Gualazzini, B - Giovannino Guareschi

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Gualazzini, B - Giovannino Guareschi
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Gualazzini, B.
@ 45 puntate uscite sul Giornale dal 3 giugno al 21 luglio 1995
PREMESSA
L’AVVINCENTE STORIA DEL “PADRE” DI PEPPONE E DON CAMILLO
L’avventura umana e politica di un grande intellettuale del nostro secolo. Scrittore, giornalista, polemista, opinion
leader, simbolo della migliore Italia del dopoguerra, Guareschi e la straordinaria personalità dei suoi personaggi,
rivivono nella biografia firmata da Beppe Gualazzini.
In questa casa è nato Giuseppe Verdi. Dalla finestra vedi Piazza Giovannino Guareschi. La piazza è un gran lenzuolo d’asfalto
adagiato sul verde della Bassa con ai lati tre case, la chiesa e la strada provinciale. Roncole Verdi, comune di Busseto, è
praticamente tutta qui.
Verdi vi nacque. Guareschi c’è sepolto. Guareschi, dice la gente, scrisse come il Maestro compose. Sono due che possono
contarsela per secoli senza contraddirsi mai.
Guareschi è stato sepolto all'ombra della chiesa di Roncole Verdi nel ’68. Il muro di cinta del cimiterino ha due grandi oblò ai
lati del cancello. Passando dalla strada, a seconda si guardi attraverso all’oblò di destra, il cancello o l‘oblò di sinistra, il volto di
Guareschi che sporge in bronzo dalla lapide assume tre diverse espressioni.
Tre anime d’un Uomo: poesia, coraggio, dolore.
Guareschi poeta. La Bassa sa bene il perché. Lo sa il mondo dove è stato tradotto in una cinquantina di lingue. Il suo coraggio:
lo conobbero i lager nazisti in cui, con decine di migliaia di altri patrioti dimenticati, Guareschi scelse la volontaria Resistenza
Bianca. Il dolore: lo sa il carcere di Parma, 400 giorni a scontare innocente il diritto di, perlomeno, scandalizzarsi
dell’arroganza dei politici cinici e disonesti.
Il nostro amico Guareschi
Ora riapriamo il sipario sulla sua vita. Il Giornale comincerà a pubblicarla da domani, giorno per giorno. Per chi vuol
ritrovarlo, Guareschi è sempre qui. Ci aspetta tra i lenti filari dei pali della luce che dai cigli d’erbaccia grezza accompagnano
come croci le strade della Bassa. A sera sbuca a capofitto dalla nebbia e si radica sotto il cono di luce di un vecchio lampione. Si
ferma davanti a un bicchiere di lambrusco in mezzo ai Pepponi... Tra i Don Camillo, sotto i campanili, uniche vette della
pianura. Va e viene. Nasce nel 1908 a Fontanelle, in un angolo fra Taro e Po. Attraversa la Bassa delle prime e ultime vere
lotte socialiste. Cresce all’ombra della prima guerra mondiale. Poi luci e contraddizioni del fascismo. Gioventù affamata. È
liceale. Universitario che non conclude. Ma impara a disegnare in modo straordinario. Scrive.
Angelo Rizzoli lo chiama con Zavattini, Mosca, Manzoni, Metz per l’avventura del «Bertoldo». È alla scoperta di Milano, la
fama nazionale. Odia la guerra, finisce in guerra. Internato con i 40.000 ufficiali italiani che in una tormentata e vilipe sa
Resistenza Bianca rifiutano una qualsiasi adesione al nazismo. In due anni da ottantasei chili si assottiglia a 43. Ma non cede.
Fu, è stato scritto, una bandiera esemplare di dignità. Di coerenza morale incrollabile. Di fede nella libertà. Ormai ai limiti della
sopravvivenza è tra gli ultimissimi a uscire dai reticolati.
Nell’Italia già abbandonata a sinistra si oppone al nascere di questa democrazia di finti democratici.
Fonda il Candido ed il polemista che tanta parte ha nel ’46, referendum Monarchia-Repubblica e in quel 18 aprile ’48 che
disegnò, in bene e in male, i destini d’Italia. Dal ’50 col suo Don Camillo in volume e nei film diventa io scrittore italiano più
conosciuto e tradotto nel mondo. Ma è anche il giornalista profeta che per primo ode, e non finge di non sentire, il crescente
lavorio dei forchettoni nel piatto della finanza pubblica italiana. Che annusa il marcio delle politiche compromissorie. Intuisce e
frena l’abbrutimento della morale e dei costumi individuandone fin da principio i colpevoli. Paga dal ’54 al ’56 con 400
allucinanti giorni nella cella 38 del carcere di Parma. Motivo ufficiale certe lettere di De Gasperi. Inequivocabile scusa di
regime per tappargli la bocca.
Ne esce distrutto: “Io non porto odio, ma non avrei mai pensato che gli italiani potessero essere così feroci contro un semplice
cittadino, per quanto giornalista. Le SS nei lager polacchi e tedeschi furono angeli a confronto”. Poi gli ultimi dodici anni di
uomo profondamente deluso. Scandalizzato. Furente. Malinconico. Asserragliato nella nostra Bassa fino all’infarto che lo
inginocchia a 60 anni accanto al letto nell’alba del 22 luglio ‘68. E tutti i gerarchi, gerarchetti e annessi della politica e della
cultura dell’Italia meschina con quella gran fretta di seppellirlo.
Il Ritorno
I fuochi, l’odio, le strategie del ’68 in poi fecero scendere su lui un gran silenzio. Solo pochi amici riuscirono a spezzarlo
contando gli anniversari della morte. Uno. Cinque. Otto. Dieci. E pareva fossero rimaste solo braci quasi spente. I Don
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Camillo proiettati a 16 millimetri in qualche cinema parrocchiale. Radi, timidissimi riferimenti alla sua opera di giornalista,
scrittore, disegnatore. Una compagnia di attori non professionisti a girare precari palcoscenici della Bassa con un’edizione
teatrale di Don Camillo, che era Mauro Adorni con Giorgio Bolzoni quale Peppone. Bravissimi, ma soli quanto Guareschi. E
una zattera chiamata Don Camillo con tre figli della Bassa, tra essi il più guareschiano di tutti, 1’indimenticabile Mauro
Zardi, in più l’irrinunciabile cane, scese il Po sul filo della corrente fino a Venezia e pareva l’ultimo resto di un naufragio.
Ma poi s’è alzato come un gran vento che ha spazzato e sta spazzando via la cenere dal fuoco.
I film sono tornati a circolare in tutto il mondo. Ogni anno le nostre private li ripropongono in Italia con altissimi ascolti.
Riedizioni di libri e una quindicina di opere postume nate dall’impegno dei figli Alberto e Carlotta. Responsabilità enorme, che
comunque ha tenuto Guareschi tra noi.
Vivo. Attuale. Dall’ultimo Don Camillo alle belle e puntuali antologie sul Candido, ultimissima davvero splendida, sul
Bertoldo, e, da poco in libreria, a Vita con Gio’ sono straordinari specchi della nostra storia passata e odierna, massima e
minima, vista senza i paraocchi e le deformazioni imposte dai potenti. Dai fanatici. Dagli utili idioti.
Pedalando a sera
E quale continuità in Guareschi. L’altra sera rileggevo un postumo, lo Spumarino pallido, che edito nell’83, non mi lasciava
dubbi: quel funzionario comunista pallido, azzimato, mezzo afono e tristanzuolo che in una sera di pioggia si trova al cospetto
del possente Peppone era, anche se il racconto risaliva a 30 anni prima, Berlinguer. Sputato. Adesso? Ma è D’Alema. È lui lo
Spumarino pallido. Spennellato tale e quale da un profetico Guareschi.
E parte sul Giornale il racconto della vita del nostro amico Guareschi. La scrivo perché anche le mie radici sono affondate nella
Bassa. Sulla stessa sponda del grande fiume.
Non mi si dica che è una biografia, mi metterei a ridere. Questa è una pedalata sull’argine quando si fa sera. Respiri l’aria del
tramonto. Non ce l’hai alfine con nessuno e se una campana rintocca ti pare di riascoltare i preludi della “Traviata”. I ricordi
sono carezze. So già che quanto leggerete non piacerà a certa cultura. Ancor meno a certa politica.
Ma proprio Guareschi ben prima di me rifiutò sempre, ovunque, con chiunque, quei guinzagli. E quando il gran pettine che da
50 anni pretende di dividere i pidocchi buoni da quelli cattivi lo spiaccicò tra i cattivi, lui, lo stesso, mantenne liberi cervello e
anima. Umile con gli umili, arrogante con i potenti. Morì di malinconia. Di delusione. Di rabbia. Ma non di cinismo come sta
capitando a certi personaggi di mia conoscenza. Che poi, non è ai politicanti che devo render conto. Né ai bacchettoni della
cultura postbellica. Né solo al giornalista, scrittore, disegnatore, contadino Guareschi. Io devo unicamente render conto all’Uomo
Guareschi. Ai suoi ventitré lettori. E al ventiquattresimo che sono io. E lo faccio usando anch’io un vocabolario che conta sì e no
200 parole. Le stesse che adopera ogni giorno la gente comune per comprendersi per Sopravvivere in questa Italia di Babele
dove sono state inventate milioni di parole per cancellare i fatti
1 – Nacque nella casa dei socialisti e odiò per sempre i comunisti
Fontanelle, mille anime. È un vecchio borgo della Bassa. Serpeggia sulla riva sinistra di Taro, un piccolo fiume
verde e guarda verso Po, distante quattro chilometri. Guareschi è nato qui. E qui la Bassa è tanto bassa e piena
che il Taro ristagna quasi tutto l’anno.
Fontanelle è ancora intatto. Come quando tutto qui era un’esplosione di verde. Platani, tigli, pioppi, alberi da
frutta, filari di vite. Dal primo Novecento a oggi l’hanno pelata. Adesso è un piano di biliardo, nei campi i trattori
non vogliono ostacoli tra le ruote. Ma Fontanelle ha sacrificato poco ai trattori. Possiede ancora l’immensa
ricchezza d’un viale costeggiato da trecento tigli centenari, color smeraldo. A metà viale c’è un rettangolo in terra
battuta che gioca a essere la piazza principale. Nel mezzo un busto di bronzo su una stele. Se non sei di queste
parti, lo scambi per Peppone. Baffi ad ali di rondine, cappello a tesa tonda calcato sulla nuca alla Dio ti fulmini.
Ma la stele dice: “Giovanni Faraboli, che per primo in queste plaghe indicò agli umili la via della redenzione nella
libertà e nella solidarietà del lavoro”.
Dal seme d’un genio
Faraboli fondò ai primi del Novecento le cooperative rosse della Bassa. Era socialista. Con i suoi compagni rigettò
a ceffoni oltre la Via Emilia quei sindacalisti di città che volevano portare anche nella Bassa odio e disordine. Nel
’22 brandì le asce per difendere le cooperative dai fascisti che le volevano incendiare. Preso. Processato. Mandato
al confino con Nenni, Saragat e gli altri. Tornò a guerra finita più socialista e più povero di prima. Odiò il potere.
Amò la solidarietà che può nascere dal lavoro. Perse tutto e sempre. Ma aiutò gli altri a riscattarsi. Morì a
ottant’anni in un ospizio abbandonato da tutti meno che da Guareschi e da un paio di sopravvissuti.
Nel ’55, due anni dopo la morte di Faraboli, Saragat venne a Fontanelle per scoprire questo monumento voluto
dal paese. Cerimonia semplice. Disperata. Il funerale dei sogni. Poca gente: banda con alamari d’oro molto stanco
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e vecchi socialisti dai grandi baffi ormai grigi e con al collo i fazzoletti rossi che avevano attraversato i primi del
secolo seguendo Faraboli nelle sue utopie.
Il giorno in cui nacque Guareschi quei baffi erano neri e i fazzoletti rosso fiammante. La banda suonava forte e gli
alamari eran d’oro nuovo. Era il primo maggio 1908. Faraboli, grande, grosso, imponente come sempre, nella
Casa dei socialisti parlava di cooperativismo a centinaia di braccianti con i cappelli calcati sulla nuca e la voglia di
cambiare. La Casa dei socialisti era la ex casa Balocchi e apparteneva alla madre di Guareschi, Lina Maghenzani,
che ne aveva affittata una parte alla cooperativa socialista tenendo per sé e il marito Primo Augusto il piano
superiore. Quindi, sotto nel salone riunioni i socialisti a concertare i loro scioperi agricoli, sopra Primo Augusto a
mugugnare, gli scioperi di quel Faraboli giusti o no gli buttavano all’aria il lavoro. Primo Augusto Guareschi a
quei tempi vendeva macchine agricole e faceva servizi di trebbiatura.
Primo Augusto fu davvero l’uomo che descrisse poi tante volte con amore. Con la comprensione che si dà a chi,
precorrendo tempi e costumi, ne fa le spese per primo. Alto. Magro. Potente. Lunghi baffi. Giacca attillata e corta,
calzoni a coscia e stivali alti. Sapeva far paura quando si piantava a gambe larghe davanti a qualcuno. Ma tutto
sommato era pacifico. Bastava lasciare che s’estinguessero da sole certe sue ire improvvise.
Anni fa ne parlai con Giuseppe Bertoluzzi, un gran ottantenne ascetico che si batté a fianco di Faraboli e fu messo
con lui al confino in Francia. Tornato in Italia tra gli ultimi, invece di scalare l’alta politica s’era chiuso al primo
piano d’una casupola di Fontanelle, stanza e gabinetto, a scrivere memorie, che mai ultimò, sul Novecento
socialista. Pesa, pesa quell’inizio secolo, ripeteva e ne avocava i protagonisti. Primo Augusto Guareschi? Una
goccia di pioggia su una foglia mossa dal vento.
“Mai fermo – sorrise -. Sabbia che scivola tra le dita. Groviglio d’idee, arti e mestieri. Un vivere estemporaneo per
la Bassa di quei tempi. Era un piccolo proprietario terriero. Ma anche commerciante, mediatore, appassionato
esperto dei primi motori a scoppio e in stradali, le trebbiatrici a vapore che comparvero nella Bassa proprio nel
1908. Adorava il progresso, purché camminasse di pari passo con la civiltà”.
Fu lui a portare a Fontanelle la prima macchina da cucire, la prima motocicletta, i primi fucili a cani interni, i
primi grammofoni a tromba. Aveva aperto sulla provinciale un emporio ultramoderno con due grandissime
vetrate dove esponeva di tutto alternando successi folgoranti a tragici dissesti. Portò il cinema a domicilio andando
per le aie dei contadini con una macchina da proiezione che faceva funzionare col vapore delle trebbiatrici e
faceva il sonoro commentando a voce alta le pellicole. Fu attivissimo. Non scialacquatore. Eppure
l’impreparazione dei tempi, con buona dose di scalogna, lo resero alla fine tutto meno che redditizio. Allo scoppio
della guerra non fu interventista, ma neppure antimonarchico. Aveva, ricorda Guareschi nei suoi scritti, una sua
umana Trinità che rispettava come quella divina: Manzoni, Verdi, Napoleone. Verdi l’aveva frequentato un poco,
ne conosceva a menadito ogni nota. Andò all’estero una sola volta. A Parigi. Arrivato alla Gare de Lyon si fece
portare difilato alla tomba di Napoleone, rese omaggio, risalì in taxi, tornò in stazione e ripartì per l’Italia
ignorando tutto il resto.
Il campione
E, dunque, quel primo maggio 1908 Faraboli finì il discorso e la banda attaccò l’Internazionale. I manifestanti si
radunarono a capannelli in corte per commentare e bere.
Con la loro cravatta nera a fiocco, cappelli neri con tese strette in su e cocuzzolo schiacciato. Intanto Faraboli volle
vedere il figlio di Primo Augusto nato poche ore prima. Sale ed entra in cucina. Squadra il neonato. Lo solleva tra
le manacce e dalla finestra lo mostra ai socialisti nella corte sottostante. Li zittisce: si chiama Giovannino ed è nato
oggi primo maggio nella Casa dei socialisti, che altro potrà essere se non un campione di noi, socialisti rossi?
Primo Augusto andò all’anagrafe e, ligio ai dettami della moglie che in queste cose arbitrava lei e volle per il
neonato il diminutivo del nome di suo padre Giovanni, registrò il figlio come Giovannino.
Nel ’54 aprendo il processo che costò a Guareschi 400 giorni di tremendo carcere per le lettere di De Gasperi, il
cancelliere chiese che l’imputato dicesse il proprio nome.
“Guareschi Giovannino”.
Pubblico e giornalisti risero.
“Imputato, siate meno arrogante!”, ammonì il Presidente.
Guareschi allargò le braccia. Non poteva farci niente, disse, l’avevano battezzato proprio così. Non Giovanni, come
molti credevano.
2 – Faceva le serenate alle ragazze col mandolino, e i padri lo inseguivano col forcone
Questa me la raccontano i miei zii, Ario Belli e Riccardo Favali. L’uno era prima tromba della leggendaria
orchestra di valzer e mazurke Cantoni e aveva la morosa, Norma, poi mia zia, a Fontanelle, paese natale di
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Guareschi. L’altro a Fontanelle, ci abitava. Nel 1909, dunque, Primo Augusto, padre di Guareschi, aveva
comprato una Scat. Fu la prima motocicletta a percorrere le strade dritte e polverose della Bassa. Era un canchero
fumigante fatto di bulloni e spranghe. Primo Augusto diceva che non c’era al mondo nulla di più
stramaledettamente anticlericale, quando circolava era capace con una sola passata di far diventare bianco come
un mugnaio anche il prete più nero.
Una mattina d’aprile legò una scatola di cartone sul parafango posteriore e vi mise Giovannino in fasce dopo
essersene impadronito all’insaputa della moglie. Salì in sella. Navigò per le strade della Bassa fino alle Roncole e
s’infilò col figlio tra le braccia nella case natale di Verdi.
Ritto su un gradino, cantò pezzi di repertorio verdiano da Celeste Aida ai preludi della Traviata. Il piccino pareva
divertito e ciò lo infervorò. Invece di tornare a Fontanelle, s’avventurò oltre Busseto fino a Sant’Agata dove
sorgeva la villa in cui visse il Maestro.
Sulla via del ritorno, già stava calando il tramonto, il motore s’inchiodò. Dovette spingere la moto per più di dieci
chilometri. Giunse a Fontanelle che il Vespro era suonato da un pezzo. Passò tra due cordoni di gente sgomenta.
Gli uomini con le mani in tasca. Le donne con in testa i fazzoletti neri e le corone del rosario tra le dita. Tutti
avevano temuto il peggio. Dal fondo del viale gli andò incontro rigida la maestra Maghenzani. Doveva aver patito
l’inferno fin dal mattino, quando aveva trovato la culla vuota. Non degnò di uno sguardo il marito. Tolse il figlio
dalla scatola e andò a casa. Piccola e minuta, anche quella sera sembrò l’anima di Giovanna d’Arco che per
l’ennesima volta assiste al suo rogo, che non c’era giorno che Primo Augusto non ne inventasse una delle sue.
Lina Maghenzani era la maestra del paese. La sua didattica obbediva a Dio, Re e Sintassi in egual misura.
Tutt’altro che brutta aveva sposato per amore. Il matrimonio, perito con voglia ed entusiasmo, s’era congelato
quando lei s’era convinta che il marito stava irrimediabilmente diventando uno squinternato e quando Primo
Augusto prese a considerarla testarda quanto tre donne messe insieme. Finirono per dividere i letti e non capirsi
più. Il geniale progressista dall’aspetto fiero, travolto da crescente sfortuna, si trasformò poi in uno stranito che in
pieno agosto circolava in camicia dal collo inamidato, bombetta nera e ombrello arrotolato. Lei raccolse a crocchia
i lunghi capelli e si dedicò solo a scuola e figli.
Guareschi la ebbe, anche se indirettamente, come maestra quando lei lo teneva con sé ancora piccino a scuola
durante le lezioni. Mamma, dunque, totale. Gli diede un’infanzia felice e protetta. Capelli alla paggetto, sottanone
dal collettino di pizzo. Guareschi scorrazzò scalzo nei prati di trifoglio, per le strade coperte da quattro dita di
polvere, tra i listoni di sabbia di Taro e Po.
In miseria
La guerra avanzò tra tensioni e fami disperate. Ottobre del ’14, la maestra Maghenzani fu trasferita a insegnare a
Marore, una frazione a pochi chilometri da Parma. La famiglia la seguì e abitò dapprima in un vicolo di Parma
vecchia, poi nella scuola di statale aspetto a Marore dove la Maghenzani aveva ottenuto alcuni locali. Le cose non
andavano bene a Primo Augusto. Imbastiva speculazioni che finivano per ritorcerglisi contro. La famiglia, a
intervalli ciclici, doveva vivere del solo stipendio della maestra. Così in adolescenza Guareschi divenne un
ragazzino pensoso. Non facile alla compagnia. D’inverno gli cresceva assillante la voglia di Bassa. Di argini. Di
fiume.
Era nostalgia cocente fino all’estate quando, conclusa la scuola, tornava con la famiglia alle Fontanelle in una
camera in affitto. Tornava alla sua terra. Alla sua gente. Nella stagione più intensa e tuttavia gli amici faticavano a
riassorbirlo. Dovevano rincorrerlo fin sulle rive di Taro o Po, lui là, sdraiato sulla terra umida a masticare assorto
un filo di fieno. Per giorni così. Poi l’allegra brigata di Fontanelle le spazzava via quelle sue prime misantropie.
“Gran banda di squinternati – mi narrò mio zio Riccardo Favalli, coetaneo di Guareschi alle Fontanelle -. S’andava
in truppa a far serenate alle ragazze con tromba e mandolino poi inseguiti dai forconi dei loro padri. Una
domenica di caldo bestiale per trovar refrigerio ci cavammo completamente nudi, inforcammo le biciclette e
girammo fino a sera per la Bassa. Spettacolo grandioso. Anziane signore che salutavamo ossequiosi come se nulla
fosse e che svenivano, ragazze che correvano urlando in casa quando comparivamo pedalando con tutto al vento.
Un’estate Guareschi tornò più presto del solito. S’era messo a scriver racconti. Ci affascinarono. Fondammo una
piccola compagnia di prosa che, su palchi improvvisati, mise insieme lavoretti scritti e diretti da lui»
In quelle estati la Bassa e il Po presero a dettargli le pagine più belle: “Tra l’una e le tre dei pomeriggi d’agosto il
caldo nei paesi affogati dentro la melica e la canapa, è una roba che si vede e si tocca. Quasi uno avesse davanti
alla faccia, a una spanna dal naso, un gran velo ondeggiante di vetro bollente (…). Sulla provinciale naviga
lentamente qualche biroccio a ruota a ruota alta pieno di sabbia e il carrettiere dorme bocconi in cima al carico,
con la pancia al fresco e la schiena rovente o, seduto sulla stanga, pesca con una piccola roncola dentro una mezza
anguria che tiene in grembo come una catinella. Poi, arrivati sull’argine grande, ecco il fiume vasto, deserto,
immobile e silenzioso, e più che un fiume pare il cimitero delle acque morte.
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Le ultime rose
Fu Parma e la necessità di guadagnarsi subito di che studiare a strapparlo dalle Fontanelle anche d’estate. Ma la
prima, nell’ultimo struggente squarcio di libera gioventù, costruì il più straordinario aggeggio che gli amici
avessero mai visto: la miniatura di una stradale, le imponenti trebbiatrici a vapore che a quei tempi battevano il
fieno sulle aie assolate e con le quali il padre aveva lavorato. La costruì perfetta e la nutrì, anziché a fieno, con
petali di rosa che entravano alla spicciolata da una parte e uscivano imballati a cubo con un profumo intenso e
durevole.
E andò per Fontanelle a offrire cubetti di petali di rose alle ragazze che portavano i capelli alla zingara. Ai vecchi
socialisti dai baffi grigi. Alle acque del grande fiume, quando i tramonti impazzivano di colore e i rossi, i gialli, i
viola gli incidevano nella mente messaggi indelebili.
3 – Al ginnasio con Zavattini faceva un giornale, scritto a mano e in copia unica
Fu Nino Bocchi, che si firmava Nibbio, ad aprire a Guareschi le porte del giornalismo facendolo scrivere in un
numero unico dedicato a Parma. S’eran conosciuti al convitto Maria Luigia, da liceali. Il Nibbio era più anziano di
tre anni. L’ultima volta che s’incontrarono da vivi, fu nel ’66. Guareschi aveva 58 anni e il Nibbio era andato a
pescare sotto Po. Giornata fredda e umida. Al ritorno s’era fermato alle Roncole per asciugarsi un po’ le ossa e
mandar giù qualcosa. Erano anni che non rivedeva Guareschi. Stava camminando con le canne da pesca a guisa di
lancia, quando poco mancò che le infilzasse negli occhi di un baffone sbucato di colpo dalla nebbia compatta come
un muro. Gli occhi erano quelli, ma sì, di Guareschi. Gli stessi rotondi e pungenti del ragazzino che negli anni
Venti, lo aveva fissato per la prima volta nell’atrio del convitto Maria Luigia indicandogli ridendo il ritratto del
conte Pietro Verri dove il patrizio milanese mignolino all’insù e capelli da ballerina, pareva anticipare ai posteri
certe ipotesi sul piacere.
“Ci abbracciammo – narrò poi il Nibbio – e andammo nel ristorante che Guareschi aveva costruito accanto alla
casa natale di Verdi Fuoco acceso nel grande camino. Fette di culatello. Faccio ancora il farmacista, gli dico, e
qualche rima in dialetto. Poi eccoci a ricordare insieme tempi e amici. I fratelli Dall’Aglio, quelli che camminavano
sempre l’uno dietro l’altro come camion e rimorchio. E il Tonino Volpi che, convalescente in una cascina fuori
Parma, non trovando carta igienica usava i pulcini. E Mario Ravasini, che aveva messo nel portone una moderna
serratura a boccale e noi di notte la usavamo come vespasiano lasciando un foglio con l’impronta della Mano nera.
Le risate si sentivano in strada.
A sät ch’a incó at bev bombén? Sai, Giovannino, che bevi molto? Gli dissi a un certo punto. Lui scherzò: disse che era
per l’infarto avuto qualche anno prima e i dottori a tirargli via bere, mangiare e fumo e lui: obbedisco. Ma, rise,
stava sempre peggio e allora s’era messo a mangiar di tutto e a bere whisky ogni volta che ne aveva voglia, che gli
allargava le coronarie e gli faceva delle belle vene grosse e felici. Lo guardai meglio. Era solo occhi, naso e baffi.
Come le maschere che Della Giacoma metteva in vetrina a Carnevale. Non che io stessi meglio, però. Se facciamo
la corsa, garantito che al cimitero ci arrivo prima io, ci dicemmo l’un l’altro”.
Non con un gran distacco, ma vinse Guareschi. . Meno di due anni dopo.
Arriva Zavattini
Torniamo agli anni Venti. Al Maria Luigia, uno dei collegi più esclusivi d’Italia dove la madre svenandosi aveva
voluto ad ogni costo iscrivere Guareschi. Lui giungeva da Marore pedalando su una bicicletta arrugginita. Era
diventato un ragazzo magro, con un gran ciuffo nero sulla fronte. Povero in canne, si trovò fianco a fianco coi
rampolli delle più ricche famiglie della città. Barilla, Bertolucci, Lunardi, Bocchi, già destinati a posizioni di
prestigio.
Nel ’23 il collegio si trasformò in Convitto nazionale. Se ne andò il buon rettore Rusca, che aveva saputo leggere
certe tristezze negli occhi di Guareschi e comprendere le birichinate del Nibbio e della sua banda. Giunse un
ometto dai grandi baffi bianchi alla Facta, cattivo come l’aglio. Con il nuovo rettore gli anni divennero difficili. Si
frantumò l’atmosfera fraterna. I giorni diventarono grigi, tutti eguali. Il Nibbio e la banda tentarono una
disperata resistenza. Bersagliarono il rettore con scherzi feroci. Alla fine del ’24 la maggioranza dei ribelli era stata
espulsa. Il Nibbio dovette lasciare il Convitto inseguito dal rettore fino in borgo Reale.
Guareschi invece strinse i denti e chinò la testa. S’arrese soffrendo come San Sebastiano, ma non poteva
permettersi un’espulsione. Primo Augusto, il padre, già stava precipitando in vite verso la totale rovina economica
e la maestra Maghenzani, per mantenere il figlio agli studi, a metà mese non sapeva dove sbattere la testa. Il
destino di Guareschi restò quello di capoclasse con la stella al merito appuntata sulla manica. Tutti giorni morti,
confidava cupo agli amici.
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Nel ’27 fu assunto al Convitto un nuovo istitutore e l’atmosfera tornò a surriscaldarsi. Era Cesare Zavattini.
Veniva da Reggio Emilia, Bassa di Luzzara. Era più anziano di Guareschi di sei anni. Aveva dietro le bisunte lenti
ovali irrequieti occhi da bambinone che tradivano entusiasmi arruffati. L’altro del comando gli era del tutto
ignota. I resti della banda del Nibbio rincalzarono i vessilli e si lanciarono all’attacco. Non appena suonato il
silenzio, Zavattini correva a coricarsi sul letto. Per un po’, sotto di lui, in camerata i convittori fingevano di
dormire tranquilli. Ma intanto un commando strisciava nella sua camera armato di puntine e martello. Gli
inchiodavano le ciabatte al pavimento di legno, quindi tornati di sotto, davano il via ad una sarabanda infernale.
Poi scommettevano sul tempo che impiegava Zavattini a scuotersi, saltare dal letto infilare i piedi nelle ciabatte e
abbattersi con un tonfo sordo sul pavimento.
Laurea in umorismo
Gli scherzi cessarono quando i convittori s’accorsero che, sotto le vesti grigie del l’istitutore, Zavattini celava un
sorprendente spirito anticonformista. Dissacratore. Lo accettarono come uno di loro. Anche Guareschi che in
Zavattini specchiava le sue origini: provenivano entrambi da terre basse, martellate dal sole. Avevano alle spalle
eguali nostalgie e sfrenate voglie di libertà. Anche Zavattini mutò opinione su Guareschi, che pure aveva temuto
come la peste, scrivendogli sulla pagella: “Guareschi è un pericoloso capoclasse”.
Insieme fondarono un giornale studentesco. Scritto a mano, tirato in un unico esemplare, affisso alla bacheca
dell’atrio del Convitto o fatto circolare clandestinamente quando la censura del rettore calava pesante su articoli e
vignette. Fondarono una filodrammatica che recitò commediole satiriche scritte a quattro mani. Eccoli in una foto
nel cortile del Convitto. Recitano Zavattini la parte del rettore, Guareschi quella dell’istitutore e insieme
strapazzano un convittore. Incredibilmente, riuscirono a conquistare la simpatia del rettore e a stemperarne la
durezza. Strappare un sorriso a quell’orco valse come una laurea in umorismo.
4 – Quando al ristorante Giovannino fu costretto a passare il sale a Togliatti
Il sodalizio editoriale, artistico, recitativo al convitto Maria Luigia di Parma tra l’istruttore Cesare Zavattini e lo
studente “pericoloso capoclasse” con stella al merito appuntata alla manica Giovannino Guareschi, s’interruppe di
colpo quando Zavattini dovette partire per il servizio militare e andare a Firenze. L’aggravarsi delle condizioni del
padre costrinse poi Zavattini a ritornare a Luzzara per mandare avanti l’osteria, unico provento della famiglia.
Guareschi ripiombò nello studio ed espugnò la maturità classica. S’iscrisse alla facoltà di Giurisprudenza e fu
studente distratto. La quota Novanta imposta da Mussolini nel ’29 aveva del tutto gettato sul lastrico suo padre
Primo Augusto il quale, proprio in quel periodo di sfavorevole congiuntura, s’era dato a comprare grossi poderi
per cavarne fuori tanti piccoli con fabbricati nuovi.
Alla fine d’ogni impresa, era costretto a rivendere senza recuperare neppure il prezzo della terra nuda e cruda.
Finì per vendere perfino i letti di casa, riducendo figli e moglie a dormire per mesi su materassi gettati sul
pavimento. Guareschi, di fronte alle disperazioni della madre che non poteva più mantenerlo all’Università,
accettò di sostituire Zavattini come istitutore al Maria Luigia.
Continuò per mesi a raggiungere la città da Marore pedalando sulla scassata bicicletta con addosso il paltò da
convittore. Liso. Già rivoltato tre volte. Con ancora sulla manica sinistra il segno dell’odiata e imprescindibile stella
d’oro di primo della classe.
Pietrino Bianchi finì di ruminare un gran boccone di risotto al tartufo. Risucchiò l’inestinguibile filino di saliva che
gli penzolava dal mento, quindi ci fissò nella trasparenza del calice colmo d’uno spumantino brillante, figlio di
ottima annata.
“Davvero un bell’intreccio – disse -, per Guareschi io fui il classico cugino incancellabile. Se mi ricusava da parte di
nonna, rispuntavano da parte di nonno. Dopo la seconda guerra mondiale m’ero piazzato in casa sua, qui a
Milano. Forse per un po’ troppo tempo. Ma non sapete che quelli non erano anni facili per nessuno. Un giorno
me ne sto in poltrona a sonnecchiare. Mi si pianta davanti fissandomi con gli occhi fuori dalla testa. Mi afferra per
un braccio e mi solleva di peso: la devi smettere di sbadilarti quintali di brillantina Linetti sui capelli, mi macchi
tutti gli schienali, mi urla. Ma sono tuo cugino, il tuo doppio cugino delle Fontanelle, gli dico. L’ira gli sbolle di
colpo. Mi rimette a sedere. Raccoglie il giornale che m’è caduto e me lo accomoda sulle ginocchia. Va a prendermi
un cognac e resta a rimirarmi a lungo, commosso. Sai, aggiunge poi, anch’io un po’ di brillantina me la metto di
nascosto da mia moglie s’intende.
Tre guareschiani
Mezzanotte già lontana, occupavamo in tre, Pietrino, Egisto e io, un tavolo del ristorante Rigolo a pochi passi dal
Corriere. C’era ressa ed avevamo avuto un tavolo, giusto perché Egisto Corradi era il famoso inviato di tutte le
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guerre del globo e Pietrino Bianchi, erudito critico cinematografico del Giorno, era ormai un pezzo
dell’arredamento. Si era nel ’74.
Girato l’anno, Pietrino Bianchi, a pera la testa e a pera il corpo, spalle a caduta libera verso un baricentro
rasoterra sulle gambe alte un palmo, avrebbe cominciato a passeggiare con la morte che se lo prese nel ’76 dopo
una terribile malattia. Ma chi poteva saperlo, tutti e tre lì. Come altre volte. A tenere chiusa tra noi su un tavolo
milanese la nostra parmigianità? Me li rimiravo con affetto: Egisto, il grande inviato che solo pochi mesi prima
m’era stato maestro di giornalismo e di vita sui fronti della guerra del Kippur. Schivo e selvatico come un orso.
Pietrino, un fuoco artificiale, una cometa sfavillante. L’eterno chiacchiericcio.
Pietrino roteò gli occhi alla ricerca d’un altro ricordo.
“Qui a Milano, s’era appena dopo il ’50, mio cugino aveva preso l’abitudine d’andare a mangiare in una trattoria
a pochi passi della Rizzoli, la sua case editrice. Il padrone era Amleto. Comunista più per reazione che per
vocazione. Era stato duramente perseguitato dai fascisti. La trattoria divenne una sorta di cenacolo guareschiano.
Amleto e mio cugino si punzecchiavano a sangue. Non si lesinavano strali. Ma poi Amleto metteva sul tavolo pile
alte così di libri di Guareschi e lui glieli firmava con dediche affettuose. E fu Amleto a regalare a Guareschi un
gran bastardo di cane che fu appunto chiamato Amleto e divenne protagonista di molti racconti nel Corrierino
delle famiglie”.
“Ma dì, Pietrino, come se la cavava Guareschi con Proust?”. Lo interruppe Egisto, labbra avvinte.
Delicatissimo argomento questo di Proust per Pietrino. Finse di non sentire.
Tu per tu con Palmiro
“Attenti adesso, che questa è bella – continuò Pietrino – un giorno entro da Amleto e ti vedo Guareschi seduto a
un tavolo. E a quello di fronte sta seduto Palmiro Togliatti. Scena mondiale. A quei tempi Guareschi e i comunisti
si beccavano come galli da combattimento e Palmiro Togliatti era sovente ospite delle più tremende vignette di
mio cugino. E dire Togliatti allora non è dire come questi di oggi. Era un gran capo, indiscusso. Obbligati l’uno di
fronte all’altro, Togliatti e Guareschi consumano il primo piatto fissandosi negli occhi. Al secondo sono costretti a
passarsi il sale. Lo fanno come se fosse una bomba a mano . Nessuno dei due si decide ad alzarsi e a uscire per
primo. Lo fanno insieme dopo il terzo caffè e quasi s’inzuccano. A questo punto non riescono a fare a meno di
sorridere e prima d’andarsene, ognuno per la sua strada, c’è tra i due un accenno d’inchino che vale un
lunghissimo discorso. Mondiale, mondiale, scena mondiale”.
“Sì, ma Proust?” insistette Egisto.
“Proust, Proust! – si rabbuiò Pietrino – mio cugino non faceva che sfottermi per Proust. A casa sua ricordo che
una sera lui e Leo Longanesi continuarono quattro ore filate a prendermi in mezzo per Proust”.
Nessuno al mondo, da Virgilio a Dante, a Tolstoj, valeva per Pietrino un milligrammo di Proust. Guai a essere tra
coloro che dovevano confessare di non aver mai letto una riga di Proust.
“E non l’aveva mai letto, quel disgraziato. Ma chissà come, ne riconosceva a volo le citazioni e mi precedeva
esclamando: così dice Frust! Il Frust era il mio Proust, capito?”.
5 – Un premio letterario di 200 lire (del 1929) svanisce per una beffa
Pietrino Bianchi, erudito critico del Giorno e doppio cugino di Guareschi per parte di entrambi i nonni materni.
Egisto Corradi, l’inviato speciale di tutte le guerre del globo. Ora non sono più. Andati via entrambi a cavallo d’un
brutto male, il primo fin dal ’76, il secondo quattro anni fa. E quando crollano due colonne così, il mondo
sprofonda di più. Quella sera del ’74 erano con me al Regolo, ristorante a pochi passi dal Corriere. E si parlava
tanto di Guareschi.
“Allora, una volta – diceva Pietrino Bianchi – avevamo meno di trent’anni, si era a Parma al caffè dei Preti e lui
intingeva un panettoncino nel caffelatte ed era tutta la sua cena. Quando storpiò il nome del mio Proust, che
nessuno è meglio di lui in letteratura, e lo storpiò in Frust, io non ci vidi più. Sei un paesanaccio rozzo e
ignorante, gli gridai, resterai per sempre correttore di bozze, posto anche questo immeritato perché tremo all’idea
che tu debba un giorno correggere un mio pezzo. Sì, sarai sempre uno zero letterario. A meno che non
intervenga un grosso equivoco, aggiunsi come postilla. E invece Cesare Zavattini lo chiamò a Milano a fare il
Bertoldo con Mosca. Poi fin dall’anteguerra sfornò libri di successo. Continuò col Candido. Quindi col Don
Camillo sfondò in tutto il mondo, più tradotto della Bibbia. Là, alla grande! C’incontravamo per Milano, io su un
marciapiede e lui su quello opposto e mi gridava: l’equivoco continua! Raccontalo al Frust!”.
Poi a raffica: “Non che Guareschi avesse proprio una scrittura alla Flaubert! Ma non faceva errori di sintassi e
grammatica. Sua madre, la maestra, e il liceo classico più qualificato d’Emilia gli avevano insegnato a menadito il
corretto scrivere. Aveva a lungo esplorato i classici”.
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“È curioso – intervenne Egisto Corradi – come Guareschi sia sempre stato ignorato dalla critica ufficiale del
tempo e di oggi. Ho incrociato la sua fama nei posti più impensati del mondo. All’estero sul suo Don Camillo
migliaia di pubbliche letture, cenacoli, cineforum, ricerche a livello filosofico. E in Italia, pressoché nulla. A parte
il numero straordinario di lettori comuni. Eppure, Pietrino, non credo che da noi lo abbiano ignorato così, solo
per invidia e acredine”.
“Neanch’io lo credo. Conventicole, ecco cos’è la critica in Italia. Continuano a premiarsi per decenni l’un l’altro e
Guareschi non volle essere uno di loro. Fuggì nella piana. Libero. Fuori dalle conventicole e cosi loro neanche
sapevano, o comunque potevan fingere di non sapere, se lui esisteva. Udivano il passo fragoroso del suo successo,
lo liquidavano qualificandolo come semplice umorista e si voltavano dall’altra parte. Invece mio cugino era molto
di più. Era scrittore poliedrico, nulla d’improvvisato dopo la lunghissima, profonda militanza in una letteratura
che alla fine fu, e ancora è, d’avanguardia tra tanti barocchismi nostrani. Epigono del Risorgimento. Populista, ma
non banale. Orgoglioso, ma non superbo. Polemista, ma incapace d’odio. E alla fine fu un uomo chiuso,
duramente deluso, malinconico…”.
Ed eravamo diventati quattro quella sera, seduti a un tavolo del Rigolo, anche se il cameriere nel
conto segnò solo tre coperti. Ecco cos’è un’isola.
Laurea in umorismo.
L’università fu una recita amara. Ogni sera Guareschi, pedalando andava a trovare il padre Primo Augusto il
quale rovinato dalla quota Novanta, s’era improvvisato scrivano al caffè dei Preti, camerieri decrepiti e vecchi
divani in velluto rosso nel salone sempre in penombra. E, ogni sera, cancellava la voglia di piangere per
raccontare al vecchio le bugie che potevano fargli bene: sto sgobbando, tre esami per volta e sono avanti,
giurisprudenza è proprio la mia strada, sarò avvocato e dovrai riempire per me carta bollata da mattino a sera.
