguì ed incise dal vivo “Journey to the Center of the Earth”, ad oggi considerato da molti il suo lavoro migliore.
Durante l’esecuzione del concerto per gruppo, coro e orchestra, brani del romanzo di Verne sono letti da David Hemmings, e la Sinfonica di Londra fa la sa sporca figura, come si suol dire, spalleggiando il Moog ed il clavicembalo di Wakeman – che si dice avesse ipotecato la casa e venduto parte dei propri beni per raccogliere il danaro necessario per questa incisione, e che subì un infarto poco dopo aver terminato l’esecuzione.
Noi tuttavia siamo molto più interessati alla ristampa del 1867 di Viaggio al centro della Terra, un volume in ottavo dell’editore Hetzel, illustrata con le tavole di Edouard Riou; ed in particolare ci interessa la tavola che illustra il trentesimo capitolo, “Terrificante scontro fra sauri” (la scena alla quale Wakeman nel ‘74 dedicherà uno dei quattro movimenti del suo concerto).
Gli eroi del romanzo, senza poco plausibili presenza femminili, sono abbarbicati ad una zattera persa all’orizzonte, testimoni dello scontro fra i flutti, fra un Ittiosauro ed un Plesiosauro, i due popolari fossili di Lyme Regis scoperti da Coynbeare e già illustrati nel libro di Hawkins.
L’ittiosauro, con il muso da coccodrillo, sta azzannando i quarti posteriori del plesiosauro che, col suo lungo collo serpentiforme, si volta ed azzanna a sua volta l’aggressore.
E’ di nuovo la stessa scena.
E non ci deve sorprendere la somiglianza col lavoro di Figuier (che nel suo Mondo prima del Diluvio aveva presentato anche un incontro in mare fra ittiosauro e plesiosauro).
Riou è uno stimato paesaggista che ha già illustrato Cinque Settimane in Pallone, primo successo della premiata ditta Verne & Hertzel, ed illustrerà altri tre Viaggi Straordinari, ed è stato l’assistente di Figuier nel suo lavoro sui dinosauri, e proprio per la sua familiarità non solo con l’argomento, ma anche con lo stile dell’illustrazione scientifica dell’epoca, venne incaricato di illustrare i lavori di Verne (che all’epoca erano, non dimentichiamolo, anche divulgazione scientifica).
Con quello che è essenzialmente il plagio di una illustrazione scientifica (ma, come si è detto, anche e soprattutto “ideologica”) a fini spettacolari, con l’”autentica” rappresentazione di una scena inventata, i dinosauri sono penetrati prepotentemente nel mondo della narrativa popolare. Ironico, considerando la tesi di Figuier, che suggeriva di iniziare i giovani alla lettura mediante testi di Storia Naturale anziché favole e storie avventurose.
I commentatori satirici del Punch temono che la popolarità delle immagini di “mostri”, ormai pubblicate con estrema frequenza, possano turbare i sonni tranquilli della gioventù. Non hanno capito, forse, che da alcuni anni la narrativa mira ad eccitare, spaventare e sorprendere il pubblico.
Lo hanno capito invece gli amici di Byron riuniti a Villa Deodati, che hanno acceso dibattiti con il successo del Frankenstein, e tirato la volata al penny dreadful, la rivista popolare che pubblica romanzi d'appendice, antesignana del pulp magazine, con Il vampiro di Polidori.
Lo scontro fra dinosauri aggiunge al brivido del mostruoso l'altrettanto vivido brivido della realtà.
Col nuovo secolo, la rappresentazione delle due bestie allacciate nel loro scontro epico ed insensato è ormai patrimonio dell’immaginario collettivo.
Col nuovo secolo, ci penseranno Arthur Conan Doyle e il suo Professor Challenger a familiarizzare una volta per tutte il grande pubblico con la figura poderosa e affascinante del dinosauro.
Ma questa è un'altra storia.
Parte Seconda
Il Nuovo Mondo
Sana e Robusta Costituzione
Washington, 14 Luglio 1808: A Monsieur de la Cepede. Se la memoria non mi inganna, la collezione di resti dell'animale incognitum dell'Ohio (talvolta chiamato mammoth) in possesso del Gabinetto di Storia Naturale di Parigi non è particolarmente abbondante....
[Thomas Jefferson]
Nel 1962 John Fitzgerald Kennedy intrattenne per cena alla Casa Bianca 49 premi Nobel, e descrisse l’evento come “la più straordinaria collezione di talento e di conoscenze umane mai raccolta alla Casa Bianca, con la sola possibile eccezione di quando Jefferson ci cenava da solo.”
Ma nel 1781, Thomas Jefferson non era ancora alla Casa Bianca, aveva parecchi problemi.
Da una parte, le vicende militari della Guerra d'Indipendenza Americana (quella che gli inglesi si ostinano a chiamare Rivoluzione) stavano volgendo al peggio per i ribelli – la Virginia era stata nuovamente invasa dalle truppe al comando di Banedict Arnold, ed il futuro della repubblica appariva oscuro.
Dall'altra nientemeno che il conte di Buffon, naturalista massimo della Francia pre­rivoluzionaria, aveva apparentemente preso di mira l'America, discutendo in un dotto saggio come il nuovo continente non risultasse, all'occhio allenato dell'esperto, in grado di sostenere un ecosistema particolarmente attivo e quindi – per estensione ­ la vasta popolazione di uno stato sovrano.
Paragonati alle loro controparti europee, gli animali che popolavano il continente americano erano più piccoli, osservava Buffon; le specie endemiche scarseggiavano, o per lo meno erano presenti in numero molto minore rispetto alle specie esclusivamente europee, e quegli animali europei che erano stati introdotti sul territorio americano erano invariabilmente degenerati.
Facile, a questo punto, prevedere il peggio anche per la nuova repubblica di fresco fondata sul suolo americano.
Thomas Jefferson, naturalista dilettante e genio multiforme, ambasciatore americano alla corte di Francia, aveva preso molto male la cosa – rendendosi conto di come anche una semplice opinione avversa in un campo tanto distante quale le scienze naturali, potesse rivelarsi una nuova arma per i nemici degli Stati Uniti ­ e durante la sua permanenza a Parigi aveva invitato personalmente a cena Buffon, assicurandosi che tutti gli americani presenti fossero sopra il metro e ottanta di statura, in modo da sovrastare l'ospite (notoriamente piuttosto bassino).
Tornato in patria si era quindi messo all'opera per confutare le osservazioni del francese su quella che egli intendeva come la costituzione (in senso fisico) dell'America e degli americani.
Le Note sullo Stato della Virginia vennero scritte e pubblicate da Jefferson col chiaro intento di confutare definitivamente l'opinione di Buffon. Forse Buffon credeva, notò Jefferson a mo' di prologo, “che la natura sia meno attiva, meno energica su un lato del mondo rispetto all'altro, come se entrambi i lati non fossero scaldati dallo stesso sole geniale.”
E quale migliore esempio, della sana e robusta costituzione che, per lo meno in potenza, caratterizzava gli abitanti del nuovo continente, che l'incognitum americano, animale mai visto che aveva lasciato le proprie ossa sparse in varie paludi e torbiere degli stati ribelli.
In Europa non c'era equivalente dell'incognitum, che taluni chiamavano volgarmente mastodonte, altri mammoth.
L'incognitum, quale che fosse la sua natura, prometteva davvero bene: in primo luogo, le sue ossa lasciavano immaginare un animale di gran lunga più grande e massiccio del più grande e massiccio animale del vecchio continente, l'elefante. In secondo luogo, la presenza di abbondanti resti testimoniava l'abbondanza della creatura stessa, che aveva quindi trovato sollazzo e sostentamento nelle praterie del Nuovo Mondo. E per finire, ma certo non ultima delle frecce all'arco retorico di Jefferson, c'era il fatto che i tre quarti del continente americano erano ancora inesplorati, e niente lasciava escludere che l'incognitum, lungi dall'essere estinto, non galoppasse libero e felice appena oltre l'orizzonte, in terre visitate solo da Johnny Seme di Mela.
Tanto più che, stando agli indiani, i loro antenati erano stati soliti cacciare e nutrirsi dell'incognitum, che era grande abbastanza da soddisfare le richieste alimentari di un villaggio di medie dimensioni per un bel po' di tempo.
La spedizione di Lewis e Clark, resa famosa da innumerevoli libri e da un film con Spencer Tracy, venne organizzata anche e soprattutto per allargare la ricerca dell'incognitum – vivo o fossile che fosse.
Jefferson desiderava altri resti o, meglio ancora, un esemplare vivo, e pagò di tasca sua la deviazione che portò i due esploratori a Big Bone Lick, nel Kentucky. L'idea di scavare proprio lì gli era venuta da un discorso fatto da uno degli anziani della popolazione Delaware:
In tempi antichi una mandria di questi animali tremendi vennero a Big Bone Lick, e cominciarono una universale distruzione di orsi, cervi, alci, bufali ed altri animali, che erano stati creati per l'uso degli indiani.
[T.Jefferson, Notes on the State of Virginia, 1781]
La spedizione a Big Bone Lick ebbe successo.
Dal canto loro, gli indiani consideravano le grandi ossa per lo meno di malaugurio, e probabilmente accolsero con una certa perplessità il desiderio dei visi pallidi di andarle a cercare apposta per disseppellirle.
L'interesse di Jefferson per la paleontologia è confermato dalla sua attività, come relatore e (dal 1797) come presidente della American Philosophical Society: nel 1792 Jefferson raccolse una cifra considerevole, per l'epoca, allo scopo di inviare il botanico Andrew Michaud in un lungo viaggio esplorativo verso il Pacifico per ritrovare (fra le altre cose) ossa di mammuth...
