Relativismo, religione e laicità - Il rasoio di Occam

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Relativismo, religione e laicità - Il rasoio di Occam
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Relativismo, religione e laicità
di Michele Martelli
Pubblichiamo, per gentile concessione dell’autore, un estratto di Il laico
impertinente. Laicità e democrazia nella crisi italiana (Roma, Manifestolibri,
2013), raccolta selezionata di articoli fatti uscire dallo stesso autore sul blog di
MicroMega dal 2008 al 2013, preceduta da un'Introduzione e seguita da
un'Appendice, ambedue inedite. Quel che qui vi presentiamo è
l'Appendice, pubblicata con lo stesso titolo a conclusione del libro.
1. Il relativismo e l’antropomorfismo religioso
Qual è l’origine delle religioni? La risposta classica del filosofo tedesco Ludwig
Feuerbach, che rovescia la nota formula biblica, riallacciandosi alla riflessione del
filosofo greco antico Senofane sulla genesi delle religioni, può essere così riassunta,:
«E l’uomo creò Dio». Non dunque Dio creò l’uomo “a sua immagine e somiglianza”, ma
l’uomo Dio. La teologia si fa antropologia. Dio si fa uomo, ma nel farsi uomo cessa di
essere Dio. Religioni e credenze, cattolicesimo compreso, vanno prese per quel che
sono: mere costruzioni umane, culturali. Importanti per capire la storia dell’uomo. Non
per metterci in contatto con fantomatiche entità sovrumane, trascendenti o immanenti
che siano, o con immaginari paesaggi metafisici, Hinterwelten, «retromondi, mondi
dietro il mondo», come diceva Nietzsche nello Zarathustra.
Che cos’è Dio?
Poiché Dio è un’ipotesi metafisica, infalsicabile (Karl Popper), possiamo
raffigurarcelo come ci pare. Nei modi più spiritualisticamente rarefatti, o in quelli più
crassamente materialistici. Come Ragione o Logos immateriale, Somma Bontà, Verità
e Bellezza, Uno, o Uno e trino, o infinitamente molteplice, plurale. Come un Occhio
onnivedente in un triangolo sospeso sulle nubi, o un erculeo Christus iudex
michelangiolesco. Come l’immagine induista tradizionale del Brahma a tre teste, o
della dea Khalì con molte mani e braccia. O, se vogliamo sbizzarrire la nostra fantasia
etologica, come un’Ape Regina, ma anche un Grande Ragno, che tesse ab aeterno la
ragnatela del mondo (così lo immaginerebbero i ragni della nostra soffitta). O un
Grande Scimpanzé (così lo immaginerebbe saltellando da un ramo all’altro della
foresta equatoriale africana la specie a noi geneticamente prossima). O un Grande
Millepiedi (il Dio dei lombrichi). O una Mente programmatrice di quel Grande Computer
che è l’universo, e i cui file siamo noi e gli eventi del mondo (così lo immaginerebbe
uno scienziato monomaniaco dell’informatica, o qualche credente fanatico del web).
Tutte conseguenze, peraltro, che potremmo far discendere apoditticamente dal
Deus Creator biblico e/o dal Deus sive Natura di Spinoza. Ipotesi, tutte, parimenti
metafisiche, incontrollabili e indimostrabili, e moltiplicabili a piacere, come insegna la
tropologia scettica di Agrippa (descritta da Sesto Empirico negli Schizzi pirroniani).
Ma mettiamo freno alle bizzarre fantasticherie ed elucubrazioni speculative, che
potrebbero suonare come inutilmente offensive e irriverenti per un credente.
Sul terreno filosofico, si tratta di una lezione antimetafisica che viene da lontano,
sin dalle origini del pensiero greco. A cominciare, come accennato, dai due celebri
frammenti di Senofane: «Gli Etiopi ˂dicono che i loro dèi sono˃ camusi e neri, i Traci
che sono cerulei di occhi e rossi di capelli». – «Ma se i buoi ˂e i cavalli˃ e i leoni
avessero mani e potessero con le loro mani disegnare e fare ciò appunto che gli
uomini fanno, i cavalli disegnerebbero figure di dèi simili ai cavalli e i buoi simili ai buoi,
2
e farebbero corpi foggiati così come ˂ciascuno˃ di loro è foggiato»1. La critica
dell’antropomorfismo e del relativismo religioso percorre tutta la storia della filosofia e
della cultura occidentale, almeno da Erodoto in poi, con punte elevate negli scettici
antichi (Cicerone, Sesto Empirico) e moderni (Montaigne, Hume), nell’Illuminismo
francese (D’Holbach, Voltaire) e nella sinistra hegeliana (Feuerbach, Marx). Per non
parlare del neopositivismo e del neodarwinismo di matrice anglosassone.
