La fiaba tra racconto e narrazione di senso

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La fiaba tra racconto e narrazione di senso
«SI N EST ESI EON LI N E »
Periodico quadrimestrale di studi sulla letteratura e le arti
Supplemento della rivista «Sinestesie»
Numero 11
Marzo 2015
« SI N E ST E SI EON L I N E»
Periodico quadrimestrale di studi sulla letteratura e le arti
Supplemento della rivista «Sinestesie»
ISSN 2280-6849
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Venite venite b-52
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Ermes Visconti: echi vichiani nell’interpretazione del ‘romantico’
*
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Mediterraneità europea: Arti, Letterature, Civiltà del Mediterraneo.
Per rifondare l’identità del cittadino europeo del XXI secolo
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Le costellazioni nei neri letti dell’orizzonte
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Il fazzoletto di Desdemona. La letteratura della recessione da Umberto
Eco ai TQ, ebook, Bompiani, Milano 2014
(Carlangelo Mauro)
Lucia Schettino
La fiaba tra racconto e narrazione di senso
La proposta di prendere in considerazione le fiabe come un insostituibile strumento pedagogico, è inevitabilmente radicata in un contesto
storico-culturale e si fa interprete di un bisogno di senso che nasce dal
nichilismo assoluto in cui rischia di precipitare la pedagogia e noi con
lei. La nostra epoca postmoderna porta il marchio del trionfo della
comunicazione elettronica in tempo reale, della fine di quelle grandi
narrazioni che delineavano un orizzonte di senso per ogni generazione
e della scomparsa di quelle opere d’arte intese come fonti di esperienze
estetiche uniche e di ordine superiore, sostituite da produzioni effimere di sensazioni di piacevolezza, che niente hanno a che vedere con
l’inquietudine che le opere provocatorie dell’età moderna incutevano
nel fruitore. In questo scenario, dovere dei pedagogisti e dei filosofi
è quello di far fronte alla deriva verso quello che Giuseppe Acone
chiama ludismo nichilistico e che assume la forma della «riduzione
della realtà a mero apparato di tipo ludiforme, […] in cui anche la
vita umana diviene tecnica della produzione e della riproduzione»1.
Il progetto pedagogico, inteso come «passaggio da una generazione
all’altra di un qualsiasi orizzonte di senso»2, è entrato in crisi con la
postmodernità. «L’educazione e la paideia intenzionale hanno bisogno
sempre di un orizzonte di senso. Ed esso non può essere schiacciato
1
G. Acone, Cultura prevalente ed emergenza educativa, in «Pedagogia e vita»,
Editrice La Scuola, Brescia, serie 67, n. 2, marzo-aprile 2009, p. 10.
2
Ivi, p. 11.
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sul solo orizzonte culturale rappresentato dall’insuperabile potenza
della tecnologia e della tecnica, in ultima analisi vera chiave del nostro
tempo»3.
A questa urgenza di senso la fiaba può dare una risposta perché
parla il linguaggio universale dei desideri inconsci e ha il potere di
gettare un ponte tra il mondo dei bambini e il mondo degli adulti. Soddisfa così quel bisogno di testimonianza, potremmo dire parafrasando
Massimo Recalcati, attraverso la parola di un genitore «umanizzato,
vulnerabile, incapace di dire qual è il senso ultimo della vita ma capace
di mostrare, attraverso la testimonianza della propria vita, che la vita
può avere un senso»4. Il compito più importante e anche il più difficile
che si pone a chi alleva un bambino è quello di aiutarlo a dare un
senso alle esperienze e alla vita in generale. E Bruno Bettelheim, che
ha studiato a fondo il ruolo della fiaba nello sviluppo psicologico del
bambino, ha individuato l’elemento che integra l’identità proprio nella
ricerca del senso della propria vita: l’incapacità di trovare lo scopo e il
significato del vivere è infatti causa del disagio psichico. Il racconto di
storie fondate su dinamiche psichiche universali ed elementari, come
la fiaba, attiva nel bambino la capacità di mettere insieme esperienze
di vita ancora frammentate e disarticolate e di dare così un senso alla
propria esistenza. Le fiabe si differenziano, quindi, da qualsiasi altra
forma di letteratura, perché indirizzano il bambino verso la scoperta
della sua identità e della sua vocazione e gli suggeriscono le esperienze
necessarie a sviluppare ulteriormente il suo carattere.
