Paleo news - Società Paleontologica Italiana
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Paleo news - Società Paleontologica Italiana
Supplemento al Bollettino della Società Paleontologica Italiana v.44 n.3 Poste Italiane S.p.A.- Sped.Abbon.Posale - D.L. 353/2003 (conv.in L.27/02/2004 n.46) art.1, comma 1, DCB, Modena CPO Numero 13 Novembre 2005 PaleoItalia Newsletter della Società Paleontologica Italiana SOCIETÀ PALEONTOLOGICA ITALIANA MODENA PALEOITALIA 1 Numero 13 Questo fascicolo di PaleoItalia si presenta piuttosto corposo. E’ con soddisfazione che posso affermare che, per la prima volta, diversi contributi sono arrivati spontaneamente in redazione. Spero che non si sia trattato di un evento isolato, ma che segni realmente un cambio di tendenza! Credo che l’articolo del Dott. Dal Sasso sulle tecniche di preparazione dei fossili sia particolarmente gradito ai soci paleontofili. D’accordo con l’autore abbiamo deciso di dividerlo in due parti: la seconda sarà pubblicata nel prossimo fascicolo. Il fascicolo risulta ricco, ma l’Agenda è stranamente quasi vuota. Per esperienza so che quando si prepara qualcosa si pianifica tutto in ampio anticipo. Chiedo quindi a chi organizza congressi, mostre, corsi, o altre manifestazioni in Italia di comunicarcelo tenendo conto dei tempi di uscita di PaleoItalia, in modo da inserire le informazioni nella rivista in tempo utile. In questo modo anche gli organizzatori avranno un’ulteriore pubblicità per le loro iniziative. Buona lettura! Carlo Corradini GLI INDIRIZZI ELETTRONICI DELLA S.P.I. Bollettino della Società Paleontologica Italiana PaleoItalia Biblioteca Tesoreria [email protected] [email protected] [email protected] [email protected] IN COPERTINA Maretia pareti Manzoni, 1878 Riprodotto da: Manzoni, A., 1878, “Gli echinodermi fossili dello Schier delle colline di Bologna”, Besonders abgedruckt aus dem XXXIX Bande der Denkschriften der Mathematisch-naturwiessenschaftlichen Classe der Kaiserlichen Akademie der Wiessenschaften, Wien. Tav. 4, fig. 33. 2 PALEOITALIA PALEOITALIA 3 Urbino, 20-22 maggio 2005 RESOCONTI DI CONVEGNI GIORNATE DI PALEONTOLOGIA 2005 RODOLFO COCCIONI Dal 20 al 22 Maggio 2005 si sono tenute a Urbino, presso il Campus Scientifico dell’Università “Carlo Bo”, le “V Giornate di Paleontologia” con escursioni nel territorio circostante. Il Convegno è stato organizzato dal Prof. Rodolfo Coccioni, Direttore dell’Istituto di Geologia e del Centro di Geobiologia, in collaborazione con la Società Paleontologica Italiana. Sotto uno splendido sole primaverile, hanno partecipato al Convegno oltre 100 tra paleontologi e paleontofili, provenienti da tutta Italia e anche dall’estero. La partecipazione dei giovani ricercatori è stata numerosa e vivace, evidente dimostrazione della vitalità culturale della Paleontologia e dell’eccezionale possibilità offerta dalle Giornate di Paleontologia per scambiare esperienze ed ambiti di lavoro. Numerosi i contributi scientifici: 26 comunicazioni orali e 27 posters. L’apertura del Convegno, con il Prof. Antonio Russo, Presidente della Società Paleontologica Italiana, ed i Prof. Rodolfo Coccioni, Francesca Bosellini, Renato Posenato ed Andrea Tintori. 4 PALEOITALIA Foto di gruppo al Campus Scientifico. Le comunicazioni sono state distribuite in cinque sessioni scientifiche e in una sessione poster. Gli argomenti trattati hanno interessato la Paleontologia sistematica, la Biostratigrafia, la Micropaleontologia ambientale, la Paleoecologia, la Paleontologia dei Vertebrati, la Paleobotanica e la valorizzazione dei patrimonio paleontologico. I contributi scientifici presentati sono stati raccolti in un volume di 87 pagine che insieme al CD “Leonardo, i fossili e le rocce” realizzato dal Centro di Geobiologia è stato distribuito a tutti i partecipanti al momento dell’iscrizione. Il Convegno si è aperto con il saluto del Prof. Coccioni a cui è seguito quello del Prof. Antonio Russo, Presidente della Società Paleontologica Italiana. L’intera giornata è stata quindi dedicata alle comunicazioni scientifiche suddivise in quattro sessioni presiedute dai Prof. Ruggero Matteucci, Antonio Russo, Tassos Kotsakis, Franco Russo e Antonietta Cerchi. La prima giornata ha trovato la sua conclusione nella cena sociale alla Palazzina Sabatelli, tipico ed accogliente ristorante delle Marche settentrionali. In un clima conviviale i partecipanti hanno avuto la possibilità di gustare piatti e vini della Valle del Metauro. La maggior parte della mattinata della seconda giornata è stata dedicata alla quinta sessione scientifica presieduta dal Prof. Piero De Castro ed alla sessione poster. Nella tarda mattinata si è tenuta l’Adunanza Generale della Società Paleontologica Italiana. Il PALEOITALIA Presidente, a nome di tutto il Consiglio Direttivo, ha proposto la nomina a Socio Onorario del Prof. Piero De Castro raccogliendo il consenso entusiastico dell’Assemblea. Il pomeriggio di Sabato 21 Maggio e la giornata di Domenica 22 Maggio sono stati interamente dedicati all’appassionante ed interessante visita ai diversi Musei paleontologici dell’area compresa tra Romagna e Marche. Per l’occasione una breve guida è stata realizzata dai Prof. Rodolfo Coccioni e Walter Monacchi e distribuita ai partecipanti. La guida suggerisce gli itinerari paleontologici di visita nelle vallate intorno ad Urbino, concentrandosi sulle realtà 5 museali più interessanti e che conservano le testimonianze dei fossili locali. Sono stati visitati il Museo dei Fossili di Mondaino (RN), il Museo Civico Archeologico e Paleontologico di Macerata Feltria (PU), il Museo Geo-Territoriale di Cantiano (PU), il Museo dei Fossili e dei Minerali del Monte Nerone di Apecchio (PU) ed il Museo Geopaleontologico Naturalistico Antropico ed Ornitologico “Brancaleoni” di Piobbico (PU). Tutti i Musei hanno spalancato le porte dei loro preziosi tesori con un’ospitalità davvero calorosa. Le giornate si sono concluse con un gradevolissimo pranzo all’aperto, in un caratteristico ristorante nei I giovani ricercatori durante l’allegra cena sociale. 6 PALEOITALIA La visita al Museo dei Fossili di Mondaino (RN). pressi di Piobbico. I partecipanti si sono salutati con un frizzante brindisi e un arrivederci alle VI Giornate di Paleontologia del 2006, a Trieste. Ancora una volta è doveroso esprimere i più calorosi ringraziamenti ai “Coccioni boys” che con la loro continua e solerte assistenza hanno reso possibile l’attuazione di questa iniziativa. E’ importante infine ricordare che la Commissione regionale per i beni e le attività culturali delle Marche si è pronunciata unanimemente nell’esprimere apprezzamento per le attività svolte nell’ambito delle V Giornate di Paleontologia, sottolineando il valore di coniugare l’approfondimento scientifico dei temi del convegno con la valorizzazione dei Musei che conservano preziose testimonianze della ricchezza paleontologica e geologica del territorio compreso tra Romagna e Marche. PALEOITALIA 7 APPUNTI SULLA PREPARAZIONE E CONSERVAZIONE DEI FOSSILI I – La preparazione meccanica CRISTIANO DAL SASSO Introduzione Quando un fossile viene alla luce, spesso è ancora inglobato in una matrice rocciosa. Inoltre può essere fragile e necessita di essere consolidato, o ancora può essere estratto in frammenti separati e va quindi ricomposto. La preparazione dei fossili è un po’ l’equivalente di ciò che in campo artistico si chiama restauro. Senza pensare ad un vero e proprio laboratorio, abbiamo bisogno di un minimo di attrezzatura: un tavolo per appoggiarvi i fossili e gli strumenti, resine e collanti, un microscopio, un piccolo compressore per gli utensili pneumatici e una presa di corrente per gli attrezzi elettrici, nonché vaschette e acidi per le preparazioni chimiche. E’ bene dotarsi anche di occhiali e guanti da cantiere e mascherine Vista parziale di un laboratorio di paleontologia. 8 PALEOITALIA protettive per polveri e vapori, che permettano di lavorare in sicurezza. La preparazione dei fossili “Preparare” significa portare alla luce tutte le parti anatomiche conservatesi nel fossile, asportando la matrice rocciosa che lo ricopre. L’intervento deve comunque rispettare le caratteristiche dell’esemplare così come sono state conservate dai naturali processi di fossilizzazione. Oltre ai mezzi tecnici serve anche una certa dose di manualità ma soprattutto tanta pazienza. Infatti si tratta di un lavoro molto lungo e di precisione, che può richiedere giorni, mesi o, per esemplari di grandi dimensioni, anni interi. Un fossile si può presentare integro e compatto, e in questo caso si procede direttamente alla preparazione, oppure fratturato in più pezzi al momento dell’estrazione; in tal caso deve essere ricomposto con colle epossidiche, cianoacrilati o, meglio ancora, con resine acriliche reversibili. L’importante è valutare se sia meglio compiere l’operazione prima, durante o dopo la preparazione e in quale successione: un incollaggio precoce di alcune parti, infatti, può impedire che altre parti si vadano a incastrare perfettamente. Concettualmente il risultato finale di una preparazione paleontologica dovrebbe essere la completa liberazione del fossile dal sedimento. Spesso ciò è possibile: fusti vegetali, gusci o modelli di molluschi e di altri invertebrati, o ancora scheletri di vertebrati i cui resti fossili non siano Riassemblaggio finale (post-preparazione) di lastre di scisto bituminoso contenenti lo scheletro di un ittiosauro di 5,70 m (Besanosaurus leptorhynchus). stati eccessivamente compressi e deformati dai processi diagenetici, possono essere estratti a tutto tondo e, nel caso di scheletri completi, ricomposti tridimensionalmente in connessione anatomica, tenuti assieme da uno scheletro metallico tale da non danneggiare i pezzi originali. Preparare in questo modo un modello interno di ammonite o di un gasteropode è una delle operazioni che più comunemente professionisti e appassionati si trovano ad affrontare e che, salvo eccezioni, presenta le minori difficoltà. Di solito, infatti, la forma del fossile è chiaramente prevedibile anche nelle parti ancora nascoste PALEOITALIA sotto la matrice e il fossile stesso si presenta in genere abbastanza resistente. In molti giacimenti, e in particolare in quasi tutti i depositi a conservazione eccezionale (konservat-lagerstätten), nei quali si rinvengono anche organismi a corpo molle, artropodi e vertebrati con scheletri in connessione anatomica i cui resti fossili sono fortemente compressi su una superficie di strato, gli esemplari devono essere necessariamente lasciati saldati alla matrice rocciosa e messi in luce come fossero dei bassorilievi. In alcuni casi, specie per ragioni di studio, sui fossili su lastra si può eseguire una preparazione atta a renderli osservabili su entrambe le facce, quella “libera” e quella saldata alla matrice. In questo caso si procede pulendo accuratamente la faccia libera, si compie un rilievo fotografico, si esegue un calco molto preciso dell’esemplare e si ricopre il tutto con uno strato di resina trasparente; quindi si prepara il fossile dall’altro lato. Alla fine di questo processo il fossile resta inglobato nella resina, mentre la matrice rocciosa viene completamente rimossa. Tecniche di preparazione Si possono distinguere due tecniche fondamentali di preparazione: quella meccanica, eseguita a mano con l’aiuto di vari utensili, e quella chimica, eseguita con bagni in soluzioni acide. Le tecniche che si possono impiegare variano molto a seconda della natura del fossile e della matrice che lo 9 ingloba. Se la matrice è incoerente (un’argilla, per esempio) il fossile può essere liberato mediante preparazione meccanica o con un apparecchio a ultrasuoni; se la matrice è coerente e il fossile ha una composizione mineralogica differente (per esempio, se la matrice è calcarea e il fossile è fosfatizzato o silicizzato) e non è eccessivamente compresso e deformato, si può utilizzare una tecnica di preparazione chimica in acido; se la matrice è coerente e di composizione mista (ad esempio una matrice marnoso-calcarea) ci si può avvalere di una combinazione di tecniche chimico-meccaniche; se la matrice è coerente e marnosa, terrigena o bituminosa, oppure se il fossile, indipendentemente dalla natura chimica della matrice, è compresso, fragile o minuto, conviene effettuare una preparazione meccanica manuale. La preparazione meccanica Per la rimozione meccanica della matrice si possono impiegare attrezzi a percussione quali microscalpelli e cesellatori pneumatici, apparecchi abrasivi quali sabbiatrici e microsabbiatrici, martelli e scalpelli convenzionali, bulini, puntali, chiodi e spilli. L’uso di levigatrici, frese e altri utensili ad albero rotante è utile per asportare la matrice ma non è consigliato per pulire il fossile in quanto il movimento rotatorio, a differenza di un moto ben calibrato di percussione, causa una macinazione e una levigatura del reperto. Come procedura standard, in una preparazione meccanica si 10 PALEOITALIA oculari, tanto per intenderci) o di una visiera dotata di lenti con un ingrandimento di almeno 10x. Tutte queste operazioni generano una grande quantità di microdetriti e di polvere, quindi si rende necessario ripulire continuamente le superfici con dei pennellini. Gli utensili pneumatici, come questo microscalpello, necessitano di un compressore ma garantiscono un alto numero di percussioni (fino a 36.000 al minuto) e un’escursione minima della punta, che riduce il rischio di danneggiare i fossili. inizierà con le operazioni di sgrossatura, asportando le porzioni di matrice più voluminose. Avvicinandosi alla superficie del fossile sarà necessario procedere con più delicatezza e maggiore precisione, quindi si ricorrerà alla preparazione manuale con punte sempre più piccole. La preparazione meccanica di particolari anatomici dell’ordine dei millimetri, o ancora più minuti, deve essere effettuata con l’aiuto di un microscopio stereoscopico (quello con due Punte, chiodi e spilli sono strumenti fondamentali per una preparazione paleontologica. Le punte in acciaio vengono usate per “affettare” piccole porzioni di matrice sopra e intorno al fossile. Per arrivare a contatto con il reperto (nella foto, il baby dinosauro Scipionyx samniticus) è meglio usare chiodini di ferro e spilli entomologici: sono meno aggressivi dell’acciaio e, se montati su appositi mandrini e affilati con carta vetrata a grana fine, permettono di lavorare su piccoli particolari con estrema precisione. PALEOITALIA Bibliografia essenziale Borselli V., Confortini F., Dal Sasso C., Malzanni M., Muscio G., Paganoni A., Simonetto L. & Teruzzi G., 1999. La carta del restauro dei fossili: Museologia Scientifica, vol. 34. Dal Sasso C., 1993. Tecniche di preparazione paleontologica. La preparazione chimica con gli acidi. Paleocronache: Novità e informazioni paleontologiche. 