Dovrebbe essere un dato acquisito. E invece non lo è. Sia perché nella storia del
pensiero filosofico nulla è definitivamente acquisito. Sia perché le inclinazioni religiose
si radicano nella zona inconscia, irrazionale della nostra psiche, nascendo insieme
dalla nostra meraviglia e dalla nostra paura primordiale di fronte ai fenomeni naturali.
Sia infine perché le caste sacerdotali, tutt’altro che disposte a rinunciare al loro potere
di controllo politico-religioso sui fedeli, difficilmente cesseranno spontaneamente di
affermare e predicare la verità assoluta dei loro dogmi, precetti e testi sacri. Quindi
continueranno a vedere nel relativismo antropomorfico il loro nemico assoluto,
demoniaco, e a combatterlo con tutte le armi a loro disposizione.
2. La fede dubbiosa
In parrocchia nelle ore catechistiche di preparazione alla prima comunione, preti e
diaconi alla domanda: «Chi è Dio?» ci spiegano che bisogna rispondere: «Dio è
l’Essere perfettissimo, Creatore e Signore del cielo e della terra eccetera eccetera».
Più o meno l’incipit del Credo niceano, rivisto e discusso nei secoli, ma che si può
leggere tuttora nel Catechismo cattolico del 2003, composto sotto la direzione
dell’allora Prefetto per la Dottrina della Fede cardinale Joseph Ratzinger.
Ma possiamo conoscere Dio? E come, con quale mezzo?
Tre sono le possibili risposte: con la ragione, con la Rivelazione, o con entrambe.
Ma con la ragione umana (l’unica che abbiamo e che usiamo, se e quando la usiamo)
no. Prima di parlare degli attributi di Dio, dovremmo parlare della sua esistenza. Un Dio
inesistente sarebbe un puro nulla, un puro non-essere. Ma l’esistenza di Dio è
razionalmente dimostrabile? No. La kantiana Critica della ragion pura, con le sue
argomentazioni dissolutive di ogni “metafisica come scienza”, è rimasta a mio avviso
insuperata e insuperabile, perché insuperabili sono i limiti dell’umano (i postulati
kantiani del Sommo Bene e dell’immortalità dell’anima sono postulati morali, per
l’appunto, e non prove conoscitive).
È la muraglia contro cui urta e si spezza ogni tentativo di vecchia o nuova
metafisica teologica. Dio è sì l’Essere perfettissimo che, proprio perché tale, non può
mancare dell’esistenza (l’id quo maius nihil cogitari potest, ciò di cui non si può
pensare nulla di più grande, e quindi, in quanto tale, esiste, perché altrimenti non
sarebbe l’id quo maius, potendosi pensare qualcosa di ancora più grande, dotato
dell’esistenza, come sosteneva il teologo medioevale Anselmo d’Aosta nell’opuscolo
Proslogion, del 1077-1078)2. Ma la sua esistenza, contro-argomenta Immanuel Kant a
questo ragionamento ripreso da Cartesio e Leibniz, è solo un’esistenza pensata.
Dio? Un Dio pensato, che esiste solo nella mia mente. Dio è la mia idea di Dio, di
cui nulla in sé posso affermare o negare.
E allora, per cogliere Dio, senza l’aiuto della ragione, non ci rimane che deciderci
al gran gesto che suggeriva Friedrich H. Jacobi (Lettere sulla dottrina di Spinoza,
1785): il «salto mortale» nella fede, oltrepassando d’un colpo l’abisso inoltrepassabile
che separa il mondo fisico, reale dal presunto mondo metafisico, intelligibile. Un salto
1
In I Presocratici.Testimonianze e frammenti, (fr. 15-16), tomo primo, a cura di G.
Giannantoni et alii, Bari, Laterza, 1981, p. 172.
2
Proslogion, II (2) – III (3), (testo latino a fronte), a cura di I. Sciuto, Milano, Rusconi, 1996,
pp. 96-99.