Ma come si attiva questo meccanismo? Come può il racconto di
dinamiche e desideri inconsci, quindi universali, essere portatore di
un incremento di senso, ossia una fonte inesauribile di significazioni
diverse per ognuno? La risposta ce la suggerisce Bettelheim quando
scrive che«la fiaba non potrebbe esercitare il suo impatto psicologico
sul bambino se non fosse in primo luogo e soprattutto un’opera d’ar-
Id., La paideia introvabile, Editrice La Scuola, Brescia 2004, p. 12.
M. Recalcati, Il complesso di Telemaco. Genitori e figli dopo il tramonto del
padre, Feltrinelli, Milano 2014.
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te».5 Lo psicologo americano prende le distanze dai ricercatori orientati verso la psicologia del profondo, i quali si fermano a constatare
le analogie tra le fiabe, i miti, i sogni e le fantasticherie degli adulti,
tutti accomunati dal manifestarsi di ciò cui, nella coscienza, non è
consentito di affiorare. A differenza dei sogni e delle fantasticherie ad
occhi aperti, le fiabe, che pure parlano lo stesso linguaggio dei simboli,
svolgono una vera e propria azione terapeutica, perché propongono al
bambino sviluppi concreti e possibili soluzioni ai problemi interiori: gli
consentono così di superare l’ambivalenza dei sentimenti, di mettere
ordine a quell’incomprensibile caos di emozioni, di risolvere i dilemmi
edipici e le gelosie tra fratelli.
Obbligato è il richiamo a Freud il quale, nei diversi saggi in cui si
è occupato di interpretazioni di opere d’arte, pur fornendo contributi
interessanti, non ha colto la differenza qualitativa tra il fenomeno
onirico e quello della sublimazione artistica. Nel saggio del 1908, Il
poeta e la fantasia, il padre della psicoanalisi stabilisce un parallelo tra
il gioco – l’occupazione preferita dai bambini –, il piacere che l’adulto
prova nell’abbandonarsi alle proprie illusioni o sogni ad occhi aperti e
le fantasie del poeta. Nel gioco Freud trova le prime tracce dell’attività
poetica: ogni bambino impegnato nel gioco si comporta come un poeta
in quanto non fa altro che costruire un proprio mondo e dare a suo
piacere un assetto alle cose.6 Egli distingue perfettamente il gioco dalla
realtà e tuttavia investe affettivamente nel gioco. Allo stesso modo si
comporta il poeta con il proprio mondo di fantasia, scrive Freud, le
cui forze motrici sono i desideri insoddisfatti: un’impressione attuale risveglia nel poeta il ricordo di un’esperienza anteriore risalente
all’infanzia e da questo deriva poi il desiderio che trova appagamento
nell’opera poetica.
La differenza qualitativa tra il fenomeno onirico e la sublimazione artistica, che supporta la tesi di Bruno Bettelheim sul contributo
della fiaba allo sviluppo psicologico del bambino, va ricondotta alle
B. Bettelheim, Il mondo incantato, Feltrinelli, Milano 2014, p.18.
S. Freud, Il poeta e la fantasia (1908), in Id., Opere, Boringhieri, Torino 1972,
vol.5, p. 369.