Dovrete, nel corso del vostro viaggio, osservare il territorio che attraverserete, il suo aspetto generale, il suolo, i fiumi, le montagne, le sue risorse animali, vegetali & minerali che ci siano nuove & possano esserci utili o estremamente curiose; le latitudini dei luoghi o dei materiali calcolate coi semplici metodi che la situazione vi permetterà. I nomi, i numeri e le sedi degli abitanti, e tutti quei particolari della loro storia che potrete apprendere, le connessioni reciproche, le lingue, gli usi, lo stato della società & delle arti & dei commerci fra loro.
Alla voce Storia Animale, quella del Mammoth è particolarmente raccomandata fra le vostre ricerche, così come lo è scoprire se il Lama, o Paca del Perù si trovi in quelle parti del continente, o quanto a Nord si spinga.
[Thomas Jefferson, Lettera a Andrew Michaud, 23 gennaio 1793]
La missione di Michaud venne successivamente deragliata da questioni strettamente politiche (Michaud era cittadino francese, ed il console francese lo usò per cartografare non i giacimenti di fossili, ma le tendenze politiche degli abiotanti del Kentucky) ma comunque nell'Agosto del 1796, Jefferson presentò un rendiconto sul ritrovamento di ossa dalle dimensioni straordinarie oltre le Blue Mountains, in Virginia.
Le ossa erano state trovate nella contea di Greenbriar, e si supponeva appartenessero ad un mammuth di qualche genere. Vennero inviate perciò a Jefferson, a Monticello. Jefferson le identificò come appartenenti ad “un animale carnivoro dotato di artigli finora sconosciuto alla scienza”.
Insieme con il saggio, intitolato "A Memoir of the Discovery of Certain Bones of an Unknown Quadruped, of the Clawed Kind, in the Western Part of Virginia”, Jefferson consegnò le ossa al Dr. Wistar, naturalista residente della American Philosophical Society; Jefferson le aveva portate con sé mentre si recava a Philadelphia per prestare giuramento come vicepresidente degli Stati Uniti.
L'animale venne successivamente battezzato Megalonyx jefersoni, il primo bradipo gigante ritrovato in America settentrionale.
Jefferson aveva ormai confermato oltre ogni ragionevole dubbio la solidità della propria ipotesi: l'invio di ossa di mammuth all'accademia francese, nel 1808, proprio nel giorno della Bastiglia, fu perciò l'ultima frecciata alla grandeur transalpina in un confronto strettamente politico, per quanto fondato su resti fossili e considerazioni ecologiche.
L'animale fossile oggetto della regalia era stato descritto e classificato con cura da Jefferson stesso, che aveva destinato una parte dei resti alla American Philosophical Society di Philadelphia ed una ai colleghi parigini.
Parte dei resti rimasero tuttavia nella sua casa di Monticello, in un museo privato....
Su un lato sono appese la testa e le corna di un alce, un cervo ed un bufalo; un'altra parete è coperta delle curiosità che Lewis e Clark trovarono durante la loro lunga e pericolosa spedizione. Sulla terza, fra molti altri oggetti sorprendenti, c'è la testa di un mammuth o, come lo chiama Cuvier, un mastodonte, contenente l'unico os frontis, da quel che mi dice Mr. Jefferson, che sia stato finora ritrovato
[Lettera di George Ticknor, 1818]
Tutte le grandi nazioni hanno bisogno di un grande passato.
L'antica Roma si costruisce una eredità ellenica (o Troiana) nel momento in cui si prepara a fare il salto di qualità a superpotenza imperiale; l'America del secondo dopoguerra lancia un'offensiva di film biblici e mitologici il cui principale significato ideologico è quello di rafforzare il legame fra cultura eroica classica, Cristianesimo delle origini e l'attuale dominatore della politica mondiale. Fra le due guerre, d'altra parte, mentre gli Stati Uniti manovravano per sostituire l'Impero Britannico in posizione dominante sullo scacchiere internazionale, Hollywood mostra una certa ossessione con le vicende coloniali inglesi (gli adattamenti di Kipling, Gunga Din, o La Carica dei Seicento), o per le avventure navali imperniate su imprese eroiche di naviganti inglesi (gli adattamenti dei romanzi di Rafael Sabatini, la serie di Hornblower), quasi a voler si appropriare dell'immagine connessa ai fasti imperiali vittoriani.
In questo senso, la battaglia combattuta da Jefferson per far riconoscere la sana e robusta costituzione del clima e della fauna americane fanno parte della medesima strategia, e lo stesso Jefferson non esitò ad usare la metafora del mammuth come primo simbolo della potenza americana. Un simbolo che rimase indiscusso fino a che, con la Teoria dell'Evoluzione ed il concetto di tempo profondo, i resti fossili non divennero un pericoloso simbolo della negazione delle Scritture.
Con le sue donazioni ai musei e la sua personale ossessione per i fossili, Jefferson contribuì a creare una forte passione per il passato preistorico al cuore della cultura americana delle origini.
E con l'ipotesi che, da qualche parte, in una valle nascosta nota solo ai pellirosse, i mastodonti ed i mammuth pascolassero ancora, fornì la base teorica per infinite rielaborazioni narrative – dal Mondo Perduto di Conan Doyle (dopotutto, un'isola di fauna preistorica sul continente americano) al Turok dei fumetti.
Strenuamente antievoluzionista, Jefferson non poteva d’altra parte ammettere la realtà delle estinzioni globali – e se qualcosa era stato creato da Dio, da qualche parte doveva ancora trovarsi, vivo e vegeto.
L'unica cosa che Jefferson, il “Mammoth President” degli Stati Uniti che volle una sala delle ossa alla Casa Bianca, non riuscì a fornire alla propria nazione furono dei veri dinosauri.
L'assenza di dinosauri negli stati orientali dell'America del Nord avrebbe segnato profondamente l'immaginario americano, da una parte, associando indelebilmente i grandi rettili con il west, e dall'altra dando fuoco alle polveri della Grande Guerra delle Ossa.
La Grande Guerra delle Ossa
La storia della “Grande Guerra delle Ossa” (definizione ormai canonica degli eventi che andiamo a descrivere), è la storia dei più grandi e famosi dinosauri della terra, ed è la storia di due paleontologi: Edward Cope e Othniel Marsh.
Consideriamo i due gentiluomini.
Giudicato “sfaticato ed irrispettoso” dal proprio stesso padre, che predisse per lui “niente di buono” (proprio come Owen), il piccolo­
borghese Othniel Marsh aveva messo fine alle proprie gozzoviglie giovanili decidendo “a tavolino” di intraprendere lo studio della paleontologia, allo scopo dichiarato di diventare il primo ed il più famoso paleontologo americano. Aveva perciò studiato a fondo la materia, sviluppato un’ottima rete di relazioni pubbliche a livello istituzionale, e badava bene a non perdere mai occasione per mettersi in mostra o per screditare i colleghi.
Edward Drinker Cope era invece un giovane di buona famiglia, con alle spalle alcuni successi nel campo dell’erpetologia (lo studio delle serpi – molto appropriato), che vedeva nei dinosauri un’opportunità tattica per ampliare la propria fama ed il proprio curriculum. Paleontologo meno dotato di Marsh, Cope era tuttavia un eccellente paleo­ecologo ante litteram, con un ottimo occhio per la visione d’insieme.
Entrambi paleontologi di belle speranze alla corte del massimo zoologo e anatomista americano, autentico gigante dell’accademia, Joseph Leidy, personaggio mite e cauto, Cope e Marsh – che non erano né miti né cauti ­ partirono subito col piede sbagliato.
Nel 1868, Cope pubblicò in collaborazione con Leidy uno studio dell’Elasmosaurus – un dinosauro dal lungo collo serpentino; per un errore, nelle tavole fornite all’editore, la testa della creatura risultava montata in cima alla coda anziché sul collo.
Succede.
L’errore, oltretutto, era probabilmente di Leidy, e non di Cope.
Resosi comunque conto dell’errore, Cope si affrettò ad acquistare tutte le copie della rivista incriminata, tentando disperatamente di salvare la faccia.
Othniel Marsh informò la stampa nazionale.
La carriera di Edward Cope colò a picco.
La cosa non deve sorprenderci.
E’ pratica comune, fra i primati, quando un nuovo maschio alfa entra di diritto nella posizione dominante, provvede non solo ad eliminare il proprio predecessore, ma anche tutti i cuccioli di quest’ultimo.
E il mondo accademico è una giungla.
Marsh era ormai ben avviato a sostituire Leidy nel suo ruolo di Paleontologo Americano, ed eliminare l'ex amico e collega Cope faceva parte di una strategia ben precisa. Dopo la debacle dell’Elasmosauro, mentre Leidy ripiegava sulla sistematica dei mammiferi quaternari, Cope avrebbe dovuto avere la decenza di togliersi dai piedi – tornare a studiare le serpi, o qualcosa del genere.
Ostinato come già altri erano stati prima di lui, Cope proseguì invece i propri studi in privato, in una competizione con Marsh – rispettato, perfettamente inserito nel mondo accademico, ottimamente finanziato – che si sarebbe risolta con la rovina economica, la decadenza sociale e fisica, e la follia.
Ma prima di arrivare alla shakespeariana scena della follia, sia Cope che Marsh puntarono i propri mirini sul Far West – dove altrimenti trovare fossili di dinosauro nel continente nordamericano?
L’est era caratterizzato da sedimenti quaternari zeppi di mastodonti e cervi, dominio incontrastato di Joe Leidy, ma non presentava condizioni tali per cui dei resti più antichi avrebbero potuto conservarsi. L’Ovest inesplorato, invece pareva piuttosto promettente.
Frattanto, proprio nel 1869, un gruppo di operai incaricati di scavare un pozzo nei pressi di Cardiff, New York, rinvennero i “resti fossilizzati” di un uomo dalle proporzioni gigantesche – era alto almeno tre metri, con dei grossi piedoni, e le braccia incrociate sul petto.