3
«a capofitto», un’acrobazia suicida, in cui la ragione dimostrativa, discorsiva si
dissolve, scompare nell’«intuizione intellettuale», immediata, mistica, irrazionale. Dove
ognuno, di Dio, può «intuire» quello che gli pare.
È la «fede del calzolaio», diceva Hegel nelle sue lezioni berlinesi sulla storia della
filosofia (1833). Chiunque vuole lo faccia, quel salto, se può. Ma non pretenda di
parlare in nome della ragione, come “uomo di ragione”. Di sostituire la ragione con la
fede. O di azzerare la ragione, per elevare la fede a vero organo di conoscenza
dell’Assoluto. Kant, nel suo Che cosa significa orientarsi nel pensiero (1787), aveva
sprezzantemente definito questo atteggiamento mentale «Schwärmerei», fanatismo
esaltato di chi ragionare in modo dimostrativo non sa o non vuole3.
Ma, e siamo al secondo punto, se non è la ragione, è la Rivelazione la via per
conoscere Dio? Ossia, è Dio che si rivela nei testi sacri? O i testi sacri rivelano soltanto
i pensieri, i sogni, le aspirazioni, le paure, le visioni, le allucinazioni di chi li scrive o li
detta? Difficile negare che i testi sacri siano opera degli uomini, non di Dio. A meno che
non vogliamo credere al Corano scritto da Dio, nella lingua di Dio, l’arabo, dettato
dall’arcangelo Gabriele a Muhammad, il «Suggello dei profeti». Un Dio che ha bisogno
quasi di un dattilografo, o amanuense, ma senza mani, stilo, macchina da scrivere o
senza pc, quello islamico. O preferiamo il Dio invisibile che dal cespuglio fumante del
Sinai parla a Mosé, ma senza corporeità e organi vocali perché puro Soffio, Spirito
immateriale? E di cui, non si sa come, il patriarca riesce a vedere solo il didietro?
Ecco perché, e torniamo al relativismo religioso antropomorfico, ogni individuo,
gruppo, popolo o tribù si costruisce la divinità a propria immagine e somiglianza.
Ognuno ha i suoi testi sacri, che sono empi per l’altro; le sue Verità assolute, che sono
illusioni o menzogne per l’altro. «Noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i
Giudei e follia per i Gentili» (1.Cor. 1,22); «se Cristo non è risorto, è vana la nostra
predicazione, e vana è pure la vostra fede» (1 Cor. 15,14). Così ammoniva Paolo di
Tarso dopo essere stato rapito al terzo cielo (dove forse ha incontrato il Cristo risorto).
Ma i Giudei credevano e credono in JHWH, il Dio sinaitico di Mosè, non nel Cristo
palestinese crocifisso e risorto. Per i Gentili politeisti, come Celso, filosofo pagano,
Gesù era «un mago malvagio, e in odio a Dio», nella sua «arte» istruito «dagli
Egiziani». E per Muhammad, anche lui, per non essere da meno, rapito al terzo cielo
dall’arcangelo Gabriele? Non un Dio/uomo era Gesù (un’assurdità blasfema per
l’Islam), ma il penultimo profeta, mai crocifisso (sulla croce c’era una controfigura,
come in un film hollywoodiano) e quindi mai risorto. Dunque soltanto un uomo, per
quanto eletto e prediletto da Dio (Sura 112 del Corano: "Allah è unico, Allah è
l'assoluto. Non ha generato, non è stato generato e nessuno è uguale a Lui").
Persino i dogmi religiosi dei tre monoteismi sono inconciliabili. Prova provata che
sono gli uomini a creare Dio, e non viceversa.
L’ultima via resta quella della conciliazione di fede e ragione. Ma già da quanto
detto risulta impercorribile. Fede e ragione sono simili a due rette parallele che non si
incontrano mai. Come in una rappresentazione romanzata o cinematografica del
famoso “gatto di Schrödinger”, che sperimenta molteplici vite e morti in mondi paralleli,
ma che sa solo ciò che è e ciò che fa in ciascuno di quei mondi, e non può passare,
con un salto acrobatico megagalattico, da un mondo all’altro. Qualcosa di analogo agli
“infiniti mondi incompossibili dell’Intelletto divino” di cui il filosofo Leibniz discetta nei
suoi Saggi di teodicea (1705)4. Impossibile dunque il dialogo wojtyliano e ratzingeriano
tra «fides et ratio»!