Invece faceva tutt’altro. Disegnava e scriveva numeri unici d’un suo giornale, Bazar.
Collaborò con la Fiamma, il giornaletto della Gioventù universitaria fascista. Abbandonò il posto di istitutore al
Maria Luigia. Fu elettricista, ufficiale di censimento, diede lezione di mandolino ai contadini di Marore.
Riconquistò uno stipendio facendo l’aiuto portiere allo Zuccherificio Eridania.
Nel maggio del ’29 fu indetto dalla rivista Voce di Parma un premio letterario per scrittori sotto i trent’anni. Al
primo classificato, ben 200 lire. La giuria era presieduta dal tipografo Mario Fresching, attorniato dai nomi più
noti della Parma culturale, Bertolucci, Melizzari, Bassoli. Vinse Guareschi con Silvania, dolce terra, un’isola felice
nella quale la gente vive come nell’Eden, tra fiori, animali buoni, semplicità, sentimenti puri. Ma un giorno
sull’isola sbarcano le “12 famous girls 12”, una banda di ragazze squinternate che sconvolgono la vita degli abitanti
portando la Moda e il Progresso. Eden frantumato, gente eccitata che seguendo le “famous girls” sprofonda nella
volgarità, nell’ansia di possesso, nell’accidia. La novella scivola rapida tra quadretti umoristici, ma sullo sfondo ha
una sua ferma morale e una stupita tristezza.
Guareschi, informato d’aver vinto le 200 lire, fu invitato a una grande cena organizzata in suo onore. Fu messo a
capotavola. C’era mezza Parma seduta a mangiare e a bere. Al caffè, Fresching si alzò. “Con questa novella ti sei
laureato umorista” gli disse.
Fu come un segnale al quale seguì un fuggi fuggi generale. Guareschi si trovò solo con un tipografo di Fresching
che lo fissava imbarazzato. “Sono stato sorteggiato io – disse il tipografo – per ringraziarti di aver offerto a tutti
questa cena con le 200 lire del premio. Otto lire di resto.”.
Desolato, Guareschi si bevve col tipografo anche quelle ultime lire. In strada, prima di separarsi, chinò la testa sul
manubrio della vecchia bicicletta. A sedici anni, nella Bassa, aveva scritto con gli amici una canzoncina: s’è fermato
il cavaliero, s’è fermato sulla pancia, ha deposto il suo cimiero, ha deposto spada e lancia.
Altro che laurea in umorismo, tanto valeva prendere la laurea in legge, fine d’uno scrittore e tanti grattacapi in
meno. Non ce la faceva più. Stanco. Povero. Con sulle spalle quindici anni di fame.
6 – Faceva il cronista di provincia e per campare si creava da solo le notizie
Guareschi giurò di far pagare al tipografo Fresching lo scherzaccio d’avergli fatto spendere in bagordi altrui le
200 lire del suo primo premio letterario. Nel decimo anniversario della fondazione del fascio accettò quindi di
incidere un linoleum commemorativo. Dopo aver lavorato di bulino l’intera notte, portò a Fresching il linoleum
con incisa la figura d’un uomo dal torso possente e dalla mascella alla Benito, teso a braccia in alto e gambe
divaricate, così da apparire come un gran dieci in lettere romane. Fresching mostrò solennemente il lavoro al
gerarca che l’aveva ordinato. Costui si sperticò in lodi fino a quando, girato il linoleum, scoprì che sul retro era
incisa tutt’altra scena nella quale un uomo macilento con occhi da moribondo era inchiodato mani e piedi alla
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grande “X” che indicava il decimo anniversario fascista. Per evitare l’arresto Fresching aveva dovuto trascorrere
la giornata a genuflettersi davanti a tutti i gerarchi e gli squadristi della provincia.
Controvento
Il segno impietoso fu la caratteristica di quasi tutte le vignette di Guareschi in quel periodo. I giornali erano
impegnati a raccogliere immagini di un’Italia lavoratrice, nerboruta, ben nutrita. Per la retorica ufficiale, l’Italia in
miseria non esisteva. I personaggi di Guareschi invece erano donne macilente, bimbi spettrali, uomini patiti come
il Cristo in croce all’ombra di carretti sgangherati e pieni di carabattole rattoppate.
Lo Stato era simboleggiato da personaggi arcigni, stupidamente pignoli e fiscali. Uno dei bersagli preferiti fu un
esattore della Siae, nel quale Guareschi concentrò gli atteggiamenti del tipico burocrate non solo fascista: lo
disegnò mentre balzava da dietro un palo per multare un pover’uomo che, con organino e tre figli laceri, andava
in giro a chiedere la carità. Oppure mentre inseguiva con il blocco delle multe una contadina colpevole di lasciare
nel suo avaro orticello cantassero grilli scheletrici.
In quei mesi di bolletta disperata, s’adattò a tutto. Salì al rifugio di Schia sugli Appennini per decorarlo con grandi
figure di donne sciatrici. Dipinse i cartelloni che annunciavano le serate danzanti al Gardenia, il locale da ballo più
noto della città. Illustrò copertine di libri per le edizioni Corbaccio. Compilò talloncini pubblicitari per callifughi e
magnesie bisurate. Ma continuava a sognare lo stipendio fisso. Un giorno incontrò il Nibbio, Nino Bocchi, e glielo
confidò. Il Nibbio s’era messo a scrivere per il Corriere Emiliano.
“Diciamolo a Peppino. È un nome che a uno della Bassa verdiana dovrebbe portare buono” disse il Nibbio.
Gli incorreggibili
E infatti, per intercessione del Nibbio, fu Peppino Dovara, ex caffettiere andato in malora e, mussoliniano
antemarcia, amministratore del Corriere Emiliano, ad assumere Guareschi come correttore di bozze. La sede del
giornale era nel cuore di Parma, dentro alla monumentale Pilotta, che nel 1600 era residenza ducale dei Farnese.
In piccionaia stava Cosentino, uno stenografo che urlava sempre come una gallina spennata viva. Il direttore
Passerini e il caporedattore Pellegrini dividevano un bugigattolo nel sottoscala. I due cronisti Bassanini e Silvani,
viaggiavano come anime in pena tutto il giorno in cerca di notizie. Il Nibbio, terzo cronista, imperversava al suo
solito con scherzi sempre più raffinati.
A 260 lire al mese, Guareschi s’inserì come poté in quella Babilonia col doppio problema di mantenersi in qualche
modo il posto senza però morire di noia. In una lettera scritta nel ’60 a Baldassarre Molossi, fino a pochi anni fa
straordinario direttore della Gazzetta di Parma, spiega come la semplice sostituzione non corretta in tempo di una c
al posto di una v nel verbo vagare possa snaturare. letta il giorno dopo sul giornale, la frase “un’ordinanza vieta
ai cani di vagare liberi nei campi” e fargli rischiare il licenziamento in tronco. E gli articoli del Nibbio erano pieni
di queste trappole.
Alla fine del ’30 il Nibbio fu alfine licenziato in tronco per un ennesimo scherzo tirato al direttore che lo inseguì
inferocito fino in piazza Garibaldi. Guareschi lo sostituì. Divenne cronista. Promozione che non gli rese una lira in
più, ma che gli permetteva di poter tornare a scrivere. Bassanini, che era diventato capocronista, gli affidò il
primo servizio, la cronaca di un discorso che un gerarca fascista doveva fare a Colorno, grosso centro della Bassa,
noto perché sede del manicomio provinciale. Guareschi andò, tornò e scrisse compunto che l’entusiasmo della
folla era stato tale che perfino i matti del manicomio, saliti sui tetti, avevano approvato il discorso del gerarca con
uno strano gesticolare. Il pezzo non fu pubblicato e Guareschi, dopo un drammatico scontro con
l’amministratore, retrocesse ancora a correttore. Dopo dura quarantena, fu riassunto come cronista a patto però
che, contemporaneamente continuasse a correggere bozze.
“Duro mestiere fare il cronista – scrive in Vita in famiglia – perché in un modo o nell’altro la pagina della cronaca
cittadina bisognava riempirla. Io giravo ogni giorno per caserme di carabinieri, commissariati di polizia, posti di
pronto soccorso col bel risultato di scoprire che una massaia si era scalfita un dito sbucciando patate, che un
ciclista era caduto ammaccandosi la testa, che un ladro di polli era stato catturato. Roba da mettersi a piangere.
Tanto che una bella volta, abbandonati al loro destino massaie, velocipedastri e ladri di polli, presi ad inventare i
fatti di cronaca. Risultarono più divertenti dei fatti veri. E anche più verosimili. Così avevo tutto il tempo che
volevo per correr dietro alle ragazze”.
Tutto vero. Stanco di pedalare a vuoto, Guareschi si mise a scrivere d’immaginari furti di forme di formaggio
complicati da misteriosi ferimenti. Di incendi appiccati da innamorati impazziti. Di cerimonie d’inaugurazione di
monumenti inesistenti.
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Quando l’amministratore se ne accorse, Guareschi cambiò tattica. I fatti di cronaca passò direttamente a crearli
prima di descriverli. In un articolo scrisse di ignoti vandali che la notte precedente avevano oscurato a sassate tutti
i lampioni del Lungoparma. Era accaduto presumibilmente poco dopo che il campanile del Duomo aveva scoccato
le due. Un testimone, che casualmente transitava da quelle parti, aveva intravisto due figure inquietanti avvolte in
tabarri e armate di fionda. Guareschi non lo specificava, ma le due figure inquietanti erano lui, che con fionda
aveva sempre avuto una mira infallibile, e il Nibbio che gli faceva da palo e che già un paio d’ore prima era
passato a spaccare i lampioni in Pilotta davanti al Corriere Emiliano.
7 – Voleva andare a Milano per far fortuna, gli toccò partire militare
Lo stipendio al Corriere Emiliano, per quanto miserrimo, aveva tuttavia permesso a Guareschi di migliorare le
condizioni di vita. Aveva finalmente comprato la bicicletta nuova, la “Dei” che aveva sempre sognato, freni a
bacchetta, manubrio largo e cromato, con in più un romantico fanale a olio che tuttavia gli compromise molte
avventure sentimentali. Le ragazze che portava a sera in giro sulla canna tornavano che parevano abissine, con le
facce tutte annerite dal fumo del fanale.
Aveva affittato per poche lire al mese una soffitta in una casupola di Borgo del Gesso, in Parma vecchia. La volta
era bassa, a travicelli sostenuti da un’enorme e contorta trave a metri 1,70 dal pavimento. Su essa Guareschi aveva
scritto a grandi lettere la frase “Basta non perdere la calma!”. Vi ricorreva ogni volta che immancabilmente
sbatteva la fronte contro la trave.
Ennia la forte
Gettò il vecchio pastrano da convittore per una scelta accurata di abiti. Aveva ricevuto un aumento di stipendio di
30 lire al mese perché era stato promosso capo cronista, ovviamente a patto che continuasse a fare il cronista e il
correttore di bozze. Era ancora senza baffi. Marciava in Knickerbockers, allora di gran moda. Piglio sportivo.
Camicie fantasia, papillon bianco a pallini verdi o rossi o blu, accendeva le sigarette, fatte arrotolando le cartine,
con fiammiferi svedesi ancor più di moda, piglio da uomo vissuto. “Insomma l’eleganza sobria dell’uomo che non
vuol farsi notare” scrisse del Giovannino d’allora. “Era giovane e bellissimo” dice di lui la moglie che nei suoi
racconti famigliari chiamò Margherita.
“Lei aveva due anni più di lui – mi narrò Pietrino Bianchi, cugino di Guareschi – ragazza estremamente simpatica.
Vivacissima. Eccezionale ballerina quanto lui. La conobbe al caffè Orientale dove lei serviva la gente da dietro il
banco. Bella? Sì. Cioè, più che bella era un tipo mondiale. Giovannino si fece vedere sempre meno tra gli amici e
si chiuse in un mondo al quale avevano accesso solo loro due. Quando vedo quella gran fiamma rossa perdo la
testa, mi confidò. Lei aveva una gran chioma fulva”.
Ennia era forte. Una lite con lei diventava una rissa. Non le importava un fico di quanto potesse dire o pensare la
gente. Si fidava solo del suo istinto. Coraggio da vendere. Un modo quasi feroce di amare la vita. Più che idillio, la
loro fu reciproca aggressione. Ma era ciò che entrambi cercavano. Mai essere secondi. Ma neppure primi, perché
una docile sottomissione li avrebbe annoiati. Il più forte avrebbe gettato il più debole come un giocattolo rotto.
Con segreta tenerezza, Guareschi nei suoi racconti la chiamò Margherita.
Ennia fu per lui la sferza. Guareschi sapeva che lei lo avrebbe seguito anche nel fuoco. Insieme cominciarono a
rincorrere nuove ambizioni. L’esempio veniva da Cesare Zavattini che alla morte del padre, aveva buttato due
vecchie camicie e un manoscritto in una valigia e, lasciato Luzzara, era partito per Milano. Il manoscritto era stato
pubblicato dall’editore Bompiani col titolo “Parliamo tanto di me”. Ed effettivamente aveva fatto molto discutere.
Orio Vergani, Bontempelli, Pirandello, persino Benedetto Croce.
Guareschi divenne sempre più insofferente al genere di vita che conduceva a Parma. “Il guaio è – scrisse – che col
passar dei direttori, passan gli anni. Sto ingrassando. Comincio a pensare che, per tutta la vita, guarderò questi
vecchi muri, vedrò il sole tramontare sempre dall’altra parte del torrente.
Una notte, chiusa l’ultima edizione del giornale, Guareschi raggiunse un gruppo di amici in festa matricolare.
Bevve un po’ più del solito e mentre gli altri se ne andavano a letto, ritornò in redazione. Era quasi l’alba. Non
c’era nessuno. S’aggirò per le stanze come una belva in gabbia. D’improvviso uscì in urla disumane. Buttò all’aria
scartoffie. Spaccò suppellettili e vetri.
Rovesciò i mobili.
Pur di volare
Il giorno dopo l’amministratore gli presentò il conto. “Riassumendo l’intera storia, caro Guareschi – gli disse – mi
permetto di dirvi che, come correttore di bozze non funzionavate, vi abbiamo promosso cronista. Ma come
cronista non funzionavate. Vi abbiamo promosso capo cronista. Ma neppure così voi funzionavate e io mi trovo
nell’imbarazzante alternativa di farvi il posto di direttore o licenziarvi. Ma so già che dandovi il posto da direttore
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voi non funzionereste e non mi resterebbe altro che alzarmi e darvi il posto di amministratore. Che è mio. Caro
Guareschi, voi siete troppo grosso per questo piccolo giornale di provincia. Andate a Milano. Farete fortuna.
Per mesi, sulle prime pagine del Corriere Emiliano erano apparsi disegni di Guareschi come vignetta del giorno.
Battute e disegni, oltre le novelle scritte a 10 lire l’una per la terza pagina, erano stati notati e apprezzati anche a
Milano e a Torino dove stavano nascendo i grandi templi dell’editoria. Zavattini, che già s’era inserito di
prepotenza negli ambienti culturali e letterari milanesi, gli fecero ottenere collaborazioni con disegni e novelle sul
Secolo Illustrato e sul giornale che dirigeva, Cinema Illustrazione. E Guareschi, ogni volta che vedeva pubblicato
in bel rilievo qualcosa di suo su quei giornali a tiratura nazionale, diceva a Ennia di preparare la valigia, si sentiva
prossimo al decollo per Milano. Invece si trovò con una cartolina in mano a decollare e ad atterrare sugli stivali di
un barbuto tenente nel cortile dell’Accademia militare di Potenza.
Erano gli ultimi mesi del ’34 e i rari esami dati alla facoltà di Giurisprudenza, poiché ormai aveva superato i 26
anni ed era irrimediabilmente fuori corso, non gli permisero più di rimandare la naja. Che gli spettava quale
robusto figlio della Bassa.
8 – Quando Sandra Mondaini andava in redazione al Bertoldo
Dopo sei mesi trascorsi a testa china sui banchi della scuola militare di Potenza a studiar cose che gli spedivano il
morale sotto i tacchi perché lo facevano sentire del tutto un incapace, Guareschi, con sulle spalle la mantellina
azzurra di sottotenente, fu caricato su una tradotta e rispedito al nord destinato al Sesto artiglieria di corpo
d’armata di stanza a Modena.
Passò le prime settimane ad osservare con apprensione e disgusto la caserma che si riempiva di bocche da fuoco
mentre fuori, in lontani panorami africani ed europei, i cieli si facevano cupi.
Al “Bertoldo”
Comandava la caserma il colonnello Efisio Marras. Si vantava di saper riconoscere un vero soldato a 500 passi di
distanza solo al modo di camminare e con Guareschi non sbagliò: gli bastò vedere come trascinava gli stivaloni per
la caserma, rigido come un legnetto, andatura da cane bastonato, per capire che era un gran bene per la Patria
tenerlo lontano dai cannoni. Lo portò quindi in giro per la caserma e gli indicò le parti più squallidamente
imbiancate. Gliele fece pitturare con cannoni, obici, bandiere, motti, alloro, quercia e nuvole. Fino al finto affresco
allegorico finale. Terminato il quale Guareschi partì per il campo e le esercitazioni di tiro a Villa Minozzo,
sull’Appennino reggiano.
Fu là, nella primavera del ’36, che lo raggiunse Andrea Rizzoli, figlio di Angelo, presidente dell’omonima casa
editrice. I Rizzoli s’erano accorti che un bisettimanale umoristico, il Marc’Aurelio aveva un successo eccezionale per
quei tempi. E non era edito da loro. Zavattini, lestissimo, aveva proposto un giornale che avrebbe, spergiurava,
potuto superare di gran lunga il Marc’Aurelio. Gli fu offerta la direzione. Decise di intitolarlo “ Valà che vai ben”.
Tra gli altri, interpellò Guareschi chiedendogli idee, vignette, racconti per poterli mostrare all’editore e farlo
assumere.
Ma Zavattini, a basi ormai gettate, s’alzò dalla scrivania e uscì sbattendo la porta dopo uno spettacolare litigio con
Angelo Rizzoli. Al suo posto entrarono i già ben conosciuti e amati dal pubblico Metz e Mosca. Zavattini,
andandosene, aveva lasciato sulla scrivania un gran plico contenente ciò che Guareschi gli aveva inviato. Idee,
scritti e disegni furono apprezzati da Mosca a dai Rizzoli. Ma Guareschi tentennava. Lettere e telefonate non
avevano successo. Un giorno Andrea Rizzoli caricò in macchina Carletto Manzoni, raggiunse Guareschi a Villa
Minozzo e riuscì a fargli ottenere qualche ora di libertà. Lo portò a mangiare in una trattoria sotto una pergola.
“D’accordo, non c’è più Zavattini. Ma lei, Guareschi, non viene del tutto tra sconosciuti. Lo vede, abbiamo assunto
anche Carletto Manzoni, il nostro Fildiferro. Smetta di far storie, firmi il contratto e venga a Milano non appena
congedato”.
Guareschi sbirciò Carletto Manzoni che civettava dicendosi attraverso intricati geni discendente del grande
Alessandro. Quel giovanotto della sua età, muso appuntito, baffetti a virgola, gran magrezza per aver anche lui
saltato i pasti da sempre, gli infondeva fiducia e tenerezza. Firmò il contratto.
La massima scuola
Non appena congedato, gettò qualcosa in una valigia di cartone e partì per Milano. Il nuovo bisettimanale aveva
preso il titolo definitivo di Bertoldo. Il primo numero uscì il 14 luglio ’36, giorno di San Bonaventura. Già in prima
pagina c’era una vignetta di Guareschi intitolata “Le avventure della spia numero 28”. La quale spia era una bella
ragazza che si presentava al suo comandante. “Si può sapere cosa siete riuscita a fare in tre anni di missione
segreta in Italia?” le chiede il comandante. Lei non risponde, ma ha appesi alla gonna due maschietti e una
femminuccia.
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Per Guareschi il Bertoldo fu un successo di cocciutaggine. “Mi misi seduto a tavolino a lavorare come una bestia
da mattina a sera. A cercare idee originali, a far vignette, scrivere racconti. Così, dopo sei mesi, mi ritrovai
redattore capo”. A parte il successo personale di trovarsi a meno di trent’anni caporedattore di un bisettimanale
venduto a centinaia di migliaia di copie, Guareschi ebbe dal Bertoldo una scuola eccezionale. Lavorò a finca dei più
bei talenti dell’umorismo e della letteratura italiana. Al nucleo dei fondatori, Mosca, Metz, Angelo Frattini,
Giuseppe Marotta, Marcello Marchesi, Walter Molino, Carletto Manzoni, si erano aggiunti altri collaboratori. Un
giorno gli comparve di fronte un giovane mingherlino. Occhialetti. Baffetti biondi. Gli porse un foglio sul quale
un ometto da un fumetto diceva di voler illustrare un racconto. E poi, in rapida successione, gli mostrò alcuni
disegni dal tratto originalissimo e fulmineo. Prospettive che scavalcavano senza affanno l’infinito. La capacità di
dare col vuoto il senso del pieno e viceversa.
Gli anni verdi
“Studio architettura e sono ebreo” disse di sé. Guareschi non ebbe dubbi, quel gran talento era degnissimo di
entrare a far parte della famiglia del Bertoldo.
E così fu proprio per volontà di Guareschi finché le persecuzioni razziali non costrinsero il giovane dai baffetti
biondi a fuggire coi suoi scartafacci in America coperto e aiutato da tutti quelli del Bertoldo. Il suo nome è Saul
Steinberg, oggi il più grande grafico del mondo.
Ma altri ancora: due volte alla settimana una bambina con gli occhi azzurri e le treccine bionde entrava in
redazione e posava rotolini di carta sulla scrivania di Guareschi.
“Sono la Sandra Mondaini e porto i disegni del mio papà” diceva prima di correre via.
“Eran tempi in cui si rideva senza cattiveria – mi disse nel ’72 Carletto Manzoni ripetendomi ciò che scrisse nel suo
“Gli anni verdi del Bertoldo” – Bazzi era orgoglioso della sua balbuzie. Metz delle sue emorroidi, Palermo e i suoi
calcoli renali, Guareschi della corda con la quale si reggeva i calzoni. Simili era il catanese spelacchiato con le
orecchie a sventola. Io, Carletto Fildiferro, magro, quasi trasparente giravo con un impermeabile lucido di pioggia
mentre Loverso si divertiva a riempire gli spazi nei disegni di Guareschi con l’inchiostro di china, poi firmava: il
nero è di
Loverso. Così il Bertoldo nella vita di tutti i giorni.
9 – Si sposa con la tariffa dei poveri: cinque lire e niente musica
Ognuno nel “Bertoldo” trovò il suo spazio. Si susseguirono le rubriche, il Signore Malvagio, il Signor Veneranda,
Conobbi una volta il Signor Ulderico, il Fesso d’Oro, il Pissipissibaobao di Giovanni Mosca.
Molino, Albertarelli e Palermo si erano specializzati nel disegnare donnine con gambe lunghe, sode e nude e
scollature profonde. Come già faceva Barbara sul Marc’Aurelio. Ma era un genere che non attraeva Guareschi.
Controtendenza
Non si può infatti essere universali, per tutti, se poi si scrivono o si disegnano cose scabrose che gli altri debbono
leggere o guardare di nascosto da moglie e bambini. Guareschi inventò allora le Vedovone, grosse signore sempre
vestite di nero per mascherare la propria mole. Signore immense che suonavano la lira ottenuta unendo con fili le
corna dei mariti esili come fuscelli. Che dal parrucchiere facevano la messa in piega anche al naso.
Le Vedovone uscirono contro il parere dell’editore che insisteva perché anche Guareschi s’adeguasse a quello che
sembrava il gusto del pubblico. Ma Guareschi aveva ragione: i lettori infatti accettarono le sue Vedovone più delle
donnine provocanti. Le Vedovone furono l’avanguardia delle Signore a pera, parodie delle dame della borghesia
che affollavano a quei tempi i caffè più importanti del centro di Milano. Le disegnò a pera capovolta, con la parte
del picciolo in basso. Grasse. Alte. Con pesanti anelli alle dita, grandi cappelli in testa e, anche quando il sole
spaccava i sassi, con doppie volpi argentate attorno al collo, pizzi e falpalà che s’alzavano come creste dal crinale
del seno maestoso. “Guardano il mondo – scrive Guareschi – attraverso l’occhialino, sprezzanti di quanto avviene
alle pendici del loro immenso seno”.
Alle Vedovone e alle Signore a pera, aggiunse le Nonnine del tramonto. Ritratti un poco ironici, uno poco
malinconici di certe anziane signore di città. “Pelle lisce – scrisse – senza rughe, perché prima di uscire le nonnine
se la tirano bene bene all’indietro e la appuntano con spilloni alla cima della testa. Hanno gli occhi dipinti di verde
o di blu e i seni convenientemente sistemati: il seno destro sulla spalla sinistra, il sinistro sulla destra, quindi
ambedue sono stati incrociati sulla schiena, come i tubolari dei corridori ciclisti per poi venire annodati
saldamente sull’uno o sull’altro fianco per aumentarne il decoro. Le nonnine si ritrovano nei loro caffè verso il
tardi e si danno alle tartine e agli aperitivi per dimenticare che hanno tanti nipotini. Nipotini tristi a loro volta,
perché non hanno più nonne”.
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Tra le Vedovone, le Signore a pera e le Nonnine del tramonto, Guareschi cominciava ad analizzare quella per
lui strana civiltà metropolitana. Dove la gente non sapeva o non voleva invecchiare, preda di conformismi che li
riducevano a personaggi tutti eguali. Cominciava a sentire nostalgia della Bassa. Di quella genuinità. Di quella
semplicità nel vivere.
Il sacro rito
Ennia, la fidanzata dalla chioma fulva, non ci aveva pensato due volte: “Se l’uomo che amo mi dice muoio, io gli
rispondo moriamo insieme, se l’uomo che amo mi dice andiamo alla Fiera di Milano, io gli rispondo andiamo alla
Fiera insieme!”, dice Margherita in un capitolo de La scoperta di Milano. Ennia era proprio così. Buttò anche lei
qualcosa in valigia, unì i suoi risparmi a quelli di Guareschi, 8 mila lire, e lo seguì a Milano.
In una mattina del febbraio ’40, Guareschi ed Ennia giunsero davanti alla chiesa di Santa Francesca Romana in
taxi. Un altro taxi trasportava i quattro amici scelti quali testimoni: Alessandro Minardi e Carletto Manzoni per
lui, Pietrino Bianchi e Giovanni Mosca per lei. Invitati zero.
Guareschi disse al parroco che intendeva sposarsi. I calzoni erano gessati. Glieli aveva prestati Carletto Manzoni.
Non aveva giacca. Tanto faceva freddo e poteva tenere anche in chiesa il paltonaccio di tutti i giorni. Ennia
indossava un cappotto nero. Altro non era che il mantello azzurro portato da Guareschi come ufficiale
d’artiglieria rivoltato e ritinto. Sul sagrato, il fotografo addetto alle funzioni voltò loro la schiena. “Quanti soldi
hai, giovanotto?” chiese il parroco. Guareschi aveva in tasca cinque lire”. Cinque lire è la tariffa dei poveri. Niente
musica. Niente candelabri.
Guareschi ricordò il suo matrimonio sul Corrierino delle famiglie: “Il sacro rito, se così si può chiamare, avvenne a
Milano, in Santa Francesca Romana, immediatamente dopo un matrimonio ricco. La chiesa era ancora piena di
fiori, l’altare sfavillante di ceri e uno sfarzoso tappeto rosso era disteso dall’altare alla porta. Come entrammo si
udì un urlo e nugoli di piccoli chierichetti guastatori si scatenarono. E, mentre un gruppo faceva sparire i fiori, un
altro strappava dall’altare certi grossi busti di vescovi di latta argentata e un terzo gruppo, a mano a mano che
Margherita, io e i quattro testimoni procedevamo verso l’altare, arrotolava il tappeto in modo che neppure lo
sfiorassimo con le nostre screanzatissime suole. Fu un matrimonio lampo con comandi perentori: in piedi! In
ginocchio! Seduti! In ginocchio! Si! Anello!
Ricordo che a un certo momento, l’organista che era rimasto sul palco dell’organo attaccò la famosa marcia
nuziale, ma un urlaccio del celebrante lo fece immediatamente zittire”.
A testa bassa
Poi però le doti di formidabile lavoratore, crescendo di pari passo con l’esperienza, gli permisero di raggiungere
un migliore tenore di vita. Oltre a scrivere per il “Bertoldo”, collaborò con altri giornali a ritmo instancabile.:
Stampa, Gazzetta del Popolo, Corriere della Sera, Illustrazione italiana, Novella. Scrisse romanzi a puntate. Preparò
scenette per la radio. Con Mosca sceneggiò due riviste teatrali rappresentate con successo a Milano, Roma,
Torino, Venezia. Collaborò anche con Omnibus
di Leo Longanesi. Illustrò album a fumetti per ragazzi. Lavorava 5, 6 giorni di fila senza interrompersi, un pasto
al giorno e brevi e agitati sonni.
Per sostenersi andava a sigarette, caffè e bicarbonato.
Cominciò a scrivere romanzi. Dopo La scoperta di Milano, pubblicato nel ’41, preparò Il destino si chiama Clotilde,
romanzo umoristico che egli definì d’amore e d’avventura. Narrava l’idillio tra Clotilde e Filimario, lei
ingombrante milionaria e lui spiantato. Il volume uscì nel ’42 e superò le 20 edizioni di La scoperta di Milano. Un
altro romanzo, Il marito in collegio, uscì nel ’44, quando ormai lui era prigioniero dei nazisti in un lager polacco. E
con oltre 20 edizioni fu il suo terzo grande successo prima della fine della seconda guerra mondiale.
10 – Arrestato come disfattista, poi rilasciato ma spedito al fronte
Le troppe ore passate seduto in redazione al Bertoldo l’avevano appesantito: 83 chili, una quindicina più del
necessario. Tentò di combattere l’incipiente obesità. Un giorno, mentre Ennia e Albertino, il suo primo figlio nato
nel ’40, erano in vacanza a Igea Marina, mise uno zaino in spalla,
salì sulla sua gloriosa bicicletta Dei e pedalò. Non si fermò per quindici giorni. Scalò il Passo del Sella, Pordoi,
Falzarego. Pedalò per centinaia di chilometri in pianura e spuntò a Igea Marina con le gambe bruciate dal sole, il
naso pelato, in brache corte e molle di sudore. Si pesò: aveva perduto un solo chilo.
Lo sentirono dire: qui ci vuole una cura più robusta. Il destino lo esaudì subito.
La fronda
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Dal diario clandestino, 19 dicembre ’44, Lager XB 19, Sandbostel, Nord Ovest della Germania nazista: “Ho
ricevuto – annota Guareschi dal suo letto a castello – una lettera da casa: a Carlottina stanno spuntando quattro
dentini e ha imparato a dire no. Anch’io ho imparato a dire no, ma ci è voluta una guerra mondiale”.
Il no maturava già da anni. I riti e l’aggressiva politica del governo fascista innervosivano quelli del Bertoldo che,
dall’umorismo fine a se stesso, saltarono nella satira di costume e subito dopo nella satira politica. Sfidarono il
regime soprattutto con incoscienza poiché esso non era fatto solo di gerarchi più o meno esaltati , ma era stato
concimato a dovere da un lungo codazzo di profittatori e servi. Contro essi la ragione valeva men che nulla.
Quando Appelius dai microfoni dell’Eiar, rivolse a Dio l’invito di stramaledire gli inglesi, il Bertoldo insorse
condannandone la stupidità e lanciandosi contro la retorica e i colpevoli silenzi delle trasmissioni sulla vera
situazione interna della nazione e sullo stato d’animo della gente. Nelle pagine del giornale l’Eiar divenne l’Ente
incoraggiamento afonia radiofonica. Mondaini in una vignetta mise su un angolo di strada un muto e un sordo:
ho intenzione di cantare per l’Eiar, dice a segni il muto. Bene, ti sentirò volentieri, risponde il sordo.
Il regime
I ligi al regime baluginavano nel vedere il Bertoldo voltar di prora e addentrarsi in quel mare così pericoloso.
Guareschi inventò il Fesso di guerra, un omiciattolo con la bocca a trombetta, tutto vestito di nero, che
imperversando tra cittadini alti un palmo, credeva e propalava qualunque scemenza la propaganda suggerisse.
Palermo dedicò vignette alle Mamme annonarie, costrette a far la spesa con la tessera: non piangere Carletto, se
stai buono ti faccio succhiare un tagliando dello zucchero. Ma come fate, chiede una signora alla padrona di casa,
con questa scarsità di burro? Cucino col sapone.
I fascisti preparavano la guerra per la primavera. Guareschi disegnò un fante che punta il suo antiquato
moschetto 91 contro un germoglio che sta spuntando su un albero: torna indietro o sparo!
Fare la fronda divenne sempre più pericoloso e difficile. Saul Steinberg si preparò a fuggire in America per non
salire con altri ebrei su un vagone bestiame diretto al Nord.
Scoppiò la guerra. Il fratello di Guareschi fu spedito su fronti difficili e nelle notti d’oscuramento Guareschi
cominciò a dire un po’ troppo forte ciò che pensavano in molti. Una sera in pieno centro di Milano vuotò il sacco
urlando tra la gente la sua definitiva valutazione sulla guerra, sul patto dell’Asse, sulla Campagna di Russia.
Arrestato. Interrogato. Rinchiuso in cella. Ennia se ne andò come una disperata per la città a mobilitare gli amici
in sua difesa.
Angelo Rizzoli si mosse per primo. Andò al comando della milizia. Parlò col federale. Col prefetto. Con una mezza
dozzina d’alti papaveri del regime. Non ottenne altro se non vedersi sbattere sotto il naso due fogli protocollo con
scritto tutto quanto Guareschi aveva urlato per ore sotto centinaia di balconi. Spiacenti, ma la notorietà di
Guareschi era tale da non poter lasciare impunito l’episodio. Che poi l’ufficio politico teneva d’occhio Guareschi
da un bel pezzo, questo disfattista. Una condanna esemplare sarebbe stata un buon monito per tutti gli antifascisti.
Riuscì a sbloccare la situazione Giorgio Pini capo redattore del Popolo d’Italia. Informò direttamente Mussolini e
gli strappò la liberazione di Guareschi inventando le giustificazioni più bislacche. Guareschi fu rilasciato. Ma non
perdonato. Il comando della milizia ottenne che egli fosse richiamato per direttissima sotto le armi.
Era l’autunno del ’42. Su una tradotta militare partita da Bologna, un grassoccio sottotenente d’artiglieria nel
vagone ufficiali, dove una piccola lampada blu tentava di rischiarare il corridoio, pestava le scarpe dei colleghi
alla ricerca di un posto raccogliendo invettive in tutti i dialetti. Si fermò sugli stivali d’un ufficiale che lo fulminò
con uno sguardo inconfondibile. Il sottotenente riconobbe l’ufficiale. Gli chiese dove fosse diretto. “Vado in Africa.
E tu che ci fai sui miei piedi?”, rispose l’altro, che era il Nibbio. Per ora Guareschi era diretto al reggimento.
Per il Re
L’8 settembre ’43, all’alba, ufficiali e soldati della caserma di Alessandria, dove Guareschi era ora tenente
d’artiglieria, schizzarono fuori in ordine sparso per partecipare a una marcia in tenuta mimetica verso i punti più
disparati della penisola. L’ordine era sparso perché, più che di marcia, si trattava di fuga e la tenuta era mimetica
perché ognuno s’era infilato nei primi abiti borghesi che erano capitati a tiro, senza curarsi di taglia e foggia pago
solo che il colore non fosse grigioverde.
Guareschi voglia di tornare a casa ne aveva forse più degli altri. Sei mesi prima gli era esplosa un’ulcera nello
stomaco. Lo faceva impazzire. Aveva avuto una licenza per trascorrere a casa la convalescenza. Era servita per
creare nella signora Ennia i presupposti d’una seconda maternità. Famiglia. Bimbo in arrivo. Lavoro. Richiami
irresistibili. Ma non riuscì a disertare: aveva giurato fedeltà al re. Nel re vedeva l’unità nazionale che non andava
dissolta. Restò al suo posto.
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Con pochi commilitoni quasi inermi disputò quindi, dall’interno della caserma, un incontro non amichevole
con le truppe corazzate tedesche che s’erano attestate all’esterno. Raccomandò ai suoi venticinque uomini a difesa
della porta carraia di economizzare i colpi. Che ognuno mirasse il proprio uomo!.
“E come si fa? – obbiettò uno -. Sono tutti nascosti dentro i carri armati”.
Allora Guareschi raccomandò che ognuno mirasse il proprio carro armato.
11 – Deportato nel lager urlava: “Non muoio neanche se m’ammazzano
E dunque l’8 settembre ’43, giorno del ribaltone, mentre i più tra ufficiali e soldati gettavano armi e divise per
tornare a casa, un cocciuto colonnello e un cocciutissimo tenente, che era Guareschi, con un pugno di soldati
restarono a difendere ligi al giuramento fatto al Regio Esercito la caserma d’artiglieria di Alessandria. I tedeschi
avanzarono con i corazzati, smantellarono a cannonate un’ala della caserma ed entrarono. Gli italiani, armati di
fucile 91 e poco altro, fecero un rapido conto delle cartucce rimaste. Zero. Quindi poterono arrendersi.
Nei lager
I prigionieri furono rinchiusi per qualche giorno nella Cittadella d’Alessandria dove, sotto controllo di
mitragliatrici pesanti, era stato improvvisato un campo di smistamento per quegli ufficiali che avevano rifiutato di
unirsi al Reich. E Guareschi era tra essi.
“Dio ti scampi dalla Cittadella, postero mio! – scrive Guareschi nel Diario clandestino – Le cittadelle sono, oltre il
resto, di una esigenza straordinaria. Non esiste in esse un pezzettino di intonaco bianco che non abbia a
comunicarti a caratteri di scatola ordini perentori: osare! Credere, obbedire, combattere, combattere! Marciare
non marcire! Chi si ferma è perduto! Rinnovarsi o morire! Sul muro di un caratteristico locale a piccoli scomparti
trovai scritto a caratteri cubitali: correre! E ciò, pur considerando la fretta imposta dallo stato di emergenza.
costituiva una pretesa esagerata”.
Qualche giorno dopo, Guareschi e gli altri prigionieri furono incolonnati, spinti fino alla stazione ferroviaria,
stipati in carri bestiame e deportati oltre le Alpi. Con un mestolo d’acqua ogni dieci ore, raggiunsero la Polonia e
furono internati nella Nord Kaserne un immenso fortilizio alla periferia di Czestochowa.
Il forte apparve lugubre e spettrale, sotto una luna pallidissima, circondato da torrette e reticolati. Era stato
trasformato in uno di quei campi di concentramento dei quali, già nel ’43, si parlava sottovoce e con terrore anche
in Italia.
Una decina di giorni prima Guareschi, appena catturato ad Alessandria, pesava 86 chili. Ma già era dieci in meno
quando le SS lo fotografarono nel cortile della Nord-Kaserne dopo avergli messo alò collo, come si fa con i
delinquenti comuni, un cartello col suo numero di internato, il 6865.
Le SS se ne andarono lasciando i prigionieri sotto la sorveglianza di soldati dell’esercito tedesco.
La guerra era già stata lunga e, a parte il vitto, le condizioni di vita degli internati non erano molto peggiori di chi
doveva sorvegliarli. I tedeschi, lontani dalla loro patria e già con tristi presentimenti, pur dietro urli e divise
stavano rannicchiati nella stessa nostalgia per le famiglie lontane. Stessa voglia di tornare a casa che straziava gli
italiani. Così i guardiani, in un certo senso prigionieri dei prigionieri, se appena il regolamento lo permetteva non
lesinavano agli internati carta e matita, un mazzo di carte, una fisarmonica, qualcosa insomma per ingannare quei
tempi eterni.
Per non morire
Un giorno comparve un ufficiale della Gestapo che organizzò compunto un giro turistico della città e li portò con
una guida per le vie di Czestochowa fino al Santuario della Madonna Nera. Guareschi fu colto da strani
sentimenti sotto quel cielo e tra i polacchi. Emozioni che spiegò anche come ricordi ancestrali. Certi suoi antenati
erano nati in quella terra.
Il Santuario della Madonna Nera gli apparve come una fortezza formidabile. I monaci come soldati travestiti con
quegli stivaloni che s’intravedono sotto le tonache. Nel diciottesimo secolo gli svedesi non erano riusciti ad
espugnarla con 12 mila uomini ed era difesa solo da duecento monaci. Avevano dovuto ritornare in 18 mila con
centinaia di cannoni. Guareschi a naso in su ne osservò gli emblemi: due leoni rampanti e un corvo che portava il
pane nel becco.
“Prima quell’uccello era un’aquila – spiegò la guida polacca sottovoce per non farsi udire dai nazisti -. Poi vennero
i russi, tolsero l’aquila e misero un corvo. Poi vennero questi altri e tolsero anche il pane”.
