donna - Liceo Classico Dettori
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Il ruolo della donna nella società greco-romana: galleria di ritratti femminili tra mito, letteratura e storia. 1. In principio fu Pandora, colei che è fornita di tutti i doni. Secondo il mito, Zeus, irato con Prometeo perché aveva rubato il fuoco agli dèi per darlo agli uomini, come punizione decise di inviare sulla terra una sventura: la prima donna, a cui ogni divinità aveva fornito un dono. Pandora era quindi dotata di bellezza, grazia, fascino, abilità nei lavori femminili, ma aveva "anima di cane", carattere ingannevole, menzognera, ingannatrice, sempre insoddisfatta, polemica e piena di rivendicazioni. Creata con terra e acqua, Pandora è un prodotto artigianale realizzato da Efesto, che le dà le sembianze di una casta vergine, e perfezionato da Atena, che le dona la capacità di sedurre. E così Zeus mise fra gli uomini questo "ambiguo malanno, portando alla luce del sole le donne" (Eur., Ipp., 616-617). Benché messo sull’avviso da Prometeo, (colui che pensa prima), il fratello Epimeteo, (colui che pensa dopo), si lasciò sedurre da Pandora e il gioco fu fatto. Sposatala nel giro di un giorno, Pandora, ormai sistemata in casa, andò ad aprire la giara che mai nessuno avrebbe dovuto toccare, disperdendo così tutti i mali che vi erano dentro e richiudendola solo prima che anche la speranza, che è l’ultima a morire, fuggisse via. 2. Ripercorrere la storia della donna nel mondo classico non è pura curiosità erudita, ma, poiché passato e presente si illuminano dialetticamente, ci può aiutare a capire quando e perché l’inferiorità della donna venne codificata e teorizzata. Molti secoli dovranno passare prima che tale inferiorità come fatto naturale venga messa in discussione, da quando Aristotele, identificando la donna con la materia (ricordiamo la nostra Pandora plasmata con terra e acqua) la escluse dal dominio della "ragione" e la contrappose all'uomo costituito di "spirito". Il cristianesimo, lungi dal migliorare la situazione, demonizzò la donna, simbolo della tentazione e del peccato. Non a caso fu sempre una donna, Eva, la causa del peccato originale. 3. Nella tradizione letteraria greca emblematica per comprendere la condizione femminile è l’Orestea di Eschilo: infatti nelle Eumenidi (vv. 658-666) Apollo afferma chiaramente che il corpo femminile non è la fonte della vita, ma piuttosto un ricettacolo, un recipiente temporaneo che accoglie il bambino; quando Oreste viene assolto per aver ucciso la madre Clitemnestra, (colpevole di aver ucciso il marito per punirlo dell’assassinio della figlia Ifigenia), ciò che implicitamente Eschilo asserisce è il ruolo subalterno della donna nella riproduzione. 1 Il corpo femminile è visto esclusivamente come incubatrice del bimbo, mentre il “proprietario” dei figli, colui che li crea, è solo il padre, la madre è estranea ad un estraneo. In quest’ottica si può comprendere anche la scelta di Medea di uccidere i propri figli: essi sono un bene di Giasone, appartengono a lui, non alla madre: privare un padre della propria discendenza era nell’Atene del V secolo a.C. il modo più atroce per vendicarsi del tradimento subito. 4. Singolare può sembrare il trattamento che veniva riservato a chi si macchiava di adulterio: mentre l’adultero poteva essere ucciso, se colto in flagrante, -una sorta di nostro delitto d’onore- la donna era esposta a sanzioni diverse, sempre però nell’ottica della sua inferiorità: in sostanza, non essendo in grado di avere una volontà propria, la donna non aveva parte attiva nel tradimento ed era, tutto sommato, irresponsabile. Così è infatti per la moglie di Eufileto che, pur partecipando attivamente all’adulterio nel pianificare degli stratagemmi intelligentissimi per ricevere l’amante in casa, non trova voce nell’orazione in quanto non possiede personalità giuridica. Certo dalla vicenda uscì distrutta, ripudiata dal marito non poteva frequentare i luoghi sacri ed era esclusa dalla partecipazione ai culti della città. Ebbene, di questa donna, l’orazione in difesa del marito, reo di aver ucciso l’amante della moglie in flagranza di reato, non