La cosa fece non poco scalpore, e mentre i curiosi si affrettavano a Cardiff per pagare 50 centesimi e vedere il prodigio, archeologi, paleontologi e studiosi della Bibbia si accapigliarono discutendo animatamente l’ipotetica autenticità di quella che, anche all’occhio meno allenato, pareva proprio una scultura fatta ad arte.
Ed era infatti così – un certo George Hull, fabbricante di sigari ed ateo convinto, prendendo lo spunto dalla Bibbia,
C'erano i giganti sulla terra a quei tempi – e anche dopo – quando i figli di Dio si univano alle figlie degli uomini e queste partorivano loro dei figli: sono questi gli eroi dell'antichità, uomini famosi.
[Genesi, 6:4]
aveva speso l’anno precedente 2600 dollari per fare scolpire la statua, che poi aveva seppellito nel terreno di un amico, suo complice.
L’idea era, almeno apparentemente, quella di farsi due risate alle spalle dei bigotti, ed intanto rifarsi della spesa non indifferente proprio vendendo i biglietti ai curiosi. Ed in effetti, l’astuto imbroglione raggranellò con questa trovata attorno ai trentamila dollari di allora – una bella cifretta, per l’epoca.
P.T. Barnum – l’uomo che inventò il circo e portò Bufalo Bill e i pellirosse in Europa per la delizia del pubblico – decise che il Gigante di Cardiff era esattamente il tipo di attrazione che avrebbe potuto impreziosire i suoi spettacoli – e quando Hull decise di non vendere, Barnum (evidentemente un cartesiano puro quando si trattava di affari) non esitò a farsi scolpire il proprio, di Gigante, che poi espose avanti e indietro per gli Stati Uniti, affermando si trattasse dell’originale e ricavandone un guadagno non indifferente.
Della cosa avrebbe poi approfittato Mark Twain, con una velenosa storia nella quale il narratore si trova a confrontare lo spettro del Gigante, in piena crisi di identità (è quello di Hull o quello di Barnum? E’ vero o è falso?)
Se Hull era animato solo da un predace spirito imprenditoriale, accoppiato ad una laica irriverenza, non mancarono coloro che diedero al Gigante un valore strettamente ideologico.
I fondamentalisti cristiani, in particolare, lo sbandierarono come una prova della verità letterale della Bibbia, testimonianza dell’epoca in cui i giganti avevano camminato sulla terra per poi essere intrappolati nella roccia dalla furia divina; alla faccia di tutto ciò che gli scienziati stavano cominciando a sostenere sull’età del nostro pianeta, l'evoluzione e tutto quel genere di cose.
Non pochi giornali cavalcarono l’onda popolare, e fra questi il New York Herald, una strana macchina per la produzione di notizie ed introiti della quale parleremo a breve, ad abundantia.
Quando i paleontologi passarono alla riscossa rivelando il palese falso (era una statua scolpita nel gesso, dopotutto), non mancarono di calcare la mano con la stampa, colpevole di approfittare della credulità popolare quanto e forse più di Hull, Barnum e compagni.
L’autore degli attacchi più feroci e taglientemente ironici fu un il promettente astro nascente della paleontologia americana, Othniel Marsh ­ e l’Herald, uno dei quotidiani più in vista dell’epoca, fu un prima fila per prendersi una bella strapazzata.
Quattro anni dopo, nel 1873, l’anno in cui Jules Verne pubblicava – come sempre per i tipi di Hertzel ­ Il Giro del Mondo in Ottanta Giorni, lo scontro decisivo si scatenò nell’area di Como Bluff, in Wyoming; in un paesaggio brullo e lunare, le squadre di scavatori di Cope e di Marsh si affrontarono in una gara di velocità nella ricerca e nello scavo che degenerò ben presto nel boicottaggio reciproco, nell’occasionale pistolettata, nella rissa da vecchio film di John Wayne; affioramenti vennero sommariamente saccheggiati e poi distrutti con la dinamite per negarne l’accesso agli avversari; in una occasione il team di Marsh montò falsi fossili (mescolando ossa più o meno a caso) per trarre in inganno il team di Cope.
Cope dal canto suo non esitò a mettere spie alle calcagna degli uomini di Marsh, ed un paio di volte si recò di soppiatto nei laboratori/magazzini del collega per ficcanasare. Scese pure a patti con i Corvi, belligerante tribù indiana presso la quale era noto come “Denti magici” per il suo potere di sfilarsi la dentiera.
Nella corsa all’ampliamento dell’area di scavo, Marsh non mancò di coinvolgere il gran capo Nuvola Rossa, e violare il trattato con i pellirosse, a rischio di scatenare una nuova guerra indiana.
Nuvola Rossa, dal canto suo, da abile politico approfittò dell’opportunità per mettere in imbarazzo il governo americano e dimostrare quanto poco fondata fosse l’immagine di selvaggi privi di sofisticazione che si appiccicava ingiustamente al suo popolo – lo vediamo ritratto in una foto con Marsh, entrambi impettiti in abito da cerimonia.
Dall’episodio, Marsh imparò a presentarsi sulla stampa nazionale come impavido cacciatore di dinosauri, pronto a sfidare il deserto ed i selvaggi per amore della scienza. In quest’impresa egli era attorniato da studenti volenterosi e un po’ imbranati, spesso oggetto di aneddoti tanto divertenti per il lettore quanto umilianti per le persone coinvolte – come il brano in cui Marsh descrive divertito i suoi “damerini di città” costretti a rifugiarsi in mutande in mezzo al corso di un torrente per sfuggire ad “un semplice serpentello a sonagli”.
L’articolo venne pubblicato con tanto di illustrazione, gli studenti in mutandoni con l'acqua al polpaccio, ed un serpentello che li minaccia dalla riva, salvo poi essere messo in fuga da un ridanciano Othniel Marsh che pare un Babbo Natale cattivo al campeggio.
Peccato che molto spesso Marsh non fosse neppure sul terreno, e si limitasse a pagare (coi fondi dell’Università prima e del Servizio Geologico poi) degli scagnozzi residenti nell’area, solo vagamente ammaestrati nell’arte dell’escavazione di fossili, affinché gli spedissero i resti direttamente a Washington ed intanto ostacolassero i mercenari prezzolati di Cope.
La più famosa foto di Marsh, che lo ritrae con la sua squadra di agguerriti cacciatori di rettili estinti, armati fino ai denti, è in effetti un falso clamoroso, scattata in studio con un cast di comparse assoldate all'uopo.
D'altro canto, è giusto osservare come Marsh fu sempre estremamente rispettoso dei suoi collaboratori nativi americani – molto più rispettoso delle loro opinioni e della loro cultura di quanto non fosse rispettoso dell'amor proprio e dell'incolumità dei propri studenti. Cope, dal canto suo, non definì mai i pellirosse come qualcosa di più che “selvaggi”.
Sia Nuvola Rossa che i Crow dimostrarono, secondo alcuni, di considerare Marsh e Cope come eccentrici buoni a nulla, a caccia d'ossa inutili di animali scomparsi da tempo – se volevano i fossili che se li prendessero.
Oltretutto, portavano male.
La storia avrebbe dimostrato il fondamento di quelle superstizioni.
Una volta a casa (si fa per dire), fra decine e decine di tonnellate di resti fossili, fu lo scatenarsi di una gara di velocità per pubblicare i dati raccolti sul terreno, identificare nuove specie (spesso commettendo clamorosi errori di nomenclatura e dovendo poi pubblicare affrettate correzioni), screditare l’avversario con accuse di furto, spionaggio, malversazione.
Con Marsh che poteva attingere alle casse del neonato Servizio Geologico americano, non ci fu mai una vera possibilità per Cope, che finì con l’indebitarsi per acquistare fossili, e nel raccogliere un ossessivo dossier su tutte le cattive pratiche e le scorciatoie prese dal rivale. In capo a pochi anni, Cope scomparve virtualmente dalla storia, col solo conforto dell'amicizia di alcuni colleghi, fra i quali un suo giovane studente con la passione per i primati (nel senso delle grandi scimmie), Henry Fairfield Osborn.
Con l'avvicinarsi del nuovo secolo, la Grande Guerra delle Ossa pareva conclusa una volta per sempre, e destinata all'oblio al quale molto volentieri l'avrebbero consegnata i membri della comunità scientifica, una nota a piè pagina della storia della paleontologia.
Se non fosse stato ancora una volta, indirettamente, per Giulio Verne.
Regolamenti di Conti
Nel 1989, l’attore inglese Michael Palin, fino a quel punto famoso come membro dei Monty Python (è quello che interpreta, fra gli altri, il bleso Ponzio Pilato in Brian di Nazareth), partì dal Pall Mall Club di Londra per tentare il giro del mondo in 80 giorni, ripetendo esattamente le tappe descritte dal libro di Jules Verne.
Dall’esperienza, piuttosto faticosa ma conclusa con successo, Palin ricavò una serie televisiva, un libro ad essa abbinato che entrò nella classifica dei best­seller ed un’idea che avrebbe ripetuto numerose volte (attraversando il Sahara a piedi, percorrendo un meridiano da polo a polo, mettendosi sulle tracce di Ernest Hemingway, esplorando il paesaggio Himalayano e così via), costruendosi una carriera parallela come esploratore televisivo e divulgatore. Non male, considerando che non si trattava neppure di un’idea originale.
Il romanzo di Verne era stato pubblicato, come abbiamo visto, proprio nel 1873, parte della serie dei Viaggi Straordinari che avevano fatto la fortuna dell’autore.
Nell’edizione inglese il romanzo venne decurtato di tutta una serie di osservazioni poco piacevoli sulla politica coloniale britannica, ma nessuno ne notò l'assenza.