Guareschi intuì la drammatica dignità di quel popolo. C’era ancora al mondo i mostri. Chi non opponeva odio a
odio, ma dignità e violenza. Pazienza alla follia. S’inginocchiò davanti alla Madonna Nera e cominciò piano a
ritrovare se stesso. La guida gli spiegò che si diceva fosse la più antica Madonna del mondo, ritratta dal vero da
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San Luca vent’anni dopo Cristo in un legno ricavato dalla tavola sulla quale Maria aveva pianto quando lo
avevano crocifisso il Figlio. Sull’icona i segni di avventurose peregrinazioni, da Gerusalemme a Costantinopoli, poi
in Ungheria, infine in Polonia. Colpita da una sciabolata, presa a fucilate da un tartaro. Era l’anima inquieta,
immutabile attraverso tempo e violenza, maciullata ma sempre splendida, della Polonia e di quant’altro le somigli.
“Si leva un canto dalla folla – annota Guareschi sul Diario clandestino – pare la voce stessa della Polonia:
un dolore dignitoso di gente usa da secoli ad essere schiacciata e a risorgere. Di gente che viene uccisa sempre e
non muore mai”.
Ritornò, incolonnato con gli altri, verso la Nord-Kaserne. La sera già si alzava dai boschi azzurri che recingevano
Czestochowa. Ma prima, sul sagrato, s’era formato, aveva respirato a lungo l’aria fredda e aveva inventato il motto
che lo seguì caparbio per tutta la durata della prigionia nei lager.
“Non muoio neanche se m’ammazzano!”, disse a voce alta.
Lo ripeté più forte e il capitano della Gestapo non riuscì a farlo smettere. E allora, anche gli altri ufficiali italiani
gridarono la stessa frase. Poi si misero in cammino, ripetendola cupi. Sottovoce, cadenzando su essa il ritmo dei
passi.
Paride Piasenti, presidente dell’Associazione nazionale degli ex internati, dice: “Giovannino Guareschi fu uno dei
40 mila ufficiali deportati dai tedeschi dopo l’8 settembre in quei lager che videro morire a decine di migliaia,
militari italiani d’ogni grado i quali a una qualsiasi adesione al nazionalfascismo, preferirono le tragiche incognite
di una cattività sottratta a ogni garanzia e tutela delle convenzioni internazionali. Ebbene nei vari lager in cui
passò, Guareschi fu una bandiera esemplare di dignità. Di coerenza morale incrollabile. Di fede nella libertà”.
12 – Nel lager sfida la censura delle SS e allestisce un teatrino nella baracca
“Bisogna dire – ha detto Paride Piasenti, presidente dell’Associazione nazionale ex internati – che tra le altre
stranezze dei lager nazisti, quel mondo fuori dal mondo, si moriva di fame e di tubercolosi, ma si potevano
svolgere attività culturali. C’erano grossi calibri, come Giuseppe Lazzati, Enzo Paci, Enrico Allorio, Silvio Golzio. E
c’era Guareschi. Quel che egli scrisse e disse, sfidando i più temibili straflager e i campi di sterminio, per
dissolvere angoscia e sfiducia, per tenere alto il morale di migliaia di uomini laceri ed esasperati quando fame e
freddo imperversavano e la guerra pareva non finire più, i rischi da lui ogni giorno corsi sotto la ferula della
censura tedesca, tutto questo è un merito che rimane e che fu di Giovannino Guareschi uno di quegli uomini ai
quali specie in questi tristissimi tempi, il pensiero ritorno con riconoscenza immutabile”.
Il colpo di moschetto
Quando freddo e fame alla Nord-Kaserne di Czestochowa divennero pugnali. I nazisti ricaricarono a gruppi gli
ufficiali che insistevano a non aderire al Reich e a Salò e li smistarono in altri campi di concentramento. Ulteriori
giri di vite. A Guareschi consegnarono il pastrano di un soldato russo ucciso e una carta dove era scritta la nuova
destinazione: Beniaminowo, un vero campo di concentramento questa volta. Senza costruzioni in muratura come
alla Nord-Kaserne, con baracche in legno lunghe e basse, circondate solo da sabbia e dalla sconfinata pianura
polacca. Il vento fischiava giorno e notte tra le assi sconnesse.
E cominciò la Resistenza bianca, tra le lusinghe delle SS e dei gerarchi fascisti che andavano di campo in campo a
cercare adesioni al Reich e alla Repubblica di Salò promettendo in cambio un facile e immediato ritorno a casa. Di
farla finita con fame, freddo e pericolo costante di ricevere un colpo di moschetto tra le spalle. Di chiuderla con la
certezza d’essere prima o poi deportati, giù giù per i gironi dell’inferno, fino ai campi di sterminio.
Guareschi e tanti altri invece di cedere si scossero e diedero un soffio di vita a quei giorni morti. Allestirono un
teatrino nella baracca 18. Il poeta Roberto Rebora vi recitò assorto le sue poesie. Guareschi lesse conversazioni
scritte inventando giornali parlati. Il capitano Musella, che da civile era un ottimo concertista, raccolse qualche
strumento, qualche virtuosista e fece della musica.
Musella, piccolo, minuto, era giunto a Beniaminowo dal duro campo di Doblin, dov’era riuscito a creare
un’orchestra e a concertare Grieg e Bach e memoria. I nazisti sapevano quali momenti d’aggregazione, quale
forza possano scaturire dalla musica e l’avevano strappato da Doblin come erba cattiva per spedirlo via. A
Beniaminowo, Musella durò poco più di due mesi. Morì dagli stenti.
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Guareschi pretese dai nazisti che la bara del capitano Musella fosse avvolta nella bandiera tricolore. I colori del
drappo esplosero sullo sfondo d’un cielo tumultuoso. I prigionieri laceri, smagriti, al passaggio della bara e
bandiera parvero trovare di colpo sé stessi . Scattarono sull’attenti, Batterono l’uno contro l’altro gli zoccoli.
E i nazisti fecero una crocetta anche a fianco del numero 6865 e lo misero di buon diritto tra coloro che avevano
urgente bisogno d’essere calati in un altro girone. Guareschi aveva dato in poche settimane troppe prove di
pericolosità.
Leggendo una conversazione nel teatrino della baracca 18 aveva detto ai tedeschi: “Mettono acqua in una
marmitta, dosano la carne, le polveri e gli estratti, chiudono il coperchio a tenuta ermetica, mettono il lucchetto,
accendono il fuoco e, quando una certa valvola fischia, la minestra è pronta. I tedeschi fanno così anche la guerra:
buttano nel pentolone carne d’uomini, dosano polveri piriche, estratti di scienza militare, abbassano il coperchio
della disciplina, mettono il lucchetto dell’intransigenza, accendono il fuoco e aspettano il fischio che annunci che
la guerra è vinta. Ma il fischio non si sente e la pentola scoppia.
Erano gli unici discorsi che potevano dar forza ai prigionieri, se non c’era speranza che la follia nazista venisse
sconfitta a che scopo continuare a resistere? Guareschi aggiunse: “Signora Germania, tu ti inquieti con me , ma è
inutile (…) L’uomo è fatto così, signora Germania: al di fuori è una faccenda molto facile da comandare, ma
dentro ce n’è un altro e lo comanda solo il Padreterno”.
Fissava negli occhi le sentinelle tedesche.
“E questa è la fregatura per te, signora Germania!”.
Trasferito.
Il maestro Coppola, di Treviso, tra il filo spinato di Sandbostel e Wietzendorf, occupò la stessa baracca di
Guareschi, lui sul pagliericcio al primo piano del letto a castello, Guareschi sotto. Un condominio dove le uniche
pareti possibili erano Amicizia e Solidarietà. Professore di musica, compositore geniale, Coppola era anche un
grande disegnatore. E disegnò infatti curiose caricature corredate da didascalie scritte da Guareschi. Cielo nero,
basso e galoppante. L’orizzonte lunghissimo con in fondo una striscia di luce che abbacina. Acquattata e piatta
baracca in assito che pare una gran stalla col tetto spesso di neve e frastagliato da stalattiti di ghiaccio. E ghiaccio,
come una morsa color acciaio, è attorno a un piccolo pozzo con la pompa a mano. Potrebbe essere un unico,
allucinante. mondo dilagato e privo di ostacoli.
Steppa e reticolati
Ma tra baracche e steppa s’erge il reticolato. Alto. A due pareti. E nel corridoio tra le due pareti, corrono
aggrovigliate matasse di filo spinato. In primo piano, avvolto in una coperta grigia e sfilacciata, sta in piedi, rigido,
un prigioniero. Secco come un baccalà. Volto smagrito, occhiali a stanghetta con lenti gelate. Naso paonazzo a
forma di candelotto di ghiaccio. È in posa da indossatore. Didascalia di Guareschi: “Completo invernale nel quale
un soffice drappeggio ammorbidisce la linea del corpo e attenua l’evidenza delle curve (…) vezzosi i calzoni a
volant e le calde babbucce con suole di faggio”.
Altro indossatore messo di profilo. Sta infilato fino alle ascelle in un logoro panno fermato sul petto con un filo di
ferro. Occhiali e naso sporgono da un cappuccio fatto con una manica strappata. Commento di Guareschi:
“Calzone di lana con cintura in filo di ferro con fibbia a torciglione. La novità di questo indumento soffice e caldo
sta nel fatto che esso serve da calzone e da giacca. In caso di tempo rigido, il calzone può essere allacciato sopra
alla testa”.
13 – In campo di sterminio si fa crescere i baffi per la prima volta
Sandbostel, il lager dove Guareschi fu deportato per essersi troppo distinto a Czestochowa e a Beniaminowo, non
era più in territorio polacco, ma in Germania. E per capirlo bastava dare un’occhiata alle facce dei nuovi custodi.
Eran tutti vecchissimi soldati del Reich che portavano ancora gli elmetti dell’esercito del Kaiser. Alcuni di loro
faticavano a stare diritti e non si capivano bene se stavano sorvegliando prigionieri della prima o della terza
guerra mondiale. Eppure, sentendosi a casa loro, riuscirono ad essere indifferenti a qualsiasi sentimento di pietà
per chi non era tedesco e i regolamenti erano applicati alla lettera come sentenze di morte.
Il clima era questo. Tuttavia anche a Sandbostel, fatta salva ogni costrizione del regolamento, ai prigionieri era
concesso trascorrere il tempo organizzando attività ricreative. A primavera un camion militare scaricò Guareschi
su quelle sabbie. Gli si era aperta l’ulcera ma non c’erano più , come un anno prima in Italia, medicinali per
curargliela. Né analisi radiologiche per sorvegliarla. Dovette affidarsi al digiuno. Invece di mangiare con gli altri
quel poco che passavano i nazisti e che era cemento per il suo stomaco , si rifugiava in cuccetta e ci stava per ore
raggomitolato e tremante. Era ormai sotto i 60 chili.
“Gli zigomi – scrisse – sono riaffiorati dall’epa che li affogava e movimentano piacevolmente le guance. Il mio
volto possiede finalmente delle ombre: gli occhi sono diventati più grandi, si sono disincantati e vivono. I capelli si
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sono emancipati e si arruffano con discrezione sulla fronte che pare più ampia. Due buoni baffi, decisamente
neri, completano la nuova estetica”. Si era infatti per la prima volta in vita sua fatto crescere i baffi. Gli servivano,
mi raccontò il suo compagno di letto a castello Arturo Coppola, per aver qualcosa a cui aggrapparsi quando lo
stomaco vuoto e dolorante gli piegava le ginocchia.
Grazie, no
Kesselring, che comandava sulla piazza di Milano le truppe d’occupazione, un giorno chiamò Angelo Rizzoli e gli
spiegò che, per rialzare il morale della popolazione, voleva fosse fondato un settimanale umoristico.
“Come il Bertoldo” specificò.
“Il Bertoldo è finito nel ’43, sotto il bombardamento di piazza Carlo Erba. Sono andati distrutti perfino gli archivi”,
rispose acido Rizzoli.
“In un nostro campo abbiamo Guareschi. Libertà a patto che venga a Milano a dirigere un settimanale che
rispolveri il successo del Bertoldo” tagliò corto Kesserling.
E Guareschi disse ancora no. Si era rifiutato di andare a Salò a sparare nel petto ai suoi fratelli italiani. Tanto più
di andare a Milano a sparare balle in testa alla gente.
Gli giunsero lettere accorate dalla signora Ennia. Gli diceva di pensare che aveva moglie e figli, di pensare ai suoi
vecchi che volevano rivederlo prima d’andarsene, di tornare a Milano, in fondo si trattava solo di fare il suo
lavoro. Guareschi le rispose con una lettera di quattro facciate nelle quali, in calligrafia minuta e per centinaia di
volte, era ripetuta solo la frase: “Io ho ragione! Io ho ragione! Io ho ragione!”.
Continuò a lavorare. Mancava di vitamine, gli cadevano i denti, l’ulcera lo aggrediva furibonda, doveva
combattere con le cimici, pulci e pidocchi. La notte i topi gli camminavano sul petto.
Inno a Stalin
Alla fine dell’agosto del ’44, il campo di Sandbostel pareva un lazzaretto. Un contagio continuo di uomini e cose
caduti in abiezione. Tuttavia sopravvivevano isole di gente decisa a non abbrutirsi. C’era da combattere contro il
dilagare di furti e risse, da far barriera contro chi già tentava di portare l’odio politico da baracca in baracca.
Incredibilmente, c’era da battersi anche contro l’alcoolismo perché alcuni riuscivano a distillare roba dal pozzo
nero e ne facevano commercio.
Se crebbe lo sfacelo, crebbe però in proporzione il numero di coloro che allo sfacelo si opposero. Fiorirono
iniziative. La chiesa, i concerti, mostre d’arte, assemblee regionali, sport, annunci economici e persino la borsa, la
biblioteca, e i corsi politici. Infatti un gruppo di ufficiali convinti della necessità a guerra finita di ingaggiare lotte
proletarie e forti del fatto che in nessun’altra parte del mondo il proletariato era denominatore comune come in
un lager, istruirono corsi marxisti clandestini.
Guareschi confidò a Carlo Martignago, uno dei suoi più cari compagni di prigionia, che gli sarebbe piaciuto tanto
sapere cosa mai si dicessero là dentro, dove volessero arrivare istruendosi sul marxismo. Ma non poteva andarci di
persona.
“E hai ragione – rispose Martignago – basta che qualcuno con lo stomaco più lungo del solito faccia una soffiata
che le SS fanno un macello”.
Guareschi spiegò che non era tanto per le SS, quanto per i marxisti che non lo avrebbero accettato. Diffidavano.
Temevano che lui potesse usare ciò che facevano per sfotterli poi nelle conversazioni del Bertoldo parlato. Non lo
consideravano insomma un buon cliente. Eppure lui aveva bisogno di sapere. Sentiva che questa volta i marxisti
stavano facendo sul serio. Si stavano preparando al dopo. E che cosa avrebbero fatto coloro che marxisti non
erano, li avrebbero accettati? Li avrebbero combattuti?.
“Ho capito. Vado io e poi ti racconto”, decise Martignago.
Ma era davvero molto pericoloso. ” Rischio per rischio – alzò le spalle Martignago – il più grosso, è che io torni
comunista”.
Si sorbì tutti i corsi. Con estrema precisione ripeté le lezioni a Guareschi che lo ascoltava ora critico, ora
affascinato. Esaltazione e rifiuto. La strana febbre salì. Un giorno dal suo giaciglio allungò a Coppola un foglio
zeppo di versi Coppola diede un’occhiata e si sporse per vedere se di sotto Guareschi stesse ridendo.
“Ma è un inno a Stalin!” gli disse.
Guareschi annuì serissimo. Era proprio un solenne, ispirato inno a Stalin.
Quando i corsi però imboccarono a rotta di collo vie diverse e dall’analisi dei mali che affliggevano la società
passarono ad insegnare macchiavellismi, divisioni in classi, ricorso alla rivoluzione violenta, Guareschi tornò sui
suoi passi. Rifletté a lungo: lui non era come loro, uno sconfitto. Nonostante tutto e tutti sapeva che sarebbe
riuscito a passare attraverso quel cataclisma senza odiare nessuno. Solo così, capì in profondità, si possono gettare
le basi per una democrazia di galantuomini che non escluda nessuno. In quei corsi marxisti invece, gratta gratta ,
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si insegnava l’odio e non si fonda niente sull’odio. A parte l’odio. Dunque, concluse Guareschi: “Che è poi il
comunismo se non un altro ‘ismo’ totalitario?”.
14 – Stremato dagli stenti, quando arrivano gli alleati mangia tre chili di zucchero
S’avvicinava il Natale del ’44 e Guareschi era più che mai internato nel lager di Sandbostel. Che fare per i suoi
pezzenti compagni di prigionia, divorati come da fame , pulci e nostalgia? Scrisse la Favola di Natale su gualciti e
bisunti pezzi di carta e la illustrò con molti disegni. I nazisti ora sono lampionai in divisa del Reich e con
lunghissime aste spengono stelle nel cielo buio. Ora aggrottati censori che con timbri e inchiostri cancellano
passeri e rondini. Diventano cattivi funghi di ferro, grosse cornacchie con l’elmo. Un poco di pietà per certi vecchi
soldati con gli elmi ancora all’asburgica: nei disegni tratto appena più morbido, ma il grande chiodo al centro
dell’elmo non ha la punta all’insù, ma ce l’ha all’ingiù, che si conficca nel cervello.
I soldati tedeschi vivono in un mondo dove tutto è vietato. C’è una fabbrica mostruosa e squallida. Le case sono
fatte col meccano. Anche gli alberi sono di ferro e hanno sul tronco leve e ingranaggi per rallentare o accelerare la
crescita. E le mamme tedesche portano a spasso neonati armati di fucile, devono camminare col passo dell’oca.
Ufficiali impettiti salutano a braccio teso. Rispondono a zampa tesa ciuchi che trascinano carri d’acciaio.
Le ultime parole che Guareschi pronunciò col pianto in gola leggendo la Favola di Natale ai suoi compagni di
prigionia: “E se non v’è piaciuta, non vogliatemi male, ve ne dirò una meglio il prossimo Natale, e che sarà una
favola senza malinconia: c’era una volta la prigionia…”.
Promessa mantenuta. L’anno seguente Guareschi, il maestro Coppola e i sopravvissuti della compagnia
rappresentarono la Favola nel Natale ’45 all’Angelicum di Milano. Dinanzi a un pubblico strabocchevole di ex
internati e delle loro ritrovate famiglie poterono davvero cominciare la Favola con "C'era una volta la
prigionia…”. Ma prima di giungere all’Angelicum, dovevano passare ancora per l’ultimo e più terribile girone, il
lager di Wietzendorf dove le SS spedirono, premio per le loro fatiche artistiche, gli irriducibili superstiti della
Resistenza bianca.
Erano stremati: Guareschi già stava scendendo sotto i cinquanta chili. Eppure, nel cielo sempre grigio della
Germania, a ben guardare c’erano nuovi presagi. “Cambia improvvisamente il tono di certe lettere da casa –
annotò Guareschi nel Diario clandestino – scrivono per esempio al capitano P.: siamo fieri della tua fermezza di
carattere e apprezziamo la nobiltà del tuo sacrificio. Bravo! Tieni duro! In tutte le lettere precedenti, si diceva
invece allo stesso capitano P….e non fare l’imbecille! Torna in Italia a ogni costo. Aderisci”.
I lebbrosi
Gli italiani nei di campi concentramento erano stati dimenticati dal mondo intero. La Croce Rossa internazionale
non poteva interessarsi perché la qualifica di internati militari non era contemplata. Nei due anni di lager, i
volontari della Resistenza bianca dagli apparecchi radio clandestini sentirono milioni di parole in ogni lingua, ma
mai una per loro in italiano. Non solo erano ignorati, ma dovevano essere ignorati. Che non si sapesse in Italia e
all’estero che c’era un’immensa forza di pace che senza imbracciare moschetti e mitra impegnava i nemici proprio
in casa loro. Furono peggio che abbandonati.
Guareschi e gli altri irriducibili occuparono il campo di Wietzendorf dai primi del gennaio ’45. Vissero i giorni più
terribili del loro internamento. I morti per fame e tubercolosi aumentavano giorno dopo giorno in progressione
geometrica. Così i casi di pazzia. Alla fine di marzo Guareschi s’era accorto di essere sceso ai 40 chili. Sentì che
ormai bastava l’assenza di una sola caloria per ucciderlo. Si distese in stato quasi catalettico sul suo giaciglio e restò
il più possibile immobile per mesi. L’unico movimento che si concedeva era voltarsi adagio una volta al giorno su
un fianco per orinare in uno scatolino che teneva accanto. Poi tornava immobile a centellinare ogni respiro.
La “liberazione”
Pomeriggio del 16 aprile ’45. Arrivo degli inglesi preceduto da un intenso scambio di colpi d’artiglieria con i
nazisti ormai in fuga. Ore terrificanti. Tra le carte del comandante del lager c’era l’ordine di sterminio di tutti i
deportati in caso i tedeschi avessero dovuto ritirarsi. Invece, sbrigativamente, i tedeschi per non sprecare
munizioni e guadagnar tempo, regalarono i prigionieri agli avversari. Allucinati, percorrendo quasi a tentoni una
decina di chilometri, gli uomini della Resistenza bianca uscirono dal lager preceduti da una bandiera della Croce
Rossa e raggiunsero le linee inglesi. Per risolvere il problema di tutte quello bocche da sfamare, gli inglesi fecero
sgombrare in mezz’ora la popolazione di un intero paese, Bergen, consegnandolo a ufficiali italiani.
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Cominciò il saccheggio. Guareschi divenne improvvisamente proprietario della drogheria Hermann Shoert e,
spalancata la porta si trovò al cospetto di sei quintali di zucchero, segno evidente che il signor Shoert era
accaparratore e borsaro nero.
“Era il 22 aprile ’45 – scrive Guareschi nel Diario clandestino – e ricordo che, giunto alla fine del terzo
chilogrammo di zucchero, cominciai a sentire una fame tremenda”.
Dopo pochi giorni gli inglesi rimisero in colonna gli ufficiali italiani e li reinternarono nel lager in attesa di
rimpatrio.
“Nonostante Churchill avesse detto che l’Italia aveva pugnalato alle spalle anche l’Inghilterra – ricordò poi
Guareschi al microfono di una radio installata nella baracca 90 del lager – sia detto ad onore della tradizionale
correttezza britannica, il rimpatrio degli italiani non subì un minuto di ritardo rispetto ai tempi prestabiliti
Furono infatti rimpatriati prima gli inglesi, poi gli americani, poi i francesi, poi gli ebrei, poi i russi, i belgi, gli
olandesi, i polacchi, i cecoslovacchi, i bulgari, gli ungheresi, i greci, gli jugoslavi, gli estoni, i lituani e tutti i
prigionieri tedeschi. Indi sei cinesi venditori di perle rimasti bloccati ad Amburgo, poi un marinaio argentino che
si era addormentato nel porto di Brema, poi una vacca svizzera dislocata nell’Hannoverino e una gattina persiana
dimorante a Norimberga, poi due porcellini d’India residenti a Monaco e una chitarra spagnola residente a
Francoforte, infine un narghilè turco internato ad Essen e gli ex internati italiani a scaglioni di sei al mese”.
15 – Giovannino e gli altri reduci tornano a casa nell’indifferenza generale
Gli italiani furono gli ultimi a essere rimpatriati dai lager nazisti.
S’andava ormai verso l’estate ma in Italia nessuna autorità si ricordava di loro, nonostante ormai il Paese non fosse
più in guerra da fine aprile. Guareschi studiò come distrarre la massa sempre più turbolenta dei suoi compagni di
prigionia. Riconfortare i depressi. Soprattutto preparare gli illusi a quella che, già s’avvertiva, sarebbe stata la
delusione di un ritorno in patria ben diverso da quello sognato durante la volontaria prigionia. Fondò con gli
amici Radio B 90, la stazione radio della baracca 90. Furono installati con mezzi di fortuna un microfono, un
diffusore, quindi si iniziarono le trasmissioni.
I programmi erano rapide chiacchierate orientative per dare o commentare le notizie captate via radio o fornite
dagli inglesi. Più lo spoglio di una piccola posta, scenette, racconti umoristici, musica. Fu Ravaioli a far rischiare il
linciaggio a quelli di Radio B 90 quando non fu chiaro nello spiegare se il cordone ideale che auspicava tra Nord e
Sud d’Italia lo intendesse messo verticale oppure orizzontale. Offesissimi i prigionieri meridionali marciarono
sulla baracca 90 a centinaia guidati da un invalido in carrozzella che urlava come un ossesso che si doveva bruciare
la stazione radio e, soprattutto, quelli che la facevano funzionare.
Li fermò Guareschi all’ultimo momento narrando al microfono la storia d’un carro trainato da due cavalli e
rimasto senza padrone. E il carro sbandava perché i due cavalli s’azzannavano tra loro, litigando su chi di essi
fosse il migliore. All’improvviso una frustata, una donna vestita di bianco, rosso e verde a cassetta e i cavalli
riprendevano insieme il cammino per portare i mattoni che dovevano servire a ricostruire la casa distrutta.
I meridionali si calmarono. Non dettero più retta agli agitatori. Capirono ciò che Guareschi intendeva, che
aggiogati al carro dell’Italia ci sono due cavalli che volte si comportano come asini. Per fortuna , tirarono un
sospiro di sollievo a Radio B 90, i meridionali la parte dell’asino dimostravano di non volerla fare.
Una parte di lui rimase per sempre tra le sabbie dei campi di Czestochowa, Sandbostel, Beniaminowo,
Wietzendorf. Ed è ancora là. Sotto quei cieli bigi accanto a coloro che non tornarono, che furono sepolti nelle
fosse comuni accanto ai reticolati e, tranne dai loro compagni di prigionia, furono dimenticati. Come dimenticata,
scostata con un piede come un barattolo vuoto, è la loro epica Resistenza bianca. Negli anni a venire proprio
Guareschi avrebbe poi ripetuto che no, non era mai ritornato tutto e del tutto: “C’è un Giovannino fatto d’aria e
di sogni che è rimasto laggiù tra i reticolati: è il Giovannino democratico d’allora che non sa darsi pace di avere
lasciato nei lager la vera democrazia per dover sopportare in quest’altro mondo, che dicono libero, una finta
democrazia di finti democratici.
Calvario italiano
I quarantamila deportati italiani che scelsero la prigionia volontaria piuttosto che schierarsi contro i fratelli, certo
non chiedevano di rientrare in Patria camminando su tappeti rossi. Né si attendevano di essere portati in trionfo.
Speravano però almeno che, dopo che gli inglesi li avevano liberati dai tedeschi e gli americani dagli inglesi, gli
italiani avrebbero trovato modo di offrire un rientro decoroso. Da uomini. Non da bestie.
Invece furono oltraggiati. Era ormai settembre inoltrato quando Guareschi, Coppola e tutti gli altri di Radio B 90,
ultimi tra gli ultimi a uscire dai reticolati, furono gettati su carri bestiame e fatti scendere verso l’Italia.
Viaggiarono per giorni attraverso la Germania. Tenuti senza da mangiare, per ore senza bere. Sballottati da
convoglio in convoglio, impossibile perfino riposare. Guareschi, esausto, ai bordi della strada ferrata vedeva
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donne, vecchi, bambini intenti a rabberciare ponti, case, stazioni, a cancellare i disastri della guerra. Fianco a
fianco della popolazione tedesca, soldati americani bianchi e neri lavoravano alla ricostruzione, unici a sorridere ai
prigionieri italiani che rientravano in patria, a gridar loro paisà, a gettare pacchetti di sigarette e cioccolata.
In quell’atmosfera di alacre lavoro Guareschi e gli altri già sentivano, gustavano, il sapore della pace. E certo
sarebbe stato ben più dolce e forte in patria, tra la loro gente ormai libera, sotto un cielo meno grigio. L’Italia
libera: chissà come li avrebbe accolti subito dopo il confine. Come avrebbe saputo ricambiare quegli anni e il
patire che le avevano donato!.
E si accorsero d’essere in Italia all’improvviso: cominciarono a incontrare stazioni completamente deserte,
diroccate. Senz’anima viva che vi lavorasse attorno. Passarono tra paesi ancora intatti e la gente, vedendo la
bandiera tricolore che ancora ornava il vagone di testa e le loro uniformi stracciate, voltava le spalle. Sembrava
che nessuno stesse tornando per quell’Italia inaspettata che li inghiottiva senza vederli.
Fu la beneficenza dei preti a regalar loro un pezzo di pane e una mela. Dopo aver viaggiato sui carri bestiame un
altro lungo giorno senza che nessuno altro desse loro da mangiare, giunsero a Pescantina, poco prima di Verona.
La beneficenza privata li caricò su pochi camion a rimorchio e i reduci dovettero ancora ammassarsi come bestie.
Il vecchio camion
Coppola e Guareschi si strinsero a lungo, in silenzio, la mano e si separarono. Coppola proseguì per la sua
Treviso. Guareschi per Parma.
Il vecchio camion a rimorchio sul quale era stato messo con altri cinquanta, viaggiò per interminabili ore. C’era
zeppo davanti ai caffè e la gente ballava. Stravolti da stanchezza e fame, i reduci scoprirono un’Italia certo più
gaudente che contrita. Scese la sera . Sulla motrice del camion, proprio sotto la bandiera tricolore, c’era una ex
deportata agonizzante, occhi già rovesciati e ossa tutte a vista sotto la pelle trasparente.
La donna continuava a ripetere a denti stretti che non doveva, e non doveva, morire prima di rivedere casa sua.
Guareschi la fissò per ore angosciato: il volto di quella donna gli si stampò nell’anima. Negli anni seguenti lo
avrebbe più volte disegnato dandolo alle sue Italie martirizzate da politicanti senza scrupoli, da scandali, faide e
odio. A parte i reduci, che proprio non potevano né sapevano che fare, nessuno tentò di aiutare la morente. La
gente nelle strade continuò a voltare le spalle, indifferente al dramma di quegli straccioni in divisa grigioverde.
16 – Giovannino fonda il «Candido», combattuto da destra e da sinistra
Guareschi giunse a Parma alle 2 di notte. Salutò quanti erano rimasti sul rimorchio del camion che, ammassati
come bestie, riportava a casa i reduci dai lager, e saltò giù. Si trovò solo al centro di Parma, ancora lontano da
casa. Respirò profondamente l’aria della sua città. Cercò nel controluce il profilo dei palazzi. S’inoltrò per le
strade piene d’ombra e silenzio e gli parve di non essere mai partito finché non s’imbatté in case distrutte dai
bombardamenti e sotto di esse c’erano molti dei suoi ricordi giovanili.
Medaglia d’oro
Com’era difficile, Dio, ritornare.
Sentì che prima di avviarsi verso casa doveva adattarsi almeno un poco per non portare davanti ai suoi solo il
fantasma di se stesso. Girovagò parlando a voce alta e si fermò ansimando sulla panchina di pietra del suo primo
amore. Faticò a rialzarsi: la sacca da deportato gli spaccava la schiena anche se conteneva solo la carta dei suoi
diari.
Riprese a camminare verso la periferia in direzione di Marore. Sotto l’ultima lampada affacciata sul buio della
campagna trovò sdraiato un reduce che aveva viaggiato con lui sul rimorchio.
“Mah! – sospirava l’ex deportato – Io arrivo a casa, chiamo mia madre e magari mia madre è morta!”.
Allora si lanciò a capofitto nel buio verso Marore. Sette chilometri, quasi a tentoni. I polmoni gli scoppiavano. I
piedi lo facevano gemere di dolore. A una svolta intravide nei primi chiarori dell’alba la cappelletta col sedile in
pietra su cui sedeva da bambino, a poche centinaia di metri da casa. Intontito. Voglia di crollare e dormire. Ma
tirò avanti. A zigzag, incapace di mantenere la direzione Nell’Italia provvisoria, raccolta di racconti poi pubblicati
nel ’47, ricordò quegli ultimi momenti prima di entrare in casa. “Stava schiarendo. Rimasi seduto sulla proda del
fosso e aspettai che il sole si fosse ben levato e intanto guardavo le finestre chiuse e soffrivo come non avevo mai
sofferto neanche lassù nei lager. Perché lassù si aveva un po’ l’idea che tutto a casa nostra si fosse fermato e che
soltanto al nostro ritorno la vita avrebbe ripreso il suo naturale corso. Poi a un tratto, udì una voce gridare
qualcosa ed era la mia e io ne fui terrorizzato ed attesi con gli occhi sbarrati che le finestre si aprissero e contai le
teste che spuntavano fuori: una, due, tre, quattro. Ne mancava una, la più piccola. Allora lasciai il sacco in riva al
fosso e corsi dentro e, sperduta in un enorme letto, trovai la signorina Carlotta che dormiva. E io dissi: cinque!
Anche se la prima cosa che vidi non fu la testa, ma un sederino rosa”.
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Luisa Viazzani, sindaco di Busseto, nell’80 ha ricevuto da Genova la lettera di un colonnello deportato nei lager
nazisti con Guareschi. Il colonnello ha invitato la sindachessa a proporre Guareschi per una medaglia d’oro della
Resistenza quale riconoscimento di tutto quanto fece con i suoi compagni e per i suoi compagni di prigionia.
“A me sembra giusto. Non ho però idea di cosa possa dirne la famiglia”, ha commentato la sindachessa.
La famiglia? Ma pensi invece la sindachessa a cosa potrebbe dirne la Storia nel trovarsi all’improvviso tra i piedi
una medaglia d’oro per una Resistenza che ancora non le lasciano raccontare.
Aveva ancora impressa sul volto la patina grigio-giallastra della prigionia e le spalle scheletriche faticavano a
sostenere l’abito degli aiuti internazionali, trama e colore eguali per tutti.
“Credevo d’essere a terra io, ma tu strisci”, gli disse Pietrino Bianchi, sbucando all’improvviso da dietro un angolo
e mettendosi a camminare a passettini veloci al suo fianco.
Guareschi puntò gli occhi febbricitanti sul suo doppio cugino delle Fontanelle e continuò ad arrancare verso
piazza Duomo. A un tratto chiese a Pietrino dove stesse andando l’Italia.
“Tutto rosso: va a sinistra”.
Pietrino ricordò poi per tutto il resto della vita quel momento.
“Storse un baffo – narrò poi Pietrino mille volte – scosse la testa e mi disse: allora io vado dall’altra parte”.
Guareschi aveva sotto il braccio una cartelletta piena di scartafacci. Era giunto a Milano il giorno prima, dopo solo
qualche settimana di convalescenza. Un medico gli aveva detto che avrebbe dovuto rimanere in assoluto riposo
perlomeno per altri tre mesi. Ma al riposo per quei tre mesi avrebbe dovuto aggiungere ancora una volta
l’assoluto digiuno. Tornando dal lager, sera infatti accorto d’esser sul lastrico. Senza una lira. Non aveva più casa,
che gli era stata bombardata . Non poteva certo pesare sui suoi vecchi. Doveva riuscire a riportare con sé a Milano
anche la signora Ennia e i bambini.
È ancora Pietrino a narrare: “Svuotato, scoppiato, finito! dissi con un sospiro guardandolo mentre si allontanava.
Ma Guareschi udì e tornò indietro: veh Pietrino, m’aggredì, ho riportato a casa la pelle anche se i nazisti hanno
fatto di tutto per levarmela. Non ho in tasca il becco di in quattrino neanche per far ballare una scimmia. Ma ho
ancora quel gran capitale che è la mia testa. Non sono scoppiato, né nullatenente: la mia ricchezza sta qui, e si
puntò l’indice sulla fronte. E raccontalo al Frust!, mi sfotté come sempre andandosene”.
Guareschi ricominciò a collaborare a un paio di giornali, sceneggiò Il destino si chiama Clotilde e la Favola di Natale.
Angelo Rizzoli lo richiamò e gli propose di far rivivere il Bertoldo.
Guareschi accettò, ma a condizione che il nuovo settimanale si radicasse saldamente nella realtà politica italiana
abbandonando l’umorismo spicciolo che aveva caratterizzato la vecchia edizione. Ne assunse la direzione con
Giovanni Mosca. Decisero di chiamarlo Candido. A uno a uno tornarono i vecchi del Bertoldo. Manzoni, Simili,
Palermo, Mondaini. Il Candido costava 10 lire. Era in tutto quattro facciate formato quotidiano delle quali la prima
era occupata per metà da un’unica vignetta. La sua coscienza politica si collocò in una posizione subito molto
difficile cominciando un’analisi della situazione italiana che tenesse le debite distanze dalle esasperazioni di sinistra
e di destra. E infatti ebbe il destino d’essere combattuto da ogni parte mentre cercava una via verso il grande
sogno di Guareschi, un’Italia evoluta in vera democrazia di veri democratici. Quell’Italia onesta e progredita che
tuttora non troviamo.
17 – Il Candido si schiera con i monarchici e perde la battaglia
Fin dall’inizio sul Candido in prima pagina campeggiarono tre rubriche affiancate che anche per la loro
collocazione grafica dimostravano gli intenti di Guareschi e Mosca: tenersi al centro non tanto per costruire un
centro politico quanto per indicare che il buonsenso doveva avere ragione delle esasperazioni di parte. La prima
rubrica, a sinistra, era appunto Visto da sinistra: “I partigiani autonomi (Cioè quei partigiani che fecero la
Resistenza senza fazzoletti rossi al collo N.d.R.) I fascicristoamericani, dunque, hanno fatto sfilare per Milano i
cosiddetti partigiani autonomi e democristiani e, mai al mondo, si è vista accozzaglia più eterogenea di
rappresentanti del regno animale. Li abbiamo guardati in faccia uno per uno: repubblichini, ex brigate nere, ex
Decima Mas, ex rastrellatori, monarchici, ex SS. Abbiamo visto dei negri che gridavano: io bardigiano! Il
manicomio criminale di Reggio Emilia aveva inviato i suoi più bei rappresentanti. Frati e vescovi travestiti da
uomo. Abbiamo visto anche un cavallo col fazzoletto azzurro al collo e un lavoratore che urbanamente faceva
notare la stranezza del fatto, un cardinale truculento rispondeva: Chi ti ha pagato, verme della terra, per
diffamare il movimento partigiano indipendente? L’orda repellente sfilò tra il disgusto della popolazione,
saccheggiando, violentando e incendiando sotto la protezione della Celere. (…) Firmato: Spartacus”.
In risposta, a destra, ecco Visto da destra. “I partigiani autonomi”. In una rovente atmosfera di italianità il popolo
milanese ha acclamato il passaggio dei 30 mila partigiani democristiani e indipendenti. Quando i 40 mila, con
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passo urbano e marziale al tempo stesso, e cantando con bella voce inni di patria e di religione, sono apparsi,
un fremito solo ha percorso l’immensa piazza incredibilmente gremita e una pioggia di fiori e tricolori è caduta
sui 50 mila. Non mitra, non strumenti di morte nel pugno dei 60 mila, ma tulipani e convolvoli, impugnati con
grazia e soavità. (…) Un mormorio di cortese, garbata disapprovazione s’è levato al passaggio della
rappresentanza comunista: armati fino ai denti, curvi sotto il peso di forti quantità di tritolo, i nemici di Dio,
dell’Ordine, della Civiltà, della Democrazia, della Cultura e del Progresso, sono stati a un certo punto gentilmente
invitati a fermarsi da un cittadino il quale, con garbata fermezza, ha rivolto loro rimproveri, sì toccanti che ben
presto grasse lacrime (…) si son viste tremolare sul ciglio di quei pentiti (...) Firmato: Caesar.
Nella rubrica centrale invece era riprodotta la testa del Candido con disegnato sotto un omino con baffi e cappello
sulle ventitré a simboleggiare l’italiano medio, pacifico, con una gran voglia di serenità interiore. La piccola
borghesia italiana, insomma. La linea politica del settimanale affiorava di volta in volta in questa rubrica nella
quale Mosca e Guareschi commentavano i principali avvenimenti politici della settimana.
Il primo referendum
I primi mesi di vita del Candido trascorsero in un lampo. Il settimanale ebbe immediatamente successo. Stava
ancora aggiustando il tiro, quando piombò sull’Italia il referendum del 2 giugno ’46, pro o contro la monarchia.
Più di 60 partiti si gettarono nella mischia. Il Candido si schierò apertamente con i monarchici. Era l’ultimo
omaggio al giuramento fatto a Re che Guareschi si permetteva. E con i monarchici perse la battaglia. Quando
seppe che 10 milioni di italiani avevano votato per la monarchia e 12 per la Repubblica, pur tra tutti i dubbi di
brogli elettorali e col sospetto che due milioni di voti fossero stati in qualche modo eliminati dai conteggi,
Guareschi accettò la realtà politica di quel voto. Salutò comunque addolorato la bandiera per la quale aveva scelto
volontariamente di resistere, a rischio della vita, nei lager nazisti.
“Uno stemma è caduto – scrisse preparandosi al nuovo corso - , spazio disponibile. Il bianco della nuova bandiera
italiana è rimasto immacolato e ognuno cercherà di imporre il suo marchio a quel candore. Alla fine si
accorderanno per ricamarvi una R e una I che potranno significare semplicemente Repubblica Italiana, o
Repubblica Illusoria, oppure Ricostruzione Integrale, perché l’avvenire è nelle mani di Dio”.
Il Candido esplorò subito il nuovo panorama italiano. S’accorse che occorreva immediatamente difendere la
neonata Repubblica. Clima politico confuso e rissoso. La penisola ancora percorsa da brividi di violenza. Nostalgie
fasciste. Vocazioni al totalitarismo e un’ondata di convulso rosso i cui connotati stavano fra il fanatismo e il
terrorismo. Guareschi osservava sbigottito queste convulsioni che parevano spingere il Paese ancora una volta
verso il baratro della guerra civile quando scontri tra attivisti e teste calde si facevano più violenti, quando le
Volanti rosse compivano sanguinose scorrerie assassinando nei vari triangoli della morte preti e civili.