Non fides et ratio, allora, ma fides aut ratio? No. La fede è legittima se non cambia
corsìa, come troppo spesso ha fatto soprattutto in Occidente, non sbanda, non si
incrocia e scontra con la ragione, non pretende, dall’alto dello scranno divino, dettar
3
In Scritti sul criticismo, a cura di G. De Flaviis, Roma-Bari, Laterza, 1991, p. 25.
Cfr. Saggi di teodicea sulla bontà di Dio, la libertà dell’uomo e e l’origine del male, a cura
di M. Marilli, introd. di G. Cantelli, Milano, Rizzoli, 1993.
4
4
legge alla ragione e alla scienza. O addirittura inglobarle, come in un certo Islam,
secondo cui nel Corano è contenuta in nuce in ogni sua diramazione la scienza intera,
quella sviluppata finora e quella che si svilupperà nei secoli dei secoli.
D’altra parte, occorre vigilare, a mio avviso, che la scienza non sia trasformata in
dogma, in un sistema di verità assolute e indubitati alternative a quelle religiose.
Come spiegano Popper e Peirce, i due grandi filosofi della scienza novecenteschi,
la chiave della ricerca scientifica è iI fallibilismo, la metodologia del “prova e riprova”, la
consapevolezza che la storia della scienza è un alternarsi di errori e correzione di errori
(“sbagliando si impara”, raccomandavano una volta i maestri elementari ai loro piccoli
allievi). La ragione che si eleva a Dea/Ragione, tradisce sé stessa, non è più ragione,
critica e relativa, cioè fallibile, ma è, si auto-pone come Assoluto. E in quanto Assoluto,
va respinta. E come? Ma con la ragione stessa, che è nemica di qualsivoglia Assoluto.
Compreso l’assolutizzazione di sé stessa. Perciò la Ragione, o Verbo, Logos deificato,
magari incarnato, crocifisso e risorto, non è una figura, un segno, un simbolo della
ragione, ma della fede. Alla ragione estraneo e incomprensibile.
La ragione, la scienza non solo è fallibile, ma limitata: non può conoscere tutto;
anzi non sa nemmeno che cosa sia il ”tutto” (in realtà, un altro termine, sinonimico, per
indicare l’Assoluto); la sua ricerca è senza fine. Resta tuttavia l’insondabilità del
«mistero» che ci circonda e avvolge, e che la conoscenza scientifica non può
definitivamente diradare, incapace com’è di varcare i confini dell’esperienza. Restano
le «grandi domande» (da dove, perché, verso dove, c’è un senso e quale?), che sono
connaturate all’uomo, alla sua imperfezione, finitezza e contingenza, ma alle quali non
si può dare risposta razionale definitiva. Questo è però il terreno della religiosità, non
delle «religioni statutarie», storiche, dottrinarie, dogmatiche, come direbbe Kant5.
È il filosofo di Königsberg infatti a indicarci, nella Critica del giudizio (1790), un
concetto di fede che andrebbe forse ancora esplorato: la «fede dubbiosa
(Zweifelglaube)»: «La fede, egli scrive, è il modo di pensare morale della ragione
nell’adesione a ciò che è irraggiungibile dalla conoscenza teoretica»6. Coniugare la
fede col dubbio, con l’incerto, col fallibile, che è il segno distintivo della ragione. O
meglio, col non sapere. Col sapere di non sapere e di non poter mai sapere, né tutto
né incontrovertibilmente. Una fede scettica. Senza dogmi. Senza caste sacerdotali,
detentrici della Verità di Dio. Senza rappresentanti, inviati, vicari (troppo spesso sicari)
e unti del Signore, megafoni o “microfoni di Dio” porporati o incoronati. Adusi a
giustificare in nome di Dio ogni loro detto e contraddetto, fatto e misfatto.
Una fede agnostica, che si rivolge ad un Dio di cui nessuno sa se c’è o non c’è. E
che se c’è, è per noi inconoscibile: un «Deus absconditus», nascosto.
È il paradosso di Niccolò Cusano: «Quia ignoro, adoro», credo proprio perché
ignoro (è l’incipit di un suo famoso opuscolo scritto nel 1444-45, che riporta un dialogo
immaginario tra un cattolico e un pagano)7.