1993, vol. I. In/Out, Milano. 11 Dal Sasso C., Magnoni L. & Fogliazza F., 2001. Elementi di tecniche paleontologiche: Natura 91 (1), Soc. It. Sci. Nat. Mus. Civ. St. Nat. Milano. Feldman R.M., Chapman R.E. & Hannibal J.T., 1989. Paleotechniques: The Paleontological Society, special publication N. 4. Leiggi P. & May P., 1994 - Vertebrate paleontological techniques. Volume one: Cambridge University Press. 12 PALEOITALIA CRASSOSTREA, OVVERO COME CONQUISTARE UN NUOVO AMBIENTE LUCA RAGAINI Nonostante la loro natura sessile, gli ostreidi riferibili al genere Crassostrea Sacco, 1897 sono vissuti e vivono tuttora prevalentemente su fondi mobili o poco consolidati. Questa affinità tessiturale può apparire a prima vista contraddittoria se si considera da un lato la rarità di solide basi per l’ancoraggio tipica di questi substrati e dall’altro le notevoli dimensioni, e talora anche il peso, che hanno raggiunto molte di queste forme. Tuttavia mettendo in campo numerose strategie adattative questi, così come altri, ostreidi sono riusciti a conquistare tali ambienti dove le risorse trofiche a disposizione dei sospensivori sono abbondanti (Seilacher, 1984). Anche se l’origine e lo status tassonomico degli ostreidi (qui intesi come superfamiglia Ostreoidea) sono argomenti tuttora assai dibattuti e controversi (Harry, 1985; Lawrence, 1995; Màrquez-Aliaga et al., 2005), i paleontologi sono concordi nel ritenere che i primi rappresentanti del gruppo (tra cui Umbrostrea crassidiformis, del Trias Medio della Germania, è la specie più antica) vivessero cementati a substrati solidi. Già nel Giurassico, tuttavia, compaiono forme in grado di colonizzare substrati fangosi, come dimostrato anche dal rappresentante più antico del genere Crassostrea (C. tetoriensis, Giurassico Medio del Giappone) e successi-vamente da altri taxa della famiglia Ostreidae, sottofamiglia Crasso-streinae (Konbostrea, Saccostrea, Striostrea, ecc.). Le strategie utilizzate nella conquista di questi nuovi ambienti sono molteplici e talvolta hanno Fig.1 – Esemplari di C. tetoriensis cementati tra loro a formare una piccola colonia. Lunghezza della barra = 2 cm. (da Komatsu et al., 2002; modificato). PALEOITALIA Esemplare di Gryphaea arcuata in posizione fisiologica. Lunghezza della barra = 2 cm. (da Seilacher, 1984; modificato) portato a morfologie bizzarre, ma nella sostanza sono riconducibili a due tipologie principali cui corrispondono da un lato le forme cosiddette “reclinate” (che riescono a galleggiare sul sedimento) e dall’altro quelle che sfruttano parte delle valve (tipicamente l’area dorsale) per ancorarsi passivamente sul fondo. Gryphaea, rappresentante tipico della prima categoria, ha una geometria fortemente inequivalve con una valva sinistra molto convessa, spessa e caratterizzata da una microstruttura compatta che si Lopha ed Arctostrea in posizione fisiologica. Notare l’andamento a zig-zag della commissura di Arctostrea maggiormente accentuato nella parte convessa (anteriore) che è quella rivolta verso la corrente per ottenere una maggiore stabilità. Lunghezza della barra = 1 cm (da Seilacher, 1984; modificato). 13 è rivelata idonea a stabilizzare l’organismo sul substrato. Anche altri ostreidi hanno adottato una postura reclinata differenziandosi però da Gryphaea e generi simili per la presenza di particolari microstrutture del guscio, quali camere, elementi a nido d’ape, vescicole, ecc., che nella sostanza hanno lo scopo di alleggerire il guscio senza comprometterne la solidità. Per evitare l’affondamento e contestualmente ancorare la conchiglia al substrato sono stati inoltre utilizzati vari accorgimenti, come ad esempio una forma a ventaglio associata all’andamento a zig-zag della commissura (Lopha), caratteristica quest’ultima che in altri casi è invece associata all’allungamento e curvatura a ferro di cavallo delle valve (“Arctostrea”). Pur nella loro variegata morfologia, tutte le forme reclinate hanno un denominatore comune rappresentato dalla necessità di mantenere la commissura (od almeno gran parte di essa) al di 14 PALEOITALIA Profilo di Crassostrea gravistesta in posizione fisiologica. Notare la commissura al sopra dell’interfaccia acqua-sedimento e la migrazione del centro di gravità (G) che durante le fasi di crescita si posiziona sempre al di sopra del corrispondente centro di galleggiamento (B) per mantenere condizioni di equilibrio. (da Chinzei, 1995; modificato) sopra dell’interfaccia acquasedimento: in caso contrario, infatti, le particelle sedimentarie finirebbero per intasare le branchie provocando il soffocamento dell’organismo. Gli ostreidi che sfruttano invece parte delle valve come elemento di ancoraggio passivo hanno un modo di vita sostanzialmente seminfaunale e questo ha portato allo sviluppo di morfologie piuttosto diverse rispetto alle precedenti, ma tutte caratterizzate da una microstruttura “leggera” del guscio per la presenza degli elementi già descritti in precedenza. Tipiche di questo gruppo sono le forme allungate in senso dorso-ventrale, come quelle coniche di Saccostrea e Striostrea oppure quella a “stick” di Konbostrea konbo, esempio di crescita estrema in altezza che ha portato questa specie a raggiungere dimensioni record (oltre 1 m) (Chinzei, 1986). Konbostrea e Saccostrea, ostreidi di fondi mobili ancorati passivamente al substrato tramite la(e) valva(e) e particolarmente sviluppati in altezza. Lunghezza della barra = 1 cm (da Seilacher, 1984; modificato). PALEOITALIA Anche Crassostrea ha spesso utilizzato lo sviluppo esasperato in altezza, con la parte dorsale del guscio sfruttata come ancora e le parti molli relegate in quella ventrale, quale strategia per poter colonizzare sedimenti mobili o scarsamente consolidati. E’ il caso, ad esempio, della forma miocenica Crassostrea gryphoides (Jimenez et al., 1991) o della nuova specie recentemente rinvenuta nel Pleistocene dell’Ecuador (Ragaini et al., 2004) che associano a tale caratteristica una più leggera struttura del guscio, ottenuta grazie alla presenza di depositi carbonatici porosi (“chalky”), ed un modo di vita gregario in cui gli individui sono in posizione verticale ed accostati gli uni agli altri per aumentare la stabilità. Talvolta tali accorgimenti 15 si rivelano insufficienti ed agenti idrodinamici quali, ad esempio, moto ondoso e correnti possono orientare diversamente gli esemplari; in tal caso il tentativo di riconquistare l’originaria posizione verticale può dare come risultato morfologie piuttosto bizzarre (v. figura a pag.16). L’associazione di individui in piccoli aggregati (in questo caso tramite cementazione) per meglio contrastare la tendenza allo sprofondamento nel substrato era già presente in Crassostrea tetoriensis, il più antico rappre-sentante del genere (Komatsu et al., 2002). Gli esemplari delle specie fossili di Crassostrea, ed in particolare quelle del Terziario e del Quaternario, hanno spesso raggiunto dimensioni ragguardevoli (fino a 60 cm di altezza e 15 cm di spessore) Livello a Crassostrea nel Pleistocene dell’Ecuador. Notare gli esemplari dislocati rispetto alla posizione fisiologica verticale. 16 PALEOITALIA Valva sinistra di Crassostrea che evidenzia distinte fasi di accrescimento separate da tre drastici cambiamenti nella direzione di crescita dovuti a successive dislo-cazion1 dell’esemplare (da Checa e Jimenez-Jimenez, 2003; modificato). evocate anche dai loro stessi nomi: C. gigantissima, C. gravitesta, C. ingens, C. titan, ecc.. A queste si contrappongono le specie attuali (C. angulata, C. columbiensis, C. gigas, C. rizophorae, C. virginica, ecc.) che evidenziano dimensioni assai più contenute. Per cercare di spiegare tale differenza sono state avanzate alcune ipotesi tra cui un’elevata velocità di crescita associata ad una maggiore longevità per la mancanza di predazione umana oppure la co-presenza di organismi fotosimbionti. Più recentemente (Kirby, 2001) è stata ipotizzata una relazione diretta tra dimensioni del guscio e caratteristiche ambientali. Le specie a guscio sottile, sia attuali che fossili, sarebbero ristrette ad ambienti marginali di transizione a salinità estremamente variabile (estuari salmastri, lagune iperaline, ecc.) oppure a zone intertidali caratterizzate da esposizioni più o meno prolungate; tali ambienti avrebbero agito come veri e propri rifugi ecologici nei confronti dei predatori marini. Sia i gasteropodi perforatori, infatti, che altri predatori come crostacei, vermi piatti, octopodi, asteroidi, pesci, ecc., non sono in grado di sopportare variazioni importanti della salinità, mentre forme attuali di Crassostrea possono tollerare anche escursioni da 0‰ al 42‰ (Harry, 1985; Shumway, 1996). Le specie a guscio spesso sono invece ritenute tipiche di ambienti francamente marini (in genere di limitata profondità) dove il fenomeno della predazione è piuttosto diffuso. In questo caso la difesa contro i predatori è legata all’aumento di spessore delle valve e l’efficacia di questo deterrente è testimoniata anche dalle numerose perforazioni incomplete rinvenute su numerosi esemplari. In conclusione, forme sospensivore sessili caratterizzate da notevoli dimensioni sembrerebbero a prima vista poco adatte a vivere su fondi mobili, dove i substrati idonei per l’ancoraggio sono rari e dove gli PALEOITALIA organismi si devono confrontare con il pericolo del seppellimento o comunque del soffocamento. Il genere Crassostrea rappresenta un esempio di come, attraverso l’adozione di efficaci strategie adattative, gli invertebrati marini siano stati in grado di colonizzare ambienti per certi versi ostili, ma fonte di importanti risorse trofiche. Bibliografia Chinzei, K., 1986, Shell structure, growth, and functional morphology of an elongate Cretaceous oyster: Palaeontology, 29(1): 139.154. Harry, H., 1985, Synopsis of the Supraspecific Classification of Living Oysters (Bivalvia: Gryphaeidae and Ostreidae): The veliger, 28(2): 121-158. Jimenez, A.P., Braga, J.C. & Martin, J.M., 1991, Oyster distribution in the Upper Tortonian of the Almanzora Corridor (Almeria, S.E. Spain): Geobios, 24(6): 725-734. Kirby, M.X., 2001, Differences in growth rate and environment between Tertiary 17 and Quaternary Crassostrea oysters: Paleobiology, 27(1): 84-103. Komatsu, T., Chinzei, K., zachera, M.S. & Matsuoka, H., 2002, Jurassic softbottom oyster Crassostrea from Japan: Palaeontology, 45(6), 1037-1048. Màrquez-Aliaga, A., Jiménez-Jiménez, A.P., Checa, A.G. & Hagdorn, H., 2005, Early oysters and their supposed Permian ancestors: Palaeogeography, Palaeoclimatology, Palaeoecology, in press. Ragaini, L, Cantalamessa, G. & Di Celma, C., 2004, First fossil record of large oysters (Crassostrea sp. nov.) from Pleistocene sediments of Pacific South America (Jama Formation, Ecuador): IV Giornate di Paleontologia, Bolzano, p. 50. Seilacher, A., 1984, Constructional morphology of Bivalves. Evolutionary pathways in primary versus secondary soft-bottom dwellers: Palaeontology, 27(2): 207-237. Shumway, S.E., 1996, Natural environmental factors. In: Kennedy V.S. et al., The eastern oyster: Crassostrea virginica: 467-513, Maryland Sea Grant College. PALEOITALIA 18 RISPOLVERANDO I CELACANTI! LUCIA LOPS Quando iniziai ad occuparmi di celacanti fossili, convinta del fatto che anche l’approfondimento delle forme di vita attuali è premessa importante in qualsiasi studio paleontologico, inevitabilmente mi imbattei nell’affascinante storia legata alla scoperta scientifica del primo esemplare dell’unico genere ancora vivente di celacanto e mi chiesi incredula: “Chissà quante volte, prima del 1938, gli indigeni delle Isole Comore (Oceano Indiano) avranno issato a bordo delle loro imbarcazioni esemplari di Latimeria, ignari di aver catturato un pesce di un gruppo ittico creduto estinto insieme ai Dinosauri (65 milioni di anni fa)?!?”