ci tramanda neppure il nome. 5. Il primo documento che descrive le condizioni della donna è costituito dai poemi omerici che trasmettono la cultura della Grecia delle origini nella loro globalità. In primo luogo viene da chiedersi come mai, in un mondo che riflette chiaramente un solido sistema di valori maschili, la donna assuma un ruolo di non poco rilievo. La risposta non è purtroppo lusinghiera: considerate alla stregua di un oggetto, il suo possesso conferisce un prestigio direttamente proporzionale all’oggetto stesso e avere Elena al proprio fianco, la donna più bella del mondo, figlia di Zeus, regina di Sparta, non è come avere in moglie una donna ordinaria e normale. La donna era considerata esclusivamente un fatto patrimoniale. 5.1 Questo è il motivo per cui Elena, dopo la fuga a Troia con il suo amante Paride, per cui si combatté secondo il mito la decennale guerra di Troia, venne reintegrata perfettamente nel suo ruolo di sposa legittima e regina di Sparta: non avrebbe avuto senso, infatti, per Menelao perdere la prova vivente del suo trionfo. 5.2 Anche la proverbiale fedeltà coniugale della cugina Penelope per lo sposo Odisseo potrebbe avere risvolti di natura patrimoniale: finché non avesse abbandonato la casa di Odisseo rimaneva la depositaria non solo dei beni ma anche della funzione regale 2 dello sposo; e proprio tale funzione fa sì che ben 108 pretendenti aspirassero alla sua mano, a meno che non si voglia pensare ad un innamoramento di massa per la bellissima regina. Ma, benché Penelope venga ricordata per la sua fedeltà, a ben leggere i versi di Omero ella è desiderosa di riprendere marito e decide di organizzare la gara dell’arco per scegliere il nuovo sposo proprio nel momento in cui le giunge la notizia certa che Odisseo sta per tornare. A più riprese e da diverse persone viene anche avanzato il dubbio sulla paternità di Telemaco, figlio di Penelope e Odisseo: come sempre mater certa, pater incertus. Lo stesso Telemaco ha delle perplessità e, interrogato a tal proposito, risponde di non saperlo con certezza (Od., I., 215-216). La figura di Penelope è forse tra le più contraddittorie e risente maggiormente di quella funzione educativa affidata ai poemi: a lei spettò il compito di riassumere tutte le virtù che doveva possedere una donna in un mondo in cui la donna era vista con profonda diffidenza. Anche il suo nome si presta a diverse interpretazioni, se da un lato potrebbe ricollegarsi al nome il termine filo della trama unito al verbo strappare (richiamando lo stratagemma della tela), altrettanto intrigante è l’ipotesi che lo ricollega a Penelops, un’anitra selvatica caratterizzata dalla fedeltà monogamica per il compagno. La distinzione fra la condizione femminile e quella maschile nell'antica Grecia era dovuta all’organizzazione sociale della polis, dove esisteva una figura femminile "relegata" esclusivamente al semplice ruolo riproduttivo. Tuttavia questo stesso ruolo era diverso fra le popolazioni greche doriche e ioniche, perché diversa era l'organizzazione interna delle rispettive poleis. 6. Nell’Atene classica ciò che importava era assicurare la continuità della famiglia all’interno della città; la donna, dunque, aveva una collocazione sociale in base al rapporto stabile od occasionale con un uomo: esisteva la moglie (damar o gynè), per garantire la discendenza di figli legittimi: promessa sposa quando era bambina, si sposava sui 14 anni, non aveva diritti, non partecipava alla vita sociale maschile, viveva reclusa nel gineceo. C’era poi la concubina (pallakè), spesso straniera, aveva i doveri della moglie e i suoi figli avevano diritto alla successione ereditaria. L’etèra, una sorta di accompagnatrice per le occasioni sociali, era colta, conosceva la musica, il canto e la danza, accompagnava l'uomo nella vita sociale, dove non poteva recarsi la moglie o la concubina, era a pagamento. 