Da Ettore a Cobain il legame tra noi e l`eros divino

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Da Ettore a Cobain il legame tra noi e l`eros divino
Quante cose
sotto il cielo
della ricerca
PIERGIORGIO ODIFREDDI
CLAMORI mediatici dell’Expo dirottano
l’attenzione da realtà più serie, del
nostro paese. Un esempio fra tutti è il
Polo di Nanotecnologia inaugurato un
paio di settimane fa a Lecce dal presidente
del CNR e dal governatore della regione
Puglia. Un investimento di 18 milioni di
euro, 18.000 metri quadri di laboratori e
200 ricercatori in una regione che ha
appena ospitato a Bari il Festival
dell’Innovazione. La nanotecnologia è nata
I
una cinquantina di anni fa da un’intuizione di
uno dei geni del Novecento, il mitico premio
Nobel per la fisica Richard Feynman, che fin
dal titolo di un suo articolo del 1959 attirò
l’attenzione sul fatto che “C’è un sacco di
spazio in basso”, nel senso che si possono
spostare e assemblare singoli atomi. E un
primo esempio venne dato nel 1990 dai
ricercatori dell’IBM, che scrissero le tre lettere
dell’acronimo dell’azienda disponendo 35
atomi di xeno su un cristallo di nichel. Oggi a
Lecce, fra le altre cose, due gruppi di
ricercatori finanziati dall’ERC (European
Research Council) lavorano su progetti di
computer che invece di usare macroscopiche
correnti elettriche fanno calcoli lavorando su
singoli elettroni l’uno, e sui fotoni l’altro. A
dimostrazione del fatto che ci sono più cose nel
cielo della ricerca e sulla terra dei laboratori di
quante ne annuncino i presentatori dell’etere
che visitano estasiati i padiglioni dell’Expo.
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IL COMMENTO
Da Ettore a Cobain
il legame tra noi
e l’eros divino
SILVIA RONCHEY
C
ILLUSTRAZIONE DI EMILIANO PONZI
> TABELLINE
’È chi dice che la
parola eroe, in
greco heros, abbia a che fare con
la radice di eros,
in greco amore. Degli dèi anzitutto: «Muore giovane chi
è amato dagli dei», secondo
un verso di Menandro reso
celebre da Leopardi, che lo
mise in exergo a Amore e
morte. In effetti gli eroi
muoiono giovani, o comunque prima del tempo. Ettore,
Patroclo, Pallante, Lauso,
Mezenzio. James Dean,
Charlie Parker, Jim Morrison, Kurt Cobain, River
Phoenix. Guerrieri coraggiosi, arcieri dalla mira infallibile, attori sul palcoscenico del
mito degli antichi e dei moderni, la morte precoce è l’essenza del loro eroismo. Prima della forza bellica, dei poteri e delle abilità che li portano a compiere gesta
straordinarie, è eroica la loro
capacità di cogliere la vita in
controtempo; di prevenire
l’agguato della morte; di anticipare la fine di una vicenda perfetta, di un idillio col
mondo e le sue forze. L’eroe
coglie la morte con il tempismo con cui l’amante sapiente tronca una perfetta storia
d’amore: senza lasciare ricordo di imperfezione o decadimento, ma solo sorpresa
e rimpianto.
Troppo bello per essere vivo: questo si può dire sempre
dell’eroe. Ma l’eroe è bello come un vaso zen: è fallato, ha
un’imperfezione congenita,
un’impercettibile incrinatura che fa riconoscere subito
in lui l’affinità con la morte.
Che sia il tallone di Achille o
lo spleen, il marchio somatico di un’indole depressa,
ogni eroe ha in sé, visibile nel
corpo, leggibile nel carattere ancora prima che nell’interpretazione postuma del
destino terreno, l’inizio della fine, l’indizio della morte.
È per eccellenza infelice: nel
mondo greco è sottomesso al
volere degli dèi, a un karma
cui si adegua con feroce e malinconica vitalità. È bello e
buono, kalòs kai agathòs: coniuga la bellezza fisica all’agathìa aristocratica, l’audacia con la fedeltà ai vincoli di
un’origine ibrida, spesso semidivina. Sospeso tra il sovramondo degli dèi e il mondo infero verso cui si affretta,
il suo temporaneo passaggio
nell’umanità si traduce in
uno scambio simbolico: sopprimendo l’istante, lo consegna all’eternità; introduce
nella precarietà dell’esisten-
za il desiderio della bellezza;
suggerisce quello che James
Hillman chiamava l’istinto
dell’anima al suicidio; rivela
che è la morte, alla fine, la vera impresa che l’eroe compie, che l’impresa eroica per
eccellenza è il morire — l’impresa di tutti noi.
Nell’epica greca e latina
che ha messo in scena i nostri primi eroi la morte dell’eroe è quasi più importante del valore che ha la sua vita, dell’obiettivo che ha raggiunto. Nell’Iliade come nell’Eneide ogni volta che un
eroe muore la narrazione
improvvisamente dimentica la ragione profonda della
guerra, il conflitto si addensa intorno alle sue spoglie: il
suo corpo e la sua armatura
diventano per centinaia e
centinaia di versi il più vero
e urgente motivo di combattimento. Se la morte dell’eroe non è ritualmente allestita, se il guerriero caduto
non è sepolto o cremato secondo il rito, la sua anima
sarà tormentata e non potrà
entrare nell’Ade; sarà un
vampiro, un non morto, una
vaga ombra; la collettività
non potrà usare il suo sacrificio. Perché tra l’eroe e il
suo popolo, il suo pubblico,
la sua audience millenaria,
oltre che uno scambio simbolico c’è un’identificazione sacrificale. L’eroe muore
per noi e così facendo sconfigge la morte, come Cristo,
nell’inno pasquale bizantino che ancora la liturgia ortodossa esegue spargendo
eroiche foglie di alloro, “con
la sua morte calpesta la morte”. Dopo questo sacrificio,
con le parole di Giovanni Crisostomo, «noi, è vero, moriamo ancora come prima
ma non rimaniamo nella
morte, e questo non è più
morire».
In realtà la morte eroica
tradizionale è solo una delle varie possibilità di metamorfosi. Non c’è mai il nulla alla fine della storia, ma
sempre qualcos’altro che
la psiche accoglie. Il mito si
rinnova sempre, fuori ma
soprattutto dentro di noi.
L’idillio interrotto, il corpo
trafitto, il sipario abbassato, lo spegnersi della musica sono immagini mitiche
che parlano all’anima di se
stessa. Gli eroi che muoiono sono forme archetipiche nelle quali riconoscersi: infondono il coraggio
quotidiano di non arrendersi alla morte.
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Repubblica Nazionale 2015-05-31