Principio di laicità, libertà di religione, accezioni di

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Principio di laicità, libertà di religione, accezioni di
Principio di laicità, libertà di religione, accezioni di ‘relativismo’
1. Laicità e modalità di convivenza in due recenti saggi. 2. Le interpretazioni della libertà di religione e della
nozione costituzionale di persona. 3. Significati della convivenza: dall’“accordo operativo” alla “ricerca di
un modello di vita”. 4. Il confine tra sfera pubblica informale e circuiti istituzionali quale “soglia di ingresso
delle ragioni laiche” secondo Habermas. 5. I princìpi “non negoziabili” per la Chiesa cattolica, e le modalità
e motivazioni della loro promozione. 6. Accezioni di relativismo in recenti posizioni della Chiesa. 7. Il
relativismo secondo Kelsen. 8. Sfere del dibattito pubblico e processi di apprendimento in una democrazia
pluralistica.
1. Il tema del rapporto fra principio di laicità e libertà di religione, divenuto assai
controverso nel nostro Paese, è approdato sulla rivista con i saggi di Francesco
Rimoli e di Aldo Travi1. Una divergenza appare riscontrabile soprattutto in ordine al
nesso fra interpretazione dei princìpi costituzionali e prospettive della convivenza.
Sembra utile porre a raffronto i due contributi sotto questo profilo, per poi mettere a
fuoco i punti costituzionalmente più scabrosi della controversia in corso.
Nel soffermarsi criticamente sul recupero di dialogo fra pensiero laico e religioso
proposto da
Habermas2, Rimoli rileva l’incompatibilità fra approccio non
cognivistico e adesione a una verità o a un dogma, così come fra il modello
discorsivo, fondato sull’apprendimento reciproco, e la dimensione del sacro, “luogo
insieme della catarsi e della violenza”3. La legge italiana sulla fecondazione assistita,
“orientata totalmente a favore di una delle ideologie presenti”, dimostrerebbe poi,
anche alla luce della successiva vicenda referendaria, l’impossibilità di
un’“integrazione giuridica”4. Fra laici e cattolici residuerebbe una mera “coesistenza
pluralistica delle diverse istanze, che potranno trovare, da prospettive che
permangono comunque diverse, un accordo strettamente operativo”5.
Secondo Rimoli, “nell’impossibilità del sacro di essere altrimenti” starebbe la “vera
ragione della connessione tra democrazia pluralista e laicità: quest’ultima si pone
come insostituibile momento di neutralizzazione e razionalizzazione della prima
1
F.Rimoli, Laicità, postsecolarismo, integrazione dell’estraneo: una sfida per la democrazia pluralista, e A.Travi,
Riflessioni su laicità e pluralismo, in Diritto pubblico, 2006, risp. 335 ss. e 375 ss. Nello stesso fascicolo, su aspetti
specifici, M.Croce, La libertà religiosa nella giurisprudenza costituzionale, 387 ss., N.Fiorita, Prime riflessioni sulla
politica ecclesiastica degli ultimi anni: enti ecclesiastici e agevolazioni fiscali, 441 ss., nonché la recensione di A.Di
Giovine a N.Colaianni, Eguaglianza e diversità culturali e religiose. Un percorso costituzionale, Il Mulino, Bologna,
2006, 643 ss.
2
La proposta fu formulata nell’incontro del 19 gennaio 2004 con l’allora cardinale Joseph Ratzinger (rip. in
J.Ratzinger-J.Habermas, Etica, religione e Stato liberale, Morcelliana, Brescia, 2005), ed è ulteriormente sviluppata in
J.Habermas, Tra scienza e fede, Laterza, Roma-Bari, 2006.
3
F.Rimoli, Laicità, cit., 341. Un “approccio non cognitivistico” riflette la concezione dell’etica che ha prevalso nel XX
secolo, “preoccupata principalmente di rendere conto della vita morale in modo da segnarne una netta autonomia e
differenziazione rispetto al piano della conoscenza empirica e scientifica, potendosi ormai ritenere già del tutto
acquisito, sul piano teorico, il processo che ha portato a segnare il distacco dell’etica dalla religione” (E.Lecaldano,
Etica, UTET, Torino, 1995, 43, e 46-47, per riferimenti al non-cognitivismo di Hare, accettato “anche dai teorici
tedeschi dell’etica del discorso come K.O.Apel e J.Habermas”).
4
F.Rimoli, Laicità, cit., 356.