7. A Sparta ciò che contava invece era lo Stato e non la famiglia e tutti, donne comprese, dovevano concorrere a renderlo forte e stabile. In quest’ottica le donne dell'antica Sparta vantavano, rispetto alle Ateniesi, una libertà maggiore: venivano educate 3 fuori casa fino ai 16 anni, svolgevano attività fisica e frequentavano le palestre perché si riteneva che così potessero generare figli più forti per lo Stato. Ciò dava loro una relativa libertà e una qualche autorità: celebre, e per la nostra sensibilità forse incomprensibile, è la frase con cui salutavano i figli o gli sposi in partenza per la guerra: “o con lo scudo (cioè vittoriosi), o sullo scudo (cioè caduti per difendere la patria)”. Anche il rito nuziale lascia poco spazio al romanticismo: alla giovane sposa venivano rasati completamente i capelli, le si facevano indossare una veste e calzari maschili, la si lasciava coricata su di un pagliericcio sola e al buio. Lo sposo, dopo aver cenato con i compagni, la prendeva tra le braccia, la conduceva a letto e, dopo aver trascorso con lei il tempo necessario ad assolvere i doveri coniugali, si ritirava compostamente. 8. Per quanto riguarda la donna romana, a paragone di quella ateniese, potremmo affermare che ella gode di una condizione e di uno statuto più favorevoli, ma certo, almeno in alcuni periodi, la sua situazione non è stata invidiabile. Quando non veniva esposta subito alla nascita e destinata così a morte certa, la fanciulla romana era destinata ad un matrimonio precocissimo e passava dalla potestà del padre a quella altrettanto opprimente e severa del marito. E quando si parla di potestà si vuole dire che chi la esercita ha sui sottoposti diritto di vita e di morte. 8.1. Per comprendere maggiormente il modo in cui era concepita la condizione femminile, utile è un richiamo all’onomastica romana per vedere come, anche in questo ambito, il nome dato alle fanciulle indichi, in qualche modo, la loro condizione di subalternità rispetto all’uomo. L’uomo aveva tre nomi: praenomen, cioè il nome proprio (Gaio, Lucio, Publio. Marco, Aulo, Tiberio); il nomen, indicativo della gens di appartenenza (Iulius, Claudius, Terentius, Valerius); il cognomen, indicante il gruppo familiare (Caesar, Catullus, Afro, Cicero): qualche esempio: Lucio Sergio Catilina; Gaio Giulio Cesare; Marco Tullio Cicerone; Gaio Sallustio Crispo; Publio Cornelio Scipione. Per la donna, invece le cose stanno diversamente: trascorsi i primi otto giorni dalla nascita, la bambina viene purificata con acqua, nel cerimoniale della lustratio. Parenti e amici di famiglia portano doni e alla bambina viene dato un nome, il suo vero praenomen, che viene però gelosamente tenuto segreto e custodito nell’intimità familiare. Poiché tuttavia è necessario individuare la donna anche al di fuori dell’ambiente domestico, quel nome viene sostituito per i terzi da un cognomen, quello della gens paterna con le sole 4 aggiunte utili a distinguere la neonata dalle sorelle, secondo l’ordine di nascita (Maxima, Maior, Minor oppure Prima, Secunda, Tertia) o secondo l’aspetto (Rutilia, Murrula, Burra). E’ così che mentre un uomo, come Marco Tullio Cicerone, possiede tre nomi, sua figlia si chiama solo Tullia. Più tardi nella cerimonia nuziale, alla rituale domanda “Qual è il tuo nome?” rivolta alla donna dallo sposo nel momento dell’entrata ufficiale di lei nella casa del marito, la sposa risponderà di chiamarsi con lo stesso nomen di lui e al precedente cognomen gentilizio paterno subentrerà, o si aggiungerà, quello dello sposo. La risposta suona in questo modo: Ubi tu Gaius, ibi ego Gaia. Così, ad esempio, la catulliana Clodia, diventerà Clodia Metelli, la donna di Quinto Metello Celere. E per la seconda volta nella sua vita la donna continuerà a tacere al pubblico il suo vero nome, che non verrà rivelato talora neppure nella sua epigrafe funeraria. Negandole anche il nome, la donna non era e non doveva essere un individuo, ma solo frazione passiva e anonima di un gruppo familiare. 