ruolo della donna nel mondo greco

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ruolo della donna nel mondo greco
Il ruolo della donna nel mondo greco
Appunti per la classe V H
Ripercorrere la storia della donna nel mondo classico non è pura curiosità erudita, ma, poiché passato
e presente si illuminano dialetticamente, ci può aiutare a capire quando e perché l’inferiorità della donna
venne codificata e teorizzata.
Molti secoli dovranno passare prima che tale inferiorità come fatto naturale venga messa in
discussione, da quando Aristotele, identificando la donna con la materia (ricordiamo Pandora plasmata con
terra e acqua) la escluse dal dominio della "ragione" e la contrappose all'uomo costituito di "spirito".
Nella tradizione letteraria greca la visione del corpo femminile è espressa attraverso una serie di
metafore che lo associano, di volta in volta, alla terra, al solco, al forno. Se, infatti, in origine la donna è
concepita come terra che viene “seminata” dall’uomo, ma mantiene una sua autonomia perché è capace di
produrre, di conservare e di far crescere dentro di sé una nuova vita, successivamente, a partire dal V secolo
a.C., essa diviene campo arato da colui che lo coltiva. La donna-terra è proprietà del marito, ma è anche lo
spazio in cui lui fatica, coltivando il luogo dove si producono i suoi eredi. Quindi la metafora del campo
diventa progressivamente la metafora del solco: la terra non è più un essere autonomo, ma è vista come
passiva, in attesa di essere coltivata dall’uomo.
Emblematica a questo riguardo è l’Orestea di Eschilo: infatti nelle Eumenidi (vv. 658-666), Apollo
afferma chiaramente che il corpo femminile non è la fonte della vita, cioè la terra seminata, ma piuttosto un
ricettacolo, un recipiente temporaneo che accoglie il bambino; quando Oreste viene assolto per aver ucciso la
madre Clitemnestra, (colpevole di aver ucciso il marito per punirlo dell’assassinio della figlia Ifigenia), ciò
che implicitamente Eschilo asserisce è il ruolo subalterno della donna nella riproduzione. Anche Sofocle
riprende più volte la metafora del solco: nelle Trachinie (vv. 31 ss.) Deianira lamenta la lunga assenza del
marito e ricorre alla metafora del campo.
Usuale nel pensiero greco è anche l’analogia tra il grembo femminile e il forno con chiaro rimando
all’insaziabilità delle donne di cui la commedia carica notevolmente le tinte.
Le tre metafore -della terra del solco e del forno- sono in stretta correlazione tra loro, anzi
rappresentano l’evoluzione storica e culturale della medesima visione del corpo femminile, che nel passaggio
dall’età arcaica a quella classica, per esigenze legate alla sopravvivenza stessa della polis, viene sempre più
subordinato all’uomo ed alla funzione riproduttiva.
Il corpo femminile è visto esclusivamente come incubatrice del bimbo, mentre il “proprietario” dei
figli, colui che li crea, è solo il padre, la madre è estranea ad un estraneo. In quest’ottica si può comprendere
anche la scelta di Medea di uccidere i propri figli: essi sono un bene di Giasone, appartengono a lui, non alla
madre: privare un padre della propria discendenza era nell’Atene del V secolo a.C. il modo più atroce per
vendicarsi del tradimento subito.
Singolare può sembrare il trattamento che veniva riservato a chi si macchiava di adulterio: mentre
l’adultero poteva essere ucciso, se colto in flagrante, la donna era esposta a sanzioni diverse, sempre però
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nell’ottica della sua inferiorità: in sostanza, non essendo in grado di avere una volontà propria, la donna non
aveva parte attiva nel tradimento ed era, tutto sommato, irresponsabile.
Così è infatti per la moglie di Eufileto che, pur partecipando attivamente all’adulterio nel pianificare
degli stratagemmi intelligentissimi per ricevere l’amante in casa, non trova voce nell’orazione in quanto non
possiede personalità giuridica. Certo dalla vicenda uscì distrutta, ripudiata dal marito non poteva frequentare
i luoghi sacri ed era esclusa dalla partecipazione ai culti della città. Ebbene, di questa donna, l’orazione in
difesa del marito, reo di aver ucciso l’amante della moglie in flagranza di reato, non ci tramanda neppure il
nome.
Il primo documento che descrive le condizioni della donna è costituito dai poemi omerici che
trasmettono la cultura della Grecia delle origini nella loro globalità.
In primo luogo viene da chiedersi come mai, in un mondo che riflette chiaramente un solido sistema
di valori maschili, la donna assuma un ruolo di non poco rilievo. La risposta non è lusinghiera: considerate
alla stregua di un oggetto, il suo possesso conferisce un prestigio direttamente proporzionale all’oggetto
stesso. Avere Elena al proprio fianco, la donna più bella del mondo, figlia di Zeus, regina di Sparta, non è
come avere in moglie una donna ordinaria e normale. La donna era considerata esclusivamente un fatto
patrimoniale.