Il Giro del Mondo venne più volte adattato per lo schermo, in particolare in una produzione sontuosa e colossale del 1956, interpretata da David Niven; il film che coniò l'espressione “cameo” per indicare la partecipazione en­passant di una star famosa (43 artisti – da Frank Sinatra a Fernandel a sir John Gielgud a Marlene Dietrich fecero una comparsata) la pellicola si conquistò un posto d'onore nel Guinnes dei primati con il maggior numero di animali mai impiegati in una pellicola, il maggior numero di costumi mai realizzati per una singola produzione (34.685) il maggior numero di comparse mai ingaggiate (68.894 persone) e ben 140 set. Seguirono un paio di serie televisive (una con Pierce Brosnan da giovane), un secondo film (interpretato da Jackie Chan) e numerosi adattamenti a cartoni animati. E molto prima del pur simpatico Michael Palin, qualcun altro aveva pensato di emulare il protagonista del romanzo, lanciandosi in una corsa contro il tempo attorno al globo.
Molto prima: esattamente cento anni prima di Michael Palin, nel 1889, la venticinquenne americana Nellie Bly, con la sola compagnia di una scimmietta e di un pappagallo, si era infatti imbarcata ad Hoboken, New Jersey (che, ammettiamolo, suona un po’ meno romantico del Pall Mall Club di Londra) per farvi ritorno circa settantadue giorni dopo, avendo completato il giro del mondo e migliorato il record di Phineas Fogg.
Nellie Bly (nata Elizabeth Jane Cochran, 1864­1922) lavorava per il New York World, quotidiano di proprietà di Joseph Pulitzer, che quotidianamente (appunto) aveva provveduto a pubblicarne i resoconti di viaggio.
L’impresa era stata finanziata quasi interamente dal New York World, ultimo arrivato sul mercato rampante dei quotidiani newyorkesi, ma Nellie Bly poteva anche contare su una quantità di sponsorizzazioni – da un noto grande magazzino, che aveva fornito il suo abito da viaggio a scacchi con cappellino coordinato “alla Nellie Bly”, alle varie industrie (dai produttori di cibi in scatola alle farmacie) che sponsorizzavano le figurine della serie "Nellie Bly Intorno al Mondo in 80 Giorni", molto popolari fra i lettori di tutte le età.
Personaggio chiave nella storia del movimento suffragista per la parità politica e sociale fra i sessi, ma anche elemento cardine per comprendere il fenomeno tutto americano dell’infotainment, Nellie Bly aveva compiuto in effetti imprese più giornalisticamente dignitose – culminate con il suo internamento, nel 1888, in un manicomio femminile, per poterne esporre dall’interno gli orrori ed i soprusi; avrebbe chiuso la propria carriera sposando un ricco imprenditore, e subentrando dopo la morte di questi alla guida dell’azienda di famiglia.
Una donna piena di risorse, Nellie Bly.
Il giro del mondo, d’altra parte, per quanto “facile”, fece di lei una leggenda.
E fece infuriare James Gordon Bennett, Jr.
Definito “uno spiacevole sociopatico” anche dal suo biografo ufficiale, James Gordon Bennet, Jr., aveva ereditato nel 1841 il New York Herald dal padre, James Gordon Bennet, Sr., seguendone e radicalizzandone la politica. Rispettato quotidiano populista e conservatore sotto la guida paterna, l’Herald di Bennett Jr. era descritto come una sorta di galea sulla quale i giornalisti erano incatenati ai banchi dei rematori, ed il proprietario batteva il ritmo delle vogate sul tamburo. Alcune delle imposizioni dell’editore sono oggidì impensabili: i giornalisti che lavoravano per Bennett, ad esempio, non avevano diritto alla firma dei propri articoli. E l’unico nome che apparisse sul giornale, alla voce “Proprietario”, era proprio quello di J.G. Bennett. Per gli appassionati di fumetti, Bennet è caricaturato/celebrato nella figura dell’autocratico J.J. Jameson, direttore del Daily Buggle per il quale lavora, angariatissimo fotografo freelance, il povero Peter Parker (alias l’Uomo Ragno). Ma la caricatura non regge il confronto con l’originale – anche perché alcuni dei tratti più distintivi di Bennett, come vedremo, non potrebbero essere pubblicati in un fumetto.
Capriccioso, mentalmente instabile, pericolosamente dedito all’alcool, J.G. Bennett Jr. , nelle notti d’inverno, era solito porsi alla guida della propria carrozza e, “seriamente inebriato”, percorrere al galoppo la Quinta strada a Manhattan, nudo come un verme, in piedi a cassetta, frustando i cavalli come un ossesso ed ululando alla luna.
Un altro suo passatempo consisteva nel pedalare infiniti giri di bicicletta attorno al palazzo dell’Herald, afferrando al volo bicchieri di brandy che un cameriere in posizione strategica doveva rifornire ad ogni nuovo, sempre più erratico giro. Queste incontinenze, oltre al fatto di aver utilizzato come orinatoio a parete il caminetto del salone delle feste della casa dei suoi futuri suoceri la sera della festa del fidanzamento (era già arrivato ubriaco), facevano di Bennett un personaggio rischioso e mal visto in società.
“Matto, cattivo e pericoloso da conoscere”, e senza nessuno dei tratti positivi di Lord Byron, ma con un’eccellente comprensione istintiva per ciò che il pubblico desiderava: nel 1869, lo stesso anno in cui i paleontologi avevano (metaforicamente) sculacciato Bennett in pubblico per aver sostenuto l’autenticità del ridicolo Gigante di Cardiff, l’Herald aveva finanziato la spedizione di Henry Morton Stanley alla ricerca del Dottor David Livingstone, da tempo scomparso in Africa.
Stanley avrebbe successivamente accettato l'incarico da parte di re Leopoldo del Belgio per negoziare l'acquisizione del Congo – intersecando con la propria traiettoria la carriera di Arthur Conan Doyle, come vedremo più avanti.
La pubblicazione dei diari di Stanley – culminanti in quella che proprio Michael Palin avrebbe definito un secolo più tardi “la frase più banale dell’epica vittoriana” ­ aveva deliziato il pubblico dell’Herald, e Bennet aveva continuato ad intrattenere i propri lettori con imprese avventurose in luoghi esotici – arrivando nel 1879 a finanziare la spedizione di G.W. De Long nell’artico, alla ricerca del Passaggio a Nord Ovest ­ Lo stesso che un secolo prima, per ordine di Jefferson, avevano cercato invano Lewis & Clarke. De Long e tutto l’equipaggio della sua nave, la Jeanette, scomparvero e non vennero mai più ritrovati.
Ora, nel 1889, il successo di Nellie Bly e del rivale World era esattamente la cosa che un personaggio instabile come Bennett poteva prendere come un attacco personale. Ed il calo di vendite era comunque reale.
L’editore si mise quindi alla ricerca di qualcosa, qualcosa di grosso e impressionante, che gli permettesse di tornare al comando nella corsa.
In risposta alle preghiere di Bennet, si fece dunque avanti un certo William H. Ballou, un anonimo pennivendolo che si era inventato una distinta (ed assolutamente falsa) carriera come divulgatore scientifico. Ciò che Ballou offriva a Bennet andava oltre le più selvagge aspettative di quest’ultimo.
Non solo si trattava dell’opportunità di spazzar via Nellie Bly ed il suo viaggio intorno al mondo, mettendo in piazza una storia di malaffare e corruzione, ma anche di “fare la festa” proprio al professor Othniel Marsh, reo di aver insultato personalmente Bennett (o così lui pensava) durante l’affare del Gigante di Cardiff.
Ciò che Ballou offriva era nientemeno che La Grande Guerra delle Ossa, nella sua fase più esacerbata, artificiosa, inutile e velenosa.
Dati aggiustati, dati falsificati, dati addomesticati.
Accuse di furto.
Accuse di corruzione ed uso a scopo privato di fondi pubblici.
Per decenni, progressivamente sempre più frustrato e infelice, e paranoico, Edward Drinker Cope aveva documentato ogni irregolarità commessa di Othniel Marsh – e molte altre, anche solo presunte, o ipotetiche.
E fu proprio una versione del dossier di Cope che arrivò sulla scrivania di Gordon Bennett nel 1889.
I mesi che seguirono rappresentano uno dei momenti più tristi della storia della paleontologia, ma intrattennero il pubblico dell’Herald con il sempre popolare spettacolo degli scienziati che si accapigliano. Agli articoli seguirono le repliche degli interessati, e le controrepliche.
Lettere infuocate.
Insulti.
Accuse di sottrazione di dati e di campioni.
Pur ammettendo che Edward Cope si potesse trovare su un terreno di superiorità morale rispetto all'avversario – se non altro per il modo in cui Marsh aveva sabotato la sua carriera ed intralciato le sue ricerche ­ il sostegno fornitogli da Bennett finì per comprometterne ulteriormente la credibilità.
L'etilico editore e il suo giornale affamato di scandali non erano gli alleati più opportuni da avere al proprio fianco nell'arena accademica. L'Herald, d'altra parte, era ben deciso a sfruttare l'occasione per rimettere al suo posto tutta la genia degli scienziati, rappresentati tout court come palloni gonfiati truffaldini e meschini, per la delizia di una platea di lettori non esageratamente sofisticati.
La comunità scientifica pensò bene di prendere le distanze.
Poi, la vecchiaia: Cope, brillante e in anticipo sui tempi ma troppo vanitoso, morì solo e poco considerato, potendo contare solo sull’appoggio del giovane Henry Fairfield Osborn, suo ex studente e futuro direttore del Museo di Storia Naturale di New York.
Marsh, autentico pescecane del mondo accademico, ora deriso dal Punch che lo rappresentò – per il colmo dell’ironia storica – come un Barnum della scienza, passò comunque alla storia come il più grande paleontologo americano, e lo scopritore di quel dinosauro che per quasi un secolo avrebbe rappresentato (nell’opinione di Theodore Roosevelt) “la potenza e la tenacia dello spirito americano” – il brontosauro, il più grande dinosauro mai esistito.