8.2. Tra i vari divieti a cui era sottoposta la donna uno mi pare particolarmente singolare: il divieto di bere vino e, per essere sicuri che la donna non bevesse di nascosto, i parenti più stretti potevano esercitare lo ius osculi, ossia il diritto di bacio. Ma questo perché? Fermo restando che non abbiamo una risposta certa, è probabile che il bere vino fosse assimilato dai romani all’adulterio: dal momento che si riteneva che il vino contenesse un principio vitale, la donna che beveva immetteva nel proprio corpo un principio di vita estraneo; ci sarebbe anche un’altra possibilità: poiché il vino, nel mondo antico, era considerato mezzo per raggiungere la divinità, la donna era esclusa da questa comunanza e, pertanto, non poteva bere vino. Certo a Roma la donna non era segregata in casa come nell’antica Grecia: dopo le nozze poteva uscire, assistere agli spettacoli del circo e del teatro, partecipare ai banchetti accanto all’uomo per allontanarsene, però, al momento della commissatio, quando la cena diveniva eccessivamente animata. Probabilmente lo stupore che dovevano provare i Greci osservando la condizione della donna romana, che poteva accompagnare il marito ai banchetti, era il medesimo che provavano i romani considerando la condizione della donna etrusca: ella godeva di una notevole libertà di movimento e di un certo prestigio, non più analfabeta ma colta, curava il proprio corpo, partecipava ai banchetti insieme agli uomini, beveva vino e, soprattutto, allevava i figli senza preoccuparsi di sapere chi ne fosse il padre. 8.3. La matrona romana del mos maiorum era dedita ai lavori della tessitura e della filatura (lanifica), casta, devota ai vincoli familiari, disposta a vivere dentro le mura 5 domestiche (domiseda), onesta, obbediente, silenziosa, operosa e legata per tutta la vita ad un solo uomo (univira) anche se vedova. Proverbiale divenne un’epigrafe funeraria in cui è scritto: “Casta fuit, domum servavit, lanam fecit”. Interessante mi pare ricordare come la parola “donna” si connetta strettamente al latino domina, ad indicare come la donna, nel mondo romano, fosse la domina, cioè la padrona incontrastata nella domus, ossia nella casa. 8.4. Altro fatto che colpisce è che nella fase più antica, nonostante la loro condizione di subalternità, siano dei fatti legati proprio alle donne a determinare forti cambiamenti: il primo, quello relativo a Rea Silvia, oltraggiata da Marte, giustifica l’origine divina della stirpe romana (dalla violenza nacquero Romolo e Remo); l’altro, relativo a Lucrezia, offesa dal figlio di Tarquinio il Superbo, segna il passaggio dalla monarchia alla repubblica. A ripescare nei meandri della memoria viene in mente anche l’episodio di Veturia, madre di Coriolano che, durante la guerra contro i Volsci, accusato di tradimento, passò dalla parte del nemico e marciò contro Roma. La madre, a capo di una ambasceria di donne, si recò col proposito di dissuaderlo. Fuori di sé dalla gioia, Coriolano si lanciò incontro alla madre per abbracciarla, ma questa, allontanandolo da sé, severamente gli disse: "Prima che tu mi abbracci dimmi se io sono venuta a visitare il figliuolo o il nemico, se io nel tuo campo sono prigioniera e serva oppure madre”. Commosso, Coriolano ordinò che si levasse il campo. Questi episodi non possono certamente cambiare il nostro punto di vista sulla condizione della donna romana in epoca arcaica, pur tuttavia ci obbligano a riflettere sul fatto che i Romani si sentirono di assegnare proprio a due donne l’apice di momenti di transizione epocali per la loro storia. Le generalizzazioni sono però pericolose e fuorvianti; col passare dei tempi questo modo di vivere mutò, sino ad arrivare alla dissolutezza di alcune donne quali Messalina. 9. Molto diversa fu la Clodia di Catullo, forse fu davvero una donna dappoco o forse era solo una donna libera in una società conservatrice e tradizionalista, autonoma nelle scelte, libera e indipendente nei sentimenti, tanto da scegliere lei i propri amanti. Certo non la possiamo dimenticare perché i versi di Catullo sono tra i più belli della letteratura di tutti i tempi. Sicuramente molto cambia dall’epoca repubblicana all’epoca imperiale, quando già lo stesso Augusto fu costretto ad emanare leggi severe contro l’adulterio per tentare di arginare il fenomeno (lex Iulia de adulteriis coercendis del 18 a C.). 