. Al di là delle domande di chi, come me, rimane sempre affascinato da quante scoperte scientifiche avvengano per caso, ci sono anche quegli interrogativi posti dal cosiddetto pubblico “non addetto ai lavori”. “Chi sono i celacanti?”, per esempio, è il quesito più semplice, e nello stesso Latimeria chalumnae. tempo più imbarazzante, a cui ci si trova a dover rispondere quando si presentano i celacanti fossili, ingiustamente troppo spesso snobbati dalla paleontologia italiana (e non) e, invece, meritevoli di una maggiore attenzione. Eh sì, parlare di “dinosauri” ai più è cosa semplice: la parola “Dinosauro” rievoca subito alla loro mente forme animali ben precise, il nome “celacanto” è spesso ingiustamente associato ad un grosso punto di domanda! Un identikit molto semplice dei celacanti potrebbe essere il seguente: essi sono Crossopterigi, cioè pesci assai diversi da quelli che comunemente siamo abituati a vedere in pescheria (Attinopterigi). Tanto per cominciare, a differenza dei pesci con le pinne raggiate che siamo soliti trovarci nel piatto al ristorante, i celacanti hanno caratteristiche pinne lobate, ossia dotate di un robusto lobo carnoso che protrude dal corpo, sorretto da articolazioni ossee e muscoli propri.Con sole due specie viventi (Latimeria chalumnae e Latimeria moenadensis), i celacanti rappresentano numericamente oggi solo un ramo secondario nell’evoluzione ittica e, in confronto alle circa venticinquemila specie viventi di teleostei appaiono poca cosa ma, se si pensa che i celacanti, data la loro PALEOITALIA innegabile parentela con i ripidisti, potrebbero esser considerati un po’ come “cugini” degli antenati dei Tetrapodi… l’importanza evolutiva del gruppo non è davvero da sottovalutare! Il confronto della morfologia scheletrica di base di Latimeria con quella degli esemplari fossili (Devoniano medio - Cretaceo superiore) ci rivela l’incredibile capacità di conservazione dimostrata dall’intero gruppo per circa 400 milioni di anni, dal Devoniano ad oggi! Nei fossili, come nelle specie attuali, si ritrovano non solo le caratteristiche pinne lobate, ma anche altri caratteri propri di questi pesci, come ad esempio la singolare pinna caudale a ventaglio e a tre lobi, l’organo rostrale per l’elettroricezione, la notocorda e il giunto intracranico per spalancare al massimo la bocca. Se i celacanti, come gli Attinopterigi, nella disperata lotta alla sopravvivenza del meglio adattato, si fossero tanto dati da fare a cambiare morfologicamente per divenire più competitivi possibile, e non fossero sopravvissuti come 19 Cranio di Latimeria, unico genere attualmente vivente di celacanto. “fossili viventi”, pressoché inalterati per centinaia di milioni d’anni, l’anatomia comparata avrebbe perso, probabilmente, degli elementi fondamentali di studio, sia per il confronto con le forme fossili che per la ricostruzione della storia evolutiva che dai Pesci può aver portato agli antenati dei primi Tetrapodi. Abitanti in passato di quasi tutte le acque (dolci e salate) del Nostro Pianeta, con la sola eccezione dell’Antartide, i celacanti, resistettero allo “spauracchio” dell’estinzione, presentatosi a loro più volte dal Devoniano medio al Cretaceo Esemplare del genere Holophagus del Giurassico Inferiore. 20 PALEOITALIA Esemplare MPUM 9289 (Norico, Triassico Superiore), attualmente in fase di studio. sup. Essi, a dispetto di ogni minaccioso cambiamento ambientale, continuarono ad esistere mantenendo una struttura morfologica di base invariata e non specializzata... e questa è la cosa davvero incredibile e piena di fascino di tutto il gruppo! Il loro “modello morfologico”, forse proprio per la sua primitiva semplicità, risultò incredibilmente adattabile, fin da quando comparvero come pesci marini nel Devoniano. Anche se l’alta conservazione del semplice piano strutturale di base del gruppo, macroscopicamente, ha determinato una (apparente?) generale bassa diversità tassonomica, più in dettaglio, i celacanti fossili rivelano una variabilità, nella minuta ornamentazione di scaglie, di ossa craniche e di raggi delle pinne. Anche le proporzioni e la forma delle ossa del cranio, nonché la lunghezza del terzo lobo caudale centrale degli esemplari fossili studiati e il punto d’inserzione delle pinne sono divenuti importanti caratteri diagnostici. I celacanti fossili entrarono di diritto nella storia della Paleontologia nel 1836, quando Louis Agassiz ritrovò il primo fossile di questo gruppo. Fu allora che ebbero il via studi e descrizioni di numerosi generi e specie di celacanti, rinvenuti un po’ in tutte le parti del mondo (Germania, Inghilterra, Stati Uniti, Madagascar, Spitzbergen, Groenlandia...). Anche l’Italia “diede alla luce” numerosi celacanti fossili: il primo esemplare scoperto e studiato, ad esempio, proveniva dalla località del Triassico Medio di Perledo (Lecco); l’ultimo celacanto ad essere nominato in un lavoro di un paleontologo italiano (De Alessandri) fu, invece, Undina picena del Triassico superiore, nell’ormai lontano 1910! Mentre la bibliografia estera esprime ancor oggi il suo interesse per i celacanti fossili, gran parte degli esemplari italiani, purtroppo, pur facenti parte anche di importanti collezioni paleontologiche di molti musei italiani, giace ancora senza nome e studio. Occuparsi oggi di celacanti italiani, dopo che, per quasi un secolo, di questi fossili non se ne occupò più nessuno, è una bella PALEOITALIA “gatta da pelare”. Fare ricerca su questi pesci fossili significa rassegnarsi ad affrontare numerose problematiche come, ad esempio, consultare fonti bibliografiche vecchie, corredate di un linguaggio scientifico non adeguato alle esigenze delle più moderne descrizioni anatomiche dei fossili. Questo implica dover essere costretti a recarsi di persona presso i vari musei che hanno in custodia i celacanti fossili, allo scopo di verificare direttamente la morfologia degli esemplari e poterla confrontare con quella che via via si scopre nei nuovi esemplari su cui si ha la possibilità di lavorare direttamente. Avere per le mani fossili di celacanti triassici significa cimentarsi con la preparazione per lo studio di pesci mediamente di 3035 cm, con importanti eccezioni capaci di raggiungere anche il metro; significa misurare la propria pazienza e mettere in conto centinaia di ore destinate al microscopio per la rimozione meccanica della matrice che ancora ricopre la delicatissima ornamentazione di scaglie ed ossa. Tutto questo, neanche a dirlo, rallenta inevitabilmente la ricerca e limita gli esemplari a disposizione per Particolare delle scaglie dell’esemplare MPUM 9289 (Norico, Triassico Superiore. 21 qualsiasi ulteriore confronto a breve termine. Saggiare la sistematica dei celacanti poi significa impazzire fra decine e decine di nomi, spesso istituiti arbitrariamente su sparuti resti. La cattiva conservazione di molti celacanti e la loro mancata completezza sono stati i principali co-fattori scatenanti tutta la confusione che ancora regna signora tra i celacanti. “Undina picena”, uno dei più celebri celacanti fossili norici (Triassico sup.) italiani (Giffoni, nel salernitano), è un esempio delle ingarbugliate vicende tassonomiche che comunemente accompagnano anche altri fossili del gruppo protagonista di queste mie righe. La sua storia inizia nel 1862 e, nell’arco di quasi un secolo, diversi illustri Autori gli attribuiscono tre nomi di genere diversi che, in ordine cronologico, sono: Urocomus, Undina, Holophagus. Questi “magnifici tre” generi, sembrerebbero non esser proprio tutti la stessa cosa visto che oltretutto vennero istituiti su materiale di diversa età (rispettivamente Triassico sup., Giurassico sup. e Giurassico inf.) e di diverso possibile ambiente di vita (acque basse 22 PALEOITALIA Cranio dell’esemplare indeterminato MPUM 9151 (Norico, Triassico Superiore), attualmente in fase di studio. costiere per i primi due generi e acque decisamente di mare più aperto per l’ultimo). É per questa serie di contraddizioni che il nome del fossile è ancora in “stand by” da oltre un secolo e, a dir la verità, il suo cattivo stato di conservazione non aiuta molto a dargli un definitivo “battesimo”! Forse sarebbe il caso di ritornare a chiamarlo semplicemente Urocomus picenus, nome per altro datogli da Costa, suo stesso scopritore. Come se non bastasse la stessa validità del nome generico “Undina” è stata messa in discussione senza tuttavia che si giungesse ad una conclusione definitiva sulla questione. Ciò crea non poche difficoltà a chi, nel tentativo di determinare un celacanto fossile, voglia dargli eventualmente il nome generico di “Undina”! Se a questo punto state pensando: “Che pizza questi celacanti, ecco perché tutti li hanno mandati al diavolo!”, avete tutta la mia comprensione ma vi assicuro che anche un solo piccolo contributo come il mio alla paleontologia di un Paese come l’Italia, dalle gloriose tradizioni nella ricerca dei fossili, può riempire il cuore di grande soddisfazione. Dopo quasi un secolo da De Alessandri, sotto la guida del prof. A. Tintori dell’Università degli Studi di Milano, mi avvicino allo studio di alcuni celacanti fossili provenienti principalmente da scavi condotti, a PALEOITALIA partire dalla seconda metà degli anni ’70 dello scorso secolo, presso le Prealpi lombarde dal Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università degli Studi di Milano. Si tratta di esemplari del Norico, piuttosto completi e ben conservati, ben appropriati al confronto e allo studio sistematico anche se incredibilmente lunghi da preparare. Alcuni di essi sembrano riservarci l’inaspettata sorpresa di essere differenti dai celacanti triassici già noti in Italia (compreso “Undina picena”!) e all’estero, suggerendo una maggior diversità del gruppo proprio sul finir del Triassico. Questo non è però tutto: la successione triassica italiana, già nota da tempo per i suoi siti ricchissimi di vertebrati marini che hanno permesso di ricostruire le vicende evolutive dei pesci, appare molto interessante anche per i celacanti, la cui evoluzione potrebbe essere seguita per un intervallo di almeno 30 milioni d’anni, grazie agli esemplari provenienti dai vari piani del Triassico. Dalle Dolomiti di Braies, per esempio, provengono celacantidi dell’Anisico, dal Monte San Giorgio quelli del Ladinico inferiore, da Raibl-Cave del Predil quelli del Carnico, da Giffoni e dalle Prealpi bergamasche e del Friuli quelli del Norico. Allargando poi il nostro sguardo dalla varietà dei generi raccolti in Italia a quella testimoniata dal Triassico inferiore 23 di località straniere come Groenlandia, Svalbard, Madagascar e Canada si potrebbe iniziare a delineare meglio la reale diversità tassonomica di questi pesci che, a partire dal Giurassico superiore, si ridurrà drasticamente nel numero dei generi, fino a “Latimeria”, l’unico ancora vivente. Mentre ci si accinge agli ulteriori approfondimenti paleontologici sul gruppo, attendiamo con curiosità anche i risultati dei numerosissimi studi biologici condotti “in vivo” su Latimeria, certi che ancora importanti informazioni potrebbero regalare anche alla paleontologia, sfatando, ancora una volta, la sciocca idea che il paleontologo sia solo uno “studioso di cadaveri”. Forse, come pochi, il paleontologo studia invece la vita e, con le sue ricerche e i suoi continui approfondimenti sul mondo vivente attuale, si adopera a far rivivere tutto un mondo scomparso estremamente dinamico. Con il supporto delle informazioni raccolte dal Presente, lo studioso di fossili riesce ogni volta in quell’affascinante ricostruzione del Passato che è in grado di farci immaginare quegli organismi, morti anche centinaia di milioni di anni fa, come vivi e, come tali, capaci di nutrirsi e muoversi in una ben precisa maniera, in un ben preciso ambiente in cui si riproducevano con l’inspiegabile istinto di sfuggire all’Estinzione! 24 PALEOITALIA LE ESCURSIONI DEI SOCI PALEONTOFILI NEL 2005 JORDI ORSO Dopo il successo delle escursioni paleontologiche dell’anno scorso sono felice poter constatare che l’interesse dei soci paleontofili all’iniziativa continua. Devo ammettere che i paleontologi professionisti interpellati a guidarci non si sono fatto pregare due volte. Così sono riuscita a creare con loro anche quest’anno un bel calendario di 5 escursioni con una cinquantina di partecipanti: 20.3. e 7.5.2005, Neogene, Torrente Stirone (Castell’Arquato), Prof. Sergio Raffi 16.7.2005, Museo di Storia Naturale di Milano, Laboratorio paleontologico e visita alle collezioni, Dr. Cristiano Dal Sasso 8.10.2005, Paleogene, Bolca, Prof. Andrea Tintori 23.10. 