Nel 1914, il brontosauro scoperto da Marsh divenne il protagonista di un cartone animato, ad opera di Winsor McCay, fumettista famoso per il surreale "Little Nemo in Slumberland", cronaca delle avventure oniriche di un bambino curioso, a metà strada fra Lewis Carroll e Giulio Verne, pietra miliare nella storia del fumetto.
Secondo la leggenda, McCay ebbe modo di visitare la collezione di dinosauri di Marsh conservata al museo di Storia Naturale di Chicago in seguito ad un incidente stradale – aveva un paio d'ore da trascorrere in attesa che gli venisse cambiata una gomma forata.
La visita ispirò a McCay l'idea di una storia che avesse per protagonista un simpatico brontosauro.
Gertie the Dinosaur debuttò nel 1914.
McCay e il suo assistente John A. Fitzsimmons (responsabile dei fondali) crearono 10.000 disegni, inchiostrati su carta di riso e successivamente montati su cartoncino. Negli anni successivi, gli animatori avrebbero imparato a lavorare con fondali fissi, comprendenti tutti gli elementi statici dell'immagine, sui quali sovrapporre un foglio di celluloide con le parti in movimento, riducendo così drasticamente il lavoro, i tempi ed i costi.
Ma McCay non aveva precedenti ­ stava effettivamente inventando un nuovo genere di cinematografia – e perciò scelse di ridisegnare ogni fotogramma del breve film come se fosse una vignetta in un fumetto statico.
Il risultato è impressionante – dopo un'introduzione filmata che ribadisce e rafforza la leggenda della genesi del film al quale stiamo assistendo, McCay come un prestigiatore evoca il brontosauro Gertie su un blocco da disegno. Il dinosauro, dapprima timido, esegue alcuni semplici esercizi, sbocconcella un boschetto, si mangia un uccellaccio (o è uno pterodattilo?) ed un mammuth, si abbevera ad un laghetto, prosciugandolo.
Poi cortesemente si congeda si congeda e si ritira.
Certo non si tratta di Akira o di Jurassic Park, ma gran parte dell'iconografia appare ben delineata nei pochi minuti di Gertie – il panorama brullo e privo di vegetazione (anche a causa dell'appetito del rettile), il dinosauro voracissimo un po' impacciato e lento – come vuole la concezione più popolare – che tuttavia riesce ad eseguire semplici giochetti.
Con un profilo da brontosauro “da manuale”, Gertie è bianca come lo sfondo e come il terreno – il film è monocromatico (vista l'età), ma McCay non si pone il problema di quale sia il colore del suo rettile ammaestrato.
Nessuno si pone, a questo punto della storia, quel genere di problema, in effetti – neanche i paleontologi.
Quello del colore della pelle dei dinosauri è un problema ancora di là da venire.
Allo stato attuale, il dinosauro di McCay è quasi l'idea platonica di brontosauro – rappresenta lo stato delle conoscenze ed ignora ciò che la scienza non ha ancora preso in considerazione.
L'impatto di Gertie the Dinosaur fu tale, che a riguardo si è tramandata una significativa leggenda, secondo la quale si tratterebbe del primo cartone animato della storia. Per quanto suggestiva, l'informazione è errata – lo stesso McCay aveva già prodotto due cartoni animati, Little Nemo (1911) e How a Mosquito Operates (1912), ed esistono vari esempi precedenti. Ma Gertie fu tutta un'altra cosa.
L’America, già cresciuta ad ossa e resti di mastodonte e mammuth, è ormai in preda alla “dinomania” – i dinosauri vengono usati in pubblicità (dalla nascente industria petrolifera) ed editoria, e a tal punto è infiammata l’immaginazione popolare che la maggior parte degli incontri con creature venute dallo spazio di testimoni oculari isterici fra fine ‘800 e primi del ‘900 descrivono uomini­rettile (che solo dagli anni ’50 del 20° secolo saranno rimpiazzati dai “grigi” nell’immaginario popolare).
In questi stessi anni, Conan Doyle comincia a pensare ad un modo per mettere definitivamente in pensione Sherlock Holmes e rimpiazzarlo.
E col nuovo secolo, si avvicina la consacrazione di Marsh ad icona letteraria appena mascherata da uno pseudonimo.
Il Mondo Perduto, vede la luce nel 1912. Il Ritorno dell'Iguanodonte
La radura degli iguanodonti era la scena di una orrenda carneficina.
[…] Esaminando più da vicino i resti scoprimmo che tutto questo macello era il prodotto di uno solo di quei goffi mostri, che era stato letteralmente fatto a pezzi da una qualche creatura forse non più grande, ma certo molto più feroce.
[…]”Il nostro giudizio deve restare ancora in sospeso,” disse il professor Challenger […] “Tutti gli indizi sembrerebbero consistenti con la presenza di una tigre dai denti a sciabola, come quelle che si trovano ancora nelle brecce delle nostre caverne; ma la creatura che abbiamo visto era certamente più grande, e di carattere più rettiliano. Personalmente, io direi un allosauro.”
“O un megalosauro,” disse Summerlee.
“Esattamente. Qualsiasi dinosauro carnivoro soddisferebbe le condizioni. Fra di essi si trovano tutti i più terribili esempi di vita animale che abbiano mai maledetto la terra o benedetto un museo.”
[Arthur Conan Doyle, Il Mondo Perduto (1910)]
Conan Doyle, un uomo “le cui doti intellettuali si avvicinavano di più a quelle di Watson che non a quelle di Sherlock Holmes” (per dirla con J.K. Chesterton), e che comparirà a più riprese nella nostra storia, creò il professor Challenger in un inutile tentativo di evasione dal popolare personaggio che lo aveva intrappolato.
Le velleità di Conan Doyle quale serio autore di romanzi storici e di epigono di Walter Scott erano infatti regolarmente frustrate dal successo del “popolare” Sherlock Holmes, il quale oltre a “distrarre il pubblico” dai legnosissimi romanzi storici di Conan Doyle, relegava pure il proprio autore alla penombra ed un ruolo secondario; i fan, dopotutto, le lettere le indirizzavano a Holmes, non a Conan Doyle!
E se uccidere Holmes nel 1893 non aveva funzionato, forse rimpiazzarlo con un eroe altrettanto cerebrale, attivo nel genere emergente dello scientific romance reso popolare da Verne e Wells, e mirato ad un pubblico giovanile, avrebbe sortito l’effetto desiderato.
La vicenda è narrata da Edward Malone, giornalista del Daily Gazette, che si trova coinvolto con il burbero e grossolano professore George Challenger, noto zoologo e scienziato.
Challenger ha qualche anno prima visitato un altopiano in Sud America, trovandovi resti di vita preistorica, e giungendo alla conclusione di avere trovato una terra ancora abitata da animali del Giurassico. Sbeffeggiato dai colleghi (ha perduto tutte le prove – incluso uno pterodattilo!) Challenger si propone dunque di partire per una seconda spedizione verso il Sud America, cui prenderanno parte (assieme allo stesso Challenger) il suo rivale accademico, il professor Summerlee, il baronetto e cacciatore John Roxton e lo stesso Malone.
Giunti sull’altopiano (battezzato Terra di Maple White) i nostri eroi osservano animali preistorici quali l'iguanodonte e il tirannosauro, oltre ad incontrare una razza di uomini­scimmia ed una primitiva tribù di indios (che gli esploratori istruiranno su come massacrare gli uomini­
scimmia). Tornano infine in, con un altro pterodattilo vivo come prova di ciò che hanno scoperto.
Il romanzo deve più all’opera di Sir Henry Rider Haggard, autore di best­
seller su popoli e città perdute (Le Miniere di Re Salomone, 1886, e Lei, 1887) che non alle accurate fantasie scientifiche di Verne.
E se con Sherlock Holmes è uno strenuo propugnatore della logica deduttiva, nelle storie di Challenger Conan Doyle rimane più apertamente pessimista riguardo agli effetti generali del progresso scientifico.
Come spesso accade, i personaggi del romanzo sono stati modellati da Conan Doyle sull’impronta di personaggi reali, e secondo quanto lo stesso Doyle affermò a suo tempo, il Professor Challenger sarebbe basato su William Rutherford, mentre il Professor Summerlee è in parte delineato sui tratti di Sir Robert Christison.
Esiste però una seconda fonte di ispirazione, che pare sia stata trascurata dai biografi.
Uscite successive aggiungeranno sfaccettature al personaggio, ma alla sua prima comparsa, ne Il Mondo Perduto, il professor Challenger, massiccio, brutale, barbuto e insopportabile, dotato di un umorismo greve e distorto, è la trasposizione fedele e accurata (e neppure troppo lusinghiera, tutto considerato) del professor Othniel Marsh.
Marsh fu – come vedremo ­ un paleontologo brillante, se affrettato, ma fu anche e soprattutto (come Owen prima di lui) un abile manipolatore dei media. Ciò che Conan Doyle acquisisce e perpetua col proprio romanzo, rendendola universalmente popolare è, almeno in parte, una mistificazione.
Difficilmente Conan Doyle poteva essere all’oscuro dello scontro fra i due paleontologi americani; non solo questo aveva avuto – come vedremo fra poco ­ ampia eco sulla stampa (due scienziati che si accapigliano fanno sempre notizia), ma l’autore di Sherlock Holmes aveva numerosi contatti con la comunità paleontofila britannica, che avrebbero portato, pochi anni dopo, al suo coinvolgimento nella faccenda dell’Uomo di Piltdown .
Nella campagna inglese, piovosa e ammantata di brume, nella regione del Sussex (proprio dove aveva scorrazzato felice Gideon Mantel), a ridosso della Prima Guerra Mondiale, nel 1912, un gentiluomo di nome Charles Dawson, paleontologo dilettante, ritrovò i resti di quello che, dal nome della località, prese il nome di Uomo di Piltdown.