5
F.Rimoli, Laicità, cit., 354.
proprio perché tende a coglierne....il più profondo contenuto epistemico e etico”; per
cui il principio di laicità varrebbe a “elidere le argomentazioni trascendenti dal
discorso politico”, e a considerare “integrabili, di fatto”, solo quelle “capaci di
rinunciare a pretese di verità, confrontandosi con tutte le altre che, a pari titolo,
vogliano proporsi nel processo deliberativo discorsivo”6.
Travi si propone, in primo luogo, di individuare la portata costituzionale del principio
di laicità. Desume dall’art. 19, in connessione con gli artt. 2 e 3, non solo il divieto di
discriminazione fra quanti aderiscono a fedi diverse, o fra credenti e non credenti, ma
anche la non indifferenza per l’identità religiosa in vista di una “realizzazione della
persona nell’ordinamento civile” che va oltre il ‘foro interno’ e implica “una
dimensione necessariamente sociale”, estrinsecabile nella “comunicazione agli altri
dell’esperienza di fede” e in una “partecipazione nella ricerca di un modello di vita”.
Il principio di laicità, lungi dal contrapporsi “a una garanzia forte del diritto
all’identità religiosa”, si traduce così in “criterio secondo il quale i cittadini si
confrontano fra loro ‘senza distinzioni di religione’ e, pur portatori di convinzioni
diverse, contribuiscono insieme al ‘pieno sviluppo della persona umana’” 7.
Su questa premessa interpretativa, la ricerca del sostegno a un’identità religiosa come
fattore di affermazione politica e, inversamente, dell’appoggio politico come fattore
di sicurezza sono considerate prassi che “gettano discredito” sulle istituzioni civili
come su quelle religiose. La distinzione tra fede religiosa e ordine politico, che la
Gaudium et spes “riconosce serenamente”, stenta a venire praticata da alcuni
‘cattolici’ italiani; e quanti confondono tali “prassi erronee” con la posizione della
Chiesa finiscono con l’attribuire ad essa “posizioni e pretese che le sono estranee”8.
Nel dibattito politico, il credente dovrebbe basarsi su argomenti di ordine civile e
sociale, senza “spendere l’argomento perentorio della fede”, perché ciò supererebbe
“i limiti di una laicità condivisa”, inducendo inoltre gli interlocutori a liquidare lo
stesso argomento per la sua unilateralità. In definitiva, il principio di laicità dello
Stato individuerebbe uno spazio etico nella democrazia pluralista capace di
accogliere e porre a confronto tutte le visioni della dignità della persona e del bene
pubblico, con la sola esclusione degli intolleranti. Dopo aver riportato un passo in cui
S.Giacomo afferma di preferire un giusto ‘senza fede’ a un credente ‘senza opere’,
poiché nelle opere il giusto esprime comunque una ‘fede’, Travi osserva che il passo
non si riferisce a una verità trascendente, ma ad “una spiritualità ugualmente intensa,
che illumina la solidarietà profonda per l’‘altro’. Per me sono parole di grande
speranza”9.
2. A prima vista, più che nel principio costituzionale di laicità, il fulcro della
divergenza parrebbe consistere nelle modalità di comunicazione e di convivenza fra
laici e cattolici. Ricavato il principio di laicità dalle norme costituzionali sulla libertà
6
F.Rimoli, Laicità, cit., 365.
A.Travi, Riflessioni, cit., 377-378.
8
A.Travi, Riflessioni, cit., 380.
9
A.Travi, Riflessioni, cit., 384-385.
7
religiosa, anziché da quelle sui rapporti fra ordinamenti, ambedue gli autori lo
configurano, in combinazione con l’art. 3, primo comma, quale divieto di
discriminazioni fra credenti e non credenti, oltre che fra aderenti a diverse
confessioni. Inoltre, l’affermazione di Rimoli che il principio vale a elidere le
argomentazioni trascendenti dal discorso politico non si discosta, nei risultati, da
quella di Travi che l’impiego in tale discorso dell’argomento perentorio della fede
eccede “i limiti di una laicità condivisa”. Le divergenti visioni della convivenza – da
un “accordo strettamente operativo” a un dialogo così impegnativo da comprendere la
ricerca di “un modello di vita” – parrebbero muovere da presupposti ulteriori, che
non pregiudicano l’interpretazione della Costituzione.
Un’indagine appena più approfondita smentisce però la prima impressione. Altrove,
Rimoli fonda su “una lettura schiettamente individualistica” della disciplina delle
manifestazioni del fenomeno religioso “il momento della garanzia della libertà di
coscienza di ciascuno in ordine ai quesiti fondamentali sul senso dell’esistenza,
individuale e collettiva”10, nonché, in combinazