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22/09/2015 06:04
Così risplende la Basilica segreta
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Le foto in bianco e nero di Ammendola svelano la luce barocca Il rifacimento di San Pietro del 1451 con i fondi di
quel Giubileo
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Era opportuno che per il Giubileo straordinario
indetto dallo straordinario Papa Francesco si
tornasse su uno dei "miracoli" di Roma, la basilica
di San Pietro, dove l'8 dicembre comincerà l'Anno
della Misericordia. E dunque, pure se l'idea ha
preceduto l'annuncio del pontefice argentino, la
realizzazione e l'uscita di un prezioso libro
dedicato al principale tempio dei cattolici da
quell'annuncio ha trovato impulso. Così dà
suggestione, alla vigilia del Giubileo, sfogliare "La
Basilica di San Pietro", 400 pagine in tiratura
certificata di 999 esemplari editi da Franco Maria
Ricci e a cura di monsignor Pasquale Iacobone.
Vi si racconta la storia architettonica della chiesa
che ospita il corpo del martire Pietro sotto la
cupola michelangiolesca. Storia partita dal primo
secolo dopo Cristo e increspata di magnificenza
con la costruzione, a partire da metà del '400, della
"basilica nuova". Una storia raccontata da 120
fotografie, rese più spettacolari dal bianco e nero di
Aurelio Amendola, che vi ha affiancato anche
Altri articoli che parlano di...
immagini a colori. Ma è proprio quel bianco e nero
che rende "messianici" gli scorci di archi, navate,
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cupola, cappelle, sculture. E che la copertina
Cultura & Spettacoli
esalta: il baldacchino del Bernini fotografato ad
altezza dell'altare e bersagliato da tre fasci di luce,
una "trinità" barocca (perché barocchi appaiono gli scatti di Amendola) che tracima dalle finestre della
chiesa.
La sezione iconografica è un polo del libro. L'altro è fatto di parole, saggi rivelatori con storie
conosciute ma spiegate con angoli di visuale inediti (di Ravasi, Marder, Schutze, Righetti, Forti). Ma c'è
anche il contributo di Christoph Luitpold Frommel, già direttore della Biblioteca Herziana, che dedica 50
cartelle alla costruzione, dal tempio paleocristiano a quello coronato dal colonnato del Bernini e fino alle
porte novecentesche scolpite tra gli altri da Giacomo Manzù. Così distesa nei secoli, la costruzione,
che il detto "lungo come la fabbrica di San Pietro" risulta azzeccatissimo. Perché, spiega Frommel, nel
1451 papa Niccolò V decide di costruire una basilica nuova su quella che ai suoi tempi era
grossomodo l'opera voluta dall'imperatore Costantino e inaugurata probabilmente nel 326, come ha
indicato ieri, al "battesimo" del volume, il cardinale Farina? Perché il Giubileo dell'estate 1451, appunto,
aveva portato a Roma tanti pellegrini da rimpolpare abbondantemente le casse dello Vaticano e
insieme da rendere evidente l'inadeguatezza funzionale della basilica. Ne occorreva, insomma, una più
grande, e soprattutto meno spartana dell'originaria, perché la Santa Romana Chiesa era l'ombelico del
mondo, o tale voleva riconfermarsi mentre si rafforzava l'impero ottomano. Niccolò V affida il progetto a
Bernando Rossellino, ma, annota Frommel, affiancandosi egli stesso all'architetto il quale pure fa
arrivare quattro colonne dal tempio di Agrippa. E soprattutto mettendogli dietro l'archistar del momento,
Leon Battista Alberti. Che ci infila un provvidenziale zampino allorché in un trattato indica come salvare
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il muro fuori asse della navata centrale. La conquista di Costantinopoli da parte dei turchi è una batosta
che costringe il Papato, nel 1455, a sospendere i lavori della basilica, costata fino ad allora quasi 12
mila ducati d'oro: gli altri denari destinati al cantiere andarono invece alla improcrastinabile Crociata. In
un certo senso, fu una fortuna per la magnificenza di San Pietro. I lavori riprendono nel 1505 con il
mecenate Giulio II che li affida al Bramante: sarà una basilica ancora più grandiosa, coronata dalla
cupola di Michelangelo, che, a differenza di quanto ideato da Rossellino, diventerà più alta della
concorrente brunelleschiana di Santa Maria del Fiore a Firenze: diametro di 41,50, tre in meno che al
Pantheon, altezza di 133,30 metri, sedici in più del Duomo fiorentino.
San Pietro diventa scrigno di bellezza. Con un acme, la Pietà di Michelangelo, alla quale Antonio
Paolucci, direttore dei Musei Vaticani, dedica un sapiente capitolo. Il quale comincia con l'ammirato e
basilare giudizio del Vasari: quel Gesù morto e quella Vergine che lo sostiene in grembo sono opera
"alla quale non pensi mai scultore, né artefice raro, poter aggiungere di disegno né di grazia…". Una
perfezione tale, rilancia Paolucci, che "quella scultura si spiega solo con se stessa". Un anno soltanto
impiegò Michelangelo per realizzarla, nel 1459, su commissione del cardinale francese ambasciatore
di Carlo VIII alla corte papale che lo pagò 450 ducati d'oro. In principio fu collocata nel vecchio San
Pietro nella cappella detta del Re di Francia. Dal 1749 è dove oggi la vediamo. Già sistemata da
restauro, per rimediare alle 4 dita della Madonna mutilate. Ma l'intervento universalmente noto è quello
del 1972, dopo che un folle prese la scultura a martellate rompendo la punta del naso e l'orecchio
sinistro della Vergine. Il restauro, sottolinea Paolucci, fu mimetico, contravvenendo a ragione ai principi
consacrati, secondo i quali è necessario che si evidenzino le parti ricostruite. Ma la "finitezza formale"
è la "ragione principale del fascino" della Pietà. Dunque farla tornare perfetta, come Michelangelo la
realizzò, era imperativo categorico. Il mondo ringrazia.
Lidia Lombardi
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