Aborriva il “dolce stil novo” di parte del giornalismo italiano che, invece di infondere calma e buonsenso, pur
dicendo di preferire il fioretto alla clava si abbandonava si abbandonava poi a polemiche furiose e sterili. Una
svoltasi a Milano tra i direttori di Milano Sera e Umanità finì a schiaffoni nelle sale del circolo Arlecchino. Un’altra
tra i direttori dell’Uomo qualunque e di Cantachiaro raggiunse apici d’isterismo e volgarità che ancora i più feroci
opinion leader di oggi non riescono ad eguagliare.
A questi sgarbatissimi battibecchi si aggiungevano quelli tra i giornalisti e gli uomini di partito. Molti dei primi,
travolti dalle polemiche, furono perseguitati, minacciati, percossi. Mosca, Guareschi e gli altri del Candido si
posero egualmente in prima fila. Il tema dominante era la materializzazione e la rappacificazione tra gli italiani.
Infondere coraggio ai delusi, resistere ai totalitarismi di qualsiasi colore, opporsi ai compromessi.
Il Candido attaccò con eguale impegno qualunquisti, fascisti, comunisti, frontisti. Soprattutto le dubbie alleanze.
Guareschi intuì che erano progenitrici di un consociativismo che avrebbe strozzato l’Italia. In una sua vignetta,
riferendosi a un discorso nel quale De Gasperi aveva detto “Siamo tutti in cordata” disegnò lo stesso che scalava in
cordata con Nenni e Togliatti una parete a piombo: l’ultima della cordata, appesa per il collo come un’impiccata,
era l’Italia.
Venne la grande paura: i comunisti ben organizzati, attivi e rabbiosi si prepararono alle elezioni del ’48 chiusi a
quadrato nel Fronte popolare sotto il simbolo del volto di Giuseppe Garibaldi racchiuso in una stella a cinque
punte. Il Fronte popolare si delineò come un corpo solido e compatto pronto ad attraversare la barriera gassosa
di tutti gli altri partiti e partitini che fiorivano un po’ ovunque.
Era credibile che il Partito comunista nel ’48 fortemente stalinista e con dirigenti che in piazza urlavano che se il
potere lo avessero avuto democraticamente lo avrebbero preso - lo disse il 12 aprile ’48 a Portella Terme la
moglie di Togliatti – con la forza, vincendo le elezioni sarebbe riuscito a tenere l’Armata rossa fuori dalle frontiere
italiane? L’Italia sentiva il fiato possente di Stalin soffiare da dietro le Alpi e la gente aveva paura. Ciò anche se i
comunisti facevano di tutto per non incuterla. Anzi: tra gli attivisti c’erano squadre che avevano gettato la
maschera feroce e aggressiva per indossare umili panni d’agnello. Fecero soprattutto nel sud, una campagna
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elettorale a base di santini, preghiere, Madonne, manifesti sui quali accanto al “Viva il Fronte democratico
popolare” si univano “Viva Gesù e viva Maria madre dei poveri”. E c’erano giornali di sinistra che lavoravano di
buona lena e, come il settimanale “Don Basilio” redatto da bravi professionisti della
penna e della matita, sapevano far presa sul pubblico quasi quanto “Candido”.
18 – Giovannino inventa i “Trinariciuti” e Togliatti si arrabbia
Guareschi individuò nel comunismo il grande pericolo per la neonata prima Repubblica. Pericolo tanto più
grande per la tendenza dell’elettorato non comunista a disperdere voti in troppe direzioni. Decise allora di lottare
per contribuire a rafforzare un blocco che s’opponesse compatto al Fronte popolare . Combatté, ma tuttavia non
perse mai un certo rispetto per l’elettorato comunista del quale riconosceva per prima cosa buona fede e
compattezza. Attaccò invece con estrema durezza e disprezzo dirigenti e attivisti mistificatori e bugiardi i primi,
violenti o politicamente ciechi i secondi.
Lo sfiatatoio
E inventò i “Trinariciuti”, comunisti con tre buchi nel naso poiché, scrisse, il terzo buco serviva a scaricare tutto il
fumo che avevano nel cervello . I Trinariciuti comparvero in decine di vignette intitolate Obbedienza pronta cieca
assoluta. In esse gruppi di attivisti con tre narici esponevano , attaccandoli con mollette da bucato, i propri bambini
nelle edicole. Nuotavano sul marciapiede attorno a industriali in cilindro. In ginocchio pregavano un cero
bruciato a metà mostrando immagini di Stalin e copie de l’Unità. Armati di mitra facevano la guardia a una grossa
torta, spaccavano a randellate i tegami, andavano per strade raccogliendo viti. In ognuna di queste curiose
situazioni, interveniva di corsa un portaordini comunista che, affannato, gridava “Contrordine compagni! La frase
pubblicata da l’Unità contiene un errore di stampa e va letta: fate in modo che nelle edicole siano esposti solo i vostri
fogli, non figli. Bisogna fare il vuoto attorno agli industriali, non il nuoto. Convincere il ceto medio a venire con
noi, non il cero medio. Ogni sede disponga di una guardia alla porta, non alla torta. Spezziamo ogni legame tra noi
e i saragattiani, non ogni tegame. Il Fronte deve radunare almeno nove milioni di voti, non di viti.
Era la sua esperienza di correttore di bozze alla Gazzetta di Parma che tornava a galla.
I Trinariciuti, ovviamente, piacquero niente ai dirigenti comunisti. Palmiro Togliatti, persa la pazienza in un
comizio a Bologna, con gli occhi fuori dalla testa si mise a gridare che Guareschi faceva tre buchi nel naso agli
attivisti comunisti perché era tre volte cretino.
A La Spezia rincarò: “Guareschi era tre volte idiota moltiplicato per tre”.
“Il Trinariciuto o uomo delle tre narici – commentò Guareschi in un’intervista – sta ormai entrando nel parlare
comune in Italia e ho appunto creato io in un felice momento di estro satirico e, dico la verità, ne sono orgoglioso
perché riuscire a caratterizzare il tipo dell’attivista comunista con un minuscolo tratto di penna di pochi millimetri
è una trovata non cattiva. Funziona. Per questo a sinistra c’è chi non me la perdona”.
Ma le vignette in realtà riuscivano a far ridere perfino parte dell’elettorato di sinistra. D’altronde erano più geniali
ma non meno feroci di altre, furibonde, che occupavano le pagine dei giornali satirici di sinistra. Il Don Basilio
attaccò con ben maggior cattiveria preti, Vaticano, simboli religiosi, americani, politici non schierati a sinistra e,
quindi, fin da allora tutti “fascisti”. I preti erano disegnati su Don Basilio come personaggi orrendi, gobbi, grifagni,
volti da malandrino. Nei lineamenti somigliavano a De Gasperi o a Papa Pio XII, ma in versione tumefatta, feroce,
diavolesca. Disegnatori bravissimi anche questi del Don Basilio e. nei loro scritti , sapevano usare con prontezza ed
efficacia la satira.
Candido e Don Basilio si fronteggiarono a lungo e, diametralmente opposti nelle idee, non si risparmiarono colpi
alti e bassi, ma pur sempre con una non celata sorta di rispetto e di riconoscimento del valore dell’avversario.
Con l’avvicinarsi del 18 aprile, data prevista per le elezioni del ’48, tuttora le più importanti e risolutive del secolo,
la battaglia degenerò furibonda.
Mosca e Guareschi, convinti che il Fronte popolare potesse essere sconfitto o, perlomeno, fermato solo
concentrando il maggior numero di voti su una sola compagine politica, scelsero di battersi per la Democrazia
cristiana. Scelta volontaria, dettata non solo dal rapporto matematico che avrebbe deciso quelle elezioni, ma anche
dal volto popolare e democratico col quale, bilanciato al centro e ossequiente verso la libertà di maggioranze e
minoranze, quel partito si presentava compatto alle elezioni.
Dalle colonne del Candido, sempre più diffuso e seguito, fu chiesto a tutti, monarchici, liberali, repubblicani,
socialisti, agli stessi elettori comunisti di stringersi attorno allo scudo crociato per allontanare in un centro
moderato il pericolo di un risorgente fascismo e di un dilagante bolscevismo. Il Candido, toccando il mezzo
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milione di copie vendute per ogni numero , divenne il giornale più letto d’Italia. Guareschi e Mosca furono i
più efficaci opinion leader dell’epoca. E la loro opinione contava al punto che in quei mesi , un’ininterrotta
processione di uomini politici e capi di partito sfilò davanti a loro cercando e accettando consigli. Democristiani,
liberali, monarchici, ma anche esponenti degli altri partiti laici non marxisti, sollecitarono l’aiuto morale e
materiale del Candido, ne sfogliarono attentamente ogni numero nelle sezioni di partito per cogliere idee e
suggerimenti per le loro campagne elettorali. Le stesse opposizioni adottarono metodi e sistemi di combattimento
politico del Candido. Anche all’estero osservatori e politici interpellarono Mosca e Manzoni per conoscere la reale
situazione italiana e che cosa si dovesse fare. Come Cabot Lodge, l’ambasciatore americano, che andò da
Guareschi inviato direttamente da Truman a chiedere consiglio su quale atteggiamento conveniva tenessero gli
alleati nei confronti della prima Repubblica d'Italia.
Quel quarantotto
Guareschi prestò la sua opera anche al di fuori di Candido e lo fece gratuitamente. Lo muoveva pur sempre quella
sua araba fenici: lavorare per costruire in Italia una vera democrazia di veri democratici. Quando lo scontro
elettorale imboccò la dirittura degli ultimi 40 giorni, inventò manifesti che furono affissi a centinaia di migliaia in
tutto il Paese e incisero profondamente nell’animo degli italiani. Tra i tanti, ne preparò un paio con battute
fulminanti che finirono sulla bocca di tutti, comunisti e anticomunisti. Nel primo, diretto soprattutto ai potenziali
elettori della Fronte popolare, sotto l’immagine d’un operaio che sta votando, scrisse: “Nel segreto della cabina
elettorale Dio ti vede, Stalin no”. Una battuta che poi fu ripresa qua e là da vari partiti nelle elezioni che
seguirono, compresa l’ultima. Nel secondo manifesto, ecco lo scheletro d’un soldato italiano dell’Armir, scelto a
simbolo delle decine di migliaia di soldati italiani caduti in mani russe e morti nei campi di concentramento
sovietici. Levandosi da dietro un reticolato indica, fluttuante in un cielo nero, la triade dei simboli di falce
martello, stella dell’Urss e stella a cinque punte del Fronte popolare: “Mamma – dice lo scheletro – votagli contro
anche per me!”.
19 – Gli attivisti del Pci distruggono i manifesti elettorali di Giovannino
Fu il manifesto con lo scheletro di un soldato italiano dell’Armir che indica la stella a cinque punte del Fronte
popolare, la stella dell’Urss e una falce e martello e dice: “Mamma, votagli contro anche per me” a fare uscire del
tutto dai gangheri alcuni degli oppositori. A Foligno gruppi di attivisti di sinistra per distruggere un’enorme
riproduzione di quel manifesto rischiarono di incendiare un palazzo. A Udine assaltarono una tipografia e
diedero alle fiamme, alla maniera dei fascisti con le cooperative del ’22, migliaia di manifesti riproducenti lo stesso
tema. In Lombardia, in Piemonte, Veneto, Toscana, squadre di guastatori girarono per vie e piazze sostituendo
alla triade dei simboli comunisti quello della Democrazia cristiana. A Reggio Emilia, Modena, Bologna, i frontisti
stamparono in tutta fretta una contraffazione del manifesto con lo scheletro d’un soldato italiano sempre a
indicare da dietro un reticolato il simbolo del Fronte popolare, ma con la frase: “Mamma vota anche per me,
perché tutto non accada più, vota Garibaldi”.
Braccati
Guareschi sorrise di questo gesto della contropropaganda. Guardò il disegno contraffatto dello scheletro e scrisse:
“Si capisce subito che quello è un morto fasullo, basta guardarlo in faccia”. Non aveva torto. Nel cartello
contraffatto il teschio, non si sa se volutamente o no da parte di chi l’aveva disegnato, aveva davvero una vivissima
espressione da tonto.
Il coraggio di Guareschi, Mosca e degli altri del Candido rasentò l’incoscienza quando cominciarono a piovere
minacce per telefono e per lettera. Vi faremo fuori con mogli e figli. Rischiarono poi di essere aggrediti. Subirono
agguati. Il cardinale Schuster offrì rifugio in Arcivescovado temendo per la loro incolumità. Rifiutarono non per
spavalderia, ma perché proprio essi, ispiratori d’una campagna politica coraggiosa, tale qualunque sia il punto da
cui la si osservi, non poteva mostrare d’aver paura. Ma per settimane furono costretti a cambiare albergo ogni
sera, ad andare a lavoro studiando itinerari sempre diversi e percorrendoli sempre in almeno più di due.
Adesso sono in molti a riconoscere che gli stessi comunisti trassero vantaggio dall’esito delle elezioni del ’48.
Perché sarebbe stato con la Russia di Stalin e delle epurazioni che avrebbero dovuto fare i conti per primi proprio
i comunisti. Mosca, ricordando Guareschi sul Corriere della Sera del ’68 scrive: “Si accusa oggi Guareschi di una
satira troppo cattiva. Troppo faziosa. Ricordare i Trinariciuti. Ma non era davvero quello tempo di discussioni
sulla delimitazione della maggioranza. Perdere significava per Roma fare la fine di Budapest e Praga”.
Al contributo dato da Guareschi e dal Candido all’esito delle elezioni ’48, giornali tedeschi, francesi, inglesi,
americani dedicarono pagine su pagine. Life, il più diffuso settimanale americano, scrisse che le elezioni erano
state vinte da De Gasperi e Guareschi . In Germania ci furono giornali che uscirono col titolo “Un solo uomo ha
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messo con le spalle al muro il comunismo in Italia: Guareschi”. Riconoscimenti vennero dai principali
esponenti della Democrazia cristiana: De Gasperi, Scelba, Pella, Andreotti sostennero che Guareschi aveva
potentemente contribuito alla vittoria democristiana. Cosa che, a denti più o meno stretti, riconobbero anche
molti giornalisti d’ogni colore. Ma più di tutti Leo Longanesi ed Enzo Biagi. Gli inviati venuti dall’estero e molti
colleghi italiani lo inseguirono fino a Marore, dove si era rifugiato per sottrarsi a quella prima ondata di notorietà
internazionale.
Quando ritornò a Milano, Guareschi affrontò il problema del dopo elezioni: la battaglia elettorale era finita,
ricominciarono la battaglia. Ma erano gli ultimi passi che avrebbero fatto fianco a fianco perché, presto, nel ’50
Mosca fervente liberale, avrebbe scelto altre strade lasciando Guareschi unico direttore del Candido. “E adesso –
scrisse Guareschi sotto la vignetta di un industriale che s’accendeva il sigaro davanti alle ciminiere della sua
fabbrica – non far sì che l’operaio si penta di non aver votato per il Fronte”. Il grande trionfo della Democrazia
cristiana per Guareschi era stato dovuto anche a quei liberali, monarchici, repubblicani, socialisti che, col
rammarico di dover rinunciare alle proprie posizioni politiche, avevano dato a quel partito il loro voto per
opporre un blocco democratico al Fronte popolare. Così il 16 maggio ’48, dopo la grande vittoria pubblicò in
prima pagina una vignetta in cui si vedeva Alcide De Gasperi avviarsi con passo deciso verso il Parlamento. Ma
sulla porta lo fermava l’Italia, bella e sorridente con la corona turrita sul capo: “Distintivo in guardaroba, signor
Presidente!” diceva l’Italia indicando lo Scudo crociato all’occhiello di De Gasperi. Era un chiaro invito rivolto al
politico affinché fosse presidente del Consiglio di tutti gli italiani e si elevasse al di sopra dei partiti compresi il suo.
Era già però anche un prendere le distanze qualora non fosse accaduto. Guareschi cercava di esprimere così
desideri dell’italiano medio che, datosi un governo, doveva iniziare la vera ricostruzione. Non è che credesse
ciecamente in possibili loro avversari, basta guardare l’espressione dura e chiusa che disegnò sul volto di De
Gasperi. Ma in fondo al cuore ci sperava. In pochissimi anni, o è meglio dire mesi, ogni speranza gli fu
frantumata.
Arrivano i nostri
Sentiva il bisogno di alternare al furore delle battaglie politiche pause nelle quali dar sfogo alla sua vera indole.
Alla ricerca della pace. No, dell’accordo tra le diverse anime della nazione. Alla costruzione di argini contro l’odio.
A qualcuno suonò strano e incoerente che, proprio mentre infuriava più duro lo scontro politico che egli stesso
accettava e combatteva di gran lena. È proprio dalle stesse roventi colonne del Candido, si alzassero per sua mano
fin dal Natale ’46, le figure di un sindaco comunista e d’un prete che a dispetto dell’una e dell’altra barricata, pure
essendo nemici irriducibili finivano sempre d’incontrarsi sulla via della ragione.
E non erano solo personaggi come Don Camillo e Peppone a tenere tale contegno. Ne comparvero altri sorridenti
e umanissimi. Sia sul Candido sia su Oggi, l’altro settimanale al quale Guareschi collaborava. Ora erano il
compagno Giuseppe, ora il cagnetto Makò. Oppure pensionati, reduci, bambini che, scampati alla guerra, si
davano da fare per evitarne un’altra.
20 – Giovannino di nuovo in guerra, questa volta contro la retorica
Nel novembre del ’47 Guareschi raccolse molti dei suoi racconti sull’Italia lacerate e pezzente del primo
dopoguerra in un volume che oggi i collezionisti delle sue opere si disputano a caro prezzo: è l’Italia provvisoria,
molto però più d’una raccolta di racconti questi infatti sono 52, ma alternati a 64 sorprendenti tavole. Insieme
formano un’insolita e rara rassegna storica degli avvenimenti che si susseguirono nel nostro Paese
sconvolgendolo, commuovendolo, divertendolo dal ’40 al ’47.
Nelle tavole soprattutto Guareschi eseguì un lavoro di cesello del costume italiano in rivoluzione ed evoluzione
con un collage di fotografie, ritagli di giornali, manifesti, documenti storici e curiosità dell’Italia in guerra e
dell’Italia ancora ferita e alla ricerca della pace. Da quell’11 giugno ’40 sul Corriere della Sera con “Popolo italiano
corri alle armi!” a tutta pagina alla riproduzione dell’ultimo numero del Popolo d’Italia. 26 luglio ’43 subito dopo la
caduta del fascismo. Alle foto della fucilazione di Ciano, De Bono, Gottardi, Marinelli e Pareschi a Verona,
condannati per tradimento al Gran Consiglio fascista.
E nelle tavole seguenti documenti sulle atrocità nazifasciste, guerra civile, Benito Mussolini, Claretta Petacci e gli
altri gerarchi fascisti impiccati per i piedi in piazzale Loreto, fucilazione di Starace e Farinacci riprodotte su Life. E
le prime immagini dell’Italia e degli stracci e degli straccioni. I ritorni di reduci mutilati e semipazzi. Il difficile
calvario dell’immediato dopoguerra.
Ancora: il bandito Giuliano a cavallo e la strage di Portella della Ginestra, i massacri delle Volanti rosse, i
referendum per la monarchia, l’esilio del re, la fragilità e l’entusiasmo ancora aperto della Prima Repubblica,
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l’assassinio di giornalisti, bambini affamati che alzano cartelli contro il governo, 144 bambini morti ad Albenga
nel naufragio d’una motonave.
Continuo a sfogliare: gli scioperi contro il quarto gabinetto De Gasperi, Stalin e la grande paura del ’48, l’esodo
istriano, l’agonia di Fiume, il gran ballo delle elezioni del 18 aprile e la sua retorica “vorrei baciar Togliatti” a
grandi lettere in un ritaglio di giornale, No pasaran, L’Uomo qualunque.
La gran scelta
A questo appassionato ritratto, altissimo grido di dolore e amore e fedeltà all’Italia, Guareschi aggiunse una lunga
premessa che intitolò La retorica del dopoguerra. E mise a nudo il nocciolo, spiegò se stesso e ciò che sarebbe stato
per sempre. A qualsiasi prezzo. La premessa era tratta da una conversazione tenuta in un teatro milanese nei
primi mesi del ’4, L’italiano non pensa mai solo. In essa Guareschi sottolineò che, abbattuta la retorica
dell’anteguerra, l’Italia stava subito costruendone un’altra nel dopoguerra.
La prima retorica non era stata solo imposta dal codice di comportamento fascista inventato e sempre aggiornato
da Starace, recitato da Mussolini e del tutto degenerato sotto la spinta nazista. Era stata anche la risposta sbagliata
ai complessi di inferiorità di tutto un popolo che aveva accettato, e sovente chiesto, di mascherare ignoranza e
miseria con l’inutile pompa di fanfare, gagliardetti, parate in camicia nera, salti nei cerchi di fuoco.
“Liberiamoci della parte peggiore di noi stessi – disse Guareschi -. Guardiamoci allo specchio e ridiamo della
nostra tracotanza, del nostro barocco messicanismo, della nostra retorica. Guardiamoci allo specchio
dell’umorismo. Così come ho fatto tante volte io, cittadino niente, che, quando mi specchio e vedo sul mio viso un
truce cipiglio, scuoto il capo sorridendo e dico: “Giovannino, quanto sei fesso!”.
Questa, già nell’anteguerra sul Bertoldo e su parecchi altri giornali coi quali collaborava era stata la dichiarazione di
guerra fatta da Guareschi alla retorica e alle sue pericolose strutture. Combatterla era sfida al materialismo, al
potere fine a se stesso, a tutti gli spudorati ornamenti coi quali si paludavano lo Stato, i politici, i cittadini che non
sapevano essere orgogliosi di vivere come popolo e come gente onesta. Sulle prime, ai tempi del Bertoldo, non gli
era stato ben chiaro il perché parte degli italiani respingessero l’umorismo. Ne fossero, anzi, acerrimi nemici.
E tuttavia intuì di compiere scegliendo l’umorismo e opponendolo alla retorica una precisa e pericolosa scelta
politica, tanto pericolosa da portarlo, per cominciare, direttamente nei lager nazisti.
Due paralleli mossero la conversazione sulla retorica: nel ’37 aveva pubblicato sul Bertoldo una vignetta
raffigurante una ciurma di corsari che andavano all’abbordaggio d’un galeone spagnolo. Il Corsaro nero,
spencolante da una sartia, lanciava l’urlo fatidico: Tigrotti della Malesia, all’arrembaggio! Ma uno dei pirati
rimaneva tranquillo a fumarsi la pipa. Allora il Corsaro nero: e tu, perché non vieni all’arrembaggio? “Ma io non
sono della Malesia, io sono di Gallarate” rispondeva il filibustiere.
Credette d’aver pubblicato una vignetta tutto sommato innocente. A parte quel corsaro vestito di nero come un
avanguardista. Se non che, gli giunsero decine di lettere di protesta da cittadini di Gallarate e una roventissima
reprimenda dal podestà di quella città che, serissimo, gli specificava che Gallarate aveva dato alla Patria tal
numero di Caduti, di Volontari per l’Africa, di Martiri e mai un pirata. Dieci anni dopo la “scandalosa” vignetta,
fatta in regime dittatoriale.
Guareschi nel ’47, cioè già in preteso clima antidittatoriale, si era trovato a mediare sulle decisioni del sindaco di
Milano che aveva ritenuto naturale “democraticizzare” la toponomastica cittadina eliminando i nomi di Fiume,
Carnaro, Gabriele D’Annunzio. Era chiara dimostrazione che da un estremismo si stava passando a un altro
estremismo. Che la retorica dell'antiretorica finiva col mettere sullo stesso piano la Gallarate del ’37 con la Milano
del ’47.
La forza dell’umorismo
La retorica, comprese allora Guareschi, gonfia e impennacchia ogni vicenda. L’umorismo invece la sgonfia e la
disadorna riducendola con critica spietata all’osso. Che poi, l’umorismo è davvero tale quando non solo critica, ma
soprattutto autocritica, capacità di saper ridere prima di se stessi che degli altri.
Non ebbe più dubbi: l’umorismo è il nemico dichiarato dell’antiretorica. Un dittatore che sapesse ridere anche di
se stesso, abdicherebbe piegato in due dalle risate, poche cose al mondo possono suscitare ilarità come i regimi
imposti con le buone o le cattive, ma senza titolo democratico.
Combattere la retorica è anche combattere la dittatura. L’umorismo: quante volte Guareschi lo usò come sferza
per se stesso e come clava nelle polemiche: com’è debole l’uomo forte quand’è messo in ridicolo, assunse tra le sue
massime. E infine: anche l’odio è retorica. È anzi il prodotto finale di tutte le retoriche. E Guareschi era davvero
un antiretorico: non riusciva a odiare.
21 – Dalla penna di Giovannino prende vita Don Camillo
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L’Italia provvisoria, il volume d’indagine socio-politica sul dopoguerra straccione italiano pubblicato da
Guareschi, nell’intenzione doveva essere ristampato verso il ’70. A partire dal ’65 infatti l’autore aveva preparato
numerose tavole per aggiornarlo di ben vent’anni eseguendo ancora collage di canzonette, nuovi inni, nuove
teorie, annunci economici, ritagli di giornali, cartelle di propaganda che alternati proseguissero il discorso da lui
iniziato nel ’47 e riassumessero non solo l’Italia provvisoria del dopoguerra ma anche quella ancora più
provvisoria degli anni seguenti. E su questa provvisorietà se fosse vissuto probabilmente avrebbe preparato altri
libri.
Quale copertina poteva comunque immaginare Guareschi nel ’67 per la riedizione dell’Italia provvisoria? Al posto
dello sgangherato mercatino ambulante avrebbe forse disegnato una boutique sul retro, invece di Vittorio
Emanuele II e Mazzini che nell’edizione del ’47 guardano corrucciati da una nuvola la penisola, avrebbe messo
Togliatti e De Gasperi sottobraccio o, magari, Andreotti e Berlinguer in Camporella. Morì prima di poter
terminare l’aggiornamento.
Il suo mondo
Verso la fine del ’48, mentre in Italia già erano vendute a centinaia di migliaia di copie i volumi di Mondo Piccolo e
delle ristampe e di volumi pubblicati in tempo di guerra come La scoperta di Milano, Guareschi uscì con Lo
zibaldino, sempre edito da Rizzoli. Nella prefazione avvertì i lettori: il titolo originale del volume era Lo zibaldone,
ma poi qualcuno l’aveva informato che un tal Giacomo Leopardi gli aveva rubato l’idea e così aveva dovuto
cambiarlo in Lo zibaldino
Lo zibaldino è una raccolta di scritti non politici pubblicati un po’ dappertutto dal ’38 al ’48. Racconti della vita in
famiglia di Guareschi. Storielle di guerra. Novellette. È il ritratto del Guareschi ancora senza baffi o con baffi
voltati all’insù, in un sorriso. Un Giovannino apolitico e casalingo, davvero insolito in quel periodo di esasperate
battaglie elettorali. Guareschi spiegò di averlo preparato pensando che proprio in quei giorni cupi di gelido
neoverismo, un piccolo bagno nella tinozza familiare, ultima frontiera serena in quel mondo sempre più nemico e
strampalato, pur proponendo vecchi luoghi comuni poteva far bene. E poi quella era l’occasione ufficiale per
presentare la famiglia ormai al completo: Margherita e Albertino con l’ultimo acquisto, Carlotta, la Pasionaria.
“Ci ponemmo a tavola la sera della vigilia – ecco la famiglia riunita in un racconto dello Zibaldino – ed io trovai le
regolamentari letterine sotto il piatto. Poi venne il momento solenne.
“Credo che Albertino debba dirti qualcosa”, mi comunicò Margherita. Albertino non fece neanche in tempo a
cominciare i convenevoli di ogni bimbo timido: la Pasionaria era già ritta in piedi sulla sua sedia e già aveva
attaccato decisamente: “Oh angeli del cielo, che in queste notti sante, stendete d’oro un velo sul popolo festante”.
Attaccò decisa, attaccò proditoriamente, biecamente vilmente e recitò tutto d’un fiato, la poesia di Albertino.
“È la mia!” singhiozzò l’infelice correndo a nascondersi nella camera da letto.
“Margherita, che era rimasta sgomenta, si riscosse, si protese sulla tavola verso la Pasionaria e la guardò negli
occhi.
“Caìna” urlò Margherita. “Ma la Pasionaria non si scompose e sostenne quello sguardo. E aveva solo quattro anni,
ma c’erano in lei Lucrezia Borgia, la madre dei Gracchi, Mata Hari, George Sand, la Du Barry, il Ratto delle
Sabine e le sorelle Karamazov.
“Intanto Abele, dopo averci ripensato sopra, aveva cessato l’agitazione. Rientrò Albertino, fece l’inchino e declamò
tutta la poesia che avrebbe dovuto imparare la Pasionaria. Margherita allora si mise a piangere e disse che quei
due bambini erano la sua consolazione”.
Ed erano anche la consolazione di Guareschi.
Il tavolo di lavoro di Guareschi era un mobile che più che una scrivania pareva il banco d’un falegname. A partire
dalla lima con cui faceva la punta al lapis. Un giorno, seduto a quel tavolo, cominciò a pensare cosa mettere nelle
prime pagine del libro che avrebbe raccolto i primi 37 racconti di Don Camillo. Li aveva scelti e messi in ordine
con cura tra i tanti già pubblicati sul “Candido”. Ora avevano una continuità, una loro umanità struggente,
comicità, poesia, forza.
Prese della carta da giornale non appena stampata, la piegò a mo’ di pagina di libro e lavorò. Dopo il titolo del
volume, Mondo piccolo e, tra parentesi sotto, Don Camillo, voltò pagina e in bella calligrafia, tenendosi in centro e
con frequenti a capo, stilò la dedica: “Alla memoria di mio zio materno, Oliviero Maghenzani, che doveva essere
prete missionario, ma la morte lo prese a quindici anni. Alla memoria di mio zio paterno, Umberto Guareschi,
meccanico, morto a trent’anni a Rosario di Santa Fé, la cui formidabile figura di gigante apparve un giorno nel
cielo della mia lontanissima fanciullezza e rapidamente disparve, ma rimase il bagliore di due occhi onesti”.
Chissà, pensò a quello zio non tanto come Peppone, ma come don Camillo, visto che subito dopo nella pagina
seguente prese a disegnare un pretone immenso dallo sguardo limpido, ma accigliato? Il lapis segnò sul foglio
una monumentale macchina di carne e muscoli in marcia possente che pareva uno schiacciasassi. Gli
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camminavano davanti, spediti, due chierichetti portando una croce alta e sottile la quale, nonostante la
notevole altezza, arriva però appena poco più su del gomito del gigante. Na era tesa in avanti nitidissima.
Il lapis corse ancora e sulle faccette dei chierichetti apparve già l’espressione dispettosa e combattiva del diavoletto
e dell’angiolino che sarebbero presto diventati il simbolo delle coscienze del capo comunista e del prete della
Bassa.
Più avanti, nel ’52, cioè quattro anni dopo avrebbe provato ancora a fissare in un’altra pagina la figura di Don
Camillo. Disegnò sul muro di una piazza una bacheca del Partito comunista con affisso un giornale murale sul
quale spiccava il proclama di Peppone. Davanti alla bacheca il prete largo come un armadio e di profilo. Dietro la
schiena teneva un grosso ombrello col manico d’osso. Ma più che un ombrello, pareva un’arma per menar
legnate. L’altra mano del prete stava finendo di completare la parola “asino” accanto alla firma di Peppone in un
gesto più casuale che voluto.
Ma tornando ai primi disegni del ’48, quando il libro uscì non c’era proprio nulla di ciò che era stato scritto e
disegnato quella sera e non conveniva suggerire al lettore che faccia avesse Don Camillo, meglio se lo
immaginasse ognuno come voleva, e quella dedica a un seminarista morto giovane e a un meccanico morto a casa
di Dio era un po’ troppo funerea e personale. E che Guareschi, insomma, si lasciasse consigliare, che il suo
mestiere non era quello dell’editore. I disegni sarebbero comunque riapparsi poi in una bellissima edizione
speciale di Mondo Piccolo.
22 – Dal Vaticano critiche severe a Giovannino per Don Camillo
Guareschi scrisse la prefazione del primo volume del “Mondo piccolo” cucendo le tre “Storie del Boscaccio”
pubblicate sul Corriere in tempo di guerra e facendole precedere dalla frase lapidaria: “Qui con tre storie e una
citazione si spiega il mondo del Mondo piccolo”. In apertura di ogni capitolo fece comparire due lazzaroni,
diavoletto e angiolino, che combattono fra loro forca contro randello. Il diavoletto che scrive magari “buona
Pascua” su una bomba. L’angiolino che incendia una vecchia bicocca o va a cacciare di frodo con la doppietta in
spalla. Brevi squarci di Bassa: un cavallo che trascina nell’afa un biroccio sull’argine, i pali della luce che si
inseguono lungo il ciglio delle strade diritte della pianura, la luna tonda e grossa come una formaggia che s’alza
tra le sterpaglie accanto al fiume che scorre vasto e solenne.
Tre in uno
“Don Camillo – disse nel ’52 Guareschi a Renato Olivieri che lo intervistava per il Popolo Nuovo – è nato proprio
per caso. E anche Peppone è nato per caso. Così lo Smilzo, il Brusco, Straziami e tutti gli altri. Gente che io ho
conosciuto, a cui voglio bene, che vive in un posto che mi sono sempre portato dentro, al quale ho sempre
pensato anche stando a Milano o nel lager di Polonia e Germania. Una decina di anni fa avevo scritto tre racconti
che furono pubblicati sul Corriere della Sera e già in quei tre racconti agivano personaggi del Mondo piccolo.
Quando tornai alla Bassa, a guerra finita, trovai gli argini e le case come in quei miei primi racconti. Ma sulle case
c’erano dei manifesti”.
Con le mani tracciò nell’aria un’esplosione “La gente – continuò – faceva anche della politica. Capisci? Politica.
Così, quando ripresi a raccontare quelle storie, ci misi dentro anche quella novità. Dalle mie parti, e in Occidente
credo che sia così un po’ dappertutto, i comunisti battezzano i loro figli e si confessavano in chiesa e difendendo la
loro proprietà preciso come gli altri che non fanno i comunisti. S’atteggiano a rivoluzionari e non lo sono.
Peppone è un comunista come questi, a modo suo, pieno di difetti per quelli del Cominform. O di pregi, a
seconda insomma se la faccenda la si vede da sinistra o da destra. Sai cosa mi hanno detto in Francia alcuni
intellettuali, come si dice, di sinistra a proposito di don Camillo? È una mascalzonata, hanno detto, ma una
mascalzonata intelligente”.
Continuò il discorso con Angelo Del Boca che, per la Gazzetta sera, gli chiedeva quali dei due personaggi, parroco
o sindaco, gli fosse più caro.
“Quei due sono qualcosa di più di un’invenzione. Don Camillo e Peppone, in azione, sono la medesima persona.
Sono io, la mia coscienza. A volte io sono Peppone, a volte don Camillo. E, come Peppone o come don Camillo,
corro contro questi o quelli perché mi rendo conto che nessuno dei due ha sempre ragione.
Ma nessuno dei due ha sempre torto. E correndo come Peppone a testa bassa contro i don Camillo o come don
Camillo lanciandomi contro i Peppone, ogni volta rischio una scelta drammatica, il distacco totale e ingiusto tra le
due parti., la possibilità di convivere e di apprezzare ciò che di buono c’è su ogni sponda. Allora ecco che
interviene il Cristo, il mio Cristo, e fa da mediatore perché, sempre dentro di me, c’è la ragione a dirmi che la
politica è una cosa e la realtà un’altra. E se a volte la politica acceca, la realtà accettata con buon senso e coscienza a
posto illumina. Ma forse la cosa è meno seria e hanno ragione gli altri: la mia è solo una trovatina. Però ha
attaccato nel Pakistan come in Finlandia. Bisogna ammettere che è strano”.
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Universalità
In quei giorni il Vaticano lo bersagliava con critiche severe. L’accusa principale era d0’aver trattato con troppa
bonomia il tema della lotta del comunismo contro la Chiesa. Nel Don Camillo, secondo i cattolici più integralisti, si
consumava una sorta di eresia perché troppi episodi con alterne tregue tra don Camillo e Peppone sembravano
voler dimostrare che ci era possibilità di far coesistere marxismo con religione cattolica. A un certo punto i
giornali pubblicarono che il Vaticano aveva intenzione di mettere all’indice i libri su don Camillo e di porre sotto
censura i film. Non accadde. Il minacciarlo fu più che altro un tentativo di correggere la traiettoria narrativa di
Guareschi.
Le critiche più cattive e comuni a don Camillo, tanto comuni da essere ormai diventate banali, sono che Guareschi
ha inventato personaggi di una favola che non ha aderenza con la realtà. Oppure che ha imposto al pubblico una
realtà da teatro dei burattini. Da mondo delle maschere fisse.
Ma tra queste due concezioni c’è proprio la realtà. L’Italia, se si escludono quattro o cinque cancri metropolitani,
è proprio quella del Mondo piccolo perché per il novanta per cento perché la realtà italiana è provinciale come
nella Bassa, dove le case s’inseguono a trenta metri una dall’altra e dove dopo ogni campanile c’è una casa di
partito e dopo ancora una sagrestia. Ed è provinciale anche la vita della maggior parte dei quartieri nelle grandi
città. Che dove non la è, cominciano isolamento, squallore, violenza.
E se chiedi a un meridionale se anche da lui in Calabria o in Sicilia, ci sono dei don Camillo e dei Peppone, ti
risponde altroché, in ogni casa, in ogni partito, in ogni parrocchia. E non è detto per forza essere preti o
comunisti. Ce ne sono in Val d’Aosta e sui banchi dei consigli comunali di Cinisello Balsamo. O di Siena. Ma
anche a Marsiglia, Bucarest, Madrid, Mosca. Nell’Arkansas come in Polonia. E discutendo forte, ma tentando di
non tradire la pace, allontanano i malanni delle culture snobistiche e affaristiche che guardano alla semplicità
della provincia con disprezzo,
Personaggi di una favola, realtà da teatro dei burattini?.
“I tipi sono veri – risponde Guareschi nella prefazione a un’edizione americana – e le storie sono tanto verosimili
che, più d’una volta, un mese o due dopo aver inventato una storia, il fatto accadeva realmente lo si leggeva sui
giornali. Addirittura la realtà superava la fantasia: perché, quando io scrissi la storia di Peppone il quale, per
liberarsi di un aereo che durante un comizio gettava manifestini avversari, tira fuori dal pagliaio una mitragliera,
non arrivai a farlo sparare. “ Andiamo nel fantastico” dissi fra me. Due mesi dopo, a Spilimbergo, non solo i
comunisti spararono su un aereo che lanciava manifestini anticomunisti, ma anche lo abbatterono.
23 – I critici italiani snobbano Guareschi, best-seller mondiale
Giovanni Mosca, incontrandoci alcune volte tra il ’73 e il ’75, mi narrò di quando Guareschi gli si sedette di fronte
torturandosi i baffi e gli chiese: “Cosa dici? È il caso che io raccolga o no in volume i racconti su Don Camillo,
sinceramente, se mi dici di non farlo io lascio stare”. Sinceramente, rispose Mosca, ti invidio fin da adesso.
Il primo volume uscì nel ’48. In pochi mesi in Italia ne furono vendute 300 mila copie. Una piccola casa editrice
americana di un oriundo piacentino ebbe l’idea di farne traduzioni per gli Stati Uniti e il volume passò la
frontiera. In un paio d’anni ne furono vendute un milione di copie ai francesi. Altrettante agli americani. Mezzo
milione ai tedeschi, duecentomila agli inglesi. Così agli spagnoli e agli olandesi. Quindi centinaia e centinaia di
migliaia a danesi, finlandesi, norvegesi, svedesi, belgi, austriaci, portoghesi, irlandesi. E africani, indiani,
giapponesi, vietnamiti, coreani, australiani, canadesi. Esquimesi.
Successo planetario
Non si erano ancora fermate le vendite del primo volume quando nel ’53 uscì il secondo, Don Camillo e il suo
gregge. Guareschi in una libreria di Milano in tre ore firmò le prime copie vendute: seicento autografi. La prima
edizione di trentamila copie fu esaurita in una settimana. In pochi solo in Francia, best-seller assoluto, raggiunse
ancora il milione di copie vendute.
La febbre crebbe con l’uscita dei film che in tutto il mondo spinsero altri milioni di lettori a comprare libri di
Guareschi dopo aver visto Don Camillo e Peppone in azione sullo schermo. In America e Inghilterra furono fatte
edizioni braille per i ciechi. La BBC di Londra prese a trasmettere letture di capitoli tradotti in bulgaro e russo e
una casa editrice londinese pubblicò i racconti in polacco, ceco e slovacco per i rifugiati politici di questi Paesi e
perché quelle edizioni potessero entrare clandestinamente oltre la Cortina di Ferro. A New York la NBC trasmise
quaranta racconti e dovette ripetere la serie tre volte. Sempre a New York, un diffuso catalogo che segnalava i
migliori libri del mondo continuò per mesi a tener Guareschi nei primi tre posti.
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Per anni egli fu assediato da inviati da tutto il mondo. Dall’America la rivista Life, sei milioni di copie
settimanali, inviò in Italia il più famoso dei suoi giornalisti, Winthrop Sargeant, e un fotoreporter fatto partire
apposta da Tokio perché fosse spiegato in nove pagine il fenomeno Guareschi.
“Davvero siete afflitto da malumori, signor Presidente” chiese un giorno monsignor Giuseppe Roncalli, nunzio
apostolico a Parigi e futuro Papa Giovanni XXII, a Vincent Auriol, presidente della Repubblica francese “ebbene
fate come me: tenete sul vostro comodino il libro di Don Camillo, leggetene qualche pagina ogni sera e ne avrete in
dono la serenità”. E gli regalò il volume del Mondo piccolo. Poi, sempre più entusiasta, ne diede una copia anche
all’ambasciatore russo a Parigi perché conoscesse quale potenzialmente era l’antidoto alla Guerra Fredda.