Negli scavi successivi, Dawson coinvolse pure un suo vecchio amico, Sir Arthur Smith Woodward, curatore del Dipartimento di Storia Naturale del British Museum, un corrispondente francese, Padre Theillard de Chardin, successivamente portavoce di una poco ortodossa teoria teologico­evolutiva, ed infine un vicino di casa, Arthur Conan Doyle, di professione scrittore e appassionato di antichità, che proprio in quegli anni stava scrivendo il primo romanzo di Challenger, Il Mondo Perduto, nonché personaggio notoriamente incline a venire menato per il naso da astuti ciarlatani.
Nel caso dell’Uomo di Piltdown, per lo meno, Conan Doyle non fu l’unico.
Perché solo quarant’anni dopo si sarebbe scoperto che si trattava di un’ardito accoppiamento di cranio di ominide e mascella di gorilla, e nel frattempo la stampa specializzata e non avrebbe strombazzato ai quattro venti la scoperta del secolo.
Fasullo fino all’inverosimile (per la nostra epoca abituata alle datazioni al radiocarbonio), l’Uomo di Piltdown svolgeva due importanti funzioni.
In primo luogo si trattava del primo ritrovamento di resti di ominidi nelle isole britanniche. Ne avevano trovati dappertutto, in Germania (Neanderthal, 1856), in Francia (Cro Magnon, 1869), persino a Giava (l’Uomo di Giava, 1890) ed in Cina (Uomo di Pechino, 1903), e se ogni passo di questa strada sembrava confermare le teorie esposte da Darwin nel suo The Descent of Man (1871), la Gran Bretagna restava spiacevolmente, imbarazzantemente priva di ominidi.
Inammissibile.
Con l’Uomo di Piltdown, l’orgoglio britannico era salvo.
Mentre salvava l'orgoglio nazionale della più importante potenza occidentale, l’Uomo di Piltdown svolgeva perfettamente era quello per il quale era stato progettato da Dawson e Woodward (e probabilmente de Chardin), quando avevano originariamente mescolato e sepolto quelle ossa variegate – l’Uomo di Piltdown era l’Anello Mancante, individuo dotato di tratti intermedi fra l’uomo (la calotta cranica ampia che testimoniava intelligenza e capacità verbali ed associative avanzate) e la scimmia (la mascella massiccia, primitiva, coi dentoni).
Oggi, mentre gli anatomisti funzionali possono guardare ai resti di Piltdown e scoppiare a ridere (come poteva avere un cervello adatto a parlare ed una mascella che ostacola l’eloquio?), sappiamo che l’Anello Mancante non esiste e non è mai esistito.
Tornando alla letteratura, non possiamo infine escludere che il personaggio di Challenger fosse, per Conan Doyle, una sorta di alter ego ideale, più borghesemente dignitoso e letterariamente gestibile di Holmes, più fermamente radicato nella realtà; e l'autore si fece ritrarre in alcune foto promozionali nei panni di Challenger. Con indosso il costume di Challenger e spacciandosi per un medico tedesco, Conan Doyle riuscì anche a farsi beffe di suo cognato, piombandogli a casa come ospite inatteso; scoprendo l'inganno, la vittima non esitò a buttare fuori di casa a calci lo spiritoso parente acquisito.
"Ci sono momenti, ragazzo mio, in cui ognuno di noi deve prendere una posizione precisa a favore dei diritti umani e della giustizia, o non ci si potrà mai più sentire puliti."
[Lord John Roxton, in The Lost World, Sir Arthur Conan Doyle]
Altre fonti di ispirazione per il romanzo vennero cooptate dalla realtà immediata – i personaggi di Edward Malone e Lord John Roxton vennero costruiti sul modello di Edmund Dene Morel e Roger Casement, fondatori della Congo Reform Association.
Morel e Casement avevano portato la situazione del popolo del Congo Belga al pubblico londinese, e Conan Doyle ne aveva ricavato il pamphlet "The Crime of the Congo", scritto in otto giorni sull'onda della furia suscitata dalle rivelazioni di Morel e Casement.
Su incarico del re del Belgio Leopoldo Secondo, l'esploratore e giornalista Henry Stanley (l'uomo che aveva ritrovato il dottor Livingstone) aveva negoziato, tra il 1879 ed il 1884, una serie di accordi con i capitribù del bacino del Congo, portandoli sotto la sfera di influenza delle autorità belghe. L'autorità belga venne ratificata nel 1885 e immediatamente venne messa in atto nell'area congolese – con un costo in termini di vite umane devastante.
Conan Doyle pubblicò il suo testo indignato, e proseguì l'attività contattando giornali e capi di stato nel tentativo di creare un fronte di indignazione popolare.
Ironicamente, durante la Grande Guerra, sia Morel che Casement vennero accusati di tradimento e processati – con l'illusione di perorare la causa dell'indipendenza irlandese, avevano cercato un accordo con le autorità tedesche per supportarne l'azione contro la Gran Bretagna.
Nel romanzo, Challenger, Summerlee e compagni esplorano un altopiano sudamericano sul quale la vita è rimasta in gran parte ferma al Mesozoico. Fra le molte meraviglie di cui sono testimoni, i nostri eroi si trovano pure al margine di uno scontro mortale fra un iguanodonte ed un carnivoro non meglio identificato.
In un magistrale esempio di economia drammatica, Conan Doyle si limita a descriverci gli effetti sonori dello scontro e le sue conseguenze. L’immagine delle due bestie avvinghiate, i lettori ormai la posseggono già, mutuata da cento anni di illustrazioni scientifiche.
Quando nel 1925 il cinema ci proporrà una versione filmica de Il Mondo Perduto, lo scontro fra titani sarà immancabile.
Il Mondo perduto non è solo il primo film proiettato su un aereo in volo, tra Londra e Parigi, nell’Aprile 1925.
Si tratta anche del primo film a fare uso di animazione in stop­motion: la lentezza postulata dai paleontologi ben si adatta all’animazione a passo uno degli effetti speciali del film – che è comunque tanto preciso da darci non solo una ricostruzione esatta dei dinosauri (con gli erbivori che ruminano!), ma anche nell’interpretazione di Wallace Beery, una rilettura fedelissima di Marsh in versione pulp.
baby even the losers,
keep a little bit of pride,
they get lucky sometimes
[Tom Petty]
E potrebbe anche finire così, no?
Una guerra dimenticata, una faida tra un prepotente e un insicuro, la vendetta di un personaggio seriamente deviato, e poi i media che si impossessano della storia e la trasformano in una leggenda.
Cope scompare.
Marsh trionfa, ma cade.
Ci fanno un film che ha uno strepitoso successo.
Ci si potrebbe addirittura appiccicare una bella morale.
E sopravvissuto ai due paleontologi, il Brontosauro, definito “il più americano dei dinosauri” nientemeno che da Teddy Roosevelt.
Usato come testimonial per la pubblicità di una nota compagnia petrolifera.
Nelle vesti di “Gertie the Dinosaur” il primo protagonista del primo cartone animato della storia.
Lo si vede ruminare contento ne “Il Mondo Perduto” del 1925.
Ma la storia non è finita, perché anche gli sconfitti, di quando in quando, hanno un momento di rivalsa.
Forse marginale.
Forse postuma.
Ma innegabile.
E così, nel 1983, alcuni studiosi che stavano risistemando le collezioni dello Smithsonian, scoprirono che Othniel Marsh aveva avuto troppa fretta nel montare i resti provenienti da Como Bluff.
Un problema classico di molti dei campioni raccolti da Cope e Marsh, in effetti.
Marsh aveva avuto troppa fretta di pubblicare una nuova specie – e ciò che era noto al mondo intero come il brontosauro risultò essere in effetti il mix di resti di diplodoco e apatosauro.
E chi ricorda la vicenda dell'elasmosauro di Cope e del professor Leidy non mancherà di notare l'ironia.
Per quanto mantenuto in circolazione dalla consuetudine, il Brontosauro non ha più alcun valore scientifico.
Il più americano dei dinosauri non esiste più.
Non è mai esistito.
Appendice – Cadillac e Dinosauri
Con buonapace di Quentin Tarantino, la narrativa “pulp” deve il proprio nome – lo si è ormai ripetuto fino alla noia – alle riviste popolari che sommersero le edicole statunitensi fra il 1901 ed il 1950; stampate su carta di bassissima qualità (pulp paper), con copertine sgargianti e titoli improbabili, specializzate nel fornire al pubblico un intrattenimento sensazionalistico ed avventuroso, generalmente disimpegnato, vendevano in media cinque milioni di copie la settimana.
La “pulp fiction” ci ha dato Chandler, Hammett, Lovecraft, Tennessee Williams ma, da un punto di vista contenutistico, è figlia di un solo uomo che, nel tentativo di sfuggire ad una monotona vita da imprenditore fallito e di mantenere la propria famiglia (moglie e tre figli), creò un nuovo genere letterario, divenne ricchissimo, e fondò una città in California.
Si chiamava Edgar Rice Burroughs, ed era un grande narratore.
"...se c'era gente pagata per scrivere porcherie come quelle che leggevo in alcune di quelle riviste [mi dissi] che io potevo scrivere storie altrettanto brutte. E in effetti, anche se non avevo mai scritto una storia, sapevo con assoluta certezza che sarei stato capace di scrivere storie altrettanto divertenti, e probabilmente molto più divertenti, di quelle che leggevo in quelle riviste. "
Edgar Rice Burroughs sulle motivazioni del suo esordio letterario
Nato nel 1875 a Chicago, aveva studiato in varie scuole prima di entrare in accademia militare, prima alla Phillips Academy di Andover e poi alla Michigan Military Academy. Fallito il tentativo di entrare a West Point nel 1895, aveva servito nel Settimo Cavalleria in Arizona, per due anni, prima che un problema cardiaco non lo spingesse a lasciare le armi.
Da civile, Burroughs lavorò come cowboy e manovale, fino ad entrare nell'azienda del padre, che lasciò comunque nel 1904 in cerca di stipendi ed opportunità migliori che tuttavia non si concretizzarono.