Ovviamente, allo stesso titolo – ma questo il credente cardinal Cusano non lo dice,
anche se avrebbe potuto dirlo –, per il non credente vale la conseguenza
simmetricamente opposta: «Quia ignoro, non adoro», proprio perché ignoro non credo.
Fede e non-fede sono ambedue plausibili, perché libere opzioni personali,
legittime in quanto prescindono da presunzioni conoscitive o logico-dimostrative.
3. Laicità e laicismo
5
Cfr. Kant, La religione entro i limiti della semplice ragione, (testo tedesco a fronte), a cura
di V. Cuoco e M. Roncoroni, Milano, Rusconi, 1996.
6
Critica del giudizio, trad. it. di G. Gentile e L. Lombardo-Radice, rivista da V. Mathieu,
Bari, Laterza, 1963, p. 361.
7
Il Dio nascosto (e altri scritti, testo latino a fronte), a cura di F. Buzzi, Milano, Bur, 2002, p.
47.
5
Se la mia è una «fede dubbiosa», assetata di “grandi domande” senza risposte, di
paradossali “sensi assoluti” senza senso (cioè arbitrari, razionalmente incontrollabili e
inattingibili, e perciò miei, soltanto miei, in nessun modo universalizzabili), non vorrò
mai imporre dogmaticamente, ex auctoritate, qualcosa a chicchessia. Il concetto di
laicità è tutto qui. Intessuto com’è di relativismo, pluralismo, libertà e tolleranza. In
politicis oggi laicità coincide infatti con liberal-democrazia. Vista però come un IdealTypus weberiano, al di qua delle sue degenerazioni storico-fattuali di natura
oligarchica, tecno-economicistica, partitocratica o populista.
Sotto il riguardo del rapporto tra Stato e Chiesa (o chiese): lo Stato è laico se è
nettamente separato da ogni chiesa e confessione religiosa, se non trasforma i precetti
religiosi in norme legislative, o il peccato in reato. Altrimenti è uno Stato teocratico o
confessionale. Sotto il riguardo etico-giuridico: laicità è uguaglianza dei diritti di tutti,
nessuno escluso, rispetto della libertà e dignità umana, cura del nostro ambiente vitale,
ecologico. “Se Dio non c’è tutto è permesso”, così come “tutto è permesso se Dio c’è”.
Si può essere morali o immorali con Dio o senza Dio. Ciò significa che nei giudizi
morali meglio prescindere da Dio.
Il ratzingeriano veluti si Deus daretur (pensare e agire come se Dio ci fosse) va
decisamente espunto dalla sfera pubblica. Sia perché omologherebbe di fatto i noncredenti ai credenti. Sia perché autorizzerebbe i credenti a introdurre i propri dogmi di
fede nell’attività politico-legislativa, che ha per destinatari tutti i cittadini, credenti e non
credenti. E poi quale Dio? Ogni maggioranza potrebbe imporre il suo Dio, a scapito del
dio delle altre confessioni religiose. L’intolleranza religiosa regnerebbe sovrana.
Di gran lunga preferibile attenersi al vecchio, ma sempre valido motto di Ugo
Grozio: etsi Deus non daretur (agire, nella sfera pubblica, come se Dio non ci fosse),
che tanto contribuì a porre fine ai violenti conflitti religiosi che insanguinarono l’Europa
del Sei-Settecento. Il motto groziano non si rivolge ad atei e agnostici (non ne hanno
bisogno, perché non hanno un dio a cui credere), ma ai credenti, affinché, nel dibattito
e nell’attività politica, non pretendano usare le proprie certezze dogmatiche e
dottrinarie come clava per condizionare e ridurre al silenzio i non o altrimenti credenti e
imporre a tutti misure legislative di parte, lesive della libertà e dei diritti altrui.
Dunque la Chiesa, la fede, la religione è conciliabile o no con la democrazia?
Alla questione non si può, a mio parere, rispondere correttamente, se non si
specifica di quale Chiesa, fede o religione, e di quale politica parliamo. Se ci riferiamo
ad una Chiesa gerarchica, teocratica, con la pretesa di autorità assoluta in campo
religioso e politico, con un sistema irrigidito e catechistico di dogmi di fede, convinta di
possedere l’unica vera religio, allora la sua inconciliabilità con la democrazia, che è
aconfessionale e pluralista e non sa cosa siano religioni e verità assolute, è, o
dovrebbe essere, palese a tutti, credenti o non credenti, purché pensanti.