In Germania, Francia, Inghilterra e Spagna si tennero simposi tra politologi per discutere il “pepponismo” come
dottrina. In Africa vescovi bianchi e di colore dedicarono lunghi seminari a Don Camillo e al suo Cristo. L’amico
mio Giorgio Torelli narra che, quand’era inviato di Epoca, gli capitava di imbattersi in Guareschi alle latitudini e
alle longitudini più estreme: “Una volta ero in India, una in Groenlandia, un’altra ancora in Sud Africa. E mi
domandavano di che parte del mondo fossi con esattezza, da che città italiana venissi. Era difficile spiegarlo in
termini geografici: Parma, provai a dire, ma la risposta lasciò tutti indifferenti. Dov’è mai Parma, già così piccola
dall’aereo, per chi vive a diciotto, venti o più ore di jet dalla nostra regione bionda di frumento? Mi venne da
aggiungere : Parma, the town of Guareschi, la città di Guareschi. Subito i visi si allargarono nella più lieta delle
comprensioni . Well, dissero tutti allo stesso modo, don Camillo. I miei interlocutori erano tre: in India a
Trivandrum, capitale del Kerala, un vescovo indiano in sandali smeraldo. In Groenlandia un capitano danese
della polizia reale montata su slitta . In Sud Africa un allevatore boero, pastore della Chiesa riformata olandese.
Tra i loro libri avevano tutti e tre un Don Camillo e s’affannarono a mostrarmelo. Quello indiano era nei minuscoli,
eleganti caratteri della lingua malayalam, quello del capitano era in danese rilegato in pelle di foca, quello del
boero in afrikaan , dentro una custodia di zebra. Lo conoscevano. Guareschi, anche fisicamente , baffi, naso, gli
occhi emiliani. Lo hanno amato tre generazioni. Giovanni Guareschi, l’unico italiano letto in tutti i meridiani, là
dove i Moravia, i Calvino, i Pasolini, gli Arbasino sono totalmente sconosciuti e non giungeranno mai, che cosa ha
dato l’Italia? La cartella del Fisco, risponderebbe lui.
Sette sordomuti
Infatti gli unici che non si divertirono, né si commossero davanti al Cristo, a Don Camillo, a Peppone e al grande
fiume, furono i sette critici italiani ai quali la stampa quotidiana affidava il compito di informare i propri lettori
che per ragioni d’arte o costume avesse notorietà.
“Ma purtroppo – scrisse nel ’53 Domenico Porzio in una sua critica letteraria – nel nostro Paese dove si traducono
migliaia di libri stranieri all’anno e dove il pubblico viene aggiornato su ogni risciacquatura d’oltralpe, non c’è
tempo né posto per considerare non diciamo l’opera letteraria di Guareschi, ma almeno le ragioni per cui il
volume ha interessato decine di milioni di lettori.
Follia collettiva? Tutti pazzi questi giornalisti stranieri che scendono alle Roncole a intervistare Guareschi? Per
quel che ce ne intendiamo, sappiamo che se narrare vuol dire diventare personaggi vivi e così vivi da diventare
creature autonome, Don Camillo lo si incaselli nel genere letterario che più aggrada, ma appartiene alla nostra
narrativa”.
Fu una commissione letteraria internazionale ad assegnare a Guareschi il primo e ultimo premio che ebbe in Italia
come riconoscimento alla sua attività di scrittore.
Il 2 agosto ’52, dove sei ore di discussione non voluta dagli stranieri che erano tutti d’accordo , la giuria
presieduta da Raul Boch, addetto culturale al consolato di Francia, assegnò al primo volume di Don Camillo la
Palma d’oro. Con Guareschi fu premiato per il disegno umoristico Raymond Peynet di Parigi. In Italia ignorano,
mah! Si vede che si sbagliano all’estero, commentava Guareschi.
24 – La madre va a Parma in bici per vedere un film di Giovannino
La maestra Maghenzani e Primo Augusto, genitori di Guareschi, si misero in fila senza far storie e morirono l’una
e l’altro a distanza di un mese. Accadde nell’estate del ’50.
La maestra Maghenzani era stata mandata in pensione nel ’46, dopo 49 anni di cattedra. Era diventata una
vecchia magra magra, sempre rigida nel busto che portava dal tempo di guerra per correggere la scogliosi.
Nascondeva il busto sotto vestitini a tinte vivaci, allegre, che tuttavia portava con estrema compostezza. Lo Stato le
ordinò di scendere di cattedra e lei obbedì. Ma non mangiava più. E non parlava. E Guareschi capì che sarebbe
morta di crepacuore se fosse rimasta fuori dalla classe.
Anche tutta la gente di Marore capì che la vecchia maestra, che ora girava come un’anima in pena cercando di far
nido tra chiesa e orto, non ce l’avrebbe fatta a scampare con la matita rossa e blu chiusa in un cassetto. Così ci fu
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chi andò per il paese a raccogliere firme . Tutti, dai bimbi ai vecchi, firmarono una petizione nella quale
chiedevano allo Stato che la vecchia maestra tornasse subito in servizio.
Gente così
La petizione fu consegnata a Guareschi che si diede a consultare furiosamente testi di legislazione scolastica,
direttori didattici, funzionari del Provveditorato agli studi e al fine compilò una perentoria richiesta al capo dello
Stato affinché la vecchia maestra fosse riammessa in servizio. Andò a Roma e tanto disse e fece che, nella
primavera ’47, il ministero invitò la maestra Maghenzani a risalire in cattedra, dividendo a mezzo il servizio con la
maestra che le era succeduta.
La nuova maestra era la Mimma ed era fidanzata con Gianni Rastelli, ottimo amico della famiglia Guareschi. E poi
anche la Mimma, come tutti a Marore, aveva per la vecchia maestra un gran amore e un gran rispetto. Non si
lamentò. Anzi preparò una festa e le parve di toccare il cielo con un dito cedendole mezza cattedra.
Nell’estate del ’49, Gianni Rastelli, è lui stesso a raccontarmelo, si mise in paziente attesa davanti alla chiesetta di
Marore e, e quando la vecchia maestra ne uscì camminando rigida come un legnetto, le si affiancò e la invitò al
cinema. La vecchia maestra era ormai un mucchietto d’ossa, ma aveva occhi fermi e severi sotto i capelli bianchi
come la neve e, se alzava il dito ossuto, sapeva ancora far soggezione.
“La porto a Parma a vedere un film di Giovannino. La storia l’ha scritta lui. È stato Giovannino con una telefonata
da Milano a dirmi di portarla a vedere il film. Quattro pedalate e siamo a Parma. Quattro pedalate e siamo
indietro”.
Lei neppure rispose e Rastelli considerò chiusa la faccenda poiché sapeva che a far cambiare idea alla vecchia
Maghenzani era peggio che spingere un mulo giù da un burrone. Invece, alle sette e mezzo, col vestito di seta
buono e i capelli ravviati, lei era pronta, seduta rigida sulla panca davanti alla porta di Rastelli: “La deposi con
infinite precauzioni sulla canna della bicicletta – racconta Rastelli – raggiungemmo il cuore di Parma ed
entrammo all’Ariston. Aveva il cipiglio dei giorni di compito in classe. Restò impassibile fino all’inizio della
proiezione. Poi trasfigurò. Il film narrava di un paesino di montagna. Un paesino di contrabbandieri con la
complicazione di una maestrina progressista e di un matrimonio in extremis. Si muoveva su uno sfondo
deamicisiano, in un’atmosfera accorata e soffusa di malinconia. La vecchia Maghenzani piangeva e rabbrividiva.
Continuò a piangere piano anche sulla via del ritorno, accoccolata sulla canna della bicicletta. Forse mai come
quella sera madre e figlio, anche se lui era lontano, furono così vicini. E poi, lei cominciava a dirgli addio. Perché
sapeva di avere un brutto male.
Allegorie
Primo Augusto, il padre: Primo Augusto negli ultimi anni della sua vita passò il tempo inventando stramberie e
certo non gli mancò la fantasia. In tempo di guerra s’era messo a girare con una bicicletta senza gomme
trascinandosi a guinzaglio un gatto e, quando arrivava in città, i cerchioni facevano un tal fracasso sull’acciottolato
da far correre alla finestra la gente. Il vecchio diceva che si trattava di un’allegoria dell’Italia di domani. “Il mondo
è un immenso manicomio di criminali e pazzi furiosissimi!” ripeteva poi.
Nel giugno ’50, Guareschi andò a trovare padre e madre a Marore. Li vide sfiniti sotto i colpi d’un gran caldo
scoppiato all’improvviso. Decise di portarli con sé a Milano. Aveva una di quelle giardinette dalle portiere in
legno. Davanti tolse il sedile e, con alcuni cuscini, formò il giaciglio per il padre. Fece accomodare sui sedili
posteriori la madre e lei si sedette tranquilla. Solo un po’ d’affanno mentre la macchina partiva e la suola restava a
rimpicciolire nella campagna di Marore.
A Milano i due vecchi si sistemarono in una camera, naufraghi su una zattera nel mare della metropoli che non
può, per gente così, che essere nemica. Presero a discorrere insieme, come facevan da decenni.
La vecchia maestra spirò il 13 luglio ’50. Se ne andò come era vissuta. In grande dignità. Come se, anziché partire
per l’Aldilà, avesse dovuto prepararsi per andare a scuola e salire in cattedra. Il suo funerale sfilò magro per
qualche strada di Milano e, alla fine la cassa s’immerse in un punto imprecisato dello sterminato cimitero
Monumentale. Ma Guareschi non accettò quella sepoltura anonima. Fece dissotterrare la bara e la portò a
Marore.
La camera ardente fu allestita in un’aula della scuola elementare, accanto alla cattedra. Sfilarono tutte le
generazioni di Marore e poi la cassa fu portata a spalla da ex scolari fino alla chiesa e al piccolo cimitero. Era
avvolta in quella bandiera sabauda che la maestra Maghenzani non aveva mai cessato di amare.
Primo Augusto la seguì un mese dopo. Recitò piano un brano dei Promessi Sposi nel quale Renzo e Lucia lasciano
in barca la loro terra e si assopì. Lottando contro il dolore. Spirò.
Guareschi seppellì a Marore anche suo padre, a fianco della Maestra Maghenzani. Se sua madre gli aveva
insegnato ordine e dignità, suo padre gli aveva dato fantasia e quel tanto di pazzia che serve per osare. Se sua
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madre gli aveva indicato Dio, lui gliel’aveva spiegato. Pochi altri come i suoi vecchi non andando d’accordo
erano riusciti a essere la sintesi d’un accordo perfetto. Che possano litigare in pace per sempre.
25 – De Sica e Camerini per paura rifiutano la regia di Don Camillo
In nessuno degli scritti di Guareschi, che pure hanno toni amarissimi e dolenti, si incontra l’odio. È un sentimento
che rifiutava e al quale non lasciò mai spazio. Sempre, tranne una volta, in un brano dedicato alla madre.
È una lettera aperta alla vecchia maestra, pubblicata poi tra i racconti di Vite in famiglia e nel Corrierino delle
famiglie. Tra le righe esplode una dichiarazione d’odio così esplicita e violenta da assumere la forza di un
giuramento. E per Guareschi i giuramenti erano davvero sacri.
Nell’ottobre del ’51, a dieci mesi dalla morte della maestra Maghenzani sua madre, era giunto dal ministero il
diploma di benemerenza che permetteva alla defunta di fregiarsi di medaglia d’oro per quarant’anni di “buon
servizio”. A parte che lei ne aveva fatti 49 di lodevoli.
“…io trasudo – scrisse Guareschi – veleno per me per tutti coloro cui la triste ignavia statale, cui la sordida
indifferenza burocratica avvelena gli ultimi giorni di una faticosissima vita spesa nell’onesto lavoro a beneficio
della comunità. Anche voi, mezze maniche ministeriali che impiegate dieci mesi per far arrivare un diploma di
benemerenza da Roma a Milano, un giorno vi troverete vecchi e miserabili e lo Stato vi caccerà via a pedate: allora
comprenderete il valore d’un foglio come quello che l’è arrivato oggi. Allora forse il mio odio non vi inseguirà più.
Ma fino a quel giorno io vi odierò tenacemente. Anche se avete rubato un solo secondo della vita di mia madre,
anche se, semplicemente le avete tolto un sorriso.
“Sono uno solo, ma il mio odio è immenso come l’amore che ho per mia madre. Scaldatevi pure al sole di Roma
non curandovi dell’omuncolo che trasuda veleno tra le nebbie del Nord: un giorno il sole di Roma non riuscirà
più a scaldare le vostre ossa ormai vecchie e scassate e allora anche l’odio dell’omuncolo vi peserà sulle spalle come
un sacco di sabbia.
“Vi pagano poco? Anche mia madre era pagata poco e non si stancava mai di lavorare . Stai tranquilla signora
maestra: non ti preoccupare per me, il mio odio è più forte di tutti i Ministeri messi assieme . Piuttosto, se puoi,
rispondimi nel sogno. Ma, per carità, non venire a spiegarmi che è indegno di un animo nobile quello che ho
detto. Il mio odio non cerca forme di vendetta ma è e sempre sarà soltanto un pensiero racchiuso nel mio
cervello.
“Non venirmi ad insegnare che debbo amare il prossimo mio come me stesso: me l’hai già insegnato e lo so. Io
amo me stesso soltanto quando so di aver fatto ciò che alla luce dei tuoi insegnamenti e del tuo esempio ritengo
sia il mio dovere. Quando so di non averlo fatto mi detesto.
“Metterò il Diploma in cornice e lo appenderò al muro al quale è appoggiato il mio tavolo di lavoro e ogni tanto lo
guarderò. Fin che avrò negli occhi un po’ di quella luce che tu mi hai dato, approfittando di un giorno di vacanza.
Tuo figlio.
Francesi a Brescello
Julien Duvivier era un freddo. Portava il basco alla francese perché francese era, ma aveva la flemma arcigna di
uno scozzese. E che gesti secchi, che nessuno aveva gesti secchi come lui. Con una mano tagliava l'aria e riusciva a
zittire all'istante una piazza intera di comparse.
La produzione del primo film su Don Camillo era italo-francese. Invano i produttori avevano tentato di affidare la
regia a un italiano. De Sica e Camerini avevano rifiutato per timore di finire invischiati in questioni politiche. Fu
inutile pregarli di leggersi bene la sceneggiatura: magari i comunisti, o forse i preti, e chissà chi altri, dissero l’uno
dopo l’altro i registi italiani, renderanno la vita difficile al film fin dalla lavorazione, c’è di che uscirne schedati
come reazionari. Come quel reazionario di Guareschi, appunto.
Si parlò allora d’affidare la regia a Frank Capra che aveva girato pellicole come La vita è meravigliosa mostrando
una straordinaria sensibilità nel comporre sullo schermo atmosfere di piccola provincia e personaggi sanguigni,
ma umanissimi. Frank Capra era un lettore di Guareschi e accettò con entusiasmo. Ma, all’ultimo momento, la
casa cinematografica statunitense, alla quale era legato da un contratto che pareva il Patto dell’Asse, lo costrinse a
rifiutare.
Si cercò infine in Francia. Accettò Duvivier, che tra i registi francesi era un principe. Vecchia volpe, gusto per i
paesaggi sfilati, lunghi orizzonti a perdita d’occhio. Ricerca accurata del gesto giusto sulle parole giuste.
Guareschi andò in Francia per conoscerlo.
“Oui, il a le physique du rôle” borbottò Duvivier osservandolo a occhi semichiusi. I francesi, ancor più che in
Italia, trovavano in Guareschi una sorprendente somiglianza con Stalin quarantenne che compariva con il braccio
alzato nei ritratti ufficiali. Baffoni ad ali di rondone, capelli ad attaccatura piena con qualche lingua in volo.
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Guareschi su se stesso non la pensava allo stesso modo. Ma sì, forse con la faccia da contadino rivoluzionario
c’eravamo. Ma un rivoluzionario alla Zapata, alla Pancho Villa, con occhio tondo e luci inquiete. Non occhi freddi
come una lama e dal taglio mongolo. Ma si era nel ’51 e Stalin, eroe dei popoli, nessuno ancora lo aveva guardato
bene negli occhi.
Le Fernand d’Elle
La mezza idea di trasformare per lo schermo Guareschi in Peppone, Duvivier l’avrebbe rimacinata in Italia
quando vi sarebbe sceso per girare gli esterni del film. Nel frattempo scelse Don Camillo. Volle l’attore più
popolare in Francia. Non li scelse solo perché era famoso, ma per averlo diretto in uno degli episodi Carnet di
ballo e si era accorto che in quell’uomo dalla faccia da cavallo stava maturando ben altro che il genere comico col
quale s’era caratterizzato.
Fernandel accettò dopo qualche ora di riflessione. Aveva già letto i racconti su Don Camillo. Il prete della Bassa
non era affatto incomprensibile per un francese. Era anzi un tipo comune nelle campagne di Francia. Aveva 48
anni. Cinque più di Guareschi. Era marsigliese. Il suo vero nome era Fernand Contandin. Quando si fidanzò, la
madre della fidanzata prese a chiamarlo per scherzo Fernand d’Elle, il Fernand di lei. Fernandel. La parte di Don
Camillo lo elettrizzò. Abbandonò la risata cavallina che lo aveva reso famoso. Si ricompose. Si concentrò.
“Si, son diventato serio – disse ai giornalisti appena giunse in Italia – se sgarrassi Duvivier mi strapperebbe di
dosso la tonaca e mi lascerebbe in mutande sul sagrato della chiesa di Don Camillo. Infine, sento che Don Camillo
è la parte più importante della mia carriera.
26 – Giovannino interpreta Peppone, ma come attore è un fiasco
Guareschi non sapeva che cosa pensare di quel francese che s’infilava nelle vesti del suo personaggio. L’osservava
con sospetto. Ne spiava ogni mossa. Commentò che Fernandel gli sembrava un ciclista del Giro di Francia, un
pompiere, un ladro di biciclette, insomma tutto meno che un prete. Tantomeno il suo Don Camillo.
Ma poi lo vide calare massiccio in una vasta tonaca prestatagli dal parroco di Brescello e a camminare a passi
lunghissimi. Su e giù davanti al Crocefisso. Mani che si tormentavano dietro alla schiena e piedi calzati in scarpe
numero quarantasei, lui che portava il quarantuno. E cominciò a pensare che quel francese gli avrebbe fatto
cambiare idea. Che, magari, un giorno pensando a Don Camillo gli sarebbe capitato di veder la faccia e i denti di
Fernandel.
La scoperta di Brescello
Il regista Duvivier, in un giorno caldissimo d’estate, prese a girare per la Bassa alla ricerca del paese nel quale
ambientare gli esterni del film. Scartò subito Roncole, perché di fronte alla chiesa , sul lato opposto della piazza,
voleva ci fosse una Casa del Popolo e non poteva certo piazzarla nella casa natale di Giuseppe Verdi, E scartò le
Fontanelle, perché davanti alla chiesa la piazza era troppo esigua, un triangoletto cinto su due lati da un argine
maestro che neppure dava sul fiume, ma in terra golena.
A questo punto Guareschi smise di seguire Duvivier, che tanto il regista gli aveva già assassinato le speranze che il
film fosse girato nei luoghi che amava. Con i baffi flosci per il gran sudore e senza avvertire Duvivier, che
scomparve con i suoi aiutanti nell’afa pomeridiana, svoltò in una stradetta di campagna, raggiunse il pergolato di
un’osteria sotto il Po e andasse dove pende, lui per adesso si ancorò a una bottiglia di bianco secco e a fette di
culatello alte un dito.
Duvivier, impassibile, forò il caldo, attraversò paese dopo paese seguendo il corso del fiume nel senso della
corrente. Entrò in territorio reggiano e scoprì Brescello.
Il paese gli piacque. Sì, c’era perfino un’atmosfera quasi francese. Di sicuro bisognava correggere la chiesa, magari
con un alto pronao sulla porta centrale per darle un tocco più spettacolare. E l’entrata della sacrestia era meglio
che avesse un po’ di cornice attorno, per tirarla in evidenza e non appiattire l’immagine.
Duvivier ordinò subito ai carpentieri di costruire in compensato e cartapesta pronao e cornici. Qualche anno più
tardi, su richiesta del parroco di Brescello al quale il pronao era piaciuto da matti, la Cineriz, a sue spese, lo rifece
vero in mattoni e pietra.
Duvivier camminò a lungo, basco sulle ventitré, per le strade di Brescello. Il paese è in territorio di Reggio Emilia,
a una ventina di chilometri da Parma sulla via per Mantova. Nel ’51 era una borgata di 3.000 anime raccolte
attorno alla piazza rettangolare, con la penombra di bassi porticati su un lato. A mettersi in mezzo a una delle vie
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diritte del paese, si poteva indovinare il Po scorrere dietro la barriera dei pioppi e litigare con le acque
dell’Enza, un torrentaccio dal carattere bizzoso che, a ogni inizio stagione, smaniava e non era capace di starsene
quieto nel suo letto.
Soddisfatto. Duvivier pensò ai personaggi. Il Cristo, innanzitutto. In un oratorio di Brescello aveva adocchiato un
Cristo crocefisso alto circa tre metri e gli era piaciuto, perché era un’antica figura lignea scolpita da un buon
artigiano che dove non lo sorresse l’arte, supplì con molta fede. Chiese al parroco di poterlo avere in prestito per
girare il film. Il parroco lo chiese al vescovo. Il vescovo rispose neanche per sogno.
Duvivier chiamò un bravo scultore scenografo. Bruno Avesan e ordinò di costruire una copia di quel Cristo
crocefisso con qualche ritocco: volle un volto più lungo, scavato, rigido e appena piegato verso destra, con un naso
robusto che pareva il calco di quello di Fernandel. Nell’insieme, un patimento severo. Ma anche dolcissimo. Nel
primo film quel Cristo ebbe cinque teste cambiabili con espressioni diverse.
Restava da stabilire chi avrebbe interpretato Peppone e Duvivier scelse Guareschi che partì baldanzoso per la
nuova esperienza. Giunse a Brescello a bordo del suo Guzzino 65 rosso fiammante e s’installò in casa di Don Dino
Alberici, un prete libero come l’aria, che sbarcava il lunario facendo il maestro, imbastendo ricerche storiche su
Brescello, bersagliando i fedeli con filippiche morali e politiche dalle colonne dei giornali locali.
Quando fu ora di girare la prima scena, Guareschi si calò in un paio di bragoni di fustagno. Mise una camicia a
scacchi, un fazzolettone rosso al collo e s’infilò un mezzo toscano tra i denti: era Peppone.
La prima scena fu girata nel piccolo campo sportivo di Brescello ed era quella nella quale Peppone, finito da
pochi istanti il primo tempo della partita di calcio tra la Gagliarda, la squadra di Don Camillo e la Dinamo,
squadra dei rossi, doveva correre verso gli spogliatoi, gridare “Fascisti” ai suoi giocatori che perdevano per uno a
zero, afferrare per il collo lo Smilzo e urlargli: “Tu, sporco traditore! Ricordati che quando eravamo in montagna
ti ho salvato tre volte la pelle. Se entro i primi cinque minuti non segni, io questa volta te la faccio, la pelle!.”
Il primo ciak
C’era tutto Brescello ad assistere. Al primo ciak Peppone non partì. Partì però come una schioppettata al quarto
ciak e si trovò col naso incollato all’obbiettivo.
“On répète” disse Duvivier impassibile dalla sua seggiola. E gli fece ripetere la scena per cinque ore. A un certo
punto, Guareschi gettò il cappello a terra e si mise a calpestarlo furibondo.
Andò a chiudersi in casa di don Alberici. Il giorno dopo Duvivier gli fece ripetere per altre quattordici volte la
scena.
“Dai Zvanén, sei più bravo di Tyrone!” lo incitavano le comparse.
“Magnifique! C’est magnifique!” tentava di tenerlo su di morale Fernandel e, ogni volta che Guareschi si
preparava a ricominciare, fingeva di essere il secondo che sul ring massaggia e rincuora un pugile pestato. L’altro
partiva, camminava, incespicava. Rifare. Alla quindicesima ripresa, Guareschi crollò coi piedi doloranti e pieni di
vesciche. Per qualche giorno dovette farsi pediluvi in una bacinella e starsene con una caviglia fasciata. Poi
Duvivier lo chiamò e, senza un solo commento, si limitò a fargli vedere gli spezzoni che aveva girato. Guareschi
deglutì piò volte e gettò la spugna. No, riconobbe, sullo schermo non era granché simpatico. Per la prima volta la
faccia grinzosa e bianca come la farina di Duvivier gli dedicò un rapidissimo sorriso.
27 – Gli attivisti del Pci boicottano le riprese del Don Camillo
Per la parte di Peppone il regista Duvivier scelse l’attore emiliano più conosciuto in quell’epoca, Gino Cervi.
Bolognese. Bisognoso d’un buon paio di baffi che abitualmente non portava. Ma, a parte questo, con le carte in
regola per impersonare in tutto il sindaco comunista di Guareschi. Cervi, figlio d’un critico teatrale del “Resto del
Carlino”, nella vita privata era piuttosto scorbutico. Ma sulle scene trasfigurava in un innato alone di simpatia e
comunicativa. Era stringato. Asciutto. Di recitazione modernissima e antiromantica. Era nello stesso tempo anche
il vicino della porta accanto. Lo zio bonario arruffone. Un uomo scaturito dalla terra, alla buona. Un uomo dal
gran petto pieno d’impeto e speranza. Non poteva certo far fatica a interpretare il capo comunista che di Marx
non mastica molto e che vuol credere non nella Russia, ma nella “sua” Russia. Che è comunista, ma nel Primo
Novecento sarebbe stato socialista alla Faraboli, di quelli cioè che ce l’hanno su coi preti, ma fan tanto di cappello
davanti a Dio. E prima ancora sarebbe stato carbonaro o ghibellino, ma con una gran paura dell’Inferno. Più che
altro con una gran paura di perdere la propria dignità.
Sciopero sul set
Quando Duvivier lo chiamò a sostituire Guareschi sul set, Cervi aveva cinquant’anni, sette più di Guareschi.
Avrebbe preferito alla parte di Peppone quella di Don Camillo.
“Mi truccate con i baffi, ma senza baffi chi più di me può avere una faccia da prete?” protestò.
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Riuscì a regalarsi un aspetto clericale quattro anni dopo, interpretando un magistrale Cardinale Lambertini.
Ma nel frattempo aveva del tutto sfondato il tetto della sua popolarità teatrale interpretando a Milano il Cyrano di
Bergerac. Il pubblico milanese decretò infatti in un referendum che il Cyrano di Cervi era stato il miglior
spettacolo degli ultimi dieci anni.
Gino Cervi, per tutta la vita, dal ’51 in poi, fu un amico-nemico fedelissimo di Fernandel - don Camillo. Tanto che
nel ’71 Fernandel morì e Cervi rifiutò di portare a termine con una controfigura dello scomparso il sesto film
della serie che stavano finendo di girare insieme.
“Morto questo mio Don Camillo, muore anche questo mio Peppone – disse – ne vengan altri. Io, adesso, anche se
in quanto Cervi sono ancora fisicamente vivo, come Peppone sono morto quanto Fernandel e quanto Guareschi”.
E Guareschi era infatti morto tre anni prima di Fernandel.
Cervi se ne andò a sua volta nel ’74.
L’Italia della politica postsessantotto rifiutò di salutarlo come Peppone, dato che Guareschi era allora stato messo
all’indice dalle sinistre, e lo licenziò come Maigret. Ma il mondo lo salutò soprattutto come Peppone.
Guareschi riconobbe che Cervi, sì, nella vita somigliava davvero a Stalin, con quegli occhi a barchetta e i modi
compassati da signorotto in dacia. Ma quando si piantava davanti alla macchina da presa, Peppone era lui, non
c’eran santi. A Guareschi non spiacque d’avergli ceduto il posto in pellicola.
Recuperando l’uso dei piedi, dopo le scarpinate fatte tentando d’impersonare egli stesso Peppone, Guareschi
trovò subito altro da fare. Quando ai primi di settembre la compagnia Duvivier era trionfante entrata in Brescello
con autocarri, riflettori, squadre di carpentieri, attori, sui muri comparve un ennesimo manifesto che dava il
benvenuto a tutta la troupe. I responsabili della produzione avevan subito reclutato centinaia di comparse tra la
popolazione che accettò in massa. In definitiva si trattava di un lavoro divertente e, per di più, ben pagato. Per
molti, un insperato sussidio alla disoccupazione.
Tutto filò per il meglio fino a che giunsero in paese un laureando in storia e filosofia alla testa d’una squadra
d’attivisti della federazione Pci di Reggio Emilia. Cupi, offesi chissà da che, radunarono tutto il popolo di
Brescello nel teatro comunale e tennero un comizio definendo “libello” il volume su Don Camillo e nemici del
popolo lavoratore il regista, gli attori e chiunque, anche solo come comparsa, avesse lavorato nel film.
Non ottennero però un gran successo tra la gente di Brescello che, fino a quel momento, aveva creduto di non far
proprio niente di male nell’aiutare quelli del Don Camillo.
Gli attivisti allora tappezzarono i muri del paese con manifesti perentori che, con più o meno velate minacce,
invitavano le comparse a boicottare la lavorazione del film. Gli agit prop lavorarono sodo di propaganda e, un
mattino, le comparse non si presentarono sul set e si dichiararono in sciopero.
Guerra aperta.
Proprio nei giorni in cui si installarono a Brescello Duvivier con tutta la banda del Don Camillo, smontava dalla
carica di sindaco dell’amministrazione socialcomunista la signora Leda Bacchi Palazzi. Donna facile al pianto,
rapidissima a schivar polemiche, onestissima persona. Tutto sommato, per Brescello era andata benissimo. Ciò
perché il paese sembrava fatto a sua misura. Una borgata di gente intelligente che, qualunque fosse l’attrito tra le
fazioni, alla fine trovava sempre un modo per prendere sottobraccio gli avversari e portarseli davanti a Lambrusco
e Spongata, il dolce di Brescello famoso nel mondo, miele, noci, mandorle, uvetta passita, anzi passolita, farina di
frumento, spezie, aromi.
Mondo comodo
Se vai per Brescello a chiedere che cos’è stata per loro la guerra partigiana, allargano le braccia. Ne san solo per
sentito dire. Quel che ricordano della guerra, la seconda, è un gran freddo, la molta fame, il Fosso dove la gente
del paese doveva ogni mattina andare a scavar fossi anticarro in cambio di cinque sigarette, dieci lire e una stecca
di cioccolata. E, poiché ogni 300 scavatori c’era un solo tedesco di guardia ed era impegnato soprattutto a
sorvegliare che non gli sparisse qualcosa di dosso, immancabilmente accadeva che, dopo aver dato qualche colpo
di piccone proforma, a turni prestabiliti la maggioranza della Leva civile s’imboscava nel caldo delle stalle e
passava la giornata a giocarsi a carte le sigarette della razione.
Brescello è un paese così. Vanta uno dei fascismi più fiacchi d’Italia. Accadeva qualche volta che i caporioni fascisti
del paese, per compiacere i gerarchi zelanti di città, formassero squadracce vocianti per dal la caccia a qualche
sovversivo e metterlo senza troppe storie al muro. Ma, almeno 24 ore prima, avevano cura d’avvertire i ricercati
si che potessero nascondersi in tutta tranquillità. E, per essere sicuri che i biechi sovversivi si nascondessero bene e
no capitasse di trovarseli tra i piedi durante il rastrellamento, erano essi stessi a ospitarli in casa o a mandarli in
vacanza per qualche giorno dai parenti più neri che avevano, quelli che nessuno avrebbe sospettato capaci di
fornire asilo a oppositori del regime.
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28 – Interviene Giovannino, sospeso lo sciopero sul set di Don Camillo
E dunque, dicevamo, il fascismo a Brescello era stato nel Ventennio così tollerante che, quando le cose si
rovesciarono, le cortesie furono ricambiate. Accadde, ad esempio, che la moglie d’un noto capo fascista per
settimane continuò a far la spola tra autorità del paese e di città piangendo la drammatica scomparsa del marito,
rapito in un’azione che pareva avere il marchio della terribile Volante rossa.
Invece il marito era nascosto, e ben nutrito, in casa del suo fornaio, che era da sempre un gran comunista.
Nel ’51, dunque, quando i comunisti venuti dalla città ordinarono ai compagni di Brescello di boicottare il set del
reazionario Don Camillo, era appena scesa dallo scalone del municipio Leda Bacchi Palazzi, la dolce signora che era
stata sindaco negli anni ruggenti e al suo posto saliva in podio Afro Bettati. Afro era partito militare nel ’39 per
Zara. Poi, dopo il solito 8 settembre, era stato spedito in un lager nazista. Idee, o non idee, ciò era già un buon
motivo per gemellarsi con Guareschi che di lager ne aveva fatto tanto quanto lui.
Afro il colono
Ultimo tra gli ultimi infatti, Afro era tornato a casa nel ’46 e, poiché aveva una mente a larghi orizzonti e non
sentiva alcuna vocazione per la miseria del dopoguerra, raggiunse uni zio ricco a Moustagemen in Algeria, nei
dintorni di Orano. Lo zio, solo al mondo, lo aveva allettato con una lamentosa lettera nella quale, piangendo la
sua solitudine di ricco sfondato, gli proponeva di andare a fare il ricco sfondato con lui. Ma a Moustagemen Afro,
invece di un tenero zio, incontrò un durissimo colono che, per la regola che le ricchezze s’accumulano sudando, lo
spedì in un quartiere nel deserto in condizioni che Afro definì abominevoli. Non si stupì nessuno quindi se,
rientrato in paese con la coda tra le gambe, ebbe parole assai severe contro lo sfruttamento dei padroni. Gli capitò
di menzionare qualche volta un certo O Ci Min del quale aveva udito parlare in Algeria e, con tale lasciapassare, i
socialcomunisti ritennero che Afro fosse idoneo a entrare nella lista frontista. Il listone vinse e all’elezione del
sindaco, poiché tutti rifiutarono per altri impegni si giunse per eliminazione ad Afro Bettati che era tutto meno
che un politico. Quindi fu un buon sindaco. Tollerante e intelligente.
Cinema Italia
Tutto ciò spiega perché il primo s stupirsi della crociata anti Don Camillo scatenata a Brescello dai comunisti venuti
dalla città fu proprio il sindaco Bettati che, letti e riletti riga per riga i racconti di Guareschi ed essendosi divertito
come un pazzo, una sera, tanto per continuare nelle tradizioni pseudopolitiche di Brescello, s’intabarrò e andò a
mettersi d’accordo con un esponente della minoranza democristiana.
“Quelli di Reggio Emilia – disse Afro – intorbidano le acque. Bisogna far smettere lo sciopero, far tornare le
comparse al lavoro”.
“Ben detto – rispose l’altro – infischiamocene di quelli di Reggio Emilia e lasciamo che il cinema porti fama e
lavoro a Brescello. I miei son con te”.
“Si, ma io, oltre che sindaco, devo anche fare l’animale politico. Ho pensato di farli sfidare da Guareschi in un
dibattito pubblico. Né possono rifiutare. Hanno gettato il sasso. Noi lasceremo che nascondano la mano. Se i tuoi
son con me, i miei son con i tuoi”.
Il regista Duvivier, che non era un eroe, per calmare le acque aveva fatto affiggere piagnucolosi manifesti nei
quali dissociava le proprie responsabilità da quelle di Guareschi dicendo che qualsiasi potessero essere le segrete
intenzioni dell’autore del Don Camillo i suoi unici intenti erano di girare un film umoristico.
Guareschi, dopo aver confabulato con Afro Bettati, coprì quei manifesti con altri nei quali sfidava a un pubblico
contraddittorio lo studente venuto da Reggio Emilia e il suo codazzo d’attivisti.
Il contraddittorio avvenne su una pedana allestita sotto lo schermo del cinema Italia. Locale zeppo di gente e
altra, più numerosa, riempiva le vie adiacenti. Lo studente si destreggiò bene. Sfoderò una logica che , in parte,
riusciva a nascondere le retoriche di partito. Guareschi accettò la schermaglia fino a quando zittì di colpo e fissò
l’avversario. Gli chiese di dirgli in tutta coscienza se avesse mai letto Don Camillo. Nella sala la gente trattenne il
respiro. “No” rispose lo studente, in tutta coscienza.
A questo punto Guareschi poté proporre una partita a briscola che quella ormai era finita.
Una pistola a tamburo
Il giorno dopo le comparse tornarono tutte sul set. Quelli di Reggio Emilia però non si dettero per vinti. Con un
altro manifesto, sfidarono Guareschi ad accettare un nuovo dibattito al teatro municipale di Reggio Emilia. Lo
sfidante questa volta era l’avvocato Renzo Bonazzi, che fu anche sindaco del capoluogo e poi senatore del Partito
comunista
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“Attento, signor Guareschi – ammonì Don Alberici – io quelli di Reggio Emilia li conosco bene. Tutta
bravissima gente. Ma quanto c’è di mezzo la politica, là non è come a Brescello, s’accendono come zolfanelli. Tra i
tanti può anche saltar fuori il violento che le spacca la testa a legnate”.
Così Guareschi, facendo finta di nulla, avvolse una pistola a tamburo in vecchi stracci, la nascose sotto il serbatoio
del Guzzino 65 e partì per Reggio Emilia trionfalmente seguito dal pullman dei sostenitori di Brescello.
Si calcolò che quella sera, ad aspettarlo, presenti fuori e dentro il teatro municipale ci fossero almeno settemila
persone. Chi non trovò posto in teatro, poté seguire il dibattito dagli altoparlanti messi a ogni angolo della piazza.
29 – La critica ignora Don Camillo, ma il film diventa campione d’incassi
“M’han detto che ieri sera il pubblico era tutto per lei. Che perfino i comunisti reggiani, muti e cupi fino a metà
discussione, si sono poi spellati le mani per applaudirla” disse a pranzo don Alberici a Guareschi riferendosi al
gran dibattito che c’era stato a Reggio Emilia la sera prima con i comunisti che volevano bloccare la lavorazione
del primo fil su don Camillo.
Un silenzio, poi, “Credevo che sarebbe rimasto a dormire a Reggio Emilia. Invece l’ho sentita rientrare poco
prima dell’alba” continuò don Alberici. Guareschi arrossì. Era accaduto che, , finito il dibattito e mentre i
giornalisti presenti per prudenza dato il clima acceso uscivano dal corridoio sotto il palcoscenico, lui aveva trovato
il coraggio di uscire in mezzo al pubblico. Attraversa la platea e poi la piazza tra due ali di folla stringendo mani.
Pacche sulle spalle che non sa se sono tutte amichevoli. Siede al bar dell’albergo che deve ospitarlo a discutere con
la gente. Ma intanto nota una ventina di ceffi con negli occhi odio e tante brutte promesse. Allora, ad alta voce,
chiede all’albergatore di preparargli una stanza perché è stanchissimo e vuol dormire almeno fino a mezzogiorno.
I ceffi si fan più vicini. Salito in camera, vede dalla finestra che la piazza si è svuotata di colpo e tutto attorno è
sceso un silenzio da far racapponare la pelle. Allora lascia la luce accesa e, da una porta sul retro, raggiunto il suo
Guzzino 65 lo mette in moto spingendolo di corsa. Scalpiccio alle spalle, un brusio soffocato e rabbioso, pare
stiano per raggiungerlo. Per tornare a Brescello taglia poi per carraie su e giù per argini sicuri tutta la notte.
“E si riavvii i capelli, pare che si sia pettinato con un gatto idrofobo” gli sorride all’alba don Alberici
Brescello ospitò a intervalli regolari la compagnia del don Camillo per altri vent’anni. Fino a quel giorno del ’71
in cui Fernandel, mentre girava una delle ultime scene del sesto film, Don Camillo e i giovani d’oggi, s’abbatté in
chiesa ai piedi del suo Cristo mentre gli stava parlando e fu portato via morente, con la faccia che pareva pitturata
con la biacca. Fernandel portò con sé nella tomba non solo don Camillo, ma anche Peppone. Gino Cervi non se la
sentì di continuare le riprese senza di lui e il film fu interrotto quando mancavano solo una ventina di scene alla
fine. E non si riesce a sapere dove sia finita la pellicola. C’è chi la dice distrutta. Immaginate se non lo fosse che
gran successo anche a metterla in circolazione monca.
Don Camillo superstar
Nel ’51 era da poco terminata la lavorazione del primo film quando il grande fiume spaccò a testate gli argini e
allagò campi e paesi della Bassa giungendo come un ariete anche alle soglie della chiesa di Brescello. Allora
accadde che da migliaia di lettori stranieri giungessero pacchi di viveri, indumenti, coperte, denaro. Sempre con
lo stesso indirizzo: alla gente di don Camillo e Peppone. “E allora – scrisse – Guareschi nella prefazione del
secondo volume, Don Camillo e il suo gregge – io mi sono commosso come se, invece di essere un cretino qualsiasi,
fossi un cretino importante”. Il primo film fu proiettato nel ’52. In tutte le città d’Italia la gente fece la coda per
settimane per vederlo e rivederlo. In pochi giorni fu proiettato in 2.700 sale e incassò più d’un miliardo e mezzo
polverizzando qualsiasi record precedente. E così accadde all’estero. Soprattutto in Francia, Germania,
Inghilterra, Stati Uniti e poi un po’ ovunque. Nel mondo vi furono cinematografi che proiettarono il film per 300
giorni consecutivi
In Italia la critica cinematografica d’allora tentò invano di ignorarlo. A rompere tra i primi il silenzio fu il critico
dell’Unità, Ugo Casiraghi, che dopo aver assistito alla prima al Capitol di Milano tornò a spron battuto in
redazione e sfogò il malumore scrivendo un articolo nel quale il libro era definito un pastone pseudo-umoristico e
il film un modesto aborto. Riservò una distinzione per il regista che, scrisse, era pur sempre Duvivier. “Duvivier
non è provinciale come il signor Guareschi tant’è vero che non l’ha neppur voluto tra i piedi come collaboratore
nella sceneggiatura. Ha capito che fare dell’anticomunismo sullo schermo è pericoloso. E tanto di più farlo
secondo gli schemi grossolani del Candido, che su questa strada è già andato in malora”. Casiraghi si sbagliava: il
primo film su don Camillo è stato l’unico nel quale la fedeltà ai racconti scritti da Guareschi fu almeno in parte
rispettata.
