uno scherzo di angelo musco
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uno scherzo di angelo musco
Salvatore Puglisi “CATANIA DEI SOGNI” Cavallotto Edizioni Anno 1997 Pagine 208 Formato cm. 17 x 24 Prezzo lire 20.000 - € 10,33 UNO SCHERZO DI ANGELO MUSCO Quando io ero bambino, tra i molti operai di mio padre vi era un certo Salvatore Agrillo (i compagni, sicilianizzandone nome e cognome, lo chiamavano Turi Ariddu), il quale lavoro non ne mangiava troppo. Spesso e volentieri la mattina, invece di alzarsi per andare a lavorare, preferiva restarsene a poltrire sotto le coperte accanto al tiepido corpo di sua moglie. Tanto, mulo lui o mula lei, figli da mantenere non ne avevano e, in caso di necessità, sapevano sempre a chi rivolgersi. La moglie, che nella zona del Fortino tutti chiamavano la Pitta perché, oltre ad essere stata tra le prime del quartiere a tagliarsi i capelli, come allora si diceva, alla bebé, amava anche imbellettarsi il viso, era figlia di una delle sorelle del grande attore Angelo Musco. Tutte le volte in cui questi era a Catania, in tournée o per riposarsi un po' nella bella casa che si era costruita sulle sciare della Barriera, la Pitta con la madre andavano quasi sempre a salutarlo e non se ne tornavano mai a mani vuote. Sollecitata di continuo dal marito, il quale non si stancava di ripeterle che solo quel suo celebre zio avrebbe potuto cambiare la loro vita, regalandogli un po' di liquido per poter intraprendere un lavoro in proprio, una volta che si trovava insieme con la madre in casa dello zio, ella si fece coraggio e, nonostante fosse un po' checca (quando era in vena di vanterie ripeteva a tutti di essere la nipote prediletta di Ancilo Mucco), gli espose, d'un fiato, il desiderio del marito. Lo zio Angelo che, come tutti i grandi attori comici in privato era una persona estremamente seria e controllata, tra una tirata e l'altra della pipa, le rispose, aguzzando in alto gli occhi, che ci avrebbe pensato su. Per intanto gli lasciasse, chiaramente scritte su un pezzetto di carta, le precise generalità del marito. Un paio di mesi dopo, allorché la Pitta venne a sapere che lo zio era di nuovo a Catania, prese, insieme con la madre, il tram che faceva capolinea al Tondo Gioieni, e salì alla Barriera a fargli visita. Mantenendo la promessa, l'attore le fece trovare una bella licenza, intestata al marito, con cui potevano aprire, in qualsiasi punto della città, una rivendita di generi alimentari. Per l'occasione, le fornì pure una sommetta sufficiente per affittare la casa e mettere su l'esercizio. Con quella licenza e quel gruzzolo, Turi Ariddu, nel giro di poche settimane, aprì un negozietto nella popolosa via Plebiscito, quasi all'imbocco di via Osservatorio: in un punto, cioè, a due passi dal grande e molto frequentato ospedale Vittorio Emanuele. Ma gli affari, purtroppo, non andarono bene. Dopo i primi, naturali entusiasmi, egli si stancò di quella monotona vita, come spesso andava ripetendo alla moglie, di cane legato alla sedia a totale servizio dei clienti. Piuttosto che pesare pane e pasta o prendere dalla piramidina dello scaffale lattine di conserva di pomodoro, egli preferiva starsene al fresco davanti alla porta e a chiacchierare coi passanti. E poiché la Pitta, nonostante tutta la sua buona volontà, non poteva badare da sola all'esercizio, finì che, dopo neanche un anno, andarono in fallimento. Al fine di potere recuperare almeno parte dei soldi investiti, essi dovettero svendere, quasi per niente, sia la licenza che le poche cose che ancora rimanevano nel locale. Andato male il primo, dopo qualche tempo Turi Ariddu ricominciò a sollecitare la moglie a richiedere allo zio di procurargli un altro lavoro fra i suoi molti conoscenti e ammiratori. Quando la nipote, sempre spalleggiata dalla madre, glielo richiese, l'attore, questa volta, non volle pensarci su neppure un solo minuto. Si chiuse un momento nello studio, dove abitualmente leggeva e manipolava i copioni che doveva recitare, e scrisse una letterina di raccomandazione, per quel nipote scansafatiche, a un suo amico che gestiva, al porto, un'impresa d'importazione di carbon fossile per il vicino Gazometro. Dopo averla rinchiusa, la consegnò tutto serio alla nipote, raccomandandole di non aprirla e di farla portare, l'indomani, dal marito, così com'era, all'importatore in indirizzo. La mattina successiva Turi Ariddu, contento come una pasqua, e tutto in ghingheri, si recò al porto, in quegli anni attivissimo, e si presentò all'importatore. Questi, dopo aver scorso rapidamente il foglietto, gli disse di andarsi a togliere la giacca e la cravatta nello spogliatoio e di prendersi, poi, una coffa dalla catasta (coffa è una parola di origine araba che indica un robusto cestone di verghe di castagno spaccate e fatto quasi a forma d'insalatiera), e di andarsene poi a scaricare carbone dal bastimento all'ormeggio, così come già stavano facendo, e da più di un'ora, gli altri scaricatori. Per niente abituato a quel pesantissimo lavoro, il povero Turi Ariddu rincasò, la sera, tutto sporco di polvere di carbone e con le spalle che gli facevano un male da morire. Senza neanche salutare la moglie, s'infilò subito nel cesso per lavarsi il viso e le braccia. Si buttò poi sul letto e si addormentò di colpo, scordandosi perfino di mangiare. L'indomani mattina, si alzò per tempo e, dopo aver sogghignato alla moglie di correre a ringraziare quel suo ziuzzo (e, per canzonarla, ne pronunziò la zeta alla maniera dell'articolo inglese the) maligno e mattacchione per il bel lavoro che gli aveva procurato, uscì di casa con le ossa ancora tutte indolenzite. Ma invece di recarsi al porto, preferì tornare da mio padre per farsi riassumere. Lì , almeno, non c'era polvere di carbone da inghiottire né, tanto meno, pesantissime coffe da trasportare a forza di spalle. Nei confronti di questo sfaticato nipote acquisito, il grande attore si emendò, dopo qualche tempo, facendogli ottenere la concessione di una pompa di benzina Lampo, allora ancora molto rare, che la società italo-americana per il petrolio impiantò, a sua richiesta, all'inizio di via Palermo. Proprio davanti a un'antica edicola dedicata alle Anime del Purgatorio, contro il cui basamento di pietra lavica, qualche anno prima, in occasione di un giro automobilistico del Gelso Bianco, il corridore Tazio Nuvolari, imboccando male la curva, era andato a spiaccicare un imprudente ragazzino che stava assistendo alla competizione. 1984-1991