2005, Paleogene, Colli Berici, Dr. Davide Bassi Per far partecipare tutti i soci alle nostre esperienze e scoperte ho cercato di descrivere le prime escursioni in un breve resoconto. Così potete leggere qui di seguito quello che abbiamo imparato con i piedi bagnati nel torrente Stirone, e cosa ci ha insegnato la visita al Monte Toraro lo scorso ottobre (Per ragioni di spazio questo articolo non era stato pubblicato nell’edizione precedente). Abbiamo fatto una visita guidata interessantissima al Museo di Storia Naturale di Milano, ma al posto di una descrizione troverete un articolo del Dr. Dal Sasso sull’argomento che più ci toccava: la preparazione e conservazione di fossili. Vorrei cogliere l’occasione per ringraziare i prof. Raffi e Tintori e i dott. Bassi e Dal Sasso con tutto il cuore non solo per la loro straordinaria disponibilità ed instancabile pazienza, ma anche per il loro importante aiuto redazionale. Esplorando il torrente Stirone guida scientifica: Prof. Sergio Raffi date: 20/3/2005, 7/5/2005 età geologica: Neogene: Miocene, Pliocene, Pleistocene località: Castell’Arquato, Parco Nazionale dello Stirone: 1) Ponte di Scipione, 2) San Nicomede equipaggiamento: stivali di gomma almeno fino al ginocchio difficoltà: nessuna partecipanti: 14 (da Torino, Milano, Genova, Ragusa, Piacenza, Parma e Firenze) La prima escursione paleontologica del 2005 per i soci SPI è stata programmata per il 20 marzo, e il 7 maggio abbiamo fatto il bis. PALEOITALIA Come punto d’incontro avevamo scelto il parcheggio lungo l’Arda a Castell’Arquato (PZ). L’argomento: sedimenti e fossili del Pliocene con speciale riferimento al tema del “Lago-Mare”, i cui sedimenti nel Mediterraneo costituiscono il tetto del Miocene. Il programma prevede uno stop al ponte Scipione, distante un paio di chilometri da Castell’Arquato, e poi l’esplorazione verso valle del torrente Stirone. Ci guida il prof. Sergio Raffi che l’anno scorso ci ha fatto conoscere l’emozione dei calanchi del Monte Giogo, sempre nei pressi di Castell’Arquato. Partiamo per il ponte Scipione e scendiamo sulla riva. Con la coloratissima carta geologica in mano Sergio ci introduce brevemente all’orogenesi degli Appennini e all’evoluzione del Golfo Padano. Grazie alla successione degli strati incisi dal torrente Stirone che immerge verso Nord Est è possibile seguire in dettaglio, strato per strato, l’evoluzione geologica e paleoclimatica del Bacino da golfo dell’Adriatico ad attuale pianura alluvionale padana. Sotto il ponte Scipione, dove inizia l’escursione, affiora la base della successione lacustre Messiniana, costituita localmente da banchi di conglomerati. Al di sopra si succedono alternanze di livelli sabbiosi e limosi. Negli appunti distribuitoci da Sergio sono raffigurate alcune specie di ostracodi, i microfossili che sono stati utilizzati dagli autori per interpretare come fluvio-lacustri tali sedimenti. Chi non è familiare con la storia geologica del Mediterraneo si meraviglierà delle testimonianze 25 di un passato lacustre del Mare Nostrum. Ma Sergio ci spiega il fenomeno della crisi di salinità mediterranea, le sue cause ed i suoi effetti sia a livello locale che globale e ci illustra brevemente le fasi principali dell’evoluzione del Miocene superiore (Messiniano) del Mediterraneo partendo dall’evidenza geologica: ad una fase ancora francamente marina, ma con indizi progres-sivamente più evidenti di variazioni climatico-oceanografiche, segue la precipitazione delle cosiddette evaporiti (gessi, salgemma, ecc) che documentano la “crisi di salinità”. Al di sopra della suc-cessione evaporitica, talora di grande spessore, seguono le successioni di Lago-Mare estese a tutto il Mediterraneo, qui ben rappresentate dalla base della sezione neoautoctona del torrente Stirone. Cos’era successo 7 milioni di anni fa? Appare evidente che grazie all’interazione di fattori tettonici, che portarono alla chiusura delle vie di comunicazioni mioceniche con l’Atlantico (lo Stretto Subbetico e quello Subrifano) e grazie al clima Ponte Scipione, il punto di partenza dell’escursione 26 PALEOITALIA Panoramica del tratto Messiniano del torrente Stirone. decisamente arido il mare subì un lungo periodo di forte evaporazione che lo portò quasi al prosciugamento. I grandi giacimenti di gesso e zolfo nell’area mediterranea ne sono testimoni. E’ molto probabile che l’instaurarsi di una successiva situazione di “LagoMare” estesa a tutto il Paleomediterraneo sia dovuta oltre che ad un completo isolamento dall’Atlantico, ad un aumento delle precipitazioni e/o ad un flusso di acqua da oriente (dalla Paratetide). Il problema della “crisi di salinità” del Mediterraneo è ancora oggetto di un acceso dibattito, sia per quanto riguarda le sue cause che il contesto ambientale della precipitazione dei sali marini e glacio-eustatici che controllavano ciclicamente l’afflusso di acqua nel mediterraneo. Da un punto di vista biologico Sergio ci spiega che la crisi di salinità è la diretta responsabile della scomparsa della fauna marina del Paleomediterraneo. Rimane però il fatto che con il ripristino delle condizioni marine, che definisce storicamente la base del Pliocene (Zancleano), gran parte di questa fauna ricompare nel Mediterraneo. L’ipotesi più probabile è che questa fauna sia sopravvissuta nei “santuari” atlantici limitrofi al Mediterraneo e non interessati alla crisi di salinità. Seguendo per 50 m il torrente Sergio ci mostra il limite Miocene/ PALEOITALIA Pliocene (M/P) caratterizzato localmente da una netta discordanza angolare. Gli strati Pliocenici fin dalla loro base sono caratterizzati da fossili di ambiente marino (foraminiferi, ostracodi, molluschi) di ambiente batiale. In un intervallo di pochi cm si passa dunque da un ambiente fluvio-lacustre ad un ambiente marino profondo, probabilmente intorno ai 300-400 m. Ci rendiamo conto di stare di fronte alla testimonianza di avvenimenti stravolgenti, e tutto d’un tratto l’affioramento che a prima vista non ci era sembrato tanto spettacolare assume tutt’altro carattere. Guardandolo ci sembra di sentire il rombo delle acque marine, mentre all’inizio dello Zancleano ritornarono a riprendere possesso della loro vecchia sede. Torniamo alle macchine per affrontare il torrente più a valle. Muniti di stivali di gomma scendiamo nell’acqua che qui è abbastanza alta. Bisogna camminare strusciando, alzando i piedi il meno possibile, pena un freddo pediluvio in piena regola. Nel prossimo affioramento Sergio ci fa notare un’intercalazione clastica nella successione pelitica caratterizzata dalla dominanza di Lucinidae (bivalvi). Si ritiene che questa formazione calcare sia precipitata come sottoprodotto dei processi metabolici di colonie di batteri chemiotrofici che utilizzavano emanazioni di acido solfidrico e metano che probabilmente venivano a giorno tramite un sistema di piccole faglie. I lucinidi che vivono in simbiosi con questi batteri costituiscono “un 27 segnale” molto facile da cogliere di questo particolare fenomeno. Le emanazioni gassose fredde, i “cold seeps” della letteratura, ci richiamano alla mente le sorgenti idrotermali sottomarine e le teorie sull’origine dei primi esseri viventi. I dati micropaleontologici suggeriscono che al di sopra di questi livelli clastici la sezione sia già pienamente ascrivibile ad un Piacenziano medio. Ai livelli del chemioherma a lucinidi seguono strati di pelite omogenea a cui presto si alternano livelli più chiari, molto “leggeri”, e fittamente stratificati, interpretabili come sapropels. La fitta stratificazione indica che non sono stati popolati da organismi bentonici che con le loro attività li avrebbero “omogeneizzati”. I dati a disposizione, ed in particolare il fatto che questi livelli, costituiti prevalentemente da diatomee, siano molto ricchi di sostanze organiche, suggeriscono che la mancanza di bioturbazione sia dovuta alla mancanza di ossigeno. Il ritrovamento di pesci fossili (non da noi, s’intende) nei livelli diatomitici costituisce un ulteriore prova di Il limite Miocene/Pliocene al torrente Stirone. 28 PALEOITALIA questa interpretazione. I sapropels ci danno l’occasione di discussione sulla relazione tra clima e cicli astronomici. Le cause ed il contesto deposizionale dei sapropels nel Mediterraneo durante il Pliocene è ancora oggetto di dibattito. La loro formazione implica un consumo di ossigeno sul fondo ed un mancato ripristino imputabile al mancato “rifornimento” di acqua dello strato fotico ricca di ossigeno. Questo scenario è evidentemente controllato dall’andamento ciclico del clima con particolare riferimento alle precipitazioni ed all’apporto fluviale. Riprendiamo a scendere verso livelli sempre più recenti. Nello stop successivo Sergio ci indica alcuni buoni esempi di “debris flow”, flussi Alcuni partecipanti ...con i piedi a mollo.. gravitativi di detriti, in questo caso organogeni (alghe calcaree, briozoi, coralli e molluschi). Alternati ai “debris flows” troviamo livelli dominati da associazioni oligotipiche a Corbula gibba, caratteristiche di situazioni ad elevata torbidità. Sergio ci spiega brevemente la fisiologia della specie adattata a ”trattare” grandi quantità di particelle in sospensione senza incorrere nel pericolo di intasamento delle branchie. Bisogna nuovamente attraversare il torrente e allora la cosa si complica. I miei stivali di gomma mi arrivano fino al ginocchio, ma qui l’acqua è più alta e non basta più strusciare i piedi. Con invidia guardo i “pantastivaloni” da pescatore degli PALEOITALIA altri, quando uno dei partecipanti, Stefano, senza tanti complimenti mi carica sulle spalle e mi trasporta sana e salva sull’altra sponda. Wow! Non lontano scopriamo uno spettacolare icnofossile, probabilmente la tana di un grande artropode che ricalca esattamente la forma dell’animale. Nei depositi fluviali vicino alla riva notiamo un grosso sasso verde. Che ci fa una pietra di serpentino tutta sola nel torrente Stirone? Ed ecco un’altro esempio del potere informativo straordinario di un semplice, si fa per dire, corso d’acqua: Sergio ci ricorda che a monte esistono affioramenti di ofioliti di cui i serpentini fanno parte. Queste rocce antichissime originarie del mantello superiore costituivano la crosta oceanica, e anche le lave eruttate dai vulcani submarini dell’antico “Oceano Ligure Piemontese”. Alla fine della loro lunga storia geologica queste rocce furono trasportate dalle forze orogenetiche a costituire il crinale dell’Appennino dell’Emilia Occidentale e qui furono erose e trasportate dai corsi d’acqua, di nuovo, verso il mare. Ma ora è tempo di picnic e ci portiamo con le macchine a San Nicomede, dove nelle vicinanze del cimitero esiste in riva al torrente un’area attrezzata a questo scopo. Mentre pranziamo vediamo due guardie ecologiche attraversare l’area e, chiacchierando con loro, ci rendiamo conto che il Parco Regionale dello Stirone è ben sorvegliato. Qui non solo i fossili stanno al sicuro, ma anche il Gruccione (Merops apiaster) dal 29 Le tracce fossili non sono rare nei depositi lungo lo Stirone. piumaggio cangiante, che nidifica nelle sabbie Pleistoceniche delle scarpate del torrente. Proprio per proteggere questa specie dalla primavera fino alla tarda estate, per un lungo tratto, viene vietato (e impedito) l’accesso al Torrente. Finito il frugale pasto riprendiamo l’escursione. Da qui si accede al torrente comodamente, mentre prima raggiungerlo era stato piuttosto avventurosa per via della vegetazione fitta, fitta. Il posto del picnic si trova proprio di fronte ad un piccolo promontorio che con la sua punta alzata ricorda la prua di una nave che solca l’oceano. Si nota molto bene la discordanza angolare tra il banco sommitale e gli strati sottostanti. Ci troviamo al limite locale del Plio-Pleistocene che si basa sulla prima comparsa del famoso ospite boreale Arctica islandica, peraltro ben visibile, ma (fortunatamente) irragiungibile, nei sedimenti della sponda opposta. Colpisce, anche se è un dato ormai risaputo, che questa specie che oggi domina le associazioni del Mare del Nord (!), all’inizio del Pleistocene abbia esteso la sua distribuzione al 30 PALEOITALIA Mediterraneo. La successione in cui è localizzato il limite Plio-Pleistocene è letteralmente costituita da fossili ed in particolare da detriti di alghe calcaree, briozoi e molluschi. Affiorano qua e là bellissimi esemplari di Lutraria sp. Pecten jacobaeus, Glycymeris inflatus, Glycymeris glycymeris, ecc, talora in posizione di vita. Osserviamo che la grande maggioranza delle specie che troviamo sono ancora viventi. In effetti è ben noto che le specie di affinità tropicale sono già scomparse durante il Pliocene. Per raggiungere “l’ultima spiaggia” dobbiamo risalire il versante divenuto sempre più alto e ripido. Il suolo è bagnato e non solo ci fa scivolare continuamente, ma gli stivali vi sprofondano e si riesce solo con fatica a liberali dal morso tenace dell’argilla. Camminando lungo la riva nel tratto pleistocenico Sergio ci illustra dall’alto la situazione paleoecologica caratterizzata dall’alternanza di livelli fossiliferi circalitorali con quelli infralitorali. In altre parole, durante quel periodo ci sono stati continui cambiamenti eustatici, infatti prima Arctica islandica. si nota la tendenza verso un ritiro progressivo del mare e i livelli lacustri a Dreissenia, Melanopsis e Neritina lo confermano. Ma ecco che il mare avanza di nuovo e si entra in un ambiente lagunare ipoalino a cui seguono ancora livelli marini di ambiente infralitorale caratterizzati da Chamelea gallina e Glycymeris insubrica. Il mare si ritira ancora e di nuovo si ripresenta un ambiente lagunare. Scendiamo nella “laguna”. Il versante anche qui è coperto da una vera giungla e ci vorrebbe un macete per raggiungere il torrente, ma ce la facciamo lo stesso, grazie all’impeto di uno dei nostri amici. La laguna rivela una limitata biodiversità, cioè poche specie, ma molti individui, un fenomeno tipico di ambienti instabili. Ma attenzione! Una nuova trasgressione ci riporta in un ambiente infralitorale caratterizzato dalle stesse specie che si ritrovano nell’Adriatico. Ed ecco, finalmente, comparire “l’ultima spiaggia”! Era ora. Stefano, eroicamente, mi da un altro passaggio per raggiungere un isolotto di ghiaia in mezzo al torrente per vedere meglio i depositi continentali fluvio-lacustri al di sopra delle sabbie marine. Il mare ormai si è ritirato definitivamente. Questo tratto caratterizzato dall’alternanza di depositi lagunari e infralitorali non è difficile da interpretare. Infatti è sufficiente conoscere pochissime specie per dare una spiegazione corretta degli ambienti. La bassissima