Nel ’53 uscì, e fu un trionfo anche maggiore, il secondo film Il ritorno di don Camillo. Le riprese furono girate con
tecniche più raffinate e con più mezzi. Duvivier ricorse a trucchi efficaci. A volte assai curiosi. A Brescello
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ricordano come la grande alluvione del ’51 fu riportata sullo schermo gettando immensi teloni impermeabili
nella piazza davanti alla chiesa e innaffiandoli d’acqua per dare il senso del dilagare del Po tra i paesi. Oppure
mettendo l’obiettivo rasente al pelo dell’acqua d’una bacinella posta tra cinepresa e altare in modo che don
Camillo, rimasto volontariamente nel paese allagato, poteva davvero recitare la Messa con l’acqua che gli arrivava
in vita.
La “Lollobrigida”
Il ritorno di don Camillo incassò molto più del primo film. Ma la sceneggiatura questa volta fu molto meno rispettata
da Duvivier che aveva subito intimidazioni politiche dalla critica di sinistra francese e italiana e che, a volte
ottenendo il risultato opposto, rozzamente tentò di smussare certe punte che gli parevano pericolose sul piano
ideologico. L’equilibrata bilancia ideata da Guareschi, il Cristo come fulcro, don Camillo in bilico a destra e
Peppone in bilico a sinistra, ne risentì. Quando fu invitato in Francia nel ’53 per il Gala del Ritorno di don Camillo,
Guareschi, offeso, accettò solo perché Albertino moriva dalla voglia di vedere la Torre Eiffel e quella era
un’occasione per mostrargliela.
Il cinema non fece di lui il nababbo di cui scrissero i giornali. Dopo il primo film l’editore Rizzoli, consapevole
d’avergli gettato solo una briciola, un giorno gli regalò una lunga macchina americana, di quelle decappottabili e
con le lunghe pinne. Guareschi la guidò solo quel giorno. La macchina era rossa. Aveva parafanghi in avanti
bombati e aggressivi, tanto che la soprannominò la Lollobrigida. Ma si vergognava come un ladro, diceva, ad
andare in giro per la Bassa su quella vistosaggine. Restò ferma. Finché sul motore ci mise gli occhi Scazzina di
Polesine, per un suo motoscafo e la carrozzeria, si dice, divenne un furgoncino per il trasporto del latte.
30 – Nella casa nuova di Giovannino c’è una stanza della neve
Il terzo film Don Camillo e l’onorevole Peppone fu proiettato nel ’56, quando Guareschi era uscito da pochi mesi dal
carcere di Parma dove aveva scontato 400 giorni per la brutta questione De Gasperi. La sceneggiatura l’aveva
scritta in cella, raccomandandosi che fosse rispettata. Invece, anche questa volta e sotto la regia di Carmine
Gallone, essa fu stravolta. Guareschi ne soffrì come un cane. Delle cifre da capogiro incassate dal film gli era stato
dato ben poco. Ma non si lamentava per i compensi, ben consapevole che il colpevole per primo era lui, gli affari
non li sapeva fare.
Era invece furente per l’abisso che s’allargava tra i racconti pubblicati nella serie Mondo piccolo e le pellicole. Tra le
due versioni restava un solo punto di contatto, Fernandel e Cervi entrati talmente nei personaggi da comunicare
con occhi e gesti ciò che il regista lasciava dire con le parole.
Il quarto film Don Camillo monsignore ma non troppo, uscì nel ’60 e, solo in Italia, nelle prime due settimane incassò
più di un miliardo di allora. Fu il più debole e Guareschi perse il lume della ragione e troncò i rapporti con
l’editore Rizzoli.
Ritorno alla Bassa
Angelo Rizzoli, che pure aveva una colpa assai indiretta poiché il regista sul set è come il capitano su una nave e
l’armatore ha ben poca voce in capitolo, comprese. Il quinto film uscì nel ’65 era Il compagno don Camillo e incassò
anche più degli altri, Guareschi dovette scrivere ben cinque versioni della sceneggiatura col risultato di veder
disattesa anche l’ultima. Ma ormai Guareschi era stanco, ammalato, troppo solo per poter reagire come avrebbe
voluto al nuovo tradimento.
All’estero la critica cinematografica impazzì per i Don Camillo. Fernandel e Cervi divennero simboli di un’epoca. Il
primo film su Don Camillo al Festival Cinematografico di Berlino ebbe un premio speciale dedicato all’opera di
Guareschi in favore della democrazia. In America enormi cartelloni con le figure del parroco e del suo antagonista
furono portati per tutti gli Stati a bordo di grossi autocarri. Altri cartelloni furono disposti a schiera sulle maggiori
autostrade . In Germania, Inghilterra, Svizzera, Francia, Spagna, si moltiplicarono le iniziative più curiose.
Ristoranti col nome di Don Camillo, marche di sigari, sigarette, liquori, prodotti alimentari e d’abbigliamento
dedicati ai personaggi del Mondo piccolo.
Ricominciò intenso il pellegrinaggio di inviati da ogni parte del mondo per intervistare Guareschi. Film e libri si
rincorrevano gli uni con gli altri, più aumentavano gli spettatori, più si moltiplicavano i lettori.
Ma continuava anche l’attività giornalistica di Guareschi e diveniva ogni giorno di più una dolorosa corona di
spine. Già nel ’49 i cattolici di certe correnti integraliste avevano incominciato a muovergli guerra. Guerra sorda.
Partendo da una rabbiosa querela fatta a Guareschi da un esponente dell’Azione cattolica , gli attacchi si
susseguirono con una violenza che dava dei punti ai più feroci corsivi scritti nel ’48 contro Guareschi dal Partito
comunista. Frattanto egli si preparava a non appoggiare più la Democrazia cristiana nelle elezioni del ’53 che
stavano avvicinandosi . Sarebbe stato , aveva deciso, al fianco solo di quegli uomini che non erano macchiati da
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peccati di clientelismo, di sopruso di potere, di nepotismo. Di corruzione. Quindi avrebbe appoggiato solo una
parte della Democrazia cristiana, l’altra già si perdeva per vie traverse.
“Appoggerai i monarchici, magari il comandante Lauro” gli chiedevano amici e nemici e Lauro, tra i monarchici
andava per la maggiore.
Guareschi alzava le spalle. Lauro gli era antipatico e l’aveva già scritto chiaro. Non aveva mai voluto conoscerlo. E
poi adesso aveva da pensare ad altro. Aveva comprato un fondo giù nella Bassa, era in collina.
La “collina” non era che un rialzo di 80 centimetri sul livello del mare a Roncole Verdi, paese natale di Giuseppe
Verdi. Ma nella Bassa, piatta come un biliardo e più sotto che sopra rispetto al mare, quel termine poteva anche
passare. Guareschi aveva trovato un fondo nel ’51, dopo aver passato mesi a scavalcare argini e fossati alla ricerca
d’un pezzo di terra su cui costruire una casa. Roncole Verdi, tre chilometri da Busseto, occupa un tratto di
pianura subito alle spalle di Fidenza, tra la via Emilia e il Po. A nebbie chete, dista circa un’ora di macchina da
Milano.
Forse, se non avesse dovuto lavorare a Milano, Guareschi avrebbe cercato il terreno più avanti, spingendosi nella
Bassa più profonda, verso le Fontanelle da dove più forte saliva il richiamo del sangue e dell’infanzia. Ma le
Fontanelle sono di altri 20 chilometri dietro Roncole Verdi e quanto nella Bassa cala la nebbia, ogni chilometro
vale per dieci.
Non appena il terreno fu suo, si mise al lavoro. Interrogò a lungo la signora Ennia e i figli per scoprire quali
fossero i loro più inconfessati desideri edilizi. Impugnò matita, tiralinee, riga, compasso. Disegnò la casa nei
minimi particolari. Quindi scelse uno per uno capomastro, muratori, idraulico, elettricisti, verniciatori, falegnami.
Stabilì lui qualità dei legni, tipo di mattoni, nervatura delle tegole, profondità delle cantine. Volle che la casa alla
fine fosse bianchissima. In stile messicano. Tutta intonaco. E volle travature in ottima rovere e inferriate verdi.
Tramonti e nebbie
Nel luglio ’53, lo andò a trovare a le Roncole Domenico Porzio che doveva scrivere un articolo per Oggi. Osservò
da ogni lato con attenzione la casa. Quindi squadrò da ogni lato Guareschi.
“Si, ti somiglia. Sia detto senza offesa né per il te né per la casa, ma proprio ti somiglia. Dimmi è vero che hai dato
il progetto al capomastro e il giorno dopo, lui è tornato e ti ha indicato un angolo del primo piano dove avevi
disegnato una stanza dimenticando di metter pareti e finestre?”.
Si, quella stanza doveva essere proprio così. Senza muri. Doveva servirgli per godere neve e pioggia. Gli era
sempre piaciuto fin da ragazzo godersi la neve e la pioggia all’aperto. Accoccolato in una nicchia. Magari stando
sotto un portone. Insomma all’asciutto, ma nello stesso tempo all’aperto con un fiocco che ogni tanto, sospinto dal
risucchio, gli si potesse posare in fronte. Quando l’aveva spiegato al capomastro, quello era sbiancato, ma aveva
obbedito: se è così, padrone voi, la stanza sarà senza pareti.
In più Guareschi aveva voluto che quella stanza guardasse a ponente. Era per via dei tramonti. Se uno può
goderseli, tanto valeva che se li godesse, no? Poi lui lavorava sempre a prora e sempre d’angolo, per scaramanzia.
E voleva tantissima luce che venisse avanti come un mare. Senza ostacoli. Doveva essere una reazione a tutto il
grigio che l’aveva oppresso nei lager. Forse un presentimento a tutto il buio che presto l’avrebbe oppresso nelle
galere italiane.
31 – Giovannino si arrabbia per un articolo pepato di Montanelli
Alle Roncole, nella nuova casa che aveva costruita nella Bassa, Guareschi non voleva giungessero nemmeno i
giornali. Il suo paradiso doveva restare intatto. Né voleva lavorare come giornalista, disegnatore, scrittore. Là era
il signor Guareschi, artigiano per se stesso. Quando doveva ritornare a lavorare per il giornale, preferiva correre a
Milano. Accadeva il sabato: andava a chiudersi nel vecchio studio della casa di via Righi e si buttava a testa bassa
sul lavoro fino a quando poteva chiudere l’ultima edizione del giornale, il martedì sera. Allora, stanco morto,
s’alzava sulla sua decappottabile e ripartiva per le Roncole. Guidando a scatti. Gli occhi spiritati. I baffi tremendi.
Uno Charlot dei primi cortometraggi. Rallentava solo quand’era in vista di Busseto, che subito dopo c’erano le
Roncole.
Nino il contadino
Non si fermò solo alla casa e al fondo in “collina”. Ogni volta che riceveva denaro dai diritti d’autore, veniva
accolto dall’ansia fino a che non gli riusciva di spenderlo tutto per acquistare un podere di terra. Andò a cercarne
anche verso le Fontanelle. La formula che nel ’29 aveva portato suo padre alla completa rovina, divenne la sua:
smantellare per ricostruire.
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Anche de la quota 90 era lontana, non ne uscì proprio rovinato, ma certo si impoverì. Cominciò col voler
costruire stalle solari. Con tanta luce dentro. Dava salute e appetito alle mucche, alzava il morale dei contadini. Al
posto dei vetri mise cristalli e i contadini non sapevano come diavolo fare a non spaccarli entrando con le zappe in
spalla.
Nelle case coloniche che acquistava, per prima cosa rialzava il pavimento per isolarlo dall’umidità e sottrarlo agli
insetti striscianti. Il portico che era a sud lo rifaceva a nord per offrire l’estate un riparo dal troppo sole. Separò le
abitazioni dalle stalle infrangendo quella norma che voleva che dalla cucina una porta immettesse subito tra le
bestie.
E continuò di questo passo tra la meraviglia dei fittavoli che da secoli, come era atroce costume, erano lasciati dai
padroni dei fondi a vivere senza i più elementari conforti. Introdusse nelle case acqua corrente ed elettricità. Poi
prese il coraggio a due mani e introdusse la più sconvolgente delle innovazioni: il water. La cosa funzionò e il
successo gli diede alla testa: passò a installare in ogni casa vasche da bagno complete di doccia. Poi gli accadde,
dissero in seguito le pittoresche leggende che ne nacquero, di trovar le vasche da bagno occupate da nidiate di
paperi o da piante di limone. Ma si affidò alle sue doti d’eccellente parlatore e alla fine la spuntò.
Ma andò oltre ogni osare: piastrellò tutti i pavimenti delle stanze belle con mosaici di marmo. Ci scherzava, adesso
la moglie passava a cera il pavimento ogni giorno e obbligava il marito a camminarvi sopra con i sottopiedi di
feltro, la prova che un pavimento poteva bastare a far d’un proletario un borghese. Con Pirén, il suo capomastro,
stipulò un curioso contratto: stabilì una certa cifra per i lavori, che fossero fatti a regola d’arte, e tutto ciò che
veniva risparmiato alla fine era diviso tra i muratori senza tornargli nelle tasche. Solo lui potrebbe dire se
funzionò,. Adagio e in punta di piedi, scendeva cauto nel cuore della sua gente, un cuore che il più delle volte
batteva per una bandiera rossa come il fuoco, ma nella Bassa egualmente era rispettato come un re.
La meccanica, altra sua Musa, comparve presto. Scelse con pignoleria trattori e macchine agricole. Voleva attrezzi
adatti a piccoli poderi, maneggevoli, costruiti in modo che non affondassero nei terreni umidi. Quando non li
trovava sul mercato, se li progettava da solo.
Cronaca toscana
Indro Montanelli fabbricò un incontro con lui alle Roncole e gli dedicò un lungo articolo che fu poi inserito nel
volume Gli incontri e che trasformò poi nel ’57 in una trasmissione televisiva. “Tu – gli rimarcò Guareschi in quella
trasmissione – gli incontri li fai molto meglio quando non incontri la persona che devi incontrare”. Comunque
lesse e rilesse l’articolo dell’incontro fabbricato, era il più sconcertante tra quelli che gli avevano dedicato. Vi trovò
stoccate che lo infuriarono. Ispezioni sul suo carattere che gli svelarono lati che egli stesso non aveva ben chiarito
e che, comunque, non erano così. E c’era anche l’accenno di qualche carezza che lo infuriò ancora di più, perché
gli parvero tutte contropelo. Del resto lo stesso Montanelli parlando di Guareschi mi ha detto più volte “non
s’andava d’accordo nemmeno a tavola. Io, toscano tutt’olio. Lui, emiliano tutto burro”. Ma ecco quel che ha scritto
di lui con toni forse volutamente simili agli enfatici cinegiornali dell’anteguerra: “A Busseto Stalin è Guareschi,
che d’altronde gli assomiglia. Perché a Busseto Guareschi è tutto: il re per i monarchici, il papa per i preti, Stalin
per i comunisti. Giovannino è l’unico profeta in patria che registri la nostra storia nazionale, la quale non registra
che profeti ingrati. Egli dirime i litigi tra Peppone e Don Camillo, amministra la giustizia sotto l’albero di fico,
cammina seguito da un codazzo di gente in cui c’è tutto: comunisti e conservatori, ricchi e poveri, miscredenti e
baciapile… Ora eccoci di fronte alla reggia di Sua maestà, il Re della Bassa, illuminata che sembra il Vesuvio in
eruzione nonostante l’ora di pieno meriggio, col monarca in persona sulla soglia del portico che, con un aratro in
mano, sembra in posa per farsi monumentare da uno scultore del tempo littorio. Oltre i vetri della finestra, si
vede Margherita intenta ad arrotolare col mattarello le fettuccine del pantagruelico pranzo che ci spetta, mentre
la porta aperta del garage, adesso che un muratore vero l'ha rifatta, lascia intravedere le tre automobili, le tre
motociclette e le quattro biciclette che Guareschi, da buon emiliano innamorato di tecnica e meccanica, si gloria.
Irraggia gioia e buonumore Giovannino, il quale non sa esser felice che nella sua terra, in mezzo a quella sua
gente e a quelle sue cose fatte in casa.
Tutte fatte in casa, qui, esclama con orgoglio, un orgoglio certo più grande di quello che gli ispira il fenomenale
successo di Don Camillo e l’incondizionato plauso che la critica di tutto il mondo, meno quella italiana, s’intende,
tributato al suo talento e più ancora al suo temperamento di scrittore in un’età in cui di talento c’è ne poco e di
temperamento punto. Tutto è fatto in casa, ragazzi, con le mie mani, muri, mobili, impianto elettrico, fornelli,
sedie. Accomodatevi, accomodatevi… Mimmo Carraro e io, smilzi e leggeri , eseguiamo, ma quando è il turno di
Andrea Rizzoli che è un po’ più pesante, non so come di colpo lo vediamo ruzzolare per terra in un groviglio di
assi, chiodi, viti. Giovannino lo guarda mortificato, ma nemmeno per un momento lo sfiora la tentazione di
porgere aiuto al suo editore. Il problema che lo angoscia in questo istante è, lo si vede benissimo, solo quello di
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sviscerare la ragione tecnica che ha provocato la catastrofe di quel pezzo di mobilia fatto in casa. E ne rigira tra
le mani i resti con l’espressione avvilita del bambino che si vede andare in pezzi un balocco ritenuto infrangibile”.
32 – Giovannino condannato per la vignetta sul Nebbiolo di Einaudi
Luigi Einaudi, liberale, da ministro del Bilancio nel quarto governo De Gasperi riuscì con misure eccezionali, da
eccezionale economista qual era, a far abbassare il costo della vita in Italia prima del 10 e poi del 13 per cento.
Cosa che se accadesse adesso farebbe gridare al miracolo anche gli atei.
Luigi Einaudi abitava a Roma nel quartiere Appio, in una casa della cooperativa dei funzionari della Banca
d’Italia, e fu là che l’11 maggio ’48 gli portarono la notizia della sua elezione a primo presidente della Repubblica
italiana. “La voce del Parlamento è voce del popolo. La voce del popolo è voce di Dio. Che Dio mi perdoni il
coraggio d’accettare questa funzione piena di responsabilità” disse ai latori della notizia.
A Guareschi la figura morale, tecnica e politica di Einaudi piaceva. Lo Stato, Dio, il Popolo che Einaudi chiamava
in causa con deferenza, quasi alla maniera della maestra Maghenzani, erano garanzie sufficienti. Inoltre Luigi
Einaudi si era battuto con tutte le sue risorse avversando il protezionismo industriale e agrario, ogni forma di
privilegio, chiedendo, e sovente ottenendo, la moralizzazione della vita parlamentare e amministrativa. Sotto di lui
le tangenti non crebbero.
Le bottiglie del Presidente
Ma un giorno Guareschi incontrò una bottiglia di Nebbiolo che proveniva dai vigneti di Einaudi a Dogliani, in
Piemonte, e ne lesse l’etichetta nella quale sotto la scritta Nebbiolo s’aggiungeva “Poderi Senatore Luigi Einaudi in
Dogliani”. Implicito il suggerimento che quello era il vino del Presidente della Repubblica dato che a ricoprirne la
carica era notoriamente proprio il Senatore Luigi Einaudi.
Gli si arruffarono i baffi. Che presidente era un presidente che approfittava della sua carica per vendere i propri
vini, per pubblicizzarli come un piazzista? E se per caso l’idea fosse stata di un suo fattore o d’un suo famiglio,
poco importava, doveva distruggere le etichette, non autorizzarle. Se il primo cittadino della Repubblica si
permetteva questi arbitri, che poteva essere concesso all’ultimo?
Guareschi era sempre attento a che nella nostra democrazia nascente non si seminassero semi di malapianta.
Così il 14 maggio del ’50, Guareschi s’occupò sul Candido per la prima volta del Nebbiolo di Einaudi riproducendo
l’etichetta nella rubrica Il giro d’Italia col motto “Brindate Einaudi!” e con un sogghigno disse di farlo andando
contro le sue convinzioni personali essendo egli un partigiano del Lambrusco.
Una settimana dopo lo stesso motto “Brindate Einaudi!” campeggiava in una vignetta pubblicata in terza pagina.
Fece una tregua per vedere se l’etichetta fosse stata giustiziata e tolta dalla circolazione. Ma attese invano e allora,
a metà giugno, lanciò all’attacco vari collaboratori del Candido.
Fu proposto un Ordine del Gran Cavatappi. La bottiglia di Nebbiolo fu montata come un cannone sopra un carro
armato. Infine Carletto Manzoni consegnò a Guareschi una vignetta dove le bottiglie di Nebbiolo erano state
trasformate in corazzieri che facevano ala a un omino che nella caricatura era alto un centimetro e le passava in
rassegna appoggiandosi a un bastone. Einaudi, lo sapevano tutti, era claudicante.
Guareschi apprezzò la vignetta e la pubblicò intitolandola Al Quirinale. Subito dopo la pubblicazione due deputati
presentarono un’interrogazione alla Camera parlando di offesa al prestigio del Capo dello Stato. Sul Candido
puntualmente comparve la vignetta di due “repubblicani rispettosi” che si levavano il cappello passando di fronte
alla pubblicità stradale del Nebbiolo fatta con il solito motto “Brindate Einaudi!”.
A metà luglio il Procuratore di Milano, su autorizzazione del ministero, ordinò la citazione per direttissima di
Guareschi quale direttore responsabile del Candido e di Manzoni quale autore della vignetta delle bottiglie vestite
da corazzieri. L’accusa era di “aver offeso in Milano l’onore e il prestigio del Presidente della Repubblica italiana”.
Da allora l’argomento fu ripreso in ogni numero di Candido. L’omino coi baffi sdraiato nella testata fu disegnato in
piedi con atteggiamento dimesso e in catene tra due bottiglie di Nebbiolo adorne della lucerna dei carabinieri.
Quindi fu messo al muro mentre moschetti e cannoni, che eran sempre bottiglie di Nebbiolo, gli sparavano
contro. Alla fine di settembre , l’omino aveva sul capo la “Bottiglia di Damocle” ed Einaudi era seduto a un tavolo
presidenziale che aveva per gambe quattro bottiglie di Nebbiolo.
Assolto e condannato
Il processo, fissato sulle prime per fine agosto, era stato rinviato all’inizio di dicembre. E piovvero altre vignette:
Carletto Manzoni disegnò un ometto che si rivolgeva a un’Italia sdraiata su un divano con una bottiglia in mano e
addosso tante piccole falci e martello: “La smetta di bere e si tolga i parassiti”. A novembre mezza bottiglia di
Nebbiolo Einaudi comparve accanto ai mezzibusti di Vittorio Emanuele II, Umberto I, Vittorio Emanuele III, con
la scritta: “La storia continua!”. Nell’ultimo numero di Candido, subito prima che si celebrasse il processo,
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Guareschi e Manzoni si fecero profeticamente fotografare tra bottiglie dei vigneti presidenziali messe come
sbarre di una cella.
Del caso del Nebbiolo, essendo il primo processo celebrato in Italia per oltraggio al Presidente della Repubblica, si
occuparono tutti i giornali nazionali e molti all’estero. Personaggi della politica e semplici cittadini tempestarono
d’interventi e lettere le redazioni. Alcuni fecero notare che perfino i ministeri fascisti avevan sempre negato ai
tribunali l’autorizzazione a procedere per imputazione di oltraggio al monarca, il che non deponeva certo a favore
della prudenza e del buonsenso del nuovo regime che voleva dirsi democratico.
Guareschi e Manzoni furono assolti con formula piena perché il fatto non costituiva reato. Ma la cosa non finì lì. Il
Procuratore generale non digerì la sentenza e ricorse subito in corte d’Appello.
Accusa invariata: oltraggio al prestigio e all’onore del Presidente della Repubblica. Il nuovo processo fu celebrato
il 10 aprile ’51. Il Procuratore generale chiese la condanna a otto mesi di carcere. La corte accolse ordinando per
entrambi la sospensione della pena perché incensurati.
In Cassazione a Carletto Manzoni la corte decise la non iscrizione della condanna nel casellario giudiziario, invece
per Guareschi la sospensione della pena restava valida solo se nei successivi cinque anni non avesse subito altre
condanne: in questo caso avrebbe dovuto scontare gli altri otto mesi di carcere. Un avvertimento sinistro che
Guareschi non considerò.
33 – Quando Giovannino contestò l’inviato di De Gasperi
All’inaugurazione della raffineria di Cortemaggiore, Guareschi si era seduto ad un tavolo in fondo al capannone
dove si teneva il pranzo ufficiale. Taciturno, si guardava attorno inquieto. Molte delle facce dei presenti gli
piacevano assai poco. Verso la fine del pranzo, il segretario di De Gasperi gli si avvicinò.
“Il presidente del consiglio gradirebbe la vostra presenza al suo tavolo” gli disse.
Si era nel ’52 e De Gasperi aveva 71 anni. I partiti del centro stavano perdendo terreno in preda a lotte di potere.
Incalzati da una sinistra sempre più agguerrita e dalla destra che diventava rifugio per molti delusi. Don Sturzo
era diventato il massimo fautore della Grande destra. Una formula che, nelle intenzioni, doveva provvisoriamente
tenere a bada le sinistre atee con l’inclusione , oltre che dei liberali, anche dei monarchici che allora avevano
ancora una discreta forza in Parlamento dove potevano schierare una quarantina di parlamentari.
Occhi negli occhi
Nessuno si illudeva che la formula della Grande destra avrebbe potuto reggere a lungo in un’Europa solidamente
ancorata al centro e con l’America che preferiva alleati moderati. D’altra parte, considerava don Sturzo, dalla
destra si può sempre tornare al centro, mentre da un scivolone a sinistra non si ritorna, l’Est insegna. Ma per De
Gasperi quel progetto rappresentava una pericolosa involuzione e a nulla valse che fosse lo stesso Vaticano, al
quale lo statista trentino in passato s’era detto così legato, a ergersi in favore del provvisorio atteggiamento di don
Sturzo che, certo, per il suo passato di patimenti sotto il regime, non poteva essere accusato di compiacimento
verso i fascisti.
De Gasperi dunque si trovò piuttosto isolato a combattere il progetto della Grande destra. Ma con alcuni seguaci,
parve non perdersi d’animo anzi, constatata la debolezza del centro, cominciò a considerare inevitabile una prima
apertura a sinistra, verso i socialisti.
“Aprire a sinistra, che altro? – disse subito De Gasperi a Guareschi quando lo ebbe al suo tavolo – ma in tempi
lunghi, sicuro. Lunghi per permettere che il partito di Nenni sia pronto. Però, adesso, subito, una cosa la se deve
fare: opporsi alla Grande destra. “Smantellare l’idea. Farla finita, per cominciare, con quella stampa che spinge in
quella direzione. O vogliamo rischiare un altro ventennio nero?”.
Guareschi allibì. Ammesso che si potesse ancora correre in Italia e in quell’Europa un rischio di ventennio
fascista, tuttavia non si poteva per sfuggirlo rischiare un cinquantennio a braccetto coi comunisti. Ne sarebbero
derivati immensi danni morali, culturali, economici. E come contare poi sui socialisti, se pochi anni di frontismo
erano bastati a decimarli a favore dei comunisti? Si rischiava di buttarli verso scissioni spaventose prima ancora
che potessero consolidare la propria identità democratica ed occidentale.
De Gasperi ascoltava duro, senza guardare in faccia Guareschi, giocherellando con le briciole delle molliche di
pane .
“Insomma lei, Guareschi, proprio non vuol capire. La Grande destra sarebbe un errore quanto lo è stata l’alleanza
con Mussolini nel ’22. Accettare i monarchici significa sulla distanza aprire ai neo fascisti. Significa non poter
proseguire nelle riforme.”.
Guareschi allibì di più. Era lo stesso che stavano correndo nazioni risorgenti come la Germania, ma già si sapeva
che i neo nazisti non sarebbero passati. E inoltre la piccola borghesia italiana, cioè la maggioranza del Paese, non
avrebbe approvato senza reagire riforme caotiche che sapevano troppo di marxismo e massimalismo.
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Intanto l’area democratica si stava restringendo. Tra potere economico e potere politico ormai c’era guerra
dichiarata. Sarebbe continuata per decenni a scapito della nazione, dei lavoratori, dei rapporti con l’estero, della
sicurezza del cittadino nella vita sociale e in quel diritto al vivere onesto che ogni democrazia vera dovrebbe
garantire.
“Appunto, Guareschi, ecco perché bisogna pur smantellare questa destra e zittirne i cantori. Capisca, no?”.
Incalzò ancora De Gasperi.
Furono scattate fotografie. Una di queste è rimasta famosa: si vedono De Gasperi e Guareschi in discussione
dietro un tavolo ingombro di bottiglie da lambrusco. È stata pubblicata molte volte con la didascalia: “Quando De
Gasperi e Guareschi erano amici”. Ma è invece l’immagine di quando essi cominciarono a farsi guerra.
Servizio di Stato
Finito il pranzo, De Gasperi salì sulla pedana preparata nel grande spiazzo della raffineria e fece il discorso
dell’inaugurazione. Guareschi, che si era seduto in terza fila, lo ascoltò corrucciato. Ripeteva nel suo discorso
quanto già gli aveva detto a tavola. E calcava sulle frasi, volgendosi sovente proprio verso lui e fissandolo negli
occhi.
Guareschi rifletté molto nei giorni seguenti. De Gasperi era diventato un uomo pericoloso per l’Italia. Gli pareva
tornato l’uomo che nel ’46 giungeva nei suoi comizi ad intravedere in un lontano futuro cattolici e marxisti
politicamente uniti. Era pericoloso per l’Italia e per l’Europa.
Si era ormai sotto le elezioni del ’53, quando Mario Scelba, considerato allora l’uomo del governo e uno tra i più
potenti uomini politici, invitò Guareschi a una strana scampagnata. Circondato da un nugolo di guardie in
borghese e armate fino ai denti, un mattino andò a prelevare Guareschi e lo portò a Villa d’Este, sul lago di
Como. Guareschi accettò di malumore: era convinto che tra i consiglieri di De Gasperi il peggiore e, purtroppo il
più ascoltato, fosse proprio Scelba. Carletto Manzoni, negli incontri che ebbi con lui negli anni settanta, ricordò
che Guareschi era convinto che fu lo stesso De Gasperi a mandargli Scelba per saggiare cosa volesse fare o non
fare per la Democrazia cristiana nelle vicine elezioni del ’53.
Quella con Scelba fu una giornata lunga e che fece molto patire Guareschi. Non gli piacevano i poliziotti che
attorniavano il personaggio politico, l’arroganza che mostravano. Masticò amaro quando vide al casello
dell’autostrada, tutta la numerosa combriccola passare senza pagare pedaggio, autoproclamandosi servizio di
Stato. Ma quale servizio di Stato? Andar sul lago di Como a parlare d’una certa politica? Era servizio di Stato?.
Non gli piacque l’aria da padrone del vapore che gli pareva ostentasse Scelba. Né che l’albergo nel quale si trovò a
pranzare fosse stato interamente sgombrato per far posto solo a loro.
Tornò a casa terrorizzato e furibondo. Questo era dunque lo Stato. Era questa gente che ne reggeva le sorti.
Erano questi cafoni che ostentavano scarpe bianche e nere e parlavano che sembravan padreterni. Disse a
Manzoni che De Gasperi, mandandogli Scelba, era la seconda molto grossa che gli faceva. Alla terza sarebbe
scoppiato, promise. E, subito il giorno dopo, sedette al suo tavolo di lavoro e scrisse un articolo feroce contro
Scelba cogliendolo di sorpresa.
34 – Dopo il voto del ’53 gli attacchi cattolici contro Giovannino si intensificano
Dopo la coatta e sfortunata scampagnata con Mario Scelba e le sue guardie, Guareschi fece di quel politico
divenuto così inviso uno dei suoi bersagli preferiti. Lo attaccò prima da ministro dell’Interno, poi quando divenne
presidente del Consiglio subito dopo Pella e Fanfani. A regola di briscola , scrisse Guareschi su Candido, Scelba
resisterà più di Pella e Fanfani perché è il meno intelligente dei tre. Nelle sue vignette lo trasformò in un
manganello brandito da un De Gasperi rivestito da poliziotto austroungarico. Lo vestì da Napoleone: e Einaudi
sta al piccolo trafficante politico De Gasperi come Napoleone a Scelba, scrisse , e Scelba aspira al posto di
Napoleone come De Gasperi aspira al posto di Einaudi.
Sogni premonitori
Gli attacchi della stampa cattolica contro Guareschi si intensificarono subito dopo le elezioni del ’53. Ci fu chi gli
lanciò contro anatemi che avevano sapore di profezia e di maledizione a un tempo. Don Lorenzo Bedeschi, da un
giornale cattolico “Guareschi s’è macchiato di una colpa che non potrà essere perdonata se non in punto di morte,
come nei primi secoli del Cristianesimo”. L’orribile colpa era d’aver dichiarato pubblicamente sul Candido di non
aver votato per la Democrazia cristiana nelle elezioni del ’53.
Un giorno, ricordò Carletto Manzoni, Guareschi gli circondò con un braccio le spalle mentre lui stava seduto,
intento a scrivere l’ultimo capitolo di Giochi di società, un libro umoristico di vicina pubblicazione . Gli disse d’aver
sognato che l’omino che stava sdraiato nella testata del Candido, non era più sdraiato. Si era alzato e continuava a
gettarsi a capofitto contro una montagna nera che, a un tratto, rimaneva immobile ma un tratto metteva le gambe
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e cominciava a muoversi contro l’omino. E la terra tremava. E l’omino stava fermo lì, fermo. A guardare quella
montagna che gli piombava addosso. Stava per finire il ’53.
In quel ristorante toscano stavo come può stare un emiliano in un ristorante toscano: benino con diffidenza.
Indro Montanelli alzò la testa da attore che recita il Giulio Cesare e mi piantò i suoi due fanali verdi addosso.
“Te l’ho già detto – scandì su Guareschi siamo d’accordo in tutto , ma su quanto sostenne dal Candido che De
Gasperi aveva chiesto agli alleati di bombardare Roma, proprio no. Aveva torto marcio. In buona fede, ma torto
marcio. E non tirar fuori il processo, e che alla difesa di Guareschi non è stato concesso l’ascolto di dieci testimoni
a favore, e che non è stata permessa la perizia grafica alle lettere attribuite a De Gasperi. Che poi, cosa contano i
processi della storia? Magari in un altro clima politico il processo avrebbe potuto essere favorevole a Guareschi,
invece di condannarlo assolverlo e dargli piena ragione. E che significa? Potrebbero dargli ragione tutti i tribunali
del mondo che, tanto Guareschi nella faccenda delle lettere avrebbe lo stesso torto marcio. De Gasperi non le
scrisse mai. Ma figuriamoci”.
Erano mesi che, dalla seconda metà dell’80, grandi firme del giornalismo italiano si scontravano polemizzando su
Guareschi da quando il consiglio comunale di Busseto a 12 anni dalla sua morte aveva deciso, democristiani,
socialdemocratici, socialisti, comunisti all’unanimità, di intitolargli la piazza delle Roncole dove sorge la casa in cui
nacque Giuseppe Verdi. Vittorio Gorresio, attento barbagianni, era insorto: ma come, per esaltare Guareschi a
Busseto, distruggono Giuseppe Verdi e Alcide De Gasperi? È sconveniente, secondo Gorresio, gemellare il
Maestro con Guareschi che non è stato un buon scrittore e ha inventato personaggi che “contribuiscono nel
mondo al dispregio dell’Italia, personaggi da farsa come Don Camillo, un pretaccio cattolico della peggior specie
areligiosa e paganeggiante, e come Peppone, comunistone grossolano, rivoluzionario da strapazzo” (vedi “La
Stampa”, 30.9.1981).
Gorresio, sempre su “La Stampa” aggiunge di ricordare benissimo “Guareschi aveva inconsultamente accusato,
sulla base d’un falso documento rozzamente artefatto, De Gasperi di aver esortato gli angloamericani a
bombardare a tappeto le nostre città durante la seconda guerra mondiale”. Un mese dopo questo andazzo tra
disinformazione ed esasperazione, Gorresio concludeva in un faccia a faccia con Biagi su “Repubblica” del
15.10.1980: “Ricordo benissimo che in quell’epoca nelle redazioni e fuori giravano numerose patacche simili a
quelle pubblicate da Guareschi. I diari di Mussolini si vendevano un tanto al chilo. Se Guareschi solo è rimasto
scottato, doveva essere, diciamo la verità, un bel coglione o, per usare una espressione più edulcorata, uno
sprovveduto. Ma agli sprovveduti non si intitolano le piazze”.
Ora, non so se in Italia ci sono altri sprovveduti e anche coglioni nel senso che pretese Gorresio. Uno però lo
conosco , per dirla alla Gorresio, benissimo: e sono io. Convintissimo che Guareschi avesse ragione. Per un motivo
semplicissimo: Guareschi continuò fino alla morte a sostenere che le lettere erano autentiche e che erano giusti i
motivi politici per cui le pubblicò tentando di avvertire il suo Paese, quella cosa che ancora chiamava Patria, di
cosa gli sarebbe accaduto subendo senza reagire quel certo tipo di politica che in quegli anni stava facendo i primi
passi. Allora mi son trovato di fronte a una scelta precisa: dovevo scegliere tra i Montanelli, i Gorresio e Guareschi.
Coglione per coglione , ho scelto quello che m’assomigliava di più. Dentro, dico. Tra l’altro, nell’ottobre del ’55,
Guareschi, sprovveduto, aveva istituito sul Candido un immaginario premio giornalistico di Obiettività
Governativa, il Pog. Potevano aspirare al Pog i giornalisti più conformisti, più servi del potere, coloro che
scrivevano non cosa pensavano, ma cosa pensava il potente. Nella graduatoria dei dieci giornalisti italiani che
potevano aspirare con ragione al Pog, Guareschi aveva messo Gorresio al quinto posto. E nell’80 Gorresio credo
che se lo ricordasse ancora “benissimo”.
Febbre
Da una nuvola fluttuante nel cielo ricolmo d’astri e comete, il ’53, che è un gran vecchio con barba e camicione
bianchi, passa il mondo nelle mani del ’54, un neonato ancora tutto imbambolato. “Te lo passo tale e quale l’ho
ricevuto. Era impossibile peggiorarlo”, dice il vecchio. Con questa vignetta in prima pagina uscì nel gennaio ’54 il
primo numero del non anno di Candido.
Era in carica il governo di Giuseppe Pella, uomo che Guareschi stimava per la rettitudine e perché mosca bianca,
era giunto a essere il capo del governo in punta di piedi, con una solenne umiltà da fedele servitore dello Stato.
Era stato scelto dal presidente della Repubblica quando, De Gasperi, presentatosi in Parlamento dopo lo scacco
della Democrazia cristiana alle elezioni del ’53, non aveva ottenuto la fiducia. Era un governo, questo di Pella,
inviso alle sinistre. Osteggiato con ricorso a ogni mezzo lecito e illecito anche da una parte dei democristiani.
Accusato di ostilità alla riforma agraria, d’ammiccamento alle destre monarchiche, d’aver inviato due divisioni ai
confini con la Jugoslavia per difendere Trieste. Fu costretto a dimettersi a metà gennaio ’54 dopo che in un
discorso tenuto a Novara Scelba lo aveva scaricato dicendo che non aveva più, come presidente del Consiglio, la
fiducia della Democrazia cristiana.
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Guareschi vide chiara nella manovra la mano di De Gasperi.
35 – Le “lettere” di De Gasperi che inguaiano Giovannino
Una domenica, metà gennaio ’54, Guareschi stava lavorando quando suonò alla sua porta uno sconosciuto con tra
le mani una borsa di pelle.
“Mi manda un amico comune da lei soprannominato gentiluomo veneto” si presentò.
Guareschi approvò, quell’amico veneto era davvero gentiluomo e galantuomo.
“Le consegno le fotocopie autenticate di due lettere scritte nel ’44 e firmate da Alcide De Gasperi. Una
dichiarazione del notaio Stamm di Locarno garantisce che gli originali esistono in perfetto stato sotto la sua
custodia. Ecco anche le perizie grafiche di Umberto Focaccia, perito calligrafico del Tribunale di Milano, che
dichiara in piena coscienza che le grafie e le firme in queste lettere sono autentiche di Alcide De Gasperi"”
Sante battaglie
La prima lettera, 19 gennaio ’44, aveva impresso lo stemma della Segreteria di Stato del Vaticano. Era indirizzata
al Colonnello Bonham Carter della base alleata di Salerno: “Egregio signor colonnello, non avendo ricevuto alcun
riscontro in merito alla mia ultima del 12 gennaio ’44, mi permetto di trascriverle interamente il contenuto della
precedente rimasta fino a oggi senza esito. Tramite un corriere portaordini affidiamo la presente contenente la
nostra più ampia assicurazione che quanto S.E. il generale Alexander desidera venga effettuato come azione
collaterale da parte dei nostri gruppi Patrioti, sarà scrupolosamente attuato. Ci è purtuttavia doloroso, ma
necessario, insistere nuovamente affinché la popolazione romana si decida a insorgere al nostro fianco, che non
devono essere risparmiate azioni di bombardamento nella zona periferica della città, nonché sugli obiettivi militari
segnalati. Questa azione, che a cuore stretto, invochiamo, è la sola che potrà infrangere l’ultima resistenza morale
del popolo romano, se particolarmente verrà preso quale obiettivo l’acquedotto, punto nevralgico vitale.