Questo è il motivo per cui Elena, dopo la fuga a Troia con il suo amante Paride, per cui si combatté
secondo il mito la decennale guerra di Troia, venne reintegrata perfettamente nel suo ruolo di sposa legittima
e regina di Sparta: non avrebbe avuto senso, infatti, per Menelao perdere la prova vivente del suo trionfo.
Anche la proverbiale fedeltà coniugale della cugina Penelope per lo sposo Odisseo potrebbe avere
risvolti di natura patrimoniale: finché non avesse abbandonato la casa di Odisseo rimaneva la depositaria non
solo dei beni ma anche della funzione regale dello sposo; e proprio tale funzione fa sì che ben 108
pretendenti aspirassero alla sua mano, a meno che non si voglia pensare ad un innamoramento di massa per
la bellissima regina. Ma, benché Penelope venga ricordata per la sua fedeltà, a ben leggere i versi di Omero
ella è desiderosa di riprendere marito e decide di organizzare la gara dell’arco per scegliere il nuovo sposo
proprio nel momento in cui le giunge la notizia certa che Odisseo sta per tornare. A più riprese e da diverse
persone viene anche avanzato il dubbio sulla paternità di Telemaco, figlio di Penelope e Odisseo: come
sempre mater certa, pater incertus. Lo stesso Telemaco ha delle perplessità e, interrogato a tal proposito,
risponde di non saperlo con certezza (Od., I., 215-216).
La figura di Penelope è forse tra le più contraddittorie e risente maggiormente di quella funzione
educativa affidata ai poemi: a lei spettò il compito di riassumere tutte le virtù che doveva possedere una
donna in un mondo in cui la donna era vista con profonda diffidenza. Anche il suo nome si presta a diverse
interpretazioni, se da un lato potrebbe ricollegarsi al nome il termine filo della trama unito al verbo
strappare (richiamando lo stratagemma della tela), altrettanto intrigante è l’ipotesi che lo ricollega a
Penelops, un’anitra selvatica caratterizzata dalla fedeltà monogamica per il compagno.
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La distinzione fra la condizione femminile e quella maschile nell'antica Grecia era dovuta
all’organizzazione sociale della polis, dove esisteva una figura femminile "relegata" esclusivamente al
semplice ruolo riproduttivo.
Tuttavia questo stesso ruolo era diverso fra le popolazioni greche doriche e ioniche, perché diversa
era l'organizzazione interna delle rispettive poleis.
Nell’Atene classica ciò che importava era assicurare la continuità della famiglia all’interno della
città; la donna, dunque, aveva una collocazione sociale in base al rapporto stabile od occasionale con un
uomo: esisteva la moglie (damar o gynè), per garantire la discendenza di figli legittimi: promessa sposa
quando era bambina, si sposava sui 14 anni, non aveva diritti, non partecipava alla vita sociale maschile,
viveva reclusa nel gineceo. C’era poi la concubina (pallakè), spesso straniera, serviva per avere rapporti
stabili, aveva i doveri della moglie e i suoi figli avevano diritto alla successione ereditaria. L’etèra, una sorta
di accompagnatrice per le occasioni sociali, era colta, conosceva la musica, il canto e la danza,
accompagnava l'uomo nella vita sociale, dove non poteva recarsi la moglie o la concubina, era a pagamento,
ma sarebbe improprio definirla come semplice prostituta. La prostituta (pòrne), per i rapporti davvero
occasionali, esercitava il suo mestiere nelle strade e veniva presa in considerazione dalle leggi per fissare le
tariffe e pretendere un’imposta sul reddito.
Un caso a parte sono le prostitute sacre che si vendono ai pellegrini nei templi a cui devolvevano i
proventi della loro attività. e godevano di un certo rispetto sociale.
A Sparta ciò che contava invece era lo Stato e non la famiglia e tutti, donne comprese, dovevano
concorrere a renderlo forte e stabile. In quest’ottica le donne dell'antica Sparta vantavano, rispetto alle
Ateniesi, una libertà maggiore: venivano educate fuori casa fino ai 16 anni, svolgevano attività fisica e
frequentavano le palestre perché si riteneva che così potessero generare figli più forti per lo Stato. Ciò dava
loro una relativa libertà e una qualche autorità: celebre, e per la nostra sensibilità forse incomprensibile, è la
frase con cui salutavano i figli o gli sposi in partenza per la guerra: “o con lo scudo (cioè vittoriosi), o sullo
scudo (cioè caduti per difendere la patria)”.
Anche il rito nuziale lascia poco spazio al romanticismo: alla giovane sposa venivano rasati
completamente i capelli, le si facevano indossare una veste e calzari maschili (con un notevole risparmio
sull’abito da sposa!), la si lasciava coricata su di un pagliericcio sola e al buio. Lo sposo, dopo aver cenato
con i compagni, la prendeva tra le braccia, la conduceva a letto e, dopo aver trascorso con lei il tempo
necessario ad assolvere i doveri coniugali, si ritirava compostamente.
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