Quando pubblicò il suo primo romanzo, Under the Moons of Mars (1912 – lo stesso anno di Lost World e dell'uomo di Piltdown), introducendo al pubblico il personaggio di John Carter, Burroughs aveva alle spalle una decina d'anni di stipendi minimi e lavori precari, ed era impiegato come rappresentante di temperamatite.
Under the Moons of Mars gli fruttò 400 dollari, certo molto di più di quanto facesse a vendere temperamatite, e Burroughs capì di aver trovato la tranquillità finanziaria.
Nell'ottobre del 1912, diede alle stampe, a puntate, Tarzan of the Apes.
La città di Tarzana, sorta attorno al ranch che Burroughs acquistò in California coi proventi dei propri libri, conta oggi 16.000 abitanti.
Poco importa che Tarzan, la sua opera più famosa, plagi Il Libro della Giungla di Kipling (che apprezzò il complimento implicito e si dichiarò fan di Tarzan); Burroughs ci mette abbastanza del suo per fare della storia di Lord Greystoke un lavoro indipendente da quello di Kipling, un’opera forse meno letterariamente ispirata, ma certo altrettanto potente, ibrido del “buon selvaggio” di illuministica memoria e di certi strani turbamenti pseudo­darwiniani che avrebbero spazzato l’opinione pubblica americana per alcuni decenni; il tutto cucinato in una salsa avventurosa che in capo a pochi anni Burroughs avrebbe perfezionato trasformandola in uno stile ed in un metodo: inizio col botto, colpi di scena a raffica, capitoli che si chiudono con un momento da brivido. Linguaggio semplice, prosa scorrevole, nomi assolutamente orecchiabili e facili da ricordare.
Donne poco vestite, eroi leali ed indomabili, bestie feroci.
Burroughs aveva un buon occhio per ciò che interessava al pubblico: con Tarzan, a riguardo, si mise in aperto disaccordo con gli “esperti”, lanciando il proprio personaggio attraverso tutti i media disponibili – romanzi, strisce settimanali a fumetti, film, radiodrammi. Anziché la pericolosa e controproducente saturazione pronosticata dai tecnici, Burroughs creò un'icona culturale, e fece un sacco di soldi.
Il mercato abituale di Burroughs erano le riviste di avventura “Argosy” e “All­Stories”, ma fu “Blue Book”, uno dei precursori del “pulp”, a pubblicare nel 1918, in tre puntate, una storia di Burroughs zeppa di dinosauri e uomini primitivi, intitolata La Terra dimenticata dal Tempo.
Il romanzo narra le avventure di Bowen J. Tyler, passeggero americano di una nave affondata da un U­Boot, l'U­33, nel 1916. Preso il controllo del sottomarino grazie all'aiuto di altri naufraghi, Tyler si trova alla deriva nell'Atlantico Meridionale.
Ormai in acque antartiche, l'U­33 raggiunge un'isola misteriosa, forse la mitica Caprona segnalata dall'esploratore (immaginario) italiano Caproni nel 18° secolo. Caprona si rivelerà popolata di animali preistorici, il cui grado di evoluzione sembra variare per area geografica. Seguiranno incontri con popolazioni primitive, battaglie, inseguimenti, il rapimento della bella di turno, e un “gacio” per eventuali storie successive (due – People that Time Forgot e Out of Time's Abyss)
L’America, a ridosso del primo conflitto mondiale, era in preda alla dinomania, solleticata dall’edizione economica del romanzo di Conan Doyle e dall’esposizione di cui avevano goduto Cope e Marsh, e non era la prima volta che Burroughs flirtava con i dinosauri.
Nel 1914 il primo romanzo del ciclo di Pellucidar, ambientato in una Terra cava popolata di dinosauri assortiti e pterodattili partenogenetici, telepatici e malvagi, aveva permesso a Burroughs di diventare un romanziere a tempo pieno.
Probabilmente ispirato a Verne, il ciclo di Pellucidar si basava su una teoria che, se all’epoca stava già perdendo punti molto rapidamente, era ancora considerata accettabile da più parti, secondo la quale la Terra è costruita per gusci concentrici. Burroughs aveva per un breve periodo insegnato geologia (in un’accademia militare), traendone spunto per le proprie successive imprese letterarie.
In questo senso Pellucidar, mondo primitivo e vastissimo, popolato di tutte le creature primitive che possono servire all’autore per mantenere alta la tensione, è a tutti gli effetti un romanzo di fantascienza e “di attualità”, costruito (come i lavori di Verne) su un importante dibattito scientifico contemporaneo. In effetti, anche se solo il lavoro di Burroughs sopravvive oggi sugli scaffali dei librai, a cavallo del secolo comparvero non meno di dieci romanzi ambientati nella Terra Cava, opera di autori solitamente legati alla Teosofia.
“Contrariamente alle predizioni di George Orwell sugli effetti deleteri della narrativa popolare sulle giovani menti, da grande non sono diventato un fascista, un razzista o un massacratore casuale di animali e uomini per aver letto Burroughs. “
[Michael Moorcock, (2005)]
La Terra dimenticata dal Tempo, romanzo che vedrà la pubblicazione in volume unico solo nel 1924, appartiene comunque al “secondo periodo” burroughsiano, nel quale l’autore comincia a dedicare maggiore attenzione all’elemento scientifico delle sue storie, probabilmente in risposta alla nascita della science fiction pubblicata con successo da Hugo Gernsback.
Il luogo dell’azione, Caspak, isola nella quale l’evoluzione è ciclica, ma avviene con tempi storici anziché geologici, è più credibile e solida, come costruzione concettuale, del pur divertente Pellucidar, ed il romanzo è scritto infinitamente meglio; si tratta certo di una delle prove più interessanti di Burroughs, e mostra un indubbio coraggio nel trattare spassionatamente (ed in modo piuttosto divertente, tutto considerato) quelle teorie darwiniane che proprio in quegli stessi anni tante accalorate discussioni causavano negli Stati Uniti.
La copertina dell'edizione Ace ciu ripresenta il solito vecchio iguanodonte col corno sul naso, dato insolito, vista la tendenza generale: gli illustratori di Land that Time Forgot, da J. Allen St. John in poi, si sono sempre concentrati di più sul topless della protagonista femminile o sui confronti tecnologici (plesiosauro contro u­boot, pterodattilo contro idroplano), che non sul contenuto pseudo­paleontologico del romanzo e il grande Frank Frazetta (che fu anche un apprezzato illustratore scientifico) si costrui una carriera ed una leggenda con le donnine ed i dinosauri di Burroughs.
E da Burroughs e Frazetta discendono in fondo tutti i fumetti che hanno al loro nucleo dinosauri (Turok, curioso dino­western prodotto dagli anni ’50 da uno degli sceneggiatori di Bonanza) e donne avvenenti (Cave Girl e Xenozoic Tales/Cadillacs & Dinosaurs fra gli esempi più dignitosi e purtroppo meno noti).
“La bestia è così grande, e l’organizzazione del suo sistema nervoso di così basso livello, che ci è voluto tutto questo tempo perché l’informazione relativa alla sua morte raggiungesse il suo cervello minuscolo. La bestia è morta quando le vostre pallottole l’hanno colpita; ma non se ne è resa conto per parecchi secondi – forse un minuto. Se non sbaglio si tratta di un allosauro del Giurassico Superiore, i resti del quale vennero rinvenuti nel Wyoming Centrale, alla periferia di New York.”
[Edgar Rice Burroughs, La Terra dimenticata dal Tempo (1918)]
Ci sono forse iguanodonti nel romanzo di Burroughs?
Probabilmente no. In verità, un protagonista del romanzo assiste, durante le proprie esplorazioni dell’isola misteriosa, ad uno scontro fra due lucertole giganti, ma l’illustrazione di Williamson & Crandall per la scena, nella ristampa Ace degli anni’70, è paleontologicamente priva di significato – i due mostri sembrano più imparentati con serpenti che con dinosauri.
Eppure, quasi contemporaneamente, nel 1971 La Terra dimenticata dal Tempo di Burroughs compare per la prima volta in Giappone, pubblicata in tre volumi dall’editore Hakayama (che approfitta probabilmente del fatto che sono scaduti i diritti d’autore).
La copertina del secondo tomo, Il popolo dimenticato dal tempo, di Kazuaki Saito, è significativa: abbarbicati ad un picco a strapiombo sul mare, quasi un faraglione preistorico, un eroe (opportunamente tarzaniano) e la sua compagna dalle chiome al vento osservano lo scontro che si svolge sotto di loro.
Nell’acqua, un iguanodonte (è proprio lui, con il corno da rinoceronte e tutto il resto) è stretto nelle spire di un serpente marino che pare strettamente imparentato con il plesiosauro di Verne e Riou; mentre il plesiosauro (?) si avventa con le fauci zannute alla gola dell’iguanodonte, questo si volta e, con un movimento che abbiamo già visto in Martin e in Figuier e in Riou, si lancia a sua volta contro l’aggressore.
Sono passati centotrentacinque anni, e siamo molto distanti dalla campagna del Sussex nella quale il dottor Mantell e signora scorrazzavano col calesse.
Non solo, ma il progredire delle conoscenza ha radicalmente trasformato in questi anni l’immagine che Mantell, Owen ed i loro contemporanei avevano dell’Iguanodon: non più una specie di cane/rinoceronte con una estesa voglia di lucertola, ma ormai riconosciuto come un sauro bipede, vistosamente privo del corno sul naso (che si è scoperto essere l’artiglio del pollice).
E se i cinici possono affermare che l’iguanodonte di Kazuaki Saito è più imparentato con Godzilla che con Gideon Mantell, è indubbio che l’aspetto generale del rettile sia in questo caso molto più vicino alla realtà scientifica di quanto non fosse nelle illustrazioni precedenti; l’artista tuttavia non ha potuto esimersi dall’inserire alcuni dettagli sbagliati ma iconici (il corno, la cresta frastagliata sulla schiena), e dal replicare una situazione che, nella sua semplicità, riassume l’ostilità e l’alienità di un intero mondo, e che è parte del bagaglio culturale dei lettori.