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riflessioni di Paul Ricoeur, ed alla sua lettura filosofica dell’opera di
Freud. Per l’interpretazione dei simboli, sostiene Ricoeur, devono
operare due ermeneutiche, di cui una riconosce l’emergere di significazioni arcaiche, e l’altra l’emergere di figure anticipatrici della nostra
avventura spirituale.7 Nella scala dei livelli di creatività dei simboli,
Ricoeur individua al grado più basso la creazione dei simboli che
possiedono solo un passato, e al più alto i simboli che sono creazioni
di senso, che riprendono i simboli tradizionali e con la loro polisemia
veicolano significazioni nuove. Se nell’Edipo re Freud non vede altro
che un sogno travestito, Ricoeur legge la creazione di un secondo
dramma che tratta della tragedia dell’autocoscienza e del riconoscimento di se stessi.8 Ogni simbolo in un’opera d’arte è portatore di un
incremento di senso, «dà a pensare», per utilizzare la nota espressione
ricoeuriana. La composizione artistica crea insomma un’inesauribile rete di senso, mettendo l’uomo in contatto «con nuclei di verità
traumatici o comunque ad alta densità di senso che richiedono una
rielaborazione infinita».9
Tutta questa analisi può essere facilmente trasferita nel nostro contesto specifico della fiaba, ed è lo stesso Bettelheim a suggerirci che
le fiabe, in quanto opere d’arte, sono aperte a rielaborazioni infinite
che dipendono dal senso che vi attribuiscono i lettori o ascoltatori.
Come avviene con tutta la grande arte, il significato più profondo della
fiaba è diverso per ciascuna persona, e diverso per la stessa persona
in momenti differenti della sua vita. Il bambino trae un significato
diverso dalla stessa fiaba a seconda dei suoi interessi e bisogni del
7
P. R icoeur, Della Interpretazione. Saggio su Freud, Il Saggiatore, Milano, 2002,
p. 541.
8
Ivi, p. 557-558.
9
«La poesia e la letteratura, in altri termini, non hanno né un puro valore logico
o percettivo (teso verso il principio di realtà), né un puro valore edonistico (teso
verso il principio del piacere). Non sono né realtà, né illusione. Esprimono e trasmetterebbero, invece, nuclei di ‘verità’ che vogliono farsi strada in maniera troppo
immediata, stravolta, carica di coinvolgimenti emotivi, non ridistribuita nel corso di
un ragionamento». R. Bodei, «Le patrie sconosciute» in Filosofia ed emozioni, a cura
di Tito Magri, Feltrinelli 1999, p.182-184.
12
La fiaba tra racconto e narrazione di senso
momento. Quando gliene viene data l’occasione, egli ritorna alla stessa
storia quando è pronto a elaborare vecchi significati o a sostituirli con
significati nuovi.10
Le fiabe, continua Bettelheim, offrono qualcosa di diverso dagli
insegnamenti sui modi corretti di comportarsi, non descrivono il mondo così com’è, né consigliano sul da farsi. Con la narrazione la vita
viene scomposta e ricomposta, le storie ne connettono i fili e fanno
allo stesso tempo affiorare visioni alternative e altri punti di vista. La
loro importanza per lo sviluppo del bambino, e l’aspetto che fa di esse
forme particolari di opere d’arte, è la possibilità che offrono a ognuno
di trovare le proprie soluzioni. Dalla fiaba ogni bambino ricava una
lente per vedere la realtà come la vede il personaggio, ma anche per
vedere la storia con i propri stessi occhi, in quanto il potere disvelante della narrazione risiede proprio nella possibilità di sviluppare un
‘plusvalore’ di significato. Ne deriva un soggetto che si evolve grazie
all’elaborazione narrativa ed è intessuto di differenza, precarietà e
mutamento. Si esplicita, cioè, nella capacità di vedersi come alterità
e di costruire il senso dell’unità dell’essere ricomponendo gli infiniti
pezzi che si sperimentano sul piano esistenziale. Il soggetto così inteso
non impone al testo la propria capacità di comprendere, ma si espone
al testo per ricavarne un arricchimento della propria comprensione
di sé, non si colloca più all’origine di un processo interpretativo, ma
ne è piuttosto la conclusione. Questo processo di costruzione del sé
narrativo afferma il primato della posizione riflessiva del sé su quella
immediata del cogito cartesiano che pretende di conoscersi per intuizione immediata. Il compito della riflessione è di impedire la chiusura
dell’universo dei segni, la cristallizzazione del linguaggio, legando la
comprensione dei simboli alla comprensione di sé.