6 10. La prima a venire colpita fu proprio sua figlia Giulia, alla quale, a onor del vero, il padre fece sposare tutta una serie di uomini per questioni di opportunità politica. Diede prima in moglie Giulia a Marcello, figlio di sua sorella (14 anni lei, 16 lui!); morto a vent’anni Marcello, Augusto diede in sposa la figlia ad Agrippa, allora sposato con una delle due Marcelle, figlie della stessa sorella Ottavia e da cui ebbe “solo” cinque figli. Infine le fece sposare Tiberio, figlio della seconda moglie di Augusto, Livia Drusilla, e già sposato con Vipsania Agrippa, figlia di Agrippa, già marito di Giulia e di Marcella. Dei tre matrimoni imposti a Giulia questo fu il più difficile per il reciproco disprezzo provato da entrambi. Numerosissimi furono gli amanti di Giulia e la sua condotta arrivò ad infangare a tal punto la casa di Augusto, che egli fu costretto a prendere provvedimenti severissimi. In un primo momento la relegò nell’isola di Pandataria (oggi Ventotene), le proibì ogni raffinatezza e non consentì che venisse avvicinata da nessun uomo, né libero né schiavo. Dopo cinque anni la fece trasferire in Calabria a Reggio, mitigò un poco le sue condizioni di vita ma non la perdonò mai. Eppure Augusto non fornì alla figlia esempi edificanti di castigati costumi: sposò prima Claudia, poi Scribonia da cui ebbe Giulia ed, infine, Livia Drusilla, già sposa dello zio materno, Tiberio Claudio Nerone, da cui ebbe Tiberio. 11. Tra le tante donne della storia romana una in particolare ha sempre colpito la mia immaginazione per il modo in cui Dante ce la propone nel primo canto del Purgatorio attraverso le parole di Catone: “Marzia piacque tanto a li occhi miei/ mentre ch’i’ fu’ di là – diss’elli allora/ -che quante grazie volse da me, fei” Ma chi è Marzia? Marzia è la moglie che incarna il ruolo della perfetta obbedienza: moglie di Catone, quando l’oratore Ortensio ormai vecchio e solo, chiese all’amico di cedergli la moglie per averne dei figli, ella accettò senza protestare la decisione del marito. Secondo alcuni Marzia divorziò da Catone e sposò Ortensio, secondo altri gli fu più semplicemente prestata; alla morte di Ortensio tornò dal marito. 12. Didone. Primogenita del re di Tiro, Elissa/Didone era sposa di Sicheo. La sua successione al trono fu contrastata dal fratello, Pigmalione, che ne uccise il marito e si insediò sul trono. Probabilmente con lo scopo di evitare la guerra civile, Didone lasciò Tiro con un largo seguito e cominciò una lunga peregrinazione, per approdare, infine, sulle coste libiche intorno all'814 a.C., dove ottenne dal re Iarba il permesso di stabilirvisi, prendendo tanto terreno "quanto ne poteva contenere una pelle di toro". Didone scelse una penisola, tagliò la pelle di toro in tante striscioline e le mise in fila, in modo da delimitare quello che sarebbe stato il futuro territorio della città di Cartagine. Corteggiata 7 da molti sovrani africani, per resistere alle insistenti profferte di Iarba e non venire meno alla fedeltà nei confronti del marito defunto, la regina si suicida e, secondo lo storico Giustino, diviene pertanto una delle divinità del pantheon cartaginese. Il poema di Virgilio, l’Eneide, celebrativo dell'impero di Ottaviano Augusto e della conseguente grandezza di Roma, opera in senso divergente rispetto alla leggenda. Caduta vittima di un amore irresistibile per Enea, che alla ricerca di una terra in cui stabilirsi dopo la guerra di Troia viene sbalzato dalle correnti a Cartagine, prima tenta di resistere, ma, incoraggiata a cedere al sentimento dalla sorella, si abbandona all’eroe troiano, il quale, destinato dal fato alla fondazione di Roma, la abbandonerà e a Didone non rimarrà che il suicidio. Le maledizioni della regina verso Enea costituiranno, nell’immaginario dei romani, la causa prima delle guerre puniche, come Elena lo fu per la guerra di Troia; ma, anche in questo caso, le motivazioni riguardano il controllo dei commerci via mare, il Mare nostrum, il Mediterraneo. 13. Tante sarebbero le riflessioni da fare, come per esempio la leggenda di Enea si connetta alle origini di Roma, ma questo è un altro discorso. Qui ci interessa vedere come, ancora una volta, vi sia una donna in un momento cruciale della storia di Roma, questo ambiguo malanno di cui però, evidentemente, non si può fare a meno, da quando Pandora affascinò Epimeteo. 8