E poi perché disprezzare Godzilla?
Lucertola mutata e risvegliata dai test atomici, attratta dall’inquinatissima baia di Tokyo e votata alla distruzione ed al caos, Godzilla ha fra i suoi ispiratori anche un personagio dalle credenziali scientifiche ineccepibili.
Fu la lettura del più famoso libro di Rachel Carson, quel Silent Spring che denunciava i pericoli dell’inquinamento (e del DDT in particolare), e costò all’autrice accuse di allarmismo e di “sabotaggio dello spirito imprenditoriale statunitense”, che ispirò gli sceneggiatori della Toho nel creare e delineare il campo di attività della più famosa lucertola di gommapiuma della storia del cinema. Il mostro come metafora dell’inquinamento e degli esperimenti umani sfuggiti al controllo.
Il fantastico ha spesso goduto di queste curiose impollinazioni incrociate.
Come quando nel 1933 la RKO chiese a due documentaristi di filmare “una bella storia romantica”, e quelli filmarono King Kong – ambientato su un’isola dimenticata dal tempo (echi di Conan Doyle e Burroughs) e nel quale il gorilla mostra per la prima volta tutta la propria vitalità selvaggia combattendo con un dinosauro (che, sì, caro lettore, si volta di scatto e tira ad azzannarlo).
E nel 1960 Irwin Allen, un documentarista specializzato in film naturalistici dirigerà una nuova versione de “Il Mondo Perduto” di Conan Doyle; quattro anni prima, Allen si è per così dire “fatto le ossa” con The Animal World, documentario “alla Disney” sulla vita animale nel presente e nel passato; i dinosauri sono animati dal team di Ray Harryhousen, il valore documentaristico di The Animal World è molto opportunamente subordinato al valore spettacolare, e per la delizia del pubblico un iguanodonte incarognito, con corno regolamentare, si avventa su un malcapitato stegosauro, che si volta di scatto e lo azzanna a sua volta.
Non c’è dubbio, per gli spettatori, che il Mondo Animale fosse, almeno a quell’epoca, un posto piuttosto violento.
Infine, dinosauri di gommapiuma faranno la loro comparsa nel pallido adattamento cinematografico de La Terra dimenticata dal Tempo, a metà degli anni ’70.
Avevo più potere di tanti altri durante la lavorazione di quel film perché la ERB Inc. insisteva (per qualche misteriosa ragione) che io fossi l'unica persona che avrebbe potuto fare la sceneggiatura alla maniera di Burroughs. Jim [Cawthorn, NdT] ed io la suddividemmo in parti e la scrivemmo – rendendo il tedesco molto più sensibile (ed il portavoce delle idee) – e l'unico serio cambiamento fu quel ridicolo finale (fatto senza consultarmi specificatamente dopo che avevo detto che non ci avrei messo vulcani etc. etc. ­­ avevo preparato un finale molto più lirico, che avrebbe funzionato molto meglio semplicemente in termini commerciali) – ma dovevano usare la Grimpen Mire da qualche parte, suppongo (è zuppa d'avena, quella roba). Gli effetti erano da pochi soldi (quello pterodattilo rigido) ma riuscimmo a metterci un po' di atmosfera qua e là, e riuscimmo abbastanza a conservare l'idea di base. Il motivo per cui avevo accettato di farlo era che c'erano delle idee là dentro. Tuttavia, John Dark l'orribile piccolo produttore australiano che si comportava come la tipica caricatura del nano mastica­sigari hollywoodiano preso da qualche parodia degli anni '30; la descrizione non è mia, è di Doug McClure – non un grande attore, ma un tipo veramente simpatico – la sua laconica, inespressiva risposta a quel piccolo idiota – che mi aveva detto che Mai Zetterling (una buona amica) proprio non accettava consigli dopo che lui aveva cercato di aiutarla... Il tipo che faceva la parte del tedesco si considerava superiore al film in toto, e perciò Anton Diffrin dovette ridoppiarlo, perché era troppo fuori parte[...] Era un film meno stupido di quanto risultò poi alla fine, ma mano deludente per me del When Dinosaurs Ruled The Earth di Ballard! Non ne ho una copia. Una quantità sorprendente di adulti mi dicono che è il loro film preferito dei loro ragazzi, perciò devo aver pur fatto qualcosa di giusto...
Gran parte dei dinosauri erano burattini. Io non ho nulla contro i burattini o la gente in costume da dinosauro – spesso sono più convincenti. Ma i brutti effetti speciali non mi hanno mai scoraggiato...
[Michael Moorcock, lettera a David Langford]
Sceneggiato da Michael Moorcock e James Cawthorn (che si dissoceranno dall’impresa dopo aver visionato la pellicola) ed interpretato dal colosso del B­movie Doug McClure (oggi famoso soprattutto per essere regolarmente parodiato nei cartoni animati dei Simpson), il film schiera il solito armamentario di serie B fatto di dinosauri di plastica e attricette tanto avvenenti quanto sconosciute – oltre ad un cattivo così barbarico e selvaggio che adorna la propria sala del trono con poster di Frazetta ­ e rappresenta un’ottima occasione perduta. Lo stesso vale per l’adattamento del primo Pellucidar (sempre con Doug McClure!), che bastò da solo a far chiudere i battenti alla casa produttrice.
Oggi i diritti cinematografici sulle opere di Burroughs sono di proprietà della Disney, e questo ci lascia poco in cui sperare per il futuro.
Ma restiamo in Giappone, per chiudere questa carrellata multimediale.
Sempre nel 1971, in contemporanea con l’uscita del romanzo di Burroughs, la Toei mette in produzione una serie di 22 episodi a cartoni animati, intitolata “Genshi Shoonen Ryu” (arriverà in Italia nel 1979 col titolo di “Ryu, il Ragazzo delle Caverne”); burroughsiana per tema e ambientazione (un’età della pietra in cui umani e dinosauri convivono ed il nostro eroe deve vedersela con avversari umani ed animali, oltre che con disastri naturali assortiti) la serie si apre con una sequenza di titoli di un didatticismo e di un valore iconico che farebbero inorgoglire Martin o Figuier: dopo un avvio con una nube di materia interstellare che si condensa a formare il nostro pianeta, si formano i primi bacini, la vegetazione conquista le terre emerse, i rettili emergono dalle loro uova, gli pterodattili solcano i cieli. Vulcani esplodono all’orizzonte ed un dinosauro non identificato, forse un tirannosauro, azzanna al garrese un plesiosauro, che per reazione si volta di scatto, e lo azzanna a sua volta. Su questo montaggio velocissimo (meno di 20 secondi) la canzone dei titoli passa da una fanfara roboante ad un ponte pop­rock alla prima strofa che recita “Un mondo ostile/che a tutti quanti paura fa”.
Una figura e la sua didascalia, l'istantanea di un mondo, immutata attraverso 135 anni.
Ringraziamenti
Questo lavoro è rimasto sul mio hard disc per quasi sei anni, mutando forma, contenuti, tono.
È stato ampliato, riciclato, tramutato in conferenza, pubblicato parzialmente in varie forme.
Ringrazio quindi la CoopStdi e la rivista LibriNuovi per aver ospitato parte di queste mie chiacchiere.
Ringrazio tutti coloro che hanno partecipato alle mie conferenze, e tutti coloro che apprezzarono il mio poster alle Giornate di Paleontologia di Urbino, tanti anni or sono.
Ringrazio i miei complici abituali, la Squadra del Giovedì, mio fratello Alessandro, i miei vecchi compagni di corso del Birkbeck College.
Grazie infine ai membri del Lemuria Social Club.
DM
Nota sulla seconda edizione.
Il testo è stato revisionato, e gran parte dei refusi e delle brutture eliminati.
Sono state aggiunte un migliaio di parole ­ non molto, ma ci auguriamo che le informazioni in più possano divertire tutti coloro che avevano letto la prima edizione nonostante i problemi del testo.
Bibliografia Minima
Alvarez, W., T­Rex and the Crater of Doom ­ Princeton University Press, 2008
Bakker, R.T., The Dinosaur Heresies: New Theories Unlocking the Mystery of the Dinosaurs and Their Extinction ­ William Morrow & Co, 1986
Cadbury, D., Dinosaur Hunters – Bertrams Print on Demand, 2001
Emling, S., The Fossil Hunter: Dinosaurs, Evolution, and the Woman Whose Discoveries Changed the World ­ Macmillan, 2011
Fagan, B., The Little Ice Age: How Climate Made History 1300­1850 – Basic Books, 2001
Fortey, R., Trilobite! Eyewitness to Evolution – Flamingo, 2001
Fortey, R., Dry Store Room No. 1: The Secret Life of the Natural History Museum – HarperPress, 2008
Freeman, M., Victorians and the Prehistoric ­ Yale University Press, 2004
Gould, S.J., Bully for Brontosaurus ­ Radius, 1991
Matsen, B. & Troll, R. ­ Planet Ocean: Story of Life, the Sea and Dancing to the Fossil Record ­ Ten Speed Press, 1995 Mitchell, W.J.T., The Last Dinosaur Book: The Life and Times of a Cultural Icon – University of Chicago Press; 2nd edition, 1998
Pierce, P., Jurassic Mary: Mary Anning and the Primeval Monsters ­ The History Press, 2008
Preston, D.J., Dinosaurs in the Attic – St. Martin's Griffin, 1994
Sanz, J.L., Starring T.Rex!: Dinosaur Mythology and Popular Culture ­ Indiana University Press, 2003
Weishampel & White, The Dinosaur Papers, 1676­1906 – Smithsonian Books, 2004
Winchester, S., The Map That Changed the World: A Tale of Rocks, Ruin and Redemption – Penguin, 2002
Agili Volumetti del Fantastico e del Misterioso
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