“Ci urge inoltre, e nel più breve tempo possibile, il già sollecitato rifornimento, essendo giunti allo stremo. La
preghiamo pertanto, nel più breve tempo possibile, di assicurarci di tutto e di credere nella nostra immutabile
fede nella lotta contro il comune nemico nazifascista”.
La lettera scritta a macchina con imprecisioni tipiche di chi non è uso a questo strumento, portava in calce , scritta
a mano, la firma di De Gasperi.
La seconda lettera, assai più breve, era tutta autografa. Sul foglio non c’era intestazione. Né era indicato a chi
fosse diretta. Data, 26 gennaio ’44, scritta quindi sette giorni dopo la prima: “Carissimo, spero di ottenere da
Salerno il colpo di grazia. Avrete presto gli aiuti richiesti. Coraggio, avanti sempre, per la Santa battaglia, auguri,
buon lavoro e fede”.
“Queste lettere con altri documenti d’un carteggio intercorso tra Churchill e Mussolini – spiegò a Guareschi il
visitatore – furono consegnati in un plico sigillato dallo stesso Mussolini al tenente della Repubblica sociale Enrico
De Toma, il quale poi nel ’51 dichiarò a un quotidiano di possedere il carteggio, e fu presto avvicinato dal
controspionaggio. Il carteggio non parve però interessare nell’insieme .Ogni sforzo del Servizio segreto italiano e
di esponenti di governo vicini a De Gasperi si concentrò solo sul tentativo di recuperare le lettere. Il corriere
scrisse che De Toma per cedere il carteggio chiese una cifra esorbitante e che le trattative prima di arenarsi erano
durate mesi”.
Ma come fece Mussolini a entrare in possesso delle lettere firmate De Gasperi, fu chiesto al visitatore. Lui spiegò
che Herbert Kappler sapeva che dal Vaticano uscivano corrieri con documenti da recapitare oltre le linee. Nel
gennaio '44‘un suo servizio di sorveglianza fermò fuori dalla cinta vaticana un falso monsignore che fu perquisito
dalla Gestapo. Aveva lettere nascoste sotto un busto elastico.
Guareschi controllò e ricontrollò documenti e versioni . Si convinse: quelle lettere erano autentiche, scritte da De
Gasperi. La lettera dattiloscritta era confermata dall’altra scritta completamente di pugno. Firma della prima
lettera e l’intera seconda erano state riconosciute come scritte di pugno da De Gasperi dalle analisi di un
credibilissimo e imparziale tecnico. Laboriose trattative erano state condotte da autorità governative italiane per
impadronirsene offrendo somme considerevoli. Erano stati anche tentati colpi di mano per riuscire ad averle.
Non ci si arrabatta così un documento falso. De Gasperi e i suoi erano a quel tempo al governo, non mancavano
certo di mezzi per neutralizzare un falsario o un ricattatore.
Guareschi non si soffermò tuttavia sul fatto che De Gasperi, stando a quelle lettere, aveva chiesto agli alleati un
bombardamento sulla periferia di Roma e sull’acquedotto ritenendo che, in fondo, si trattasse d’una azione dettata
da esigenze di guerra. Condannò invece l’inganno compiuto scrivendo il messaggio su carta intestata dello Stato
Pontificio il quale, invece, agiva in quei tempi difficili con tutte le proprie risorse per evitare ulteriori catastrofi e
rovine. Né era l’unico tradimento che il Santo Padre aveva dovuto sopportare proprio da coloro che ospitava.
Guareschi seppe che proprio nel Laterano era stata installata all’insaputa delle autorità ecclesiastiche, una stazione
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radiotrasmittente facilmente localizzabile dai tedeschi. E un’ultima riflessione. De Gasperi aveva usato carta
intestata del Vaticano poiché il suo nome a quei tempi diceva poco o nulla agli alleati. Togliatti parlava con alle
spalle la Russia. Ebbene, De Gasperi in quel modo poteva far credere agli alleati d’avere alle spalle niente meno
che il Vaticano.
Alfine Guareschi si decise. Sostituì sul Candido l’articolo La pugnalata nella schiena, dedicato al siluramento del
governo Pella per mano di De Gasperi, con un altro, Il ta-pum del cecchino: “…quando definiamo De Gasperi un
politicante spietato, non ci basiamo su nostre personali impressioni. E quando diciamo che De Gasperi è un uomo
che non si ferma davanti a nessuno, ci basiamo su qualcosa di concreto. Qui, ad esempio, vediamo De Gasperi che,
ospite del Vaticano, scrive tranquillamente su carta intestata della Segreteria di Stato di Sua Santità delle lettere
contenenti richieste di bombardamenti .
Non è un gesto incosciente e stolto: è il semplice gesto di uno che tradisce l’ospitalità, è il gesto nefando di un
cattolico che tradisce il Santo Padre”.
Traffici oscuri
Quel Candido, il n. 4 che portava la data del 24 gennaio, uscì il 20 mattino con pubblicata la prima lettera . L’Ansa
emanò un comunicato rilasciato la sera stessa da De Gasperi, il quale dichiarava di essere a conoscenza
dell’esistenza di un falso documento a lui attribuito e ne diffidava la pubblicazione. Ma la lettera era già stata
pubblicata lo stesso mattino. “Che significato può avere una diffida a pubblicare un documento che è già stato
pubblicato?, scrisse Guareschi sul numero successivo del Candido. De Gasperi, in un secondo comunicato Ansa del
21 ripreso dalla stampa il 22, dichiarò di “essere a conoscenza che il presunto documento al quale si riferiva la sua
diffida di ieri è comparso oggi su un settimanale di Milano eccetera” preannunciando la querela. “Troppo tardi
anche qui. E troppa imprecisione”, scrisse Guareschi : “De Gasperi avrebbe dovuto scrivere che : “(…) “il
presunto documento al quale si riferiva la sua diffida di ieri sera è comparso ieri mattina su un settimanale di
Milano”. Sul Candido successivo (n. 5 del 31 gennaio, uscito il 27) pubblicò la seconda lettera. La querela verrà
presentata il 7 febbraio alla Procura della Repubblica di Milano.
36 – Comincia il processo contro Giovannino per le lettere di De Gasperi
Mentre s’avvicinava il processo per diffamazione a Guareschi che aveva pubblicato sul Candido la lettera firmata
De Gasperi con la quale su carta intestata della Segreteria di Stato di Sua Santità-Vaticano si chiedeva nel ’44 un
bombardamento alleato sulla periferia di Roma e la successiva scritta a mano su carta non intestata, all’estero
diversi giornali si schierarono in favore del querelato. “Guareschi – scrisse il Münchner Merkur in Germania –
dovrà rispondere a un tribunale per diffamazione. De Gasperi dovrà però rispondere davanti alla Storia perché
nei suoi sette anni di governo non solo non ha rafforzato, ma ha indebolito l’Italia”. E si riferiva ai due milioni di
voti perduti in favore delle sinistre.
In Italia invece feroci attacchi dai giornali di regime. Gioventù cattolica: “Guareschi, ovvero lo scarafaggio.
Guareschi mira più lontano. Per esser più espliciti, a noi pare che la sua sia una sparata tipicamente fascista contro
la Resistenza”. Nacque da qui la prima accusa di fascista lanciata all’internato militare numero 6865 nei lager
nazisti.
Guareschi si difese sparando vignette. In una De Gasperi con bocca famelica e passo dell’oca cammina cantando
sull’aria dell’Internazionale seguito da un codazzo di parenti con tra i denti grossi cosciotti di pollo: “Su fratelli, su
cognati (e generi diversi) su venite in fitta schiera…”. Tra coloro in marcia con lui spiccano: “Il cognato Romani
Pietro, commissario perpetuo Enit, il cognato Romani Carlo, monopolio cotone egiziano filato in Italia eccetera, il
genero architetto Catti, varie, Il fratellissimo Augusto De Gasperi, presidente di tutto, monopolio, distribuzione
Agip Gas, eccetera, eccetera”. Alternarsi di battute da “Forza Alcide che non sei solo!” a “Noi siamo una trentina di
trentini prestati all’Italia”.
Prova storica
Il processo s’iniziò martedì 13 aprile 1954 (terminerà giovedì 15). Puntuale alle 9 Guareschi entrò in aula . Andò a
sedersi taciturno all’estremo limite della panca degli imputati. Alle 9,20 entrò Alcide De Gasperi accompagnato
dai suoi avvocati, uno di questi era scorrettamente Delitala che aveva difeso Guareschi nel processo per la vignetta
sul Nebiolo di Einaudi e che durante questo processo uscì dando del disonesto a Guareschi nell’infelice battuta “Io
non credo nella sua buona fede: io lo conosco, l’ho difeso in un’altra causa”. De Gasperi sedette tra i due legali,
taciturno anche lui. Pieno di pensieri. Alle 9,30 entrò la Corte.
All’inizio dell’udienza “la difesa”, come scrisse Guareschi, “chiese che il Guareschi venga prima processato per uso
sciente di falso e poi per diffamazione”. (…) Il Tribunale, dopo lunga permanenza in camera di consiglio, respinse
tutte le richieste e dichiarò la fine dell’udienza antimeridiana. “All’inizio dell’udienza pomeridiana”, scrisse
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Guareschi, “i miei avvocati chiedono che, prima della mia interrogazione, venga data la lettura di documenti
appena pervenuti. Il Tribunale si riserva di autorizzare la lettura in corso di causa”. Guareschi fu interrogato per
primo. Nel corso dell’interrogatorio Guareschi disse: “Pubblicando la prima lettera nella quale il De Gasperi
sollecitava agli inglesi una azione aerea di bombardamento nella zona periferica di Roma, sugli obiettivi militari
segnalati e sull’acquedotto, io puntai esclusivamente sulla “tattica spietata del politicante De Gasperi”. Nessuna
interferenza tra il De Gasperi capo di un partito e il De Gasperi capo della Resistenza. Fra il politicante e il
resistente (…) De Gasperi in qualità di uno fra i capi della Resistenza non avrebbe avuto bisogno di usare una carta
intestata del Vaticano per comunicare richieste o informazioni riguardanti l’attività della Resistenza. Ma il De
Gasperi politicamente ne aveva bisogno. Erano i giorni in cui si aspettavano gli Alleati (…) De Gasperi, capo
riconosciuto della Democrazia cristiana, doveva “piazzarsi” come politico di fronte agli alleati.
(…) Quella carta intestata doveva voler dire agli occhi di Alexander e degli Alleati: “Signori, se dietro il Partito
comunista c’è L’URSS, dietro la Dc c’è il Vaticano! E io sono il capo riconosciuto della Dc ricordatevelo quando
arriverete”. (…) “Io pubblicai la lettera scritta dal signor De Gasperi al tenente colonnello inglese, con la assoluta
sicurezza dell’autenticità della lettera stessa e della relativa lettera di conferma. Non mi appagai certamente della
sola perizia grafica attestante l’autenticità della lettera e della relativa appendice. La perizia grafica non mi servì a
stabilire.
“Questa è una lettera scritta dal signor De Gasperi”. Mi servì invece a stabilire: “Questa è la famosa lettera che il
signor De Gasperi, i suoi amici e i suoi pseudo - amici stanno da anni furiosamente inseguendo, e cercando di
conquistare con ogni mezzo”.
Fu ascoltato De Gasperi: “Non ho mai tenuto una corrispondenza con autorità alleate, tanto meno per chiedere
azioni di bombardamento su Roma. Se ciò avessi fatto, avrei tradito la solidarietà col Cln che aveva contribuito a
far dichiarare Roma città aperta (…) Io non ho mai scritto nessuna lettera al signor Bonham Carter di cui
ignoravo l’esistenza. Io non avevo nessuna relazione segreta con le autorità militari alleate. E poi, per qual ragione
avrei dovuto scrivere la lettera del 10 gennaio ’44 su carta intestata della Segreteria di Stato della Città del
Vaticano? Per comprometterlo oppure per coprire me stesso?”. E conclude la prima parte dell’interrogatorio :
“La realtà è che Guareschi avrebbe dovuto fare una sola, semplice, onesta constatazione. Avrebbe dovuto
chiedersi: è possibile che un uomo che scrive tali lettere assurde, che commette tali errori, possa riuscire poi a
governare per sette anni l’Italia?”.
“Già si profila con quali argomenti vogliono farti condannare – dissero gli avvocati a Guareschi – lo stesso De
Gasperi porta la sua prova storica : è mai possibile che un uomo che a governato l’Italia per sette anni possa aver
compiuto un simile gesto?.
Senza appello
Era la stessa domanda che Guareschi s’era subito fatto, ma formulandola in modo assai diverso: “È mai possibile
che un uomo che commette i più colossali errori politici e durante sette disastrosi anni di governo ha portato
l’Italia negli angosciosi guai presenti e ha distrutto quasi totalmente il prestigio dell’Italia nei consessi
internazionali, possa aver scritto lettere di tal genere?”.
E, considerata serenamente la situazione , il Guareschi aveva risposto: “Si”.
Terminata la deposizione di De Gasperi, dopo la lettura di una lettera del generale Alexander dalla quale risulta
che alla data del 19 gennaio 1944 lui “non aveva nemmeno sentito parlare del signor De Gasperi",” viene ascoltato
il colonnello A.D. Bonham Carter che dichiara di non aver mai avuto rapporti con De Gasperi. Terminata la
deposizione viene ascoltato il notaio Stamm di Locarno che consegna al Presidente del Tribunale una copia della
Memoria che De Toma ha già inviato, via posta, e che è giunta in mattinata. L’udienza viene rinviata alla mattina
del mercoledì.
37 – Condannato per diffamazione, Giovannino sceglie il carcere
“Al mattino del mercoledì”, scrisse Guareschi “il notaio Stamm consegna al presidente del tribunale le due lettere
originali”. De Gasperi dichiarò che non erano sue. Viene data lettura della memoria inviata dal signor De Toma
dove compaiono i nomi di padre Zucca, Enrico Mattei e Giulio Andreotti e del testo allegato dell’interrogatorio
fatto al De Toma dalla polizia federale svizzera nel quale risultava che alla fine del mese di maggio del 1953 il
capitano Palumbo del Sifar, alla presenza di tre testimoni e un prelato, gli aveva offerto la somma di 50 milioni
per mettere tutto a tacere e consegnare a quel servizio originali e fotocopie del carteggio. “La difesa avanza allora
delle richieste”, scrisse Guareschi. Era “necessario citare come testi tutti i personaggi di cui si parla nella memoria
del De Toma (…)”. Inoltre la difesa chiese “la perizia grafica e chimica dei due documenti originali”. Ma, grazie al
magistrale intervento dell’avvocato Delitala, anche il pm, che era favorevole alla perizia grafica, ci ripensò e il
tribunale, ritiratosi in camera di consiglio per un’ora e un quarto, respinse tutte le richieste della difesa.
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L’avvocato Lehner della difesa si vide costretto a gettare la toga “ritenendo pleonastica la ulteriore sua presenza
nel dibattimento” e il giorno dopo , giovedì 15 aprile, finita l’arringa dell’avvocato Delitala, il tribunale si ritirò e
dopo dieci minuti. alle ore 12,35, diede lettura della sentenza: “Il tribunale, ritenuto Giovannino Guareschi
colpevole di diffamazione , lo condanna a un anno di reclusione e 100.000 lire di multa oltre al pagamento delle
spese processuali, al ristoro dei danni morali indicati nella simbolica cifra di una lira” eccetera. All’anno di galera
si aggiungeranno, nel corso della detenzione, gli otto mesi per la vignetta di Nebiolo-Einaudi.
Per restare liberi
Il martedì sera della settimana successiva alla scadenza, scadevano i termini per presentare appello. Guareschi
scrisse per il Candido l’articolo: No, niente appello! “Non è un colpo di testa, io non ho il temperamento
dell’aspirante eroe e dell’aspirante martire. Io sono un piccolo borghese, un qualsiasi padre di famiglia che,
avendo figli, ha dei doveri. Primo dovere: quello di insegnare ai figli il rispetto della dignità personale. (…) Vado
in prigione. Accetto la condanna come accetterei un pugno in faccia: non mi interessa dimostrare che mi è stato
dato ingiustamente: il pugno l’ho già preso e nessuno può far si che io non l’abbia preso. Non mi pesa la
condanna in sé, ma il modo. E il modo ancor mi offende. (…) No, niente appello. La mia dignità di uomo, di
cittadino e di giornalista libero, è faccenda mia personale e, in questo caso, accetto solo il consiglio della mia
coscienza. Riprenderò la mia vecchia e sbudellata sacca di prigioniero volontario e mi avvierò tranquillo e sereno in
quest’altro lager. Ritroverò il vecchio Giovannino fatto d’aria e di sogni e riprenderò assieme a lui il viaggio
cominciato nel ’43 e interrotto nel ’45. Niente di teatrale, niente di drammatico. Tutto semplice e naturale.
“Per rimanere liberi bisogna , a un bel momento, prendere senza esitare la via della prigione”:
Molti sbeffeggiarono Guareschi per aver scelto il carcere senza interporre appello. Il Popolo e altri fiancheggiatori
della Democrazia cristiana lo soprannominarono San Giovannino Martire insinuando che egli agisse così per
diventare deputato. Su Milano Sera fu scritto che invece voleva rifugiarsi all’estero e che quindi subito la pubblica
sicurezza gli ritirasse il passaporto. Un
commando di intellettuali si radunò al Bagutta e brindò schiamazzando alla sentenza che lo aveva condannato.
Al Candido giunsero invece decine di migliaia di lettere di solidarietà e indignazione. Alcuni giornali furono quasi
neutrali, come il Corriere della Sera. Altri come il Corriere lombardo , si schierarono nettamente: “Negata a Guareschi
la possibilità di difendersi. È stato condannato con procedura sommaria. De Gasperi batte Guareschi in base ad un
discutibile verdetto.”.
Enzo Biagi andò peregrinando per le redazioni milanesi per far firmare una petizione da presentare
all’arcivescovo Montini affinché intervenga per evitargli il carcere. Fu Guareschi stesso, dopo averlo ringraziato, a
chiedergli di desistere. Altri giornalisti nell’inseguire Guareschi che era diventato inavvicinabile, giunsero fino alle
Roncole. Fecero il terzo grado alla gente della Bassa. Alfredo Ferretti, segretario del Partito comunista locale, si
schierò con lui. “Qui alle Roncole si tiene tutti per Guareschi, senza storie. Un agricoltore in gamba e onesto come
il signor Guareschi non può essere diverso quando fa il giornalista. Se ha fatto quel che ha fatto, deve avere avuto
le sue buone ragioni “. All’opposto il giovane curato di Roncole. Era un pretino del tipo che, nei racconti su Don
Camillo, quando sono addobbati paiono un attaccapanni con sopra tre paltò e un tabarro. “Se Guareschi non ha
fatto appello contro la sentenza – ragionò – è perché si sentiva colpevole. Se fosse stato sicuro della propria
innocenza, avrebbe presentato appello”.
Camioncino giallo
Nel tentativo di comporre in extremis la vertenza con De Gasperi e di convincerlo ad evitare il carcere, ambienti
vicini ai vertici della Democrazia cristiana sondarono il terreno per sapere se Guareschi avrebbe accettato una
remissione di querela. Risposta: no, non era colpevole, non accettava perdoni.
La sera del 25 maggio ’54, l’ordine di carcerazione, nei termini previsti dalla legge, giunse ai carabinieri di
Busseto. A Guareschi restavano 24 ore per presentarsi in caserma ed essere portato nel carcere di San Francesco
a Parma, cioè quello della provincia nella quale era residente. Guareschi decise che non sarebbe andato in galera
tra due carabinieri come un malfattore. Meglio da solo. Da onesto e libero cittadino. Il giorno dopo, vagò per la
casa alla ricerca della sua sacca da internato nei lager, aiutato dalla signora Ennia e la riempì con poche cose.
Calzini, fazzoletti, mutandoni, mezzo chilo di bicarbonato, un libro d’istruzione di Diritto carcerario, una
macchinetta da caffè inviata da un lettore con la definizione “Caffè AntiUcciardone”, ché all’Ucciardone era stato
ucciso un anno prima con caffè avvelenato il bandito Pisciotta. In cortile s’aggiravano Carletto Manzoni e pochi
altri amici venuti da Milano. Ma erano in gran numero quelli delle Roncole e delle Fontanelle. Il tempo trascorse
tra cupi silenzi, improvvisi scoppi di dialogo tra lui e gli amici , tra lui e la moglie, tra lui e i figli.
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Ogni tanto, fuggiva in alto, in soffitta. S’affacciava alla finestrella. I baffi parevano prender il volo. Guardava
lontano nei campi, respirava la giornata tiepida che era una di quelle buone per fare già progetti di semina. Erano
quasi le 15, Salutò i bambini.
In cortile tra le altre macchine c’era un camioncino giallo. Un 615 nuovo, appena uscito di fabbrica. Guareschi
chiese di chi fosse quella bella bestia. Si fece avanti Luigi Tamburini, vecchio amico delle Fontanelle. Era uno dei
ragazzi che tanti anni prima l’avevano aiutato ad imballare i petali di rose con la trebbiatrice che aveva costruito
in miniatura.
“Mio. Cabina a tre posti. Ti porto io in galera e vengo a riprenderti quando esci” disse Tamburini. Con Guareschi
salì la signora Ennia.
L’allegra prigionia
Il piazzale davanti all’entrata era gremito. Guareschi aveva raccomandato che nessuno, a parte gli amici, fosse
avvertito dell’ora in cui sarebbe entrato in San Francesco. Ma i giornalisti, saputo del mandato di carcerazione,
s’erano piazzati sul piazzale fin dal mattino attirando l’attenzione della gente. Lo attorniarono non appena scese
dal camioncino.
Entrò con passo tranquillo. Lo zainetto da internato militare a tracolla che gli segnava il giaccone di velluto. Il
berrettaccio da carrettiere calcato sulla fronte. Prima di sparire oltre la portineria, salutò con un largo gesto della
mano.
La signora Ennia tornò sul piazzale un’ora dopo. Camminò a testa alta fin oltre il cancello, ma poi scoppiò in un
pianto disperato. Nei giorni che seguirono i giornali continuarono l’opera di linciaggio scrivendo che a Guareschi
era stato assegnato un albergo carcere. Una sorta di prigionia senza sbarre. Trattamento particolare e privilegiato,
onori militari, qualunque favore chiesto subito concesso. In definitiva un periodo di riposo e villeggiatura.
Guareschi, 400 giorni dopo, uscendo dall’allegro carcere per scontare altri sei mesi di libertà vigilata, fissò
stralunato gli amici del Candido che poi mi riferirono quanto disse: “Io non porto odio per nessuno. Ma non avrei
mai pensato che gli italiani potessero essere così feroci contro un semplice giornalista. Le SS che mi sorvegliavano
nei lager furono angeli al confronto”.
38 – In carcere Giovannino soffre la fame e l’ulcera si aggrava
Poche ore dopo la condanna di Guareschi, un giornalista del Corriere lombardo aveva avvicinato De Gasperi
riferendogli che Guareschi non voleva ricorrere in appello e che, quindi, doveva andarsene in prigione subito.
“Sono stato anch’io in galera. Ci può andare anche Guareschi – rispose De Gasperi -. E le assicuro che le assicuro
che le carceri dello Stato democratico son migliori che nei periodi di dittatura”.
Spero per lui che fossero solo battute sparate nella foga della polemica. In realtà De Gasperi non ignorava che le
carceri italiane dello Stato democratico erano rimaste , tante lo sono tuttora, identiche a quelle del periodo
fascista. In più il tempo ne aveva peggiorato le strutture. De Gasperi dotto il regime fascista aveva trascorso in
cella un centinaio di giorni. Imputato di espatrio clandestino per motivo politico e di falso penale. De Gasperi
venne condannato nel 1927 a quattro anni di reclusione e 20 mila lire di multa. Aveva ricorso in appello e la
sentenza venne modificata in solo “tentato espatrio”. La pena venne ridotta a due anni e mezzo e 16 mila lire di
multa. Poi De Gasperi chiese, ottenendola, la grazia a Mussolini nel 1928.
Per quanto la vera detenzione fosse stata breve ebbe del carcere un ricordo amarissimo. Alla fine del luglio del ’54,
con Guareschi in galera già da due mesi, De Gasperi sentì chiari i passi della morte che s’avvicinava. L’avrebbe
colto la notte del 18 agosto . La Procura di Roma gli aveva fatto sapere che tre cittadini non legati a Guareschi da
alcun vincolo di parentela, avevano presentato una domanda di grazia chiaramente improponibile. Il codice
stabiliva che il solo condannato o un suo prossimo congiunto da lui autorizzato potesse presentarla. Stranamente,
la Procura inoltrò egualmente la legittima domanda di grazia a De Gasperi che s’affrettò ad accoglierla. Un gesto
senza alcun valore legale. Anzi suonava una forzatura al volere di Guareschi il quale aveva vietato a chicchessia di
chiedere grazia non volendo essere messo nelle condizioni di chi chiedesse perdono, quindi d’un colpevole.
Murato vivo
Fu quel gesto di De Gasperi, come sostennero alcuni, lo specchio del rimorso che lo colse ormai prossimo alla
morte? O fu un calcolato modo di mettersi con un bel gesto in pari con la Storia anche sulla vicenda delle lettere a
lui attribuite? O ancora fu comprensione , pietà cristiana per chi stava attraversando un inferno che egli aveva a
sua volta, seppur brevemente, conosciuto? O, infine, fu l’ultimo messaggio inviato indirettamente a Guareschi,
che in tempi diversi aveva tanto stimato : tendiamoci in extremis la mano, faccio quanto posso per indicarti la via
della libertà.
51
Il 19 agosto Guareschi seppe in carcere della morte di De Gasperi. “Mi ha (…) rattristato la morte improvvisa
di quel poveretto. Io, alla mia uscita, avrei voluto trovarlo sano e potentissimo come l’avevo lasciato”, scrisse dal
carcere a Minardi. E nel suo quaderno annota: “Io non polemizzo coi morti”. E non tornò più sulla vicenda delle
lettere anche se mai fino alla morte riconobbe d’essersi sbagliato.
Cella 38. Lunga 2 metri e larga meno di 3. Cinque metri quadrati in tutto. L’alto soffitto a volta dava l’impressione
d’esser calati in un baratro. Pareti a calce e finestra sbarrata da una robustissima inferriata con davanti solo un
muro massiccio a incombere da pochi metri.
Branda, materasso di crine, un paio di pomoli per attaccapanni, lavello in pietra dell’epoca napoleonica
senz’acqua corrente. Unico mobile era il bugliolo, un secchio di zinco che assumeva tutti i servizi igienici. Riusciva
a far provare acute nostalgie perfino le nauseabonde latrine dei lager.
Guareschi s’affrettò a onorarlo. Da un giornale ritagliò la foto della faccia di Scelba e la incollò sulla parte interna
del coperchio convinto che dietro la querela di De Gasperi , l'ingiusto processo e l’estrema durezza del
trattamento riservatogli in carcere ci fosse sempre la stessa mente, la stessa mano: quelle dell’allora presidente del
Consiglio Mario Scelba. Comandante degli agenti di custodia era il maresciallo Mario Pellegrinotti, sottufficiale
ligio al regolamento, ma onesto . “Guareschi – ricorda – diceva che l’effigie di quel notissimo uomo politico
fungeva egregiamente da barometro. Nell’imminenza di perturbazioni atmosferiche, diveniva di color verdognolo
e infatti poco dopo il tempo peggiorava”.
Nel primo mese, isolamento totale: 22 ore di cella e 2 d’aria in un cortiletto angusto destinato ai detenuti che, per
gravi motivi disciplinare, non potevano aver contatto con gli altri reclusi. Gli negarono carta e penna. Camminò
avanti e indietro come una belva in gabbia per eterne ore.
A metà giugno Anita Pensotti scrisse su Oggi quali erano le reali condizioni di Guareschi galeotto.
“Orari che ne regolano l’esistenza: 6,30 sveglia, 7 una tazza di surrogato. Alle 11 pranzo. Cioè minestra e due
pagnotte. Dalle 14 alle 16 passeggiata nel cubicolo. Il minuscolo cortile per i detenuti isolati per indisciplina.
Subito dopo cella e cena. Cioè un piatto di legumi. Niente coltello né forchetta. Piatto, ciotola, caraffa per l’acqua
o per il mezzo litro di vino concessogli alla settimana. Alle 19,30 campana del silenzio coi suoi tristi, lenti
rintocchi”.
Tassativamente vietato ricevere il Candido. Poteva comunicare con l’esterno per lettera ogni 15 giorni e ogni
foglio passava sotto il pennello della censura come già nei lager le ali della Poesia nella Favola di Natale.
Finalmente, dopo mesi, gli giunsero macchina per scrivere , fogli di carta e matita. Ogni foglio timbrato,
numerato e, scritto o in bianco doveva essere restituito ogni sera alle 20. Tuttavia ricominciò a disegnare e scrivere
. Ma fu una tortura il cibo scadente, l’ulcera che s’aggravava, il troppo caldo o il troppo freddo della cella. E
quell’umidità ghiaccia, viscida che lo costringeva d’estate a scattare in piedi a intervalli e a muoversi a brevi passi
per le diagonali della cella. Col viso congestionato. I baffi irti. Il sudore che gli colava dal collo. D’inverno, una
coperta a quadrettoni fissata in cintola come una sottana con un vecchio filo per l’elettricità. Batteva i denti e
moriva di freddo.
39 – Giovannino in carcere era trattato più duramente di un omicida
Uno stramaledetto altoparlante gracchiava a tutto volume subito dalla cella. Ogni giorno così. Per ore. In quelle
condizioni Guareschi non riusciva a lavorare. Perdeva ritmo. A volte si gettava gemendo sul pagliericcio con la
testa sotto il cuscino. Doveva ricominciare daccapo mille volte . La notte del 24 dicembre ’54, dopo l’inferno per
un attacco d’ulcera più feroce del solito che l’aveva costretto a boccheggiare come un moribondo sul pagliericcio,
disegnò se stesso a forma di albero di Natale. Il bugliolo, cioè l’unico servizio igienico della cella, era il vaso. Lui
con braccia e baffi allargati era il pino. Catene e palla da carcerato gli ornamenti. Un’espressione allocchita negli
occhi rotondi e segnati. Buffissimo, ma anche un Cristo in croce . Stavano applicando su di lui il regolamento
carcerario del 1888 in maniera restrittiva. Massimo rigore. Censura totale nel controllo di pacchi e corrispondenza
col censore così zelante che finì per timbrare anche la foglia di magnolia, lembo minuscolo dell‘estate che poi fiori
fuori, giunto in una busta per il suo onomastico. San Giovanni, 24 giugno.
Umiliazione e digiuno
La signora Ennia chiese al direttore che fossero concessi al marito almeno ogni tanto cibi adatti poiché sapeva che
l’ulcera lo faceva impazzire di dolore. Il direttore, burocrazia personificata, fece chiamare Guareschi e gli disse
fedelmente che la consegna dei viveri dall’esterno era tassativamente limitata a una sola volta alla settimana ed
erano esclusi i cucinati, cioè paste in brodo, minestroni, carne fresca. Cioè le uniche cose che Guareschi avrebbe
potuto digerire. Nello stesso carcere c’era un certo Pollastri, ergastolo per omicidi e rapine, che riceveva tutto
quanto gli pareva, minestre, polli, bistecche spesse così, vino nella quantità che voleva.
52
Guareschi digiunò. Perse chili e soffrì più che nei lager. Benso Fini, direttore del Corriere lombardo, uscì con un
fondo in prima pagina intitolato: Guareschi prigioniero di Stato. Ma la pressione dell’opinione pubblica ormai
avvertita di quanto stava passando Guareschi, non riuscì a far allentare la morsa del regolamento che, applicato in
quel modo, divenne sempre più tortura per corpo, mente, spirito.
Guareschi non poté neppure più confessarsi. Per avvicinarsi al cappellano del carcere doveva accettare la
presenza di una guardia tra loro due. La sua cella era in una delle ali più esposte alla Tramontana. L’abitava da
solo e col solo suo fiato doveva correggerne la temperatura che d’inverno scendeva sotto i 20 gradi. Il maresciallo
Pellegrinotti ogni mattina lo trovava sul pagliericcio come morto stecchito. Cadaverico. Con i denti che battevano.
Si fece coraggio e andò dal direttore. “Una di queste mattine entrerò e troverò il signor Guareschi morto
assiderato. Sempre che non gli venga un colpo di giorno, che neanche di giorno là dentro la temperatura s’alza
d’un solo grado”.
Il direttore chiamò Guareschi.
“Se lei mi autorizza, chiederò al ministero con regolare procedura, che le installino una stufa in cella”.
Guareschi chiese se gli altri carcerati avessero la stufa. “No. Però occupano le celle in diversi e ciò già rende gli
ambienti meno freddi. Inoltre, hanno locali meno esposti del suo”, convenne il direttore.
Guareschi rifiutò: se gli altri non avevano stufa, neanche lui la voleva. Il direttore scrisse egualmente al ministero
aggiungendo che il detenuto era affetto da ulcera gastrica cronica. E il ministero, laconicamente: se il detenuto era
sofferente, si poteva fare ricoverare in infermeria perché quei localo erano riscaldati. Guareschi, ovviamente,
rifiutò anche l’infermeria.
Quanto accadeva fuori dal carcere, gli giungeva attutito. Come colpi di martello dietro un grosso muro. Gli arrivò
la notizia di aver vinto il Premio Bancarella. Scrisse all’amico Minardi: “Il premio Bancarella mi ha colmato di
soddisfazione”. Da Angelo Rizzoli, Saro Urzì che fu il Brusco nei film di don Camillo e gli era amicissimo, a
Carletto Manzoni, tutti gli scongiuravano di chiedere la grazia. Lo vedevano soffrire come un cane, invecchiare
prematuramente. Lui ascoltava tutti attentamente. Ma poi ritornava in cella. Lo si sentiva borbottare per ore.
Oppure quando era in cortile per le poche ore d’aria, si metteva a camminare a passi furibondi ai margini del
muraglione. Con la testa bassa. Le maniche della camicia scozzese rimboccate fino alle spalle. I baffi dritti come gli
aculei d’un riccio in combattimento. E continuava. Finché era esausto.
Pasqua ’55. Il maresciallo Pellegrinotti gli portò una colomba salvata dai punteruoli della sorveglianza per
potergliela consegnare intera.
“Lei ha già scontato metà della pena. Può chiedere la libertà condizionata. A qualifica di buono per aver sempre
tenuto buonissima condotta”.
Niente benefici
A Guareschi parve egualmente la concessione d’un beneficio. No. Ci riprovò il giudice di sorveglianza, Rino
Mezzatesta, galantuomo che, ricambiato, stimava Guareschi. Riuscì a convincerlo: la libertà condizionata non era
un beneficio, ma un diritto conquistato col suo comportamento ineccepibile. Dopo settimane di meditazione,
Guareschi compilò il documento per il ministero. Avrebbe avuto diritto a uscir dal carcere dopo dieci mesi,
trecento giorni. Ma tra i suoi tentennamenti e il ritardo con cui il ministero si preoccupò di dare il nulla osta, ne
passarono cento in più.
Tre luglio ’55. Già sera inoltrata. Il silenzio era suonato da un pezzo. Il maresciallo Pellegrinotti sbloccò senza far
rumore lo spioncino della cella di Guareschi. Lo vide che stava leggendo un giornale e, aperta adagio la porta, gli
si avvicinò in punta di piedi.
“Da domani sera non verremo più a importunarla battendo di notte le inferriate”, disse sottovoce.
Guareschi gli chiese anch’egli a bassa voce se avesse saputo qualcosa.
“Sono lietissimo di comunicarle che domani sarà rimesso in libertà. Me l’ha detto poco fa il giudice Mezzatesta”.
“Grazie. Mille grazie”.
“Arrivederci a domani. Buon riposo”.
“Grazie, altrettanto”.
40 Giovannino esce stremato dal carcere dopo 400 giorni di prigionìa
A metà pomeriggio, Guareschi riebbe il suo zainetto da internato militare. Nel corridoio centrale si fermò a
salutare alcuni detenuti. Ne aveva aiutati molti, i più indigenti, pagando per loro avvocati che gli assistessero nelle
cause, facendo giungere generi di conforto. Ebbe un momento di commozione e dovette voltarsi verso un angolo
per nasconderlo. Tentò di sorridere. Salutò a denti stretti il direttore. Strinse forte la mano al maresciallo
Pellegrinotti e uscì.
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Camminò adagio. Era sbarbato di fresco. Indossava lo stesso giaccone di velluto cammellato di quando 400
giorni prima aveva varcato il cancello per seppellirsi vivo. Ma aveva occhi cerchiati e spalle curve, il corpo era
molto più pesante. Dimostrava almeno 10 anni di più.
La notizia della scarcerazione era stata tenuta segreta. Fuori dal carcere eran pochi ad attenderlo, i più intimi. Ma
alle Roncole s’eran radunate centinaia di persone nel cortile della sua casa. Lo attesero con i cavatappi già infilati
nel collo delle bottiglie di Lambrusco e Fortana, attorno a una colossale torta sulla quale la signora Ennia aveva
scritto a caratteri di scatola “Viva la libertà!”.
Passi pesanti
Lo accolsero con un lungo applauso. Poi tacquero quando scese dalla macchina e camminò incontro ad Albertino,
Carlotta e Ennia che lo abbracciarono tutti insieme e restarono gonfi da scoppiare stretti a lui senza dir niente fino
a quando i tappi saltarono tutti insieme. A decine. E la gente si riscosse. E cominciò una grande festa. Il tramonto
scese coloratissimo sulla sua riconquistata libertà, che poi a leggere il decreto di scarcerazione era una satira di
libertà. Per sei mesi, fino al gennaio ’56, aveva il divieto di intrattenersi fuori casa oltre le 23 e, prima di
intrattenersi a colloquio con chicchessia doveva accertarsi che l’interlocutore avesse il certificato penale pulito.
Poteva circolare solo entro i territori dei comuni di Busseto, San Secondo, Polesine parmense, Zibello e
Roccabianca. In poche parole era confinato nel “Mondo piccolo”.
Gli restavano da vivere dodici anni. Subito aveva pensato di raccogliere stracci, famiglia ed espatriare in un Paese
lontano dall’Italia. L’avesse fatto, chissà, forse sarebbe scampato di più. Invece col passar dei giorni, rientrò come
un robot nella vita quotidiana. I propositi d’andar via e lasciare tutto s’affievolirono. Ma era pieno di complessi e
sonno. Faceva fatica a riabituarsi al cibo normale. Sostituiva sovente il mangiare col bere e fumare. E bicarbonato
a etti. E lunghe ore sfinito su una poltrona o sul materasso. Tentò di lavorare a una traccia d’una commedia
pensata in carcere.
Doveva intitolarsi Il dannato. Ma l’abbandonò dopo le prime battute.
Venne il 26 gennaio ’56 e fu libero del tutto. Aveva finito di pagare allo Stato quello che per lui non era e non
sarebbe mai stato un debito. Ora doveva cominciare a pagarne le conseguenze sociali. Come ogni ex detenuto.
Fuggì a Napoli, da amici. Girò per la città. Insonne, cercò il mare. Ma sentiva l’ansia crescere anziché attenuarsi.
La gente lo riconosceva ovunque, lo inseguiva, non lo lasciava mai solo. Non l’avevano dimenticato, ma Guareschi
sentiva che solo pochissimi l’avevano capito, avevano intuito che ciò che era stato fatto a lui era, in fondo, stato
fatto anche a loro. Che le conseguenze che egli avrebbe pagato ogni giorno della sua vita prima o poi l’Italia che
egli aveva combattuto e che tuttavia andava in putrefazione, le avrebbe fatte pagare a tutti gli italiani.
Risalì verso il Nord. Si fermò ad Assisi e gli piacque il potersi confondere tra i pellegrini ma trovare, al tempo
stesso sentieri silenti e orizzonti dolcissimi. Ascoltare tenui concerti di campane nel vespro. Si sistemò in una
camera d’albergo. Si fece raggiungere dalla signora Ennia e restò tre mise ad Assisi lasciando il suo recapito solo a
pochissimi.
“In certi momenti – mi raccontò molti anni dopo la signora Ennia – sembrava che s’acquietasse. Ma subito dopo lo
riprendeva il terrore. Era come una bestia inseguita. E come soffriva, poveretto: d’animo e di stomaco. E aveva
sonni brevi. Inquieti. Al chiuso gli mancava l’aria, all’aperto si metteva a camminare a testa bassa fino ad essere
esausto.
Madame Simplom
Quando ritornò a casa, il bisogno di solitudine sembrava diventato invincibile. Alla fine di giugno riuscirono a
portarlo quattro giorni a Parigi. Era trascorsi già cinque anni da quando aveva visitato la città per la prima volta,
ripetendo il sacro pellegrinaggio di suo padre, Primo Augusto, fino alla tomba di Napoleone.