La proposta di riproporre la narrazione fiabesca come strumento
pedagogico è ulteriormente rafforzata dal confronto con i prodotti
dei new media, che hanno un ruolo di primo piano nella vita della
nuova generazione, e non solo. Laddove i simboli narrativi fanno ap10
B. Bettelheim, Il mondo incantato, cit., p. 18.
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pello a un’interpretazione perché «danno a pensare», sono una fonte
inesauribile di senso, le immagini digitali sono autoreferenziali, non
rimandano a niente se non a se stesse e al modello matematico che le
ha generate. Nella società postindustriale hanno preso piede le simulazioni della realtà prodotte da macchine elettroniche, che non hanno
più niente a che vedere con la realtà naturale. Sono copie di copie che
rinviano senza fine le une alle altre e delle quali non esistono più gli
originali.11 Questa autoreferenzialità ha come principale conseguenza
di inchiodare l’utente finale all’hic et nunc del coinvolgimento immediato: dove è annullata la consapevolezza dello scarto tra il piano della
realtà e il piano della rappresentazione simbolica, vengono anche a
mancare i presupposti perché l’utente possa proiettarsi verso un altrove
dal contesto particolare del prodotto virtuale, qualunque esso sia, il
videogame, la comunità virtuale, il reality show o quant’altro. Per
definire l’evoluzione della relazione artificiale-naturale, copia-originale, Jean Baudrillard introduce, in un’opera del 1979, il concetto di
precessione dei simulacri12 e descrive un processo che vede l’artificiale prendere progressivamente il sopravvento sul naturale, attraverso
diverse tipologie di simulacro, dagli automi settecenteschi, ai cloni
seriali delle produzioni di massa, in cui la copia inizia ad erodere
l’egemonia dell’originale, e infine alle simulazioni di realtà prodotte
dalle macchine elettroniche. Baudrillard individua il punto di arrivo
della suddetta precessione dei simulacri nella società postindustriale,
con la produzione di quei simulacri che rappresentano una nuova
realtà del tutto artificiale, che simula alcune funzioni e prodotti della
realtà naturale, senza esserne più dipendente.13 Queste realtà artificiali
parallele non solo non duplicano più il naturale, ma lo ridisegnano e
illudono l’utente finale al punto da fargli dimenticare di essere immerso
in una realtà fittizia. L’interfaccia tecnologico è alla ricerca della sua
cancellazione per creare un nuovo effetto di naturalezza: si tratta di un
processo di alleggerimento che completa la sua opera di sradicamento
J. Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte, Feltrinelli, Milano 1979.
Ibidem.
13
D. Secondulfo (a cura di), I volti del simulacro, Quiedit, Verona 2007, p. 14.
11
12
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La fiaba tra racconto e narrazione di senso
della percezione dalla realtà con il corpo interattivo, che altro non
rappresenta che il trionfo della cultura della simulazione. «La cultura
contemporanea vuole al tempo stesso moltiplicare i propri media ed
eliminare ogni traccia di mediazione: idealmente vorrebbe cancellare
i propri media nel momento in cui li moltiplica».14
La valorizzazione della narrazione fiabesca è uno strumento per far
fronte alla crisi dell’idea di rappresentazione che si è così delineata per
effetto della produzione delle immagini digitali. La consapevolezza di
trovarsi con la fiaba su un piano del tutto diverso da quello della realtà
è ben saldo nel bambino. Se precedentemente, in questo articolo, è
stato necessario rivedere l’interpretazione freudiana dell’opera d’arte,
torna molto utile a questo punto il contributo che Freud fornisce con il
saggio Il perturbante del 1919. Qui egli attribuisce il piacere che genera
la fruizione di una fiaba alla sospensione del principio di realtà; realtà
che le fiabe abbandonano sin dall’incipit con la formula di apertura
del «C’era una volta», collocandosi in un luogo senza tempo e senza
contatti con il mondo reale.15 Questa formula di apertura, paragonabile a quel vuoto iniziale, che per Peter Brook rende visibile lo spazio
simbolico in cui si colloca la narrazione,16 è come un lasciapassare verso
quel luogo della mente, fuori dello spazio e del tempo che Calvino fa
coincidere con il luogo della narrazione.17
La crisi dell’idea di rappresentazione generata dalla nuova produzione delle immagini digitali porta con sé un’altra importante conseguenza che non possiamo non prendere in considerazione: se lo
spettatore di immagini che scorrono sullo schermo di un computer,
o l’utente dei videogames, è totalmente immerso nel mondo della
J.D. Bolter e R. Grusin, Remediation, Guerini e Associati, Milano 2006, p. 23.