diversità specifica dei macrofossili, rappresentati quasi esclusivamente da Cerastoderma glaucum, Cerithium sp. e Venerupis senescens e PALEOITALIA nel contempo il numero enorme degli esemplari ci permette di fare un preciso riferimento ad un ambiente lagunare ipoalino. Invece l’aumento seppure limitato della diversità specifica e la presenza di specie anche attualmente molto comuni come Spisula subtruncata, Mactra corallina, Glycymeris insubrica, Chamelea gallina, Donax trunculus, ecc. consentono facilmente di ricono- 31 scere ambienti del tutto simili alle spiagge attuali dell’Adriatico. Siamo intorno al milione di anni. Abbiamo percorso un arco di tempo notevole, quasi 6 milioni di anni, dal Messiniano al Pleistocene Inferiore, e a qualcuno fanno male i piedi. E’ ora di ritornare a casa. Prima di salutarci ci fermiamo ad un bar per ripassare brevemente le emozioni del nostro tuffo geologico nel Mare Mediterraneo. Laboratori di campagna di Stratigrafia e Paleontologia guida scientifica: Dr. Davide Bassi, Università di Ferrara data: 17.10.2004 età geologica: Giurassico Inferiore località: Tonezza del Cimone (VI), Monte Toraro equipaggiamento: da media montagna difficoltà: nessuna partecipanti: 11 (Milano, Bergamo, Verona, Vicenza, Ancona) Dopo giorni di pioggia ecco finalmente tutte le nostre preghiere esaudite: una domenica di sole! Un vero dono degli dei, vista la propensione al brutto tempo di quest’autunno 2004. L’appuntamento con un bel gruppetto di undici paleontofili per l’ultima escursione di quell’anno era stato fissato per le ore 9.30 davanti alla piazzetta della chiesa di Tonezza del Cimone (Vicenza). Lasciando il paese alle nostre spalle ci siamo portati a circa 2.000 m di altezza passando prima per la Strada dei Fiorentini e raggiungendo poi il Monte Toraro. Ci attendeva un panorama mozzafiato. Le precipitazioni dei giorni scorsi avevano steso una coltre bianca su tutte le cime circostanti. Anche lungo il nostro sentiero, un leggero velo bianco era rimasto sul pendio esposto a nord. Sotto, a perdita d’occhio, si stendevano gli altipiani di Asiago e di Folgaria ed in lontananza le cime del Pasubio innevate. Che spettacolo! Dopo un breve e facile percorso a piedi ci siamo fermati per una prima osservazione sul campo. Tra le rocce, i pini mughi indicavano un 32 PALEOITALIA I partecipanti all’escursione. ambiente calcareo, e c’era ancora qualche coraggiosa genzianella dal colore viola chiaro. Ovviamente l’attenzione di tutti era concentrata su quelle rocce promettenti, cariche di fossili. Grande fu la sorpresa quando il dott. Davide Bassi, la nostra guida, invece di spiegare subito il loro contenuto ci chiese a bruciapelo, indicando la sequenza di rocce davanti a noi, come avremmo definito uno “strato”! Ora, lo sappiamo tutti che cos’è uno strato, ci mancherebbe altro! Tuttavia, definirlo nel modo corretto non era poi così facile. Ognuno cercò di darne una definizione e quindi uscirono altri termini: orizzonte, lamina, formazione, banco, bancone. E poi tutti a cercare le parole adatte per descrivere anche una successione stratigrafica; c’era chi parlava di successioni di strati, chi invece di membri e qualcuno tirò fuori la formazione, e l’orizzonte? Dove mettiamo l’orizzonte? Lezione di geologia interattiva, che spasso! È proprio questo che manca all’autodidatta – e la maggior parte dei paleontofili sembra che lo siano – il dialogo con un esperto, con uno che ti costringe a strutturare quello che hai appreso strada facendo, uno che esige delle risposte concrete e definizioni esatte. Eravamo entusiasti della nostra collaborazione alla “lezione”. Ma i fossili erano sempre lì che ci aspettavano. Il dott. Bassi ci fece osservare come le superfici degli strati non erano piane, ma piuttosto ondulate, con bozzi grossi come un pugno. Provenienti da questi strati si erano staccate dei blocchi che, sparse al lato del sentiero, mostravano sulla loro superficie delle grosse protuberanze, dei tunnel fossilizzati, evidenti tracce di organismi scavatori: le icniti! Che cosa ci raccontano questi fossili? Ecco aprirsi un’altra finestra didattica. Certamente, i fossili non hanno il dono della parola, ma mettendo insieme dei dati, per PALEOITALIA esempio la loro disposizione, il tipo di sedimento in cui si trovano inglobati, la loro morfologia, lo stato di conservazione, le associazioni di cui fanno parte, si possono trarre delle conclusioni sull’ambiente in cui vivevano e anche sulle loro strategie di vita. In uno degli strati che costituivano l’affioramento si potevano notare delle sottili fasce più scure, lunghe circa 15 cm e luccicanti per il loro contenuto di calcite. Dai caratteri geometrici di queste “fasce” abbiamo dedotto che si trattava di organismi e non di strutture sedimentarie. Osservandoli meglio abbiamo scoperto che molti sembravano accoppiati, una “fascia” leggermente concava e l’altra convessa che si congiungevano alle estremità… e la nostra conclusione? Qui avevamo a che fare con dei bivalvi, grossi come una mano! Erano visibili solamente le loro sezioni trasversali, ma ce n’erano tanti, strato sopra strato, un vero cimitero: un’altra indicazione sull’ambiente di deposizione, dato che le conchiglie erano ancora in connessione fisiologica. Nel frattempo posavamo per una foto ricordo. Dopo l’emozionante banco a grossi bivalvi ci aspettava un’altra scoperta didattica. Avevamo già notato in alcuni strati delle sequenze di due o tre fascette orizzontali di fossili molto abbondanti e molto concentrati, mentre il resto dello stesso strato ne era praticamente privo. Un accumulo così denso doveva avere un’origine repentina. Si trattava, infatti, di accumuli conchigliari dovuto ad una 33 Gli strati bioturbati. tempesta! Il confronto fra le varie litologie presenti nell’affioramento ha permesso poi di avere un quadro generale della classificazione delle rocce carbonatiche. Gli argomenti trattati stimolarono poi un’ampia discussione sulle caratteristiche di vari ambienti deposizionali e da qui abbiamo avuto l’opportunità di conoscere il principio di Walther che risale al 1894! Avevamo raccolto moltissime informazioni e si era fatto tardi. Lo stomaco reclamava la nostra attenzione. Così, dopo un ultimo sguardo carezzevole al panorama e ai fossili lasciammo il sentiero, scendendo non solo geograficamente, ma anche nel tempo. Il concetto di “spazio-tempo”, forse più familiare nel campo astronomico, è particolarmente presente nei fossili. In loro la quarta dimensione, il tempo, diventa concreta, specie quando si trovano ancora nell’originaria successione stratigrafica invece che in una bella vetrina al museo. A proposito, qui ci troviamo nel Giurassico Inferiore, che corrisponde più o meno a 200 milioni di 34 PALEOITALIA I banchi con abbondanti accumuli conchigliari. anni fa. Litostratigraficamente parlando stavamo osservando i fossili della Formazione Rotzo che fa parte del Gruppo dei Calcari Grigi… con l’occasione ci siamo rinfrescati alcune nozioni di stratigrafia. Alla fine ci siamo diretti con le automobili verso il rifugio Malga Valbona, dove ci aspettavano polenta, funghi e canederli in brodo, tutto buono, cibo, vino, il caldo della stufa e, come dessert, la gioia delle nostre scoperte! E qui il dott. Bassi, riassumendo le nostre informazioni raccolte sul campo, ci spiegò vita, morte e… “miracoli” dei fossili trovati a quota 2.000 m. Così abbiamo saputo che i grossi bivalvi si chiamano Lithiotis problema- tica, Cochlearites loppianus e Lithoperna scutata. Si tratta di bivalvi gregari, dato che vivono a stretto contatto fisico, guscio a guscio, formando così delle vere colonie alte fino ai 3-4 metri e larghe qualche centinaio di metri. I dati paleoecologici suggeriscono una vita in ambiente lagunare, dal moto ondoso non troppo movimentato, infossati quasi interamente nel sedimento un po’ fangoso. Come dimensione i Lithiotis sono davvero eccezionali con i loro 30-40 cm di lunghezza. Siamo rimasti talmente contenti della “lezione” che abbiamo chiesto al dott. Bassi di poter fare il bis l’ottobre prossimo, questa volta nei Colli Berici. PALEOITALIA RESOCONTI DI CONVEGNI 35 Ferrara, 30 agosto - 3 settembre 2005 INTERNATIONAL FOSSIL ALGAE ASSOCIATION 5th REGIONAL SYMPOSIUM DAVIDE BASSI Il Simposio Regionale dell’Associazione Internazionale di Alghe Fossili (IFAA) tenutosi a Ferrara il 30 e 31 Agosto ha ospitato numerosi ricercatori sia di università italiane che straniere (Spagna, Germania, Francia, Norvegia, Slovenia, Croazia, Romania, Israele, Cina, Stati Uniti). Alle sessioni scientifiche hanno fatto seguito tre giorni di escursioni in campagna (Colli Berici, Monti Lessini, Val d’Adige, Carso triestino e sloveno). I prossimi appuntamenti dell’IFAA saranno il Congresso Internazionale a Zagabria (2007) ed il Simposio Regionale a Milano (Università di Milano Bicocca, 2009). Si ringraziano l’Università degli Studi di Ferrara, la ditta Montura/Tasci di Rovereto (TN) e l’Amministrazione Provinciale di Ferrara per aver contribuito alla realizzazione del Simposio. I partecipanti al Simposio di Ferrara (Dipartimento delle Risorse Naturali e Culturali). PALEOITALIA 36 Dottorato di Ricerca in Paleontologia (Consorzio Modena – Bologna – Roma) II ciclo nuova serie (XVI ciclo) TESI DI DOTTORATO L’ATTIVITÀ MICROBICA IN ROCCE CARBONATICHE PRODOTTE IN ECOSISTEMI CHEMIOSINTETICI: DOCUMENTAZIONE FOSSILE E POTENZIALE DI PRESERVAZIONE BARBARA CAVALAZZI Supervisore: Prof. R. Barbieri Questo studio è stato intrapreso al fine di valutare il ruolo giocato dalla attività microbica chemiosintetica (chemiosintesi=processo di ossidazione chimica che fornisce energia alla biosintesi) nella genesi di corpi carbonatici generati in aree di vent idrotermali e cold seep, ovvero in aree caratterizzate dalla fuoriuscita di fluidi ricchi di solfati e solfuri, CO, CO2 e idrocarburi. È oramai noto che i vent idrotermali e i seep di idrocarburi si sviluppano in differenti contesti geotettonici e determinano la formazione di particolari interfacce geochimiche e biologiche (Peckmann e Thiel, 2004). Le aree caratterizzate dal venting/seepage di idrocarburi, tipicamente irregolari e intermittenti, sono attualmente dominate e contraddistinte da lussureggianti chemio-ecosistemi composti da comunità di batteri con metabolismo chemiosintetico (=processo di ossidazione chimica che fornisce energia alla biosintesi) e ricche megafaune di invertebrati zolfo (H2S-, SO4=)-tolleranti e chemio- simbionti. Generalmente, questi batteri ossidano i fluidi rilasciati e determinano un generale incremento di alcalinità (pH), la cui conseguenza diretta è la formazione di precipitati autigeni, ovvero la formazione di rocce e minerali biologicamente indotti. Si tratta principalmente di depositi silicatici ricchi in solfuri/ solfati/metalli in aree di vent idrotermali e accumuli massivi di carbonati (metano-derivati) in aree di cold seep. I processi microbici che predominano nei sedimenti (anossici) ricchi di metano sono l’ossidazione anaerobica del metano (OAM) e la riduzione dei solfati (RS) (Orphan et al., 2002). Inoltre, il 13 C derivato dall’OAM dei processi microbici e dall’ossidazione del CO 2 viene fissato nei Cacarbonati autigeni durante la loro precipitazione, conferendo ai carbonati prodotti il segnale geochimico tipicamente negativo. Il riconoscimento di tali peculiarità, ma non solo, permette l’individuazione di queste manifestazioni a carattere effimero PALEOITALIA nel record attuale e fornisco importanti chiavi di lettura per quello fossile. Oggi sono noti per il Cenozoico molti depositi da paleoseep, mentre le informazioni circa quelli del Mesozoico e del Paleozoico sono, soprattutto per quest’ultimo, estremamente frammentarie. E se molti studi sono stati condotti nel tentativo di valutare gli elementi diagnostici utili nel riconoscimento delle aree di paleovent/seep (Cavagna et al., 1999; Campbell et al., 2002; Peckmann & Thiel, 2004), pochi sono gli studi finalizzati a comprendere e, quindi, documentare cosa dell’intensa 37 attività microbica chemiosintetica, che caratterizza queste aree, può essere fossilizzato; infatti, sono noti in letteratura relativamente pochi esempi di fossili microbici in aree di venting/seepage. Il potenziale di fossilizzazione delle comunità microbiche chemiosintetiche deriva dalla possibilità di costruire corpi geologici in gran parte (anche se non esclusivamente) costituiti da carbonati autigeni (auto-micrite). Questi depositi carbonatici, oltre a preservare i resti degli invertebrati, possono contenere molti elementi testimonianti l’intensa attività microbica che si osserva negli Fig. 1 - Localizzazione geografica dei paleo-seep da cui provengono i campioni studiati. (1) Paleo-seep del torrente Stirone (Pliocene, Appennino emiliano). (2) Paleo-seep di Pietralunga (Miocene, Appenino romagnolo). (3) Paleo-seep di Roccapalumba (Miocene, Sicilia occidentale). (4) Paleo-vent e -seep della Catena dello Hamar Laghdad, Kess kess mound (Devoniano, Anti Atlante, Marocco orientale). (5) Paleo-seep di El Borj (Siluriano, Medio Atlante, Marocco centrale). 