Altro è il discorso che riguarda un altro possibile, e purtroppo storicamente sempre
marginale, tipo di chiesa (con la minuscola), la “chiesa antigerarchica, di base, dei
poveri, senza potere”, o come in altro modo la si voglia chiamare; fondata, come
auspicava già Guglielmo d’Ockham nel Trecento, sul principio proto-evangelico della
lex libertatis e della «comunione dei fedeli»8. Una chiesa che ignora i catechismi e
disprezza il potere temporale e le ricchezze; che è dotata di una fede incerta,
dubbiosa, critica, aperta, senza dogmi; e che infine è persuasa che la sua non è l’unica
e vera, ma solo una delle tante possibili opzioni religiose. Chi vorrà mettere
ragionevolmente in discussione la compatibilità di una tale chiesa con la democrazia?
Quando di discute di legittimità o illegittimità dell’intervento della Chiesa e del
credente nella vita pubblica, politica, anche qui, bisogna far chiarezza. Certo, il
credente ha uguale diritto e libertà, in democrazia, di far politica, come ogni altro
cittadino. Ma ce l’ha per l’appunto come cittadino, non come credente. L’“argomento
8
Il filosofo e la politica. Otto questioni circa il potere del papa, I,6, Milano, Bompiani, 2002.
6
Dio”, con i suoi assiomi teologici e i suoi corollari etici e bioetici (“Dio lo vuole, anzi no”,
“superiorità della legge di Dio su ogni legge umana o civile”; “il divorzio? Contrario alla
Volontà di Dio”, “i Pacs? Innaturali e peccaminosi”; “la riproduzione medicalmente
assistita? Un genocidio di embrioni”, “l’omosessualità? Un colpevole vizio contronatura”, e così via bioeticizzando e assolutizzando), – un argomento simile, adoperato
come spada di Damocle per minacciare, sottomettere e zittire i critici, i dissidenti, gli
avversari, è chiaro che dovrebbe essere espulso dal dibattito pubblico.
Evidente il perché: la libertà individuale di autodeterminazione, purché non
danneggi quella altrui, è incondizionata, imprescrittibile, come sancito in tutte le
moderne Dichiarazioni dei diritti dell’uomo e le moderne Costituzioni democratiche.
Ergo nelle società multietniche e multireligiose di oggi, cittadinanza democratica e
confessione religiosa vanno tenute nettamente distinte e separate. Alla qualifica di
cittadino l’opzione religiosa o irreligiosa è estranea. Non importa che si sia cattolici,
islamici, buddhisti ecc., o atei e agnostici; ciò che conta è comportarsi, vivere, agire,
pensare da cittadino, nel quadro della laicità e legalità democratica e costituzionale.
Altrimenti, ogni credente vorrà, prima o poi, trasformare inevitabilmente i suoi
precetti religiosi in leggi dello Stato, violando la libertà e i diritti degli altri, non credenti o
credenti in altre fedi. Con l’inevitabile rischio (oggi solo intravisto e magari
chiacchierato, ma non ancora effettivamente “pensato”, pesato, ponderato) di nuove
“guerre di religioni”, ancora più devastanti (per la potenzialità distruttiva dei mezzi
bellici) di quelle del passato.
Infine, anche il concetto di «spazio pubblico, politico» andrebbe meglio chiarito. Se
ne danno infatti almeno due possibili significati. Da un lato, di «società civile»,
prestatale. Dall’altro, di «spazio politico-istituzionale». Nell’ambito della «società civile»,
della produzione, organizzazione e diffusione del consenso, o del dissenso, c’è libertà
di espressione per ogni religione o irreligione, senza limiti di sorta che non sia
l’osservanza delle leggi. Nello «spazio politico-istituzionale», della discussione,
approvazione e applicazione delle leggi e dell’amministrazione della giustizia, vige il
principio della “ragione pubblica”, cioè dell’utilità e del bene di tutti, nessuno escluso, e
non di una singola parte o partito. Fosse anche il Partito di Dio. Dei devoti e degli atei
(finti) devoti. Laicità implica la separazione delle due sfere.
Se gli organismi della società civile, particolaristici e privatistici, religiosi o irreligiosi
che siano, invadono la sfera politico-statale in senso stretto, ci sono almeno due
possibili conseguenze. O il caos istituzionale (ognuno si appropria di una fetta di potere
a danno dell’altro, in una precondizione di hobbesiano «bellum omnium contra
omnes», guerra di tutti contro tutti). O il dispotismo della maggioranza (la religione o
l’ideologia dei più impone a tutti i propri precetti e diktat come leggi dello Stato).