L’effetto perturbante si verifica quando un’impressione risveglia complessi
infantili rimossi o quando sembrano trovare nuova convalida convinzioni primitive
che sembravano superate, quali quelle legate alla concezione propria dell’animismo.
Eppure, osserva Freud, le fiabe si pongono schiettamente sul terreno animistico dove
si animano soldatini di piombo e vivono oggetti di casa e mobili, senza che questo
provochi alcun effetto perturbante. (Freud, S., Il perturbante, 1919, in Id., Opere,
Boringhieri, Torino 1977, vol. 9, p. 86).
16
P. Brook, I fili del tempo, Feltrinelli, Milano 2001, p. 166.
14
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finzione, senza poter sviluppare una consapevolezza del rapporto tra
la realtà e la sua rappresentazione, allora non c’è spazio per la catarsi,
intesa come purificazione delle passioni.
Questo discorso richiede una comprensione profonda dei termini
ed è inevitabile il richiamo alla Poetica di Aristotele dove, nel capitolo
VI, definisce la tragedia «imitazione di un’azione (μίμησις πράξεως)
seria e compiuta […] che mediante casi che producono compassione e timore, compie una purificazione di tale genere di passioni
(παθημάτωνκάθαρσιν)».18 Cosa sia la mimesi Aristotele lo spiega affermando che compito dei poeti è fare buon uso della tradizione dei
racconti tramandati e lavorare sulla composizione dei fatti.19 Questa
composizione, ossia questa messa in stato di rappresentazione di fatti
tragici, trasforma in piacere sentimenti in se stessi penosi: «il poeta
deve procurare piacere mediante l’imitazione di compassione e timore».20 Il caso tragico è quello che ha più intimamente a che fare con
l’uomo, perché ne rivela la natura contingente: ciò che suscita compassione e timore è infatti l’inquietante e sublime somiglianza che lo
spettatore riscontra con il personaggio tragico. Si tratta, infatti, sempre
di un uomo ordinario che cade in una sventura sproporzionata rispetto
alle sue responsabilità personali. Nei confronti di questo personaggio
gli spettatori provano compassione, perché assistono impotenti alla
sciagura di un innocente, e timore, perché ciò che succede al personaggio tragico può succedere a chiunque. «Ognuno di noi può socA ristotele, Poetica, 6 1449b 24-28. La traduzione è di Daniele Guastini (cfr. D.
Guastini, Come si diventava uomini. Etica e poetica nella tragedia greca, Jouvence,
Roma 1999).
19
Aristotele spiega, così, perché la tragedia attica abbia seguito canoni immodificabili. I fatti adatti all’effetto tragico rimangono sempre di un tipo - sono quelli
che evidenziano l’ineluttabilità del fato – il poeta li usa bene quando crea miti ben
congegnati, che sappiano trasformare sentimenti pietosi in piacere. Nel capitolo XIII
il filosofo spiega che il personaggio che suscita compassione e timore è l’individuo
né particolarmente buono, né particolarmente malvagio, che assomiglia a ognuno
di noi e in cui ciascuno può riconoscersi, che perde la possibilità di essere felice in
modo immeritato, o comunque non per responsabilità diretta (per approfondimenti
cfr. Guastini, D., op. cit.).
20
A ristotele, Poetica, cit., 14, 1453b 10-14.