Ma della Ville lumière questa volta vide soprattutto i lampi dei fotografi che lo bersagliavano in ogni angolo. Lo
portarono sulla rive gauche, lo fecero posare con alle spalle la Senna, al mercato delle pulci, sulla torre Eiffel. Gli
appesero un bimbo ai baffi e lo appiattirono contro il muraglione della Santé e non gli dissero che era il carcere di
Parigi finché non gli ebbero scattato centinaia di fotografie. “Verrà anche Margherita?” gli chiesero.
“Malheuresement” rispondeva Guareschi facendo smorfie da martire. Per la prima volta, dopo tanto tempo, tornò
a sorridere sereno. Un po’ di colore nel volto. Le vecchie doti di gran parlatore a riemergere. Giunse la signora
Ennia ed andarono a Saint Germains des Prés e, quando con i suoi baffi fece a gara con le barbe e i mustacchi
degli esistenzialisti, non sfigurò. Si divertì soprattutto quando i francesi concessero alla signora Ennia il titolo di
Madame Simplon perché avevano scoperto che la sua età era più o meno quella della celebre galleria.
Fu portato in trionfo nel ristorante Don Camillo che era stato più addobbato del solito con motivi del “Mondo
piccolo”. Alle pareti cappelli da prete, salami, prosciutti. Sulle mensole malvasie, lambruschi. E i camerieri tutti
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vestiti da Peppone con i baffi posticci e i cappelli alla Dio ti fulmini. Qui Guareschi ebbe un’idea e la disse a
madame Simplon: e s’aprisse un ristorante alle Roncole?.
I francesi lo vollero alla kermesse aux étoiles, manifestazione benefica che raccoglieva alle Tuilleries i nomi più
famosi di teatro, cinema, letteratura. “Non servirà il cannocchiale per veder le stelle” diceva lo slogan. Gli ospiti
d’onore infatti dovevan prender posto ognuno in un box e restare per ore in pasto alla gente. Come in un gran
museo delle cere con i personaggi in carne e ossa. Nel suo box si vede passare davanti 300 mila persone che lo
applaudivano, volevano toccarlo. Con la coda dell’occhio ogni tanto sbirciava la Lollobrigida che pimpava nel box
vicino al suo e non lo degnava d’uno sguardo. Firmava più autografi lui e sogghignava divertito.
41 – Giovannino si dimette dal “Candido” e si ritira nella sua campagna
Chiusa la parentesi di Parigi e ritornato a casa riprese a lavorare. Scricchiolava. Si sentiva arrugginito. Di
malavoglia ogni settimana tornava a Milano e ci restava due o tre giorni, il tempo di compilare il Candido. In
pratica ormai aveva ceduto la direzione ed erano sempre meno coloro che a Milano riuscivano ad avere contatti
con lui. S’inorsisce sempre più, dicevano gli amici.
Ma no, in fondo era sempre lui, spiegò a Enzo Biagi uno dei pochi che riuscivano ad avvicinarlo. Il fatto era che la
sua terra, confidò a Biagi, lo chiamava sempre più forte. Era nato per vivere in un paese. Lo rallegrava vedere
arrivare un contadino con la secchia del latte, andare in giro tra i pioppeti, sugli argini del Po quando tirava il
vento, tossire nell’umidità della nebbia, inalarsi odori di caseificio. E gli piaceva chiacchierare col falegname,
vestirsi come gli pareva. Mettersi alla finestra e guardare la pianura che era un grande spettacolo e non mutava
mai. Pensava allora che anche più in là, oltre l'orizzonte, c'era ancora tanta terra, altri campi e altri ancora. Il
tempo passava rapido e non gli rimanevano poi molti tramonti.
L’etichetta d’uomo di estrema destra che gli avevano appiccicato gli avversari, gli veniva rinfacciata in ogni
momento. Enzo Biagi lo difendeva. Ancora oggi lo difende: “Non è politicamente un uomo definibile. A un
intervistatore ha detto d’essere socialista, monarchico e cristiano e s’è rammaricato perché il socialismo di oggi
non è più quello della sua infanzia. E, io credo, un anarchico sentimentale che cerca di conciliare anche posizioni
impossibili, di mettere d’accordo Don Camillo e Peppone. Ha però convinzioni molto ferme”.
Pian piano, quasi senza avvedersene, Guareschi cominciò la ritirata da Milano. Sistemò a soffitta il sottotetto della
casa delle Roncole e vi trasferì lo studio. Ottenne due locali, l’uno sopra l’altro collegato da strade strettissime e
quasi verticali. Disagevoli al punto che l’unica volta in cui la signora Ennia provò a salirvi, non voleva più
scendere per paura di precipitare e dovettero portarla giù a braccia.
Diventò gelosissimo di quel nido sotto il tetto. Giocò, foderò di abete lucido le pareti. Appese caricature, stampe,
lettere che l’avevano particolarmente toccato, scatole vuote di sigari e sigarette marca “Don Camillo”, menù dei
ristoranti che nel mondo portavano il nome di qualche suo personaggio. Diceva d’avere dei segreti suoi. Apriva lo
sportello di una scansia e apriva una finestra spalancata sulla campagna. Faceva scorrete i battenti di un ripostiglio
e compariva, al completo, lo schedario delle migliaia di lettere ricevute in carcere. Indicava una porticina e si
entrava in una camera da letto da cacciatore., col tetto spiovente di muri foderati di tiglio naturale, mobili
inventati da lui, rustici e di curiose proporzioni.
L’archivista
Dietro uno sportello c’era un secchio che poteva essere calato fino al pian terreno per raccoglier posta o ricevere
la colazione quando si chiudeva lassù per 48 ore filate a lavorare. Dietro un altro sportello aveva nascosto il
giradischi che faceva andare con canzoni degli anni trenta.
In cassetti scorrevoli mise in bell’ordine raccolte di Candido, Bertoldo, Domenica del Corriere, Corrierino dei Piccoli. Poi
grandi buste di foto divise per argomento e spiegate: me, il papà, la Bassa, la casa delle Fontanelle, il vecchio
tram.
Per scrivania usava un tavolinetto a muro davanti al quale aveva appeso l’immagine d’un Cristo del Sacro Cuore,
sguardo dolcissimo e mano tesa a offrire il suo cuore circondato di luce. E di sopra, oltre l’ultima botola, un'altra
stanza per l’archivio, dal linoleum scolpiti in gioventù alla sentenza che l’aveva condannato. Al bugliolo con,
verdognola sotto il coperchio, la foto della faccia di Scelba. Alle edizioni dei libri su “Don Camillo” in tutte le
lingue del mondo, russo, polacco, giapponese, turco, finnico, lituano, esquimese.
Nell’ottobre ’57 diede le dimissioni da direttore di Candido e anche ufficialmente cedette il timone. Poté così
collaborare restando più sovente a casa. E, mentre Guareschi fattore di Campagna, seduto in osteria a bere u
bicchiere di Lambrusco col falegname, il capomastro e il contadino, assumeva contorni sempre più precisi, nei
suoi scritti su Candido s’avvertiva un trapasso profondo nel semplice cedere il timone e diventare fuochista come
lui chiamava i collaboratori. Le vignette erano inquieta e dure. Gli articoli sovente non più diritti come una lama,
ma a volo concentrico. Ispezioni volte più a sondare chi scriveva che chi leggeva.
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Anche Don Camillo andava mutando: viveva nuove storie, ma invecchiava rapidamente assumendo profili
stabili, netti, che rifiutavano l’avventura e sceglievano la meditazione. Ancora una volta Don Camillo era quella
gran parte di lui che voltava le spalle alla celebrità, al ruolo di fenomeno, per starsene al paese. Come appunto
Don Camillo che, fatto monsignore per esigenze cinematografiche e immerso nella vita di Roma, fuggiva e
tornava al Mondo piccolo per vivere da semplice prete. I personaggi del Corrierino delle famiglie invece si
rafforzarono con un dialogo casalingo eppure profondo tra presente e passato. In essi riaffiorava la sua
adolescenza. I ricordi dell’infanzia erano teneri. La vita d’ogni giorno aveva la filosofia un po’ critica, un po’
rassegnata che sosteneva la media e piccola borghesia italiana.
Aveva adocchiato un vecchio rustico a pochi metri dalle aiuole della casa in cui era nato Giuseppe Verdi.
L’acquistò e decise di trasformarlo in ristorante con bar e sala da ballo. Forse in quei giorni s’accorse di poter
essere ancora un uomo felice. Bastava non pensare a Milano, all’ambiente di lavoro e quanto accadeva attorno alla
Bassa e a tutte le Basse d’Italia. Non era facile, no. Ma progettando muro dopo muro, infissi e sedie, banconi e
cucine e tutto, dalla taglierina per il pane alla legnaia, gli parve che, al fine, fosse possibile riuscirci.
A Milano andava ormai solo per portare il compito. Lo compilava chiuso nella sua tana aerea lavorando
ininterrottamente una volta la settimana per 30, 40 ore consecutive. Alla vecchia maniera, bicarbonato, sigarette,
alcool, caffè. E simpamina, quando sentiva di perder colpi. Poi sulla spider stanco morto, scappottata per avere
l’aria in faccia e non addormentarsi, correre a Milano, gran fermata nel cortile della Rizzoli, discussione per
l’impostazione di Candido, ritorno a Roncole. Una dormita e poteva tornare a progettarsi il ristorante che già in
giro chiamavano la Piramide di Cheope per tutto il cemento armato previsto. Ma le sfuriate sul lavoro erano
fatiche pagate care, ogni mese che passava lo segnava per due.
42 – Il «Candido» non sopravvive alle dimissioni di Giovannino
Il 28 ottobre ’58, Giovanni XXIII divenne Papa. Guareschi, che alla morte di Pio XII aveva provato un grande
smarrimento poiché aveva temuto che con lui fosse tramontata una coscienza ferma ed eterna, che altri non
avrebbero saputo rimpiazzare, osservò con curiosità e apprensione il nuovo pontefice che, lungi dal rispettare
cerimoniali, gettava a dritta e a manca la propria umanità. Lo studiò quando appariva sul video: chiunque avesse
avuto la taglia del nuovo Papa avrebbe tentato di sorvegliarsi temendo di cadere in goffaggini. Giovanni XXIII
invece si muoveva proprio per quello che era e come poteva. Non dissimulava fatica nello scendere e salir scale.
Sembrava in ogni momento di rotolare. Lo zucchetto gli traballava sempre in procinto di cadere.
Il nuova Papa era lo stesso che nunzio apostolico a Parigi, aveva donato una copia del primo Don Camillo tradotto
in francese al presidente Auriol e all’ambasciatore sovietico. Alessandro Gnocchi, nel suo libro appena uscito “Don
Camillo e Peppone: l’invenzione del vero”, scrive: “Il 4 luglio 1959 Giorgio Pillon, capo della redazione romana di
Candido, scrisse una lettera a Guareschi per parlargli di una proposta che veniva da Oltretevere. “(…) Sono stato
ad Assisi da don Giovanni Rossi, alla Pro Civitate Cristiana. Don Giovanni – che il giorno prima era stato dal Papa
– trovò modo di dirmi che parlando con il Pontefice della necessità di rimodernare i testi religiosi, si era lasciato
scappare l’idea di domandare a Guareschi di scrivere una nuova, più moderna e più spigliata dottrina cristiana. Il
Pontefice non aveva affatto trovato troppo ardita una simile proposta. Ecco perché don Giovanni a mio mezzo ti
domanda se trovi la proposta interessante (…). Don Giovanni (…) mi ha detto testualmente” (…) Naturalmente
noi forniremmo a Guareschi tutto il materiale e l’assistenza di cui egli avrebbe bisogno per questa opera”. Don
Giovanni, infine, mi ha detto che se tu accetti, egli è pronto a portarti dal Papa (…)”. Guareschi sulle prime non
seppe dir no. Prese tempo. Pensò. Ripensò. Alla fine, decise di non essere all’altezza. Imbarazzatissimo, fece
chiedere al Papa mille volte scusa. Ebbe, come risposta, una domanda: il Guareschi di dieci anni prima avrebbe
accettato?.
Cominciò a scrivere la sceneggiatura del quarto film su Don Camillo, Don Camillo monsignore ma non troppo.
Considerando le delusioni che aveva avuto dal terzo film la cui sceneggiatura era stata massacrata, accettò con
molta riluttanza di far ritornare sul set i suoi personaggi. Ma le spese fatte nei poderi lo avevano dissanguato, gli
serviva denaro per finire la sua Piramide di Cheope, il ristorante.
«Candido» addio
A Brescello seguì con attenzione le riprese fatte sotto la regia di Carmine Gallone. S’impuntò quando il regista
volle eliminare la scena del trattore regalato dalla Russia al paese di Peppone. “Esigenze cinematografiche – si
giustificò Gallone - . Un conto è narrare per iscritto, un altro è farlo in pellicola. Quella scena mi spezza il ritmo”.
La verità era invece che la scena faceva politicamente paura in un’Italia che già stava paurosamente sbandando a
sinistra. Guareschi affrontò l’intera Cineriz e la spuntò. La scena fu girata con grande dispendio di mezzi e a
Brescello la ricordano come una delle più fastose. Ottanta milioni di spesa e si era nel ’61. Addobbi a non finire in
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tutta la piazza. Centinaia di comparse. Il trattore che avanzava tra due ali di folla e, sopra, tra bandiere rosse e
fiori che piovevano da ogni parte, una cantante famosa intonava Bandiera rossa.
Com’era ormai consuetudine, il quarto fil su Don Camillo fu proiettato in anteprima a Busseto. Erano i primi
d’ottobre del ’61. Alla fine del primo tempo Guareschi s’alzò col volto paonazzo e uscì gesticolando dalla sala. La
scena del trattore era stata tagliata. Più tardi fissò furente Carmine Gallone con la stessa faccia con cui aveva
guardato i giudici che l’avevano condannato alla galera. Erano seduti alla trattoria del Sole a Busseto e Gallone
ancora ripeteva le proprie ragioni. Guareschi a un tratto troncò bruscamente la discussione. Disse che quella notte
stessa si sarebbe dimesso dal Candido. E attorno scese un improvviso silenzio.
Il giorno dopo Angelo Rizzoli ricevette la lettera di dimissioni di Guareschi. Irrevocabili.
“Non posso dargli soddisfazione: il film è già stampato, ormai in circuito. Può il Candido continuare senza
Guareschi?” chiese agli amici e colleghi del dimissionario.
“No!” risposero tutti.
Il Candido morì il 14 ottobre ’61, tre giorni dopo le dimissioni di Guareschi. In Italia alcuni giornali lo salutarono
con rimpianto e rispetto. Altri gli resero almeno l’onore delle armi. Ci fu, al solito, chi sparò a zero. In testa l
‘Unità. “L’anticomunismo si vergogna d’aver riso con Candido”.
Guareschi ora non aveva al fine neppure un suo foglio da cui reagire.
Era del tutto inerme.
Pudore
Si sentiva muto. Paralitico. Gli telefonò Mario Tedeschi, direttore del Borghese. Dopo qualche esitazione, Guareschi
accettò d’incontrarlo a Roma in un albergo dalle parti di via Ludovisi, sale sempre in penombra, camerieri
decrepiti e vecchi divani.
Come al caffè dei Preti a Parma quand’era giovane e in cerca d’un lavoro fisso. Come tornare al punto di
partenza. Se avesse accettato di collaborare al Borghese, lo sapeva, sarebbe stato ancor più facile per gli avversari
bollarlo come fascista poiché avrebbero potuto collocarlo in un’area che non si era ritagliato da solo. Ma chi altro
gli avrebbe ancora offerto di lavorare come giornalista d’opinione?. Il bisogno di confrontare ancora le proprie
idee su un foglio di carta stampata era fortissimo.
“Sul Borghese – gli disse Tedeschi – sei assolutamente libero di scrivere ciò che vuoi. Rispetteremo le tue idee.
Anche contro noi stessi”.
E fu un rapporto davvero corretto: Guareschi, anche a rileggerlo oggi, non concesse nulla di suo alla linea politica
del Borghese. Caso mai fu il Borghese a preparargli certi spazi. Ecco Mario Tedeschi nella prefazione di L’Italia in
graticola, volume che raccoglie alcuni scritti e disegni di Guareschi su quel settimanale: “Nacque così il rapporto
con il collaboratore più orso che il Borghese abbia mai avuto. Rare lettere e telefonate. Avevamo in comune,
Guareschi e noi, quel pudore dei sentimenti, quella timidezza negli affetti e quella saldezza nelle convinzioni sulle
quali gli uomini fondano la loro amicizia. Non avevamo bisogno di scrivergli per dargli direttive. Né lui doveva
chiedercene. Il nostro era un patto di libertà”.
43 – Giovannino, solo in casa alle Roncole, viene colpito da infarto
I tempi che avanzavano incattivivano Guareschi: non si riconosceva nella civiltà dei consumi, tanto meno nella
cultura sempre più massificata. L’alta marea dei compromessi di sinistra, del pateracchio tra governi e opposizioni
consociate nel potere e nella corruzione lo isolava. Nel Borghese le vignette che pubblicò rispecchiarono quello
stato d’animo: l’Italia divenne una bambola allucinata costretta a un eterno banchetto nel quale le portate erano
gli scandali degli anni Sessanta. La Democrazia cristiana a volte era una donna in preda a gnomi famelici. Altre un
essere mostruoso e berciante, un Frankenstein femmina con le membra, che erano poi le varie correnti,
rattoppate e ricucite le une sulle altre col filo spinato. Oppure, infine, era una donna immensa con tre sederi per
poter occupare tre poltrone in una volta sola. A Roma due poliziotti scortano tre austere signore che vengono
cacciate dalla capitale col foglio di via obbligatorio: sono la Competenza, la Dignità e l’Onestà. Nel ’62 era estate.
Guareschi stava seduto al suo tavolo di lavoro nella tana aerea sotto il tetto della casa delle Roncole quando sentì
un gran dolore al petto e capì che era infarto. Non c’era nessuno in casa. Albertino era sotto le armi, la signora
Ennia e Carlotta eran fuori per una breve vacanza. Mentre si piegava su se stesso, rammentò di aver letto da
qualche parte che l’unica speranza di salvezza quando si è colti da infarto è restare immobile e calmo per almeno
24 ore. Riuscì a raggiungere adagissimo il letto. Si coricò. Restò immobile un giorno e una notte. Vide tramontare
il sole due volte e poi, sicuro che ormai le 24 ore erano trascorse, si girò piano, alzò il telefono e chiese aiuto.
Fu ricoverato in una clinica e curato. Gli dissero che se non fosse rimasto immobile quelle 24 ore, sarebbe
sicuramente morto. Il cuore era ridotto male. Il fegato peggio. I medici aggiunsero di evitare da quel momento in
poi di bere, fumare, salire e scender scale, di affidarsi a una dieta rigorosa, a lunghi e regolari riposi.
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Il passero infreddolito
L’amico Giorgio Torelli, che a vederlo oggi coi baffi e capelli d’argento pare un Guareschi scampato al diluvio,
andò a intervistarlo alle Roncole per Epoca i primi del gennaio ’63. Torelli trovò Guareschi seduto su una sedia a
dondolo, davanti al camino. Sorbiva aranciata con una cannuccia.
“E dunque tu sei qui, solo tra i tuoi re” disse Torelli.
Guareschi lo fissò dalle orbite cerchiate e sofferenti.” I tuoi Re, cioè i tuoi personaggi, la gente che hai descritto e
per la quale hai scritto”.
Quel segno parmigiano nella parlata di Torelli, gli occhi tondi, un amico, certo, un amico: Guareschi permise una
conversazione pacata. S’alzò in piedi, staccò il tabarro dal portamantelli e portò Giorgio a vedere il ristorante
vicino alla casa di Verdi. Torelli trascrisse il monologo di Guareschi: “La Piramide di Cheope. È stato Albertino a
rotolare quasi tutti i massi. Visto che plinti? Visto che arcate in cemento armato? Il rimo pezzo era una stalla,
bellissima, antica, poi il grande salone e i piani superiori sono stati proprio un’emanazione della prima struttura.
E sulla porta c’è un Verdi in piedi ad altezza naturale e ho lasciato un albero chiuso tra i muri nel piccolo
vestibolo. E guarda in quell’angolo, là in fondo, quella che pare una cappella a volta alta è una culatelliera e qui,
appesi a queste funi che corrono su carrucole , invecchiano in silenzio i culatelli. Pensa: per avere un culatello
bisogna sacrificare un intero prosciutto! E poi bisogna saperli palmare, annusare e guidarli con piccoli sapienti
tocchi verso l’alto, piano piano, settimana dopo settimana, perché la stagione sia perfetta. Tutto ciò mi distrae.”.
“Mi ricordi Cincinnato”.
Camminarono sulla neve e ritornarono a casa. Guareschi ansimava un po’.
“Cincinnato?” rise forte e buttò giù una manciata di bicarbonato. Ricominciò a dondolarsi. Ma prima, Torelli gli
aveva chiesto che si facesse ritrarre dal fotografo di profilo, davanti alla campagna bianca: un sorriso timido,
schivo, pieghe sulle guance, l’occhio del passero infreddolito, la lunga visiera del berretto più corta del naso, i
baffi come un rastrello.
Gli restavano cinque anni da vivere.
La rabbia
Verso la primavera del ’63 gli fu proposto da un produttore romano di scrivere la sceneggiatura d’un film a metà
con Pier Paolo Pasolini: La rabbia, e a Guareschi toccò la sceneggiatura del secondo tempo. Doveva commemorare,
come già faceva Pasolini nel primo tempo, dieci anni della vita italiana visti con la sua ottica. Era certamente una
bella sfida. Accettò. Chiese e ottenne dal produttore di evitare di presentargli Pasolini. Il Pier Paolo non era tra i
tipi di campione che egli prediligeva.
Enzo Siciliano nel suo Vita di Pasolini parte dalla considerazione che Pasolini fosse caduto ingenuamente in una
trappola accettando di essere affiancato a Guareschi “esempio corrivo del qualunquismo italiano”. ”Mettere il
proprio nome da parte di Pasolini – scrive Siciliano – accanto a quello di costui, significa cedere alle ragioni dei
suoi avversari che lo stimavano niente altro che un personaggio da scandali, sia pure siglato a sinistra. Pier Paolo
Pasolini ebbe la leggerezza di consentire a un simile stratagemma. Quando l’intero film fu pronto e lo visionò,
ritirò la firma , ne impedì la circolazione. Si disse vittima della propria ingenuità”.
Prima che Pasolini negasse la paternità del primo tempo, il film era stato in circolazione nelle sale italiane per
alcune settimane. Il secondo tempo fatto da Guareschi era un’analisi precisa e gustosa della realtà italiana.
Fuggiva la retorica annientando e, per induzione, ridicolizzando la platealità appiccicosa e conformista che
Pasolini aveva profuso nella sua prima parte con “ingenuità”. E mentre Pier Paolo, dopo il confronto con
Guareschi, correva attraverso tutta Italia con il suo Comizi d’amore “chiedendo ovunque – scrive Siciliano – a
calciatori famosi , a ignoti contadini del Crotonese, cosa pensassero dell’amore e dell’eros”. Guareschi accettò di
tornare a scrivere una sceneggiatura su Don Camillo. La quinta e ultima.
La trasse dal Compagno Don Camillo, pubblicato nell’ottobre ’63.
Una nave che affonda all’orizzonte, una zattera con una maglietta sdrucita e tricolore che sventola a mo’ di vela e
l’angioletto e il diavoletto seduti su un lato della zattera, immusoniti a fissare Guareschi che, viso smagrito e baffi
cadenti, saluta come un capitano deciso ad affondare con la propria nave. Questa è la vignetta che chiude la
prefazione de Il compagno Don Camillo, l’ultima di Guareschi che abbia ornato una raccolta di racconti su Mondo
piccolo.
44 – L’ultima, profetica vignetta di Giovannino sulla Cecoslovacchia
Gli occorreva spazio per dar sfogo alla voglia di sognare. Di tradursi non solo in parole, ma anche in immagini.
Dalla fine del ’64 cominciò a pubblicare vignette su La Notte. Lavorò con l’entusiasmo dei suoi vent’anni. Il
pubblico de La Notte gli piaceva. Era quello spicciolo e sempre in rotazione che aveva avuto quando scriveva alla
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Gazzetta di Parma. Lo costringeva a essere aggiornato. A tenere sempre accanto a sé la radio accesa o i quotidiani
per seguire l’evoluzione dei fatti senza perder battute che, se no, la vignetta risultava subito quella di ieri. In meno
di quattro anni ne pubblicò oltre mille. Gran parte sono di stretta politica interna: la Democrazia cristiana, grassa
e tronfia, prega un po’ Cristo, un po’ Marx: “Bisogna intensificare la lotta contro i nostri avversari, specialmente
quelli democristiani!”.
Altri disegni di politica internazionale. Sullo sfondo del Cremlino un gruppo di alti dirigenti sovietici ammonisce il
mondo con un discorso : “Da oggi il popolo russo non sarà più costretto a stringer la cinghia: l’industria di Stato è
in grado di formare a ogni cittadino un paio di bretelle!”.
Una gran parte delle vignette , infine, hanno taglio casareccio. Da tipica provincia italiana. Piazze con portichetti
bassi e in penombra, mercatini di periferia, strade sprofondate tra campi pieni di neve, giardini pubblici con
bambini che corrono tra cartelli dove c’è scritto “Vietato calpestare i vecchi”.
Al tempo delle vignette su La Notte, Guareschi aveva definitivamente perduto ogni contatto con la cultura e gli
intellettuali italiani. Per questi ultimi poi lui non era, neppure quanto, , quanto lo era , un intellettuale. Aveva
voltato loro per sempre le spalle, felice d’averlo fatto, d’essere emerso da quel mondo morto in cui i Beniamino
Placido, tanto amico di Montanelli, ancora gli attribuiscono il ruolo di pessimo scrittore “con una visione
dell’Italia e della Bassa Padana ispirata a una ipocondria mediocre, malsana e maligna”.
A Guareschi interessava ormai solo la gente e il futuro della gente. E aveva un suo gran cruccio: riusciva ancora a
parlare con la gente? “Io vivo come un vecchio merlo impaniato sulla cima di un pioppo. Fischio, ma come faccio
a sapere se quelli che stanno giù mi sentono fischiare o mi scambiano per un cornacchione?”.
Prese a vagabondare. Tre mesi in inverno alle Roncole, gli altri tre in Svizzera dai parenti di Cademario, altri tre
in una villetta di Cervia. Quindi ancora alle Roncole per ricominciare il ciclo.
I figli si sposarono. In un racconto che fu pubblicato in Vita familiare, Guareschi li salutò: “Un povero scribacchino
s’arrabatta per creare dei personaggi da usare nelle sue storie ed ecco che, quando li ha trovati, questi personaggi
a uno a uno li abbandonano. Io ne avevo trovato sei: Don Camillo e Peppone per le storie diciamo esterne, tipo
esportazione, Albertino, La Pasionaria, Margherita e il cane Amleto. Amleto è stato il primo a lasciarmi, in modo
banale, finendo i suoi giorni sotto un carro. Il secondo è stato Albertino , in modo ancor più banale, diventando
cioè capofamiglia. Adesso anche la Pasionaria ha abbandonato la mia piccola azienda passando dal settore
letterario al settore lattierocaseario”.
Vennero i nipoti e furono loro in certi giorni d’ulcera e di male a tutto, a renderlo trattabile. A volte, chiuso a
lavorare sotto il tetto della casa delle Roncole., sporgeva la testa per urlare contro qualcosa o qualcuno dalla botola
del montavivande. Ma come vedeva in basso infilarsi nel riquadro la testolina di uno dei nipotini, zittiva all’istante.
Sorrideva. Si placava.
Venne il febbraio del ’68 e, a Cademario in Svizzera, Guareschi scrisse le sue ultime cose. Si tratta del fascicolo
L’Albania è vicina, accadde domani. Il primo capitolo (L’invasione) è stato pubblicato sul Borghese. Il secondo (La flotta
russa nell’Adriatico) è solo abbozzato. La Repubblica italiana è ormai nelle mani dei politicanti molli e corrotti. Il
compromesso e la corruzione serpeggiano ovunque nel governo e nel sottogoverno che unisce tutti, comprese le
sinistre, tra il disgusto e la quasi assuefazione degli italiani.
La putrefazione dello Stato si specchia anche nella politica internazionale. L’Italia infatti cerca di guidare anche i
rapporti con l’estero all’insegna del compromesso . Accetta di stanziare aiuti economici proprio per quei Paesi che
più chiaramente le sono ostili . Ed ecco che compare Aldo Moro, presidente del Consiglio, unico ad accorgersi
della pericolosità della situazione. Vuol fare marcia indietro. Correggere la fallimentare politica italiana
sospendendo , per cominciare, gli aiuti all’Albania.
Una mattina a Brindisi sbarcano in forze gli albanesi. Sono armati fino ai denti. Sono gli stessi che fino a quel
momento, in nome della politica compromissoria e conciliare, l’Italia aveva sostenuto . Cominciano ad occupare
centri vitali. Il governo insiste sulla sua politica dissennata. Aldo Moro, l’unico che potrebbe intervenire, ora che
sembra definitiva la sua intenzione di cambiare politica viene rinchiuso con la forza in una cantina di Maglie, nel
territorio già occupato dal nemico. Con Moro bloccato la Repubblica potrà restare saldamente nelle mani dei
politicanti molli e corrotti. Il racconto s’interrompe qui. È probabile che Guareschi volesse continuarlo dopo
averlo sottoposto al giudizio di alcuni amici ma non ne ebbe il tempo. Quando sono salito sulla sua aerea tana
sotto i tetti della casa delle Roncole, e lui se ne era già andato nel ’68 per sempre, e c’era un gran silenzio tra gli
scaffali e le “avventure” tra le pareti , eppure lo stesso pareva lui ci fosse , sul suo tavolo di lavoro era aperta
un’agenda e sul foglio era disegnato un albero spoglio dal quale pendevano, disarticolati e tragici, tanti impiccati.
Sotto il disegno scritto: “Primavera di Praga”. La data ’68.
“Aveva previsto l’invasione della Cecoslovacchia con molti mesi d’anticipo”, ho detto sottovoce . Già, perché lui era
morto il 22 luglio ’68 e l’invasione sovietica di Praga è del 21 agosto.
Albertino non ha risposto. Ci son momenti in cui la voce non viene su.
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45 – Giovannino è morto , la sua Bassa lo piange, l’Italia ufficiale tace
“L’è mort Zvanì”, e “puret, l’è mort Zvanì” diceva il pescatore passando di bottega in bottega. Dal fondo di viale
Bellucci si avvicinavano alla casetta di Guareschi donne vestite di nero e uomini in maniche di camicia con
qualcosa di lungo e bianco in mano. E potevano sembrar candele, ma erano invece cartoncini avvoltolati con i
quali gli istituti di beneficenza e le parrocchie di Cervia attestano che un obolo è stato versato in memoria di un
defunto.
Guareschi aveva acquistato quella casa in via Bellucci pochi anni prima dal proprietario d’un cantiere di
imbarcazioni di diporto.
Wanda, la suocera del bagnino, la mattina di quel 22 luglio ’68, poco dopo le 7 aveva spalancato la finestra della
camera da letto e aveva dato il buon giorno a Guareschi che stava aprendo la sua: bel giorno, signor Guareschi|.
Guareschi aveva alzato lo sguardo verso il cielo terso. Era in pigiama e vestaglia. Morì in quell’istante. Il cuore gli
si fermò di colpo. Riuscì a far due passi verso il letto e vi cadde in ginocchio di fianco, con la testa appoggiata alle
coperte, la bocca aperta.
Lo trovò Carlotta. La signora Ennia divenne bianca bianca. Già da mesi temeva potesse accadere: il volo di
Guareschi s’era fatto sempre più stanco. Accumulava piaghe di tensione e dolore . Qualcosa in lui si stava
spegnendo velocemente . La sua voglia di vivere era al lumicino.
Il corpo di Guareschi fu riportato alle Roncole il giorno dopo. Ad attenderlo c’era qualche amico venuto da
Milano. Poi, cappelli in mano e occhi bassi, gli amici delle Roncole di Busseto, delle Fontanelle. I contadini, i
muratori, i briscolanti lo vegliarono .
Era stato composto nella sua giacca di velluto a coste, camicia a scacchi. Nel preparargli la giacca avevano trovato
nelle tasche una scarpetta di Carlotta quando aveva ancora pochi mesi, un pezzo di roba dura che pareva legno
pietrificato ed era invece il pezzetto di parmigiano con le impronte dei dentini di Albertino, che Guareschi aveva
stretto tra le mani e portato sul cuore per mesi sulle sabbie dei lager nazisti.
Quindici giorni prima, nel suo bar, Guareschi aveva fissato negli occhi il capomastro Pirén e non si capiva cose
fosse quel sorriso che gli tremava sotto i baffi. Gli aveva detto di scavargli, dopo morto, una buca profonda . Poi di
prendere una benna di terra sul greto del Po e coprirlo, che per riposar bene, il corpo deve restare a contatto con
la terra fresca in una buca profonda, senza mattoni, marmo o altre porcherie de l genere.
Giunsero messaggi di cordoglio dall’Italia. Moltissimi dall’estero. Erano della gente comune e semplice alla quale
Guareschi aveva donato se stesso.
Nessun messaggio dalle autorità di governo.
La televisione di Stato, a quei tempi sola e incontrollata. O meglio troppo controllata, liquidò in pochi secondi, ma
proprio in pochi secondi, la notizia e il riassunto lampo della vita di Guareschi in giornalismo e letteratura. I
giornali di regime buttarono la notizia nelle pagine interne. Titolarono con un certo sforzo: Un uomo solo fu tutto
ciò che seppe inventare il Corriere della Sera “ È morto lo scrittore che non era mai sorto” sfotté l’Unità. La politica
e cultura ufficiali dell’Italia di allora ebbero una gran fretta di seppellirlo. Di non sentirne mai più parlare . Di
toglierselo dai piedi, che il suo fantasma , nemmeno quello, tornasse mai più. Baldassarre Molossi , l’amico
direttore della Gazzetta di Parma, a denti stretti dovette scrivere “Italia meschina”: “L’Italia ufficiale meschina e
vile, l’Italia provvisoria come lo stesso Guareschi con amara intuizione la definì nel 4 luglio ’47, ci ha fornito ieri
l’esatta misura del limite estremo della sua insensibilità morale, della sua pochezza spirituale … L’abbiamo capito
ieri , mentre ci contavamo tra noi vecchi amici degli anni di gioventù e qualche giornalista, sulle dita delle due
mani. Ma la gente della Bassa, chiusa nel suo dolore, vestita di nero, muta sotto la pioggia battente, era accorsa in
massa. Guareschi sapeva parlare agli animi semplici. Il suo messaggio, ignorato e rifiutato dagli intellettuali, è
stato perfettamente compreso dalla gente comune. Gli altri, che contano?”.
Il cielo era a teloni grigi a bassi. A tratti pioveva. A tratti correva il vento. La signora Ennia salutò il feretro del
marito sulla soglia di casa. Non ebbe la forza di seguire il corteo. Sarebbe caduta a terra dopo pochi passi, lo
sapeva. Il corteo si mosse alle 10. Lo precedette il gonfalone di Busseto che la giunta comunale di allora, tutta
rimasta al completo in ferie, si degnò di mandare. La bara fu portata a spalle da Albertino, dal marito di Carlotta,
dagli amici delle Roncole.
La gente s’incamminò dietro il feretro. Ora aprendo, ora richiudendo gli ombrelli. C’erano i chierichetti. I bimbi
delle scuole. Il parroco di Roncole, don Adolfo Rossi, che salmodiava. E solo due corone di fiori. Niente musica.
La sirena d’una fornace soffiò forte tre volte unendosi allo scalpiccio dei passi della gente. I tre sibili s'allargarono
nella Bassa e gli operai, nelle loro tute di lavoro, stavano in piedi silenziosi accanto ai finestroni. A Guareschi
sarebbe piaciuto.
Prima d’officiare il rito funebre, don Rossi, il parroco, si piantò davanti all’altare tenendo tra le mani un libro di
Guareschi. Ne lesse un brano e la voce, bassa, rotolò come un tuono che s’avvicina.
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“Così scrisse una volta: adesso vi racconto tutto di me: ho l’età di chi è nato nel 1908, conduco una vita molto
semplice , non mi piace viaggiare, non pratico nessuno sport, non credo in tante fantasticherie. Ma in compenso
credo in Dio”.
Dopo la messa in latino la bara fu portata nel cimiterino di Roncole. Era stata scavata una fossa sulla sinistra,
subito vicino al cancello d’entrata. Ed era stata portata una benna di terra presa dal greto del grande fiume. La
bara fu calata molto in fondo, nella terra viva. Pirén, il capomastro, gettò la prima palata. Come a un segnale la
gente cominciò lentamente ad allontanarsi per lasciare accanto alla tomba solo i parenti più stretti.
Il cielo s’era fatto più basso. Fuori, nel mondo, la gente continuava le vacanze e i carri armati russi stavano per
piombare su Praga. Insomma, tutto come prima. A parte Roncole.
Più vuoto senza i baffi di Guareschi ad affacciarsi ogni tanto nel ristorante o a forare le nebbie, nascosti tra le
pieghe d’un tabarro tirato fino al naso.
E sapevo d’essere proprio fuori dal mondo. Eppure mi pareva di udir Guareschi parlare da una delle sue storie:
“Tutto bene – diceva – perché è l’ampio eterno respiro del fiume che pulisce l’aria. Del fiume placido e maestoso
sull’argine del quale, verso sera, passa rapida la Morte in bicicletta . O passi tu sull’argine di notte e ti fermi e ti
metti a sedere e guardi dentro il piccolo cimitero, che è lì sotto l’argine. E se l’ombra d’un morto viene a sedersi
vicino a te, tu non ti spaventi e parli tranquillo con lei”.
Beppe Gualazzini
INDICE
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Premessa ………………………………………………………………………
1 – Nacque nella casa dei socialisti e odiò per sempre i comunisti……………………….
2 – Faceva le serenate alle ragazze col mandolino, e i padri lo inseguivano col forcone…
3 – Al ginnasio con Zavattini faceva un giornale, scritto a mano e in copia unica……….
4 – Quando al ristorante Giovannino fu costretto a passare il sale a Togliatti……………
5 – Un premio letterario di 200 lire (del 1929) svanisce per una beffa…………………...
6 – Faceva il cronista di provincia e per campare si creava da solo le notizie……………
7 – Voleva andare a Milano per far fortuna, gli toccò partire militare……………………
8 – Quando Sandra Mondaini andava in redazione al Bertoldo…………………………..
9 – Si sposa con la tariffa dei poveri: cinque lire e niente musica………………………..
10 – Arrestato come disfattista, poi rilasciato ma spedito al fronte………………………..
11 – Deportato nel lager urlava: “Non muoio neanche se m’ammazzano”………………..
12 – Nel lager sfida la censura delle SS e allestisce un teatrino nella baracca…………….
13 – In campo di sterminio si fa crescere i baffi per la prima volta……………………….
14 – Stremato dagli stenti, quando arrivano gli alleati mangia tre chili di zucchero………
15 – Giovannino e gli altri reduci tornano a casa nell’indifferenza generale……………...
16 – Giovannino fonda il Candido, combattuto da destra e da sinistra……………………
17 – Il Candido si schiera con i monarchici e perde la battaglia………………………….
18 – Giovannino inventa i “Trinariciuti” e Togliatti si arrabbia………………………….
19 – Gli attivisti del Pci distruggono i manifesti elettorali di Giovannino……………….
20 – Giovannino di nuovo in guerra, questa volta contro la retorica…………………….
21 – Dalla penna di Giovannino prende vita Don Camillo………………………………
22 – Dal Vaticano critiche severe a Giovannino per Don Camillo………………………
23 – I critici italiani snobbano Guareschi, best-seller mondiale………………………….
24 – La madre va a Parma in bici per vedere un film di Giovannino…………………….
25 – De Sica e Camerini per paura rifiutano la regia di Don Camillo……………………
26 – Giovannino interpreta Peppone, ma come attore è un fiasco……………………….
27 – Gli attivisti del Pci boicottano le riprese del Don Camillo………………………….
28 – Interviene Giovannino, sospeso lo sciopero sul set Don Camillo…………………..
29 – La critica ignora Don Camillo, ma il film diventa campione d’incassi…………….
30 – Nella casa nuova di Giovannino c’è una stanza della neve…………………………
31 – Giovannino si arrabbia per un articolo pepato di Montanelli……………………….
32 – Giovannino condannato per la vignetta sul Nebbiolo di Einaudi……………………
33 – Quando Giovannino contestò l’inviato di De Gasperi……………………………….
34 – Dopo il voto del ’53 gli attacchi cattolici contro Giovannino si intensificano………
35 – Le false lettere di De Gasperi che inguaiano Giovannino……………………………
36 – Comincia il processo contro Giovannino per le lettere di De Gasperi……………….
37 – Condannato per diffamazione, Giovannino sceglie il carcere………………………..
38 – In carcere Giovannino soffre la fame e l’ulcera si aggrava…………………………..
39 – Giovannino in carcere era trattato più duramente di un omicida…………………….
40 – Giovannino esce stremato dal carcere dopo 400 giorni di prigionia…………………
41 – Giovannino si dimette dal “Candido” e si ritira nella sua campagna…………………
42 – Il “Candido” non sopravvive alle dimissioni di Giovannino…………………………
43 – Giovannino, solo in casa alle Roncole, viene colpito da infarto……………………..
44 – L’ultima, profetica vignetta di Giovannino sulla Cecoslovacchia……………………
45 – Giovannino è morto, la sua Bassa lo piange, l’Italia ufficiale tace……………………
Pagine da I a XLVII: foto e vignette.
pag.
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Bibliografia essenziale di Giovannino Guareschi - Archivio Guareschi - «Club dei Ventitré»
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