Benedetto XVI, con quella sorta di suo nuovo primo comandamento mosaico, e
cioè «reintrodurre Dio nella sfera pubblica», ha di fatto teorizzato la (con)fusione delle
due sfere, pubblica e privata, definendo «sana, autentica laicità» ciò che è un autentico
ibrido pasticcio. E che ha un solo esito: sopprimere, liquidare la laicità dello Stato. E chi
non accetta quel comandamento? Ecco, nel linguaggio papale, il laico malsano, affetto
dalla patologia del «laicismo», termine usato in senso spregevole e negativo, per
indicare in realtà non una presunta intolleranza dello Stato democratico verso le
religioni, bensì la sua autonomia, che per i clericali è una trave nell’occhio.
Ora, “laicismo”, se lo si svuota del significato ideologicamente negativo che gli
addossa artificiosamente l’integralismo religioso, è un termine che può avere una
doppia valenza. Può significare la teoria e la pratica della separazione delle due sfere,
e allora equivale a “laicità”, ne è un doppione terminologico. In tal caso, l’attacco
clericale al laicismo è in realtà l’attacco alla laicità, punto e basta. E dunque, in uno
Stato democratico di diritto, la difesa del laicismo non è che la difesa della democrazia.
Ma quel termine può significare anche la concezione filosofica che sottende allo
Stato laico, ossia il relativismo. Che non a caso è stata a suo tempo additato da
Benedetto XVI come la bestia nera, l’eresia del XXI secolo. Intendendo per relativismo
7
la distruzione, negazione, o insignificanza di tutti i valori. In questo senso, la «dittatura
del relativismo» (un ossimoro, un ircocervo, una contraddictio in adiecto), paventata da
Ratzinger nella sua famosa omelia del 2005, equivarrebbe alla dittatura del nichilismo.
Ma relativismo si contrappone soltanto ad assolutismo.
Ciò che il relativista nega sono i valori e le verità assolute, dogmatiche, sovrastoriche. Anzi, più che negarli, chiede all’assolutista l’onere della prova. E come può
quest’ultimo “provare” qualcosa di ab-solutus, di sciolto dalla rete di relazioni spaziotemporali, storiche, culturali, se ciascuno di noi, dalla nascita alla morte, in quella rete è
immerso, di essa è un punto, un nodo provvisorio? Come spiegava il filosofo
neoscettico Agrippa, del I-II secolo d.C., nel terzo dei suoi cinque tropi (tropo =
modalità di ragionamento), il relativismo consiste in ciò, che «l’oggetto ci appare così o
così, in rapporto al giudicante e al resto che insieme con l’oggetto viene percepito, e
[perciò] ci asteniamo dal giudicare quale esso sia realmente», cioè in sé e per sé,
assolutamente, indipendentemente da ogni relazione9.
Il che non significa dire che tutto è al tempo stesso vero e falso, che vero e falso
sono interscambiabili, mere opinioni soggettive noncuranti del prossimo (“questo è vero
per me, che m’importa degli altri”). “Valori relativi” significa “storicamente relativi”,
quindi non solo costruiti da noi, e non piovuti miracolosamente dal cielo, ma anche da
noi correggibili, rivedibili, integrabili. I valori professati dal laico sono quelli che meglio
corrispondono all’autoconservazione dell’individuo e della specie, e cioè libertà,
autonomia, uguaglianza, solidarietà.
Valori che sono alla base dei moderni sistemi costituzionali democratici.
E che l’autoritarismo clericale, quando ha potuto, ha ignorato o soppresso.
Michele Martelli ha insegnato filosofia all'Università degli Studi di Urbino "Carlo
Bo". Ha pubblicato fra l’altro La Chiesa è compatibile con la Democrazia?
(Manifestolibri, 2011), Il secolo del male. Riflessioni sul Novecento
(Manifestolibri, 2004), Etica e storia. Croce e Gramsci a confronto (La città del
sole, 2001), Gramsci filosofo della politica (Unicopli, 1996).
9
Cit. in Sesto Empirico, Schizzi pirroniani in tre libri, a cura di A. Russo, Bari, Laterza,
2004, p. 37.