38 PALEOITALIA analoghi attuali. Proprio queste testimonianze (fossili morfologici e segnale geochimico) hanno costituito il principale oggetto della presente ricerca. A tale scopo è stato intrapreso uno studio multidisciplinare che coinvolge, di fatto, settori specifici di discipline come la micropalentologia microbica, la geochimica isotopica e la geomicrobiologia. I carbonati qui studiati sono stati campionati in successive campagne geologico-paleontologiche condotte durante il 2002 e 2004 in differenti località geografiche dell’Italia e del Marocco (figura 1), e appartengono a differenti contesti geologici di età molto differenti (Neogene, Paleozoico). I materiali studiati hanno permesso di ottenere informazioni di attività microbica chemiosintetica fossile per un intervallo di tempo ampio (del Neogene e del Paleozoico) e soprattutto documentare paleo-seep fra i più antichi attualmente conosciuti. I metodi di indagine adottati in questa ricerca hanno previsto l’utilizzo di tecniche diversificate riguardo sia il trattamento dei materiali (sezioni sottili paleontologico/petrografiche, attacchi con HCl, sezioni lucide, microcarote e polveri), sia le modalità di osservazione (stereomicroscopi, microscopi ottici polarizzatori, microscopi elettronici a scansione dotati di rivelatori di elettroni secondari, di elettroni retrodiffusi e per microanalisi; diffrattometro a raggi-X, spettrometro di massa). Lo studio delle caratteristiche sedimentologiche, mineralogicopetrografiche, macro- e micro- Fig.2 - Gli spettacolari Kess kess mound della Catena dello Hamar Laghdad (Devoniano, Anti Atlante, Marocco orientale). PALEOITALIA 39 - resti cellulari e biofilm fossilizzati: batteri filamentosi fossili (fig. 4), filamenti organici e biofilm fossilizzati (fig. 5), - minerali biologicamente indotti o autigeni: micrite cripto-cristallina, pirite neomorfica, barite euedrale, dolomite sferoidale e romboedrica, micro-dolomite. Fig.3 - Fotografia al microscopio ottico polarizzatore di micro-fabric clotted (cc) osservato in sezione sottile, carbonato autogeno del paleo-seep di Roccapalumba, Miocene inferiore, Sicilia occidentale. Scala di riferimento = 200μm. paleontologiche e geochimiche dei carbonati dei palei-seep investigati ha permesso di descrivere molte potenziali testimonianze di attività microbica fossile (fig. 3, 4, 5). Le osservazioni condotte alla scala sub-microscopica del segnale geochimico associate a quelle condotte alla scala micro- e mesoscopica dei fabric biosedimentari e (bio-)marker morfologici hanno permesso di individuare (tab. I): - fabric sedimentari microbicamente mediati: fabric clotted (fig. 3), tuft e microtuft, euendoliti, orli di corrosione/dissoluzione dei carbonati, splay aragonitici, botroidi di calcite e aragonite; - fabric stromatolitici microbicamente indotti: fabric stromatolitici e microstromatoliti e laminati; (tappeti di) microfossili filamentosi; La biogenicità (Schopf, 1999; Knoll, 1999) di strutture e nanostrutture descritte in questo studio come fossili microbici è stata sostenuta sulla base del confronto morfologico con analoghi sia attuali sia fossili, nonché sulla loro composizione chimica (carboniosa), per la loro frequenza nella roccia, in qualità di membri di un ecosistema, e per mostrare un tipo di degradazione tafonomica compatibile con i processi di preservazione osservata. E sebbene sia difficile stabilire una relazione Fig. 4 - Fotografia al microscopio ottico polarizzatore in sezione sottile di strutture filamentose fossilizzate immerse in micrite autogena. Scala di riferimento = 10μm. 40 PALEOITALIA Fig. 5 - Fotografia al microscopio elettronico a scansione di strutture alveolari tridimensionali osservate nella calcite gialla che occlude il sistema di cavità dei carbonati autigeni del paleo-seep del torrente Stirone, Pliocene, Appennino emiliano. Si noti la regolare architettura della struttura alveolare prodotta dalla fossilizzazione di biofilm. diretta fra caratteristiche metaboliche e morfologia di fossili microbici senza ricorrere ai biomarker molecolari, è stato possibile ricavare alcune informazioni circa il comportamento metabolico dei microfossili riconosciuti sulla base di alcune informazioni legate ai processi tafonomici e di fossilizzazione, nonché al segnale geochimico (legato al frazionamento biologico) e alle informazioni geomicrobiologiche ricavate e, ovviamente, al contesto geologico più in generale. Se alcune delle evidenze di attività microbica qui descritte sono state riconosciute sulla base del confronto morfologico con analoghi sia attuali sia fossili, come ad esempio i fabric clotted (fig. 3) e le micro-stromatoliti e filamenti microbici fossili (fig. 4) dei mound Devoniani della Catena dello Hamar Laghdad, altre sono state interpretate qui per la prima volta come il prodotto dell’attività microbica chemiosintetica, come ad esempio i biofilm tridimensionali del paleoseep del torrente Stirone (figura 4) e del paleo-seep di El Borj, o i cristalli di dolomite romboedrica dei mound Devoniani della Catena dello Hamar Laghdad. PALEOITALIA Gli ambienti di fuoriuscita di fluidi ricchi di metano (vent/seep) mostrano un elevato potenziale di fossilizzazione legato principalmente all’intensa attività microbica (ossidazione aerobica e anaerobica del metano, riduzione dei solfati e ossidazione dei solfuri) e alla conseguente diagenesi precoce del 41 (micro-)ambiente in cui proliferano, ovvero si verifica un rapporto elevato fra biomassa (non solo microbica) e velocità di seppellimento (carbonati autigeni). Inoltre, la disponibilità di ioni/cationi strettamente legata alle caratteristiche chimico-fisiche stesse dei chemio-ecosistemi microbici ali- Tab. 1 - Tabella riassuntiva delle evidenze (dirette e indirette) di attività microbica chemiosintetica fossile nei carbonati metano-derivati studiati. 42 PALEOITALIA mentati da fluidi ricchi di metano probabilmente favorisce i processi di fossilizzazione. Infatti, la possibilità di ritrovare fossilizzati questi microrganismi (“fossili morfologici ss.”: membrane e pareti cellulari, biofilm e modelli interni) potrebbe essere legata alla capacità dei microrganismi microbici (batteri) di complessare e/o fissare ioni/ cationi (a seconda dei casi), determinando una sua rapida mineralizzazione e favorendo la preservazione delle loro complesse e delicate (ultra-)strutture. Tuttavia, molte sono le evidenze di attività microbica fossile osservate e descritte in questo studio, e solo in pochi casi sono stati ritrovati potenziali batteri fossili; la causa va ricercata probabilmente nel fatto che la nucleazione dei minerali (soprattutto carbonati) potrebbe prendere il suo via proprio dai microrganismi soprattutto in relazione alle loro piccole dimensioni. Bibliografia Campbell, K.A., Farmer, J.D., Des Marais, D., 2002. Ancient hydrocarbon seeps from the Mesozoic convergent margin of California: carbonate geochemistry, fluids and paleoenvironments. Geofluids 2, 63-94. Cavagna, S., Clari, P., Martire, L., 1999. The role of bacteria in the formation of cold seep carbonates: geological evidence from Monferrato (Tertiary, NW Italy). Sedimentary Geology 126, 253-270. Schopf, 1999. Fossils and pseudofossils: lessons from the hunt for early life on Earth. In Size Limits of Very Small Microorganisms: Proceedings of a Workshop, National Academy Press, Washington, pp. 88-93. Knoll, A., 1999. Recognition of a biological signature in rock. Discussion summary. In Size Limits of Very Small Microorganisms: Proceedings of a Workshop, National Academy Press, Washington, D. C., pp. 85-87. Orphan, V.J., House, C.H., Hinrichs, K.U., McKeegan, K.D., DeLong, E.F., 2002. Multiple archaeal groups mediate methane oxidation in anoxic cold seep sediments. Proc. Natl. Acad. Sci. 99, 7663-7668. Peckmann, J., Thiel, V., 2004. Carbon cycling at ancient methane-seeps. Chemical Geology 205, 443-467. PALEOITALIA 43 44 PALEOITALIA PALEOITALIA 45 Notizie contribuendo in modo notevole alla sedimentazione italiane carbonatica d’acqua bassa. L’analisi di facies e la successiva integrazione con dati paleoecologici hanno permesso di ricostruire in modo dettagliato il modello paleoambientale delle successioni dell’Eocene Superiore dei Colli Berici orientali. Le associazioni bentoniche a macroforaminiferi ed alghe corallinacee si sviluppavano in una rampa carbonatica mediana soggetta a tempeste. Queste ultime sono state registrate nella successione studiata da strutture sedimentarie canalizzate. Il modello paleoambientale suggerisce che i cambiamenti significativi delle comunità bentoniche erano vincolati, almeno in parte, dalle correnti di ritorno create dalle tempeste le quali rappresentavano un ruolo importante sia nel controllare la natura dei fondali che nella distribuzione delle risorse trofiche. BASSI, D., 2005, Larger foraminiferal and coralline algal facies in an Upper Eocene storminfluenced, shallow-water carbonate platform (Colli Berici, north-eastern Italy). Palaeogeography, Palaeoclimatology, Palaeoecology, 226 (2005), 17–35 [in inglese]. ASSOCIAZIONI A CORALLI PROMOTORI DI BIODIVERSITÀ IN AMBIENTI BATIALI PLEISTOCENICI. Presso Furnari, in Sicilia, affiora una paleoscarpata di faglia che, nel Pleistocene inferiore, costituì in ambiente batiale (circa 400-500 m) la superficie primaria per la colonizzazione da parte di “Coralli Bianchi” e Isididi. Le colonie arborescenti di questi cnidari, sebbene rimanessero isolate, raggiunsero presumibilmente altezze di diversi decimetri e forse anche del metro e contribuirono ad incrementare la superficie e a creare una considerevole differenziazione di microhabitat e nicchie per altri organismi promuovendo lo sviluppo di un’associazione bentonica ricca e diversificata. I frammenti dei coralli e i resti scheletrici degli organismi ad essi associati, inoltre, si accumulavano ai piedi delle colonie e alla base della scarpata contribuendo alla formazione di sedimento con l’aggiunta di clasti biodetritici anche grossolani colonizzabili a loro volta da faune assenti nei fondali fangosi limitrofi situati ad analoghe profondità. Lo studio condotto sulle associazioni della faglia, dei substrati biodetritici e dei fondi fangosi contigui ha permesso di ricostruire uno scenario simile a quello delle biocostruzioni a coralli profondi dell’attuale Nord Atlantico. DI GERONIMO I., MESSINA C., ROSSO A., SANFILIPPO R., SCIUTO F. & VERTINO A., 2005, Enhanced biodiversity in the deep: Early Pleistocene coral communities from southern Italy. In: Freiwald A. & Roberts J.M. (eds.) Deep-water Coral Ecosystems. Springer, Berlin: 61-86 [in inglese]. 46 PALEOITALIA UN MACACO PLEISTOCENICO IN ABRUZZO Notizie italiane Nel corso dei lavori di coltivazione di una cava di calcare presso Rapino (Chieti), nel Parco Nazionale della Maiella, è casualmente venuta alla luce una piccola grotta denominata “Grotta degli Orsi Volanti” per la sua posizione sospesa in parete a circa 150 metri di altezza. All’interno e presso quello che doveva essere l’ingresso originale, sono stati rivenuti resti di una fauna tardo pleistocenica ed industrie litiche musteriane. Fra gli esemplari fossili è stata riconosciuta la porzione dorsale di un ramo mandibolare sinistro di Macaca, con M1eM2, in buono stato di conservazione. Quello di “Grotta degli Orsi Volanti” è il primo macaco ad oggi rinvenuto in Abruzzo, ed è anche uno dei reperti più recenti, il più meridionale e orientale degli esemplari italiani. La fauna associata alla Macaca è rappresentata da Ursus arctos, U. spelaeus, Panthera leo, Bos primigenius, Cervus elaphus, Dama dama, Capreolus capreolus, Sus scrofa, Meles meles, Equus hydruntinus e Stephanorhinus sp. La presenza di E. hydruntinus e Stephanorhinus insieme a strumenti musteriani suggerisce una correlazione con gli stadi isotopici 5-3. MAZZA P., RUSTIONI M., AGOSTINI S., ROSSI A., 2005, An unexpected Late Pleistocene macaque remain from Grotta degli Orsi Volanti (Rapino, Chieti, central Italy). Geobios, 38, 211–217 [in inglese]. IPPOPOTAMI PLEISTOCENICI EUROPEI L’individuazione delle specie ancestrali della terraferma da cui hanno avuto origine gli ippopotami pleistocenici delle isole del Mediterraneo risulta disturbata dalle incertezze tuttora esistenti circa la parentela esistente tra Hippopotamus antiquus, diffuso in Europa dal pleistocene Inferiore all’inizio del Pleistocene Medio e Hippopotamus amphibius, diffuso in Europa dal Pleistocene Medio al Pleistocene Superiore. Lo studio dei caratteri morfologici e biometrici del cranio e della mandibola, tuttavia, sembra indicare H. antiquus come antenato di H. creutzburgi di Creta, mentre H. amphibius sembra essere l’antenato di H. pentlandi di Sicilia e Malta, da cui a sua volta discenderebbe H. melitensis di Malta. I caratteri tipo-amphibius di Phanourios minutus di Cipro non indicano chiaramente la derivazione, anche per le profonde modificazioni indotte dall’endemismo. MARRA A. C., 2005. Pleistocene Hippopotamuses of Mediterranean islands: looking for ancestors – In Alcover, J. A. & Bover, P. (Eds.): Proceedings of the Internation Symposyum “Insular Vertebrate Evolution: the Palaeontological Approach”. Monographias de la Societat d’Història Natral de Ils Balears, vol. 12. [in inglese]. PALEOITALIA FUSULINE RIMANEGGIATE DELLA SICILIA 47 Notizie italiane Diversi generi e specie di fusuline sono state identificate nella Formazione Lercara affiorante in Sicilia e attribuita con certezza al Trias,. Si tratta di: Reichelina sp., Schubertella paramelonica, Toriyamaia (?) sp., Neofusulinella lantenoisi, Yangchienia compressa, Rauserella staffý, Darvasites contractus,Chalaroschwagerina (Taiyuanella?) aff. davalensis, Levenella aff. evoluta, Pamirina darvasica, and Neoschwagerina ex gr. craticulifera. Dell’asso-ciazione fanno anche parte alcuni foraminiferi permiani e delle calcisfere, tra cui la specie Asterosphaera pulchra. Questi