18
16
La fiaba tra racconto e narrazione di senso
combere di fronte alle circostanze. La tragedia ci ricorda, epifanizza
questa fallibilità che costituisce la forma più propria dei fatti umani».21
I fatti tragici, spiega ancora Aristotele, possono anche essere impossibili, ma non devono per nessuna ragione essere inverosimili, pena
la scomparsa dell’effetto tragico. Rispetto all’imitazione della realtà
che fa lo storiografo, il poeta non imita le cose accadute, ma come è
possibile che accadano. La verosimiglianza, indispensabile all’effetto
tragico e, quindi, alla purificazione delle passioni, non sta nella veracità
di un avvenimento, ma nella forma logica in cui gli avvenimenti appaiono concatenati.22 Fa ulteriore chiarezza su questo punto Friedrich
Nietzsche nella sua opera La nascita della tragedia, dove sostiene che
la tradizione antica prova che la tragedia è sorta dal coro tragico, il
cui significato consiste nell’essere:
un muro vivente che la tragedia tracciava intorno a sé per isolarsi
nettamente dal mondo reale e per serbare il suo terreno ideale e la
sua libertà poetica. […] L’introduzione del coro è il passo decisivo,
con il quale viene dichiarata apertamente e lealmente la guerra a
ogni naturalismo in arte. […] La tragedia si è sviluppata su questo
fondamento e certo per questo è stata fin dal principio dispensata da
una penosa riproduzione della realtà.23
La mimesi tragica non è una mera imitazione degli avvenimenti
accaduti, ma la rappresentazione della realtà attraverso la composizione
dei fatti in un racconto. Per usare le parole di Paul Ricoeur, l’attività
mimetica produce la connessione dei fatti mediante la costruzione
dell’intrigo.24 Il piacere che prova lo spettatore deriva dalla fruizione
di questa composizione e scaturisce da emozioni che sono passate al
vaglio di un’operazione di purificazione della loro carica distruttiva.
D. Guastini, Come si diventava uomini, cit., p. 173-174.
Ivi, p. 177.
23
F. Nietzsche, La nascita della tragedia, Adelphi, Milano 1977, p.53.
24
P. R icoeur, Tempo e racconto, Jaca Book, Milano 1994, p. 62.
21
22
17
LUCIA SCHETTINO
«Le emozioni non cercano di tradursi in azioni che imitino il contenuto
del messaggio, ma si ‘spostano’ sul piano del godimento formale».25
Diversa è l’azione mimetica dei nuovi media ed evidentemente
diverso è l’effetto che produce negli spettatori: essa tende alla resa
puntuale della realtà – scrive lucidamente Agata Piromallo Gambardella – che è tanto più efficace, quanto più la somiglianza è perfetta.
L’effetto è il coinvolgimento diretto e totale dello spettatore, che se
non diventa un attore dell’azione sullo schermo, come nei videogiochi,
è quanto meno spettatore presente in tempo reale agli accadimenti.
Viene così a mancare quella mediazione poetica che purifica le emozioni e che è possibile solo quando è evidente lo scarto tra realtà e sua
rappresentazione: «lo spettatore non ha più la possibilità di passare
da un piano all’altro dell’esperienza, dal momento che la “finzione
invade tutto”»26.
Se la mimesi mediatica ha la pretesa di sostituirsi alla realtà svuotandola del suo contenuto tragico, con la fiaba, in quanto narrazione
per eccellenza, la mimesi conserva il suo significato originario. La
narrazione fiabesca rinnova lo spazio simbolico delle storie, ossia la
regione intermedia dove si incontrano narratore e ascoltatore, complici
nel vivere un’esperienza di metaforizzazione del reale. Il linguaggio
semplice e ricco di immagini delle fiabe è un viatico verso la realtà
dei desideri inconsci, delle paure irrisolte e dei vissuti che aspettano
di avere un senso.
25
A. Piromallo Gambardella (a cura di), Violenza e società mediatica, Carocci,
Roma 2004, p. 48.
26
Ivi, p. 49.
18