microfossili indicano che, nella Formazione Lercara sono stati rimaneggiati diversi piani del Permiano e forse anche il Missipiano (Carbonifero inferiore). A causa di questi multipli rimaneggaimenti, la Sicilia rimane dunque una regione controversa per fare delle correlazioni biostratigrafiche e paleobiogeografiche, almeno per quello che riguarda il Permiano. CARCIONE L., D. VACHARD D., MARTINI R., ZANINETTI L., ABATE B., LO CICERO G., MONTANARI L., 2004, Reworking of fusulinids and calcisphaerids in the Lercara Formation (Sicily, Italy); geological implications.Compte Rendu Palevol, 3, 361-368 [in inglese]. PALEOITALIA 48 Paleo news a cura di Paolo Serventi [email protected] LA “RESURREZIONE” DELL’ORSO DELLE CAVERNE (?) Grazie al lavoro congiunto del Lawrence Berkeley National Laboratory e del Joint Genome Institute (Stati Uniti), dell’Istituto Max Planck di Antropologia evolutiva (Germania) e dell’Università di Vienna (Austria), che hanno lavorato sui resti, rinvenuti in due caverne in Austria, è stata ottenuta la mappa del DNA dell’orso delle caverne. Infatti dallo studio del patrimonio genetico dell’orso, ricavato dalle analisi, sono stati isolati 21 geni che sono stati confrontati con altrettanti geni appartenenti al cane (orso e cane condividono il 92% del loro patrimonio genetico). Giustificato l’entusiasmo dei ricercatori per il risultato ottenuto per la prima volta, sapendo che il DNA comincia a degradarsi immediatamente dopo la morte dell’organismo, sottoposto “Ma non potevamo clonare un topolino?!?” agli “attacchi” dei microrganismi e dell’ambiente esterno. Secondo gli scienziati il limite massimo cui si può risalire con questa analisi è di 100.000 anni e pertanto non è possibile ricostruire il DNA dei dinosauri. Pensano invece che potrebbe essere realistico ottenere la mappa genetica di lontani parenti dell’uomo, come Homo neanderthaliensis. La notizia è stata pubblicata il 2 giugno nell’edizione on line della rivista Science. IL PIÙ VECCHIO CONIGLIO CONOSCIUTO È stato trovato il “bis- bisbisnonno” di Bugs Bunny! Lo scheletro pressoché intatto di un coniglio, completo di cranio con i lunghi denti frontali, le zampe anteriori corte e quelle posteriori lunghe, è stato trovato in Mongolia. Questo fossile, chiamato Gomphos elkema, rinvenuto da Guillermo Rougier, con i colleghi della Scuola di Medicina dell’Università di Louisville, indicherebbe che i lagomorfi (il gruppo che comprende lepri etc.) apparvero dopo, e non prima, la fine del Cretacico. Inoltre gli odierni roditori e i conigli avrebbero in comune un unico predecessore. Il nuovo scheletro ha circa 56 milioni di anni ed è 20 milioni di anni più vecchio del … più vecchio coniglio mai rinvenuto. La notizia riportata sul numero di febbraio di Science. PALEOITALIA 49 Paleo news NUOVE SCOPERTE SU CLOUDINA Cloudina è uno dei più antichi animali dotato di scheletro mineralizzato in carbonato di calcio. Questo piccolo fossile tubolare è stato rinvenuto in rocce di circa 660 Ma, quindi prima della “esplosione Cambriana”, avvenuta intorno ai 545 Ma. Cloudina è un importante fossile stratigrafico, perché caratterizza il periodo Ediacariano. Tuttavia gli scienziati non sanno ancora quale tipo di animale Cloudina fosse o quale parte rappresenti. Ora un nuovo studio condotto su fossili rinvenuti nella Formazione di Dengying nel sud della Cina da ricercatori cinesi della Northwest University della città di Xi’an, Cloudina conferma alcune osservazioni circa la forma di Cloudina e fa delle ipotesi su come vivesse. Gli autori osservano che il “tubo” di Cloudina è una sorta di nido privo di muri trasversali, che contrad-dice la ricostruzione tradizionale dei coni inseriti uno dentro l’altro. Inoltre sono stati trovati un certo numero di esemplari che si separano in due tubi distinti; ciò significherebbe, secondo i ricercatori, che questo animale avesse una riproduzione asessuata attraverso gemmazione. La morfologia di Cloudina è simile al moderno gruppo dei serpulidi, invertebrati appartenenti agli anellidi (vermi, n.d.r.), ma i ricercatori non sono ancora sicuri se queste “somiglianze” indichino una vera relazione evoluzionistica o piuttosto una convergenza evolutiva. Il lavoro è apparso nel numero di Geology di Aprile SCOPERTO IL SESSO DEI DINOSAURI? Un gruppo di ricercatori americani, coordinati dalla paleontologa Mary Schweitzer dell’Università North Carolina State, pare abbia svelato il mistero sul sesso dei dinosauri. Grazie a una nuova tecnica che si basa sul confronto dei tessuti ossei degli uccelli (p.e. gli struzzi) con quelli dei dinosauri, gli studiosi si sono resi conto che il fossile di Tyrannosaurus rex, scoperto nel 2002 nel Montana, ha all’interno del femore uno strato osseo “medullary bone” (osso midollare) molto simile a quello degli uccelli attuali di sesso femminile. Questa struttura ossea, ricca di calcio, contiene piccoli vasi sanguigni necessari a trasportare il calcio alle uova in via di formazione. Partendo da queste considerazioni M. Schweitzer ha affermato che lo scheletro di T. rex appartiene a una femmina, che la scoperta è una ulteriore prova del legame evolutivo tra i dinosauri e gli uccelli e che da questo momento sarà possibile identificare il sesso dei dinosauri. Link alla notizia: http://news. nationalgeographic.com/news/2005/06/ 0602_050602_dino_sex.html 50 PALEOITALIA Paleo news IL PRIMO UCCELLO Il paleontologo cinese Ji Qiang, noto per lo studio della fauna fossile di Liaoning, ha dichiarato di aver rinvenuto lo scheletro dell’uccello più primitivo, addirittura più vecchio dello stesso Archaeopteryx. Il reperto, del Giurassico superiore, è stato trovato nel luglio scorso a Fengning, a 120 chilometri da Pechino, nel nord della Cina. Il nuovo fossile, lungo circa 54 cm, è stato chiamato Jinfengopteryx elegans e ha la testa triangolare con un becco provvisto di 36 denti. La colonna vertebrale ha 12 vertebre cervicali, 11 presacrali e 23 caudali. La coda è lunga circa 27 cm e sono presenti le “immancabili” penne. Secondo Ji Qiang, Jinfengopteryx è più primitivo di Archaeopteryx sia per le zampe posteriori, che nell’animale cinese sono più lunghe di quelle anteriori, mentre in Archaeopteryx le zampe anteriori e posteriori sono quasi uguali, sia per la dentatura che nel teropode cinese è formata da un numero maggiore di denti più alti rispetto a quelli del “primo uccello” tedesco. Link alla notizia: http:// english.people.com.cn/200503/24/ eng20050324_178035.html 65 milioni di anni fa... EL LA FINE D C I ’ V INA! MONDO E .ANZI I.. PENTITEV VETEVI!!! EVOL PALEOITALIA 51 Paleo Lex a cura di Manuela Lugli [email protected] Il signor Giovanni Manai, socio SPI, mi sottopone il seguente quesito: “In accoglimento all’invito fatto dalle Soprintendenze il sottoscritto ed altri amici inviammo l’elenco del materiale in nostro possesso, ritenendo così di “regolarizzare” la nostra posizione e non incorrere in violazioni di legge. L’elenco stilato comprendeva tutto il materiale posseduto, comprensivo quindi anche di pezzi acquistati su bancarelle o ricevuto in dono, di provenienza estera. Vorrei sapere se il materiale che non è di provenienza italiana, ma incluso nell’elenco inviato a suo tempo alla Soprintendenza debba essere trattato e custodito come il materiale di provenienza italiana, disciplinato dalla legge sui beni culturali, oppure se il materiale di provenienza estera è libero da vincoli.” * * * Occorre sottolineare qualora non fosse stato chiarito a sufficienza che le cose che interessano la paleontologia (tanto per restringere il campo dei beni culturali a ciò che ci interessa) possono essere di proprietà privata o pubblica. Nell’articolo apparso sullo scorso numero di Paleoitalia sono stati fatti alcuni esempi di ipotesi in cui le cose che interessano la paleontologia di provenienza italiana possono essere di proprietà privata. In effetti l’elenco può essere completato dalle cose che interessano la paleontologia “acquistate da chi è stato autorizzato ad esercitarne il commercio”. E ciò vale sia per i beni culturali di provenienza italiana, sia per quelli di provenienza estera. Ora l’inclusione nei famosi elenchi inviati alla Soprintendenza di un fossile di proprietà privata, non ne muta certo la natura, nel senso che se il fossile è di proprietà privata lo stesso rimane tale. Le cose che interessano la paleontologia di proprietà privata (di provenienza italiana o estera, non ha importanza) non sono soggette a vincoli. Esse non debbono essere tenute a disposizione, ma possono essere liberamente 52 PALEOITALIA trasferite e ciò fino a quando al privato non venisse notificata la dichiarazione che accerta la sussistenza dell’interesse culturale secondo il meccanismo previsto dagli artt. 13 e seguenti del codice dei beni culturali. Ma tale eventualità potrebbe anche non verificarsi mai, né il privato cittadino ha interesse a provocare un pronunciamento del Ministero dato che il bene privato non è neppure potenzialmente vincolato. Ad ogni modo va sottolineato che nel caso di beni di proprietà privata l’interesse culturale che potrebbe giustificare l’interessamento del Ministero, finalizzato all’apposizione del vincolo attraverso la notifica della dichiarazione prevista dal citato art 13, deve essere, a norma dell’art. 10, terzo comma lett. a) particolarmente importante. PALEOITALIA 53 Paleolibreria a cura di Annalisa Ferretti [email protected] Come vedrete sotto, questo numero di Paleolibreria esce in versione monotematica. Particolare risalto viene infatti dato al recente volume di Paleontologia dei Vertebrati, curato da Laura Bonfiglio ed edito dal Museo Civico di Storia Naturale di Verona, che ha riunito i principali specialisti italiani del settore nel tentativo, perfettamente riuscito, di sintetizzare le attuali conoscenze sul patrimonio paleontologico a Vertebrati presente in Italia. Come sempre, aspettiamo le vostre segnalazioni, anche per lavori a carattere “locale” che ci sarebbe difficile conoscere altrimenti. Buona lettura a tutti Paleontologia dei vertebrati in Italia. Evoluzione biologica, significato ambientale e paleogeografia, a cura di Laura Bonfiglio; Memorie del Museo Civico di Storia Naturale di Verona – 2.serie. Sezione Scienze della Terra, 6, 2005, 238 pagine. [Laura Bonfiglio] A distanza di 25 anni dalla pubblicazione de “I vertebrati fossili italiani”, catalogo della mostra allestita al Palazzo della Gran Guardia di Verona nel 1980, questo volume presenta un panorama aggiornato dello stato delle conoscenze sui vertebrati fossili italiani i quali, pur essendo relativamente rari nella documentazione paleontologica rispetto ai resti fossili di invertebrati, hanno grandissimo significato paleobiogeografico e paleoambientale. In questi venticinque anni le ricerche sui vertebrati fossili italiani hanno avuto uno straordinario sviluppo con il riconoscimento di nuovi taxa, la segnalazione di nuovi depositi, lo sviluppo dell’analisi tafonomica, la ricerca di correlazioni con depositi marini, la definizione di scale biocronologiche dettagliate e la integrazione dei dati paleontologici con quelli isotopici e paleomagnetici, oltre che con datazioni geochimiche e numeriche. Il volume registra puntualmente tutte le novità che sono emerse in questi anni. I vertebrati fossili italiani sono presentati secondo un ordine cronologico, a partire dal Paleozoico superiore fino al Quaternario e nei singoli capitoli, coordinati da diversi specialisti (A.Tintori, T. Kotsakis, L. Rook ,W. Landini, C. Petronio, L. Bonfiglio) sono esposti i risultati delle minuziose ricerche condotte sui vertebrati fossili marini e continentali distribuiti in un intervallo 54 PALEOITALIA temporale di qualche centinaio di milioni di anni. Del ricco patrimonio di vertebrati fossili italiani illustrati nel volume fanno parte alcuni esemplari unici al mondo per significato paleobiologico e per il contributo che possono dare alla conoscenza della evoluzione dei viventi. Le nuove segnalazioni di depositi contenenti resti di Dinosauri hanno portato contributi inaspettati alla conoscenza della paleogeografia dell’area mediterranea durante l’Era Mesozoica. I depositi cenozoici risultano straordinariamente ricchi di resti di ambiente sia continentale che marino e alcuni dei nuovi siti segnalati presentano un interesse globale sotto l’aspetto paleoambientale e paleobiologico. I depositi a vertebrati continentali pleistocenici sono ordinati in uno schema biocronologico preciso e ben documentato. Le ricerche sui vertebrati pleistocenici insulari hanno dati interessanti risultati con il riconoscimento di successive fasi di dispersione di “Complessi faunistici” dal continente alle grandi isole italiane. La descrizione della litologia dei depositi e il richiamo ai resti di invertebrati che frequentemente accompagnano i vertebrati marini tende a ricostruire il quadro ambientale che ha controllato la vita, la morte e i processi di fossilizzazione dei diversi taxa. I frequenti richiami alle affinità tra i taxa presenti in Italia e quelli noti in altre aree geografiche mettono in luce il significato paleobiogeografico globale di alcuni dei vetebrati fossili italiani e ilustrano la successione degli eventi che hanno preceduto la formazione della penisola italiana così come è attualmente. La maturazione di una nuova sensibilità nei confronti dei depositi fossiliferi a vertebrati come documenti della storia del territorio e come “monumenti naturali” da conoscere e valorizzare, ha sostanzialmente cambiato l’atteggiamento dei ricercatori e ha dato luogo a iniziative volte alla tutela, alla valorizzazione e alla fruizione del ricco patrimonio dei depositi a vertebrati fossili italiani, alle quali viene fatto anche riferimento nel volume. Molte segnalazioni di siti importanti provengono da appassionati raccoglitori di fossili. Si è voluto sottolineare anche questo aspetto in un’opera per la quale si è scelto di utilizzare, nel rispetto del rigore scientifico, un linguaggio semplice e comprensibile anche da non specialisti e che potrà avere anche un valore educativo stimolando lo spirito di osservazione di qualche appassionato. Il volume, finanziato dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Verona Vicenza Belluno e Ancona non è in vendita. Le copie disponibili possono essere richieste alla Direzione del Museo Civico di Storia Naturale di Verona, e-mail: [email protected] INDICE DEL VOLUME INTRODUZIONE, a cura di Laura Bonfiglio. Presentazione, Laura Bonfiglio. Cenni di Storia della Paleontologia dei vertebrati in Italia, Tassos Kotsakis. Ricerca, recupero e progetti di valorizzazione, Laura Bonfiglio, Gabriella Mangano. Insularità e vertebrati terrestri endemici, Laura Bonfiglio. Bibliografia PALEOITALIA 55 PALEOZOICO E MESOZOICO, a cura di Andrea Tintori. Il Permo-Triassico marino- I siti minori, Andrea Tintori, Marco Avanzini, Fabio Dalla Vecchia, Cristina Lombardo, Silvio Renesto, Ausonio Ronchi. I Vertebrati continentali del Paleozoico e Mesozoico, Umberto Nicosia, Marco Avanzini, Carmela Barbera, Maria Alessandra Conti, Fabio Dalla Vecchia, Cristiano Dal Sasso, Piero Gianolla, Giuseppe Leonardi, Marco Loi, Nino Mariotti, Paolo Mietto, Michele Morsilli, Anna Paganoni, Fabio Massimo Petti, Daniele Piubelli, Pasquale Raia, Silvio Renesto, Eva Sacchi, Giuseppe Santi, Marco Signore Il Triassico medio delle Prealpi Lombarde, Andrea Tintori, Cristiano Dal Sasso, Markus Felber, Cristina Lombardo, Stefania Nosotti, Silvio Renesto, Giorgio Teruzzi Il Norico marino dell’Italia Settentrionale, Andrea Tintori, Fabio Dalla Vecchia, Emanuele Gozzi, Cristina Lombardo, Giuseppe Muscio, Silvio Renesto Il Giurassico marino, Andrea Tintori, Cristiano Dal Sasso, Fabio Dalla Vecchia Umberto Nicosia, Giorgio Teruzzi Il Cretaceo marino, Fabio Dalla Vecchia, Carmela Barbera, Fabrizio Bizzarini, Sergio Bravi, Massimo Delfino, Luca Giusberti, Guido Guidotti, Paolo Mietto, Cesare Papazzoni, Guido Roghi, Marco Signore, Oronzo Simone. Bibliografia IL PALEOGENE, a cura di Tassos Kotsakis I vertebrati marini, Walter Landini, Chiara Sorbini, Tassos Kotsakis, Giovanni Bianucci, Andrea Tintori I Vertebrati continentali, Tassos Kotsakis, Patrizia Argenti, Giancarlo Barisone, Massimo Delfino, Maria Rita Palombo, Marco Pavia, Paolo Piras, Bibliografia IL MIOCENE, a cura di Lorenzo Rook I Vertebrati marini, Walter Landini, Giovanni Bianucci, Michelangelo Bisconti, Giorgio Carnevale, Chiara Sorbini, Angelo Varola I Vertebrati della Pietra Leccese Le terre emerse del Miocene, Lorenzo Rook, Tassos Kotsakis I vertebrati continentali, Lorenzo Rook, Laura Abbazzi, Massimo Delfino, Marco Peter Ferretti, Paul Mazza, Danilo Torre Le associazioni a vertebrati continentali del Messiniano, Lorenzo Rook, Laura Abbazzi, Massimo Delfino Bibliografia IL PLIO-PLEISTOCENE, a cura di Walter Landini e Carmelo Petronio I Vertebrati marini, Walter Landini, Giovanni Bianucci, Michelangelo Bisconti, Giorgio Carnevale, Chiara Sorbini I Vertebrati Marini del Fiume Marecchia Il Giacimento di Orciano (Pisa) Le faune a mammiferi del Plio-Pleistocene, Carmelo Petronio, Anna Paola Anzidei, Claudia Bedetti, Fabio Bona, Emanuele Di Canzio, Sergio Gentili, Paul Mazza, Maria Rita Palombo, Marco Pavia, Leonardo Salari, Raffaele Sardella, Andrea Tintori L’area di Villafranca d’Asti e l’Unità Faunistica di Triversa I mammiferi fossili del ramo sud-occidentale del Bacino Tiberino, Umbria Poggio Rosso (Valdarno superiore) I vertebrati fossili delle ligniti di Pietrafitta, Bacino di Tavernelle/Pietrafitta Torre in Pietra La Polledrara di Cecanibbio (Roma) La Caverna Generosa: un tipico deposito di Grotta ad Ursus spelaeus Bibliografia I VERTEBRATI DELLE ISOLE, A cura di Laura Bonfiglio La Sardegna, Maria Rita Palombo, Laura Abbazzi, Chiara Angelone, Claudia Benedetti, Massimo Delfino, Tassos Kotsakis, Federica Marcolini, Marco Pavia La Sicilia, Laura Bonfiglio, Gianni Insacco, Gabriella Mangano, Federico Masini, Marco Pavia, Daria Petruso Le isole minori, Tassos Kotsakis, Laura Bonfiglio Bibliografia 56 PALEOITALIA PALEOWEB a cura di Maurizio Gnoli [email protected] Dopo alcune puntate dedicate prevalentemente a siti stranieri, in questo numero ci occupiamo solo di siti italiani. Gli anglosassoni sono soliti distinguere i fossili in due categorie: 1) “bulk fossils”, o fossili veri e propri e 2) “trace fossils”, le impronte e tracce fossili. È proprio di questi che voglio suggerire un sito preparato dal Dr. Paolo Monaco del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Perugia dove tiene un corso di Ichnologia e da lui chiamato “MetaIchnology” http://www. unipg.it/~pmonaco/Ichnologysite/ framePage.html. Nella videata iniziale compare un’illustrazione di come la paleoichnologia abbia legami con molte discipline di Scienze della Terra e biologiche ed un testo introduttivo alla disciplina. Sulla sinistra compare un indice del contenuto con 10 “bottoni” cliccabili: dalla storia dell’Ichnologia (1) agli esempi di tracce fossili in Italia (10). Lo stesso autore cura anche una pagina web sui crostacei decapodi fossili http://www.unipg.it/ ~pmonaco/Crustaceans/ framePage.html . Credevate che avessi finito? NO, almeno per l’anno accademico 2004/ 2005 mi hanno “rifilato” (si fa per dire) il Corso di Paleontologia del Quaternario e poiché sono un curioso navigatore ho trovato sul web un sito curato dalla prof.ssa Maria Rita Palombo del Dipartimento di Scienze della Terra, Università di Roma “La Sapienza”. Una vera esperta in materia con più di 120 pubblicazioni che vi condurrà attraverso un fantastico PALEOITALIA 57 argomento che ci riguarda molto da vicino in quanto è difficile parlare di questo periodo geologico senza prendere in considerazione anche l’evoluzione dei nostri antenati in un mondo non sempre ospitale. Andate quindi al sito di “Quando in Italia vivevano gli elefanti”, alias: http:// w w w. l e o n a rd o d a v i n c i ro m a . i t / p u b l i c / A t t i v i t a C u l t u r a l i / 1 4 / approfondimenti/approf_geologia/appfossili.htm e divertitevi! A mio avviso il sito potrebbe costituire un vero “Bignamino” sulla Paleontologia del Quaternario. Vi ricordate quando, alle scuole superiori, per un veloce ripasso prima di una interrogazione o un compito in classe su una determinata materia si ricorreva a quei volumetti, i “Bignami” per l’appunto, che pur essendo coincisi non trascuravano nulla di importante? Nella videata iniziale compare sulla destra dell’indice dei contenuti un’immagine di Elephas anticuus. L’indice comprende Premessa, Il Paleoclima, Le Faune a Grandi Mammiferi, Villafranchiano, Galeriano, Aureliano, Aureliano superiore, Bibliografia e Fonti Iconografiche. Il tutto con bellissime immagini. Come potrete constatare di persona, viene trascurato ben poco. Se qualcuno oltre alle notizie paleontologiche desidera conoscere qualcosa sull’arte rupestre vada al: http://www.culture.gouv.fr/culture/ arcnat/lascaux/en/visite.htm dove potrà ammirare cosa erano capaci di fare i nostri predecessori durante il Paleolitico superiore 10.000 anni fa a Lascaux. Meno spettacolare ma altrettanto importante (patrimonio mondiale dell’umanità) sono i graffiti della Val Canonica raggiungibili al: http:/ /www.arterupestre.net/territorio/ valcamonica.htm. Cos’altro devo aggiungere, o prodi nostromi, se non quello di levare le ancore ed imperativamente navigare, navigare, e se non c’è vento cominciare a soffiare sulle vele o andare a motore, inquinando il meno possibile, mi raccomando! Promettendo d’ora in poi di continuare a dedicare sempre maggior spazio a siti italiani, alla prossima … PALEOITALIA 58 Agenda Congressi e convegni Società Paleontologica Italiana Giornate di Paleontologia 2006 Corsi Foraminiferi Planktonici Eocenici 20-24 febbraio 2006 Perugia giugno 2006 Trieste Si prevedono due giornate di comunicazioni scientifiche e due di escursione. Informazioni più precise saranno disponibili al più presto nel sito web della S.P.I. (www.spi.unimo.it). Per informazioni: Roberto Rettori - Dipartimento di Scienze della Terra, Piazza Università, 1 - I-06100 Perugia; fax: 075 5852603; e-mail: [email protected] Sito web: http://www.www.unipg.it/~denz/ Per ulteriori informazioni vedere la finestra qui sotto. INTERNATIONAL SCHOOL ON PLANKTONIC FORAMINIFERA 5° CORSO FORAMINIFERI PLANKTONICI EOCENICI TASSONOMIA, BIOSTRATIGRAFIA E RELAZIONI FILOGENETICHE Perugia, 20-24 Febbraio 2006 Prof. Isabella PREMOLI SILVA Università di Milano Con la collaborazione di: Dr. Maria Rose Petrizzo Per informazioni: Dr. Roberto Rettori - Dipartimento di Scienze della Terra, Piazza Università, 1 - I-06100 Perugia; tel.: 00390755852664; fax: 075 5852603; e-mail: [email protected] Sito Web: http://www.unipg.it/~denz/ PALEOITALIA 59 LA SOCIETÀ PALEONTOLOGICA ITALIANA La Società Paleontologica Italiana è stata fondata nel 1948 con lo scopo di promuovere la ricerca scientifica paleontologica. L’associazione è aperta sia alle istituzioni, sia ai singoli interessati alla paleontologia, sia a livello professionale che amatoriale. Per l’anno 2004, le quote associative sono le seguenti: Socio Ordinario (paesi europei) 35 € Socio Ordinario (extra U.E.) 45 € Socio junior (under 30) 21 € Istituzioni 100 € Fin dal 1960 la S.P.I. pubblica il Bollettino della Società Paleontologica Italiana, che è una rivista scientifica a valore internazionale, rivolta prevalentemente al mondo accademico e, conseguentemente, scritta quasi interamente in lingua inglese. Dal 2000 il Bollettino viene affiancato da un supplemento semestrale in italiano, PaleoItalia, diretto a tutti gli appassionati e cultori della paleontologia. PALEOITALIA Supplemento al Bollettino della Società Paleontologica Italiana, v.44, n.3, 2005 Direttore Responsabile: Enrico Serpagli Segretario di Redazione: Carlo Corradini Indirizzo della Redazione: Dipartimento del Museo di Paleobiologia e dell’Orto Botanico, Università di Modena e Reggio Emilia, via Università 4, 41100 Modena. Tel. 059-2056523. Stampa: Tipografia Moderna, via dei Lapidari 1/2, Bologna. Autorizzazione Tribunale di Modena n. 616 del 16-09-1978 HANNO COLLABORATO A QUESTO NUMERO Davide Bassi, Dipartimento delle risorse culturali e naturali, Universtà di Ferrara, corso Ercole I d’Este 32, 44100 Ferrara; [email protected] Laura Bonfiglio, Dipartimento di Scienze della Terra, Università di Messina, salita Sperone 31, 98166 S. Agati di Messina. [email protected] Barbara Cavalazzi, Dipartimento di Scienze della Terra e Geo-Ambientali, Università di Bologna, via Zamboni 67, 40127 Bologna; [email protected] Rodolfo Coccioni, Dipartimento di Geologia, Università di Urbino, Campus Scientifico Località Crocicchia, 61029 Urbino (PU) Cristiano Dal Sasso, Museo Civico di Storia Naturale, Corso Venezia 55, 20121 Milano; [email protected]; [email protected] Lucia Lops, Dipartimento di Scienze della Terra, Universtà di Milano, via Mangiagalli 43, 20133 Milano; [email protected] Jordi Orso, via Biancardi 2, 20149 Milano; [email protected] Luca Ragaini, Dipartimento di Scienze della Terra, via S. Maria 53, 56126 Pisa; [email protected] 60 PALEOITALIA INDICE Numero 13, Carlo Corradini Cari Soci SPI, Antonio Russo Giornate di Paleontologia 2005, Rodolfo Coccioni Appunti sulla preparazione e sulla conservazione dei fossili. I - preparazione meccanica, Cristiano Dal Sasso Crassostrea, ovvero come conquistare un nuovo ambiente, Luca Ragaini p. p. p. 1 2 3 p. 7 p. 12 Rispolverando i celacanti!, Lucia Lops Le escursioni dei soci paleontofili nel 2005, Jordi Orso p. p. 18 24 IFAA 5th Regional Symposium, Davide Bassi p. L’attività microbica in rocce carbonatiche prodotte in ecosistemi ichemiosintetici: documentazione fossile e potenziale di preservazione, Barbara Cavalazzi p. 35 RUBRICHE Notizie Italiane, Carlo Corradini Paleo news, Paolo Serventi PaleoLex, Manuela Lugli Paleolibreria, Annalisa Ferretti Paleoweb, Maurizio Gnoli Agenda p. p. p. p. p. p. 36 43 48 51 53 56 58 NOTE PER GLI AUTORI Gli articoli non devono superare le tre pagine dattiloscritte. È gradito un corredo iconografico (fotografie, disegni, grafici, …); nel caso di fotografie a colori, esse devono essere ben contrastate, in modo da avere una buona resa se pubblicate in bianco e nero. Gli autori possono fornire, se lo ritengono utile, alcune note bibliografiche. Gli autori sono pregati di inviare i propri testi possibilmente tramite posta elettronica, come “attached files”, oppure su dischetti da 3.5 pollici, specificando il programma di videoscrittura utilizzato. Le immagini digitalizzate vanno salvate come file bmp o jpg, possibilmente a 300 dpi. Di norma gli autori non avranno la possibilità di visionare le bozze. Agli autori non saranno forniti estratti degli articoli. Gli articoli e il materiale illustrativo devono essere inviati per posta elettronica all’indirizzo: [email protected] oppure, in caso di impossibilità, a: PaleoItalia – Dipartimento del Museo di Paleobiologia e dell’Orto Botanico – Università di Modena e Reggio Emilia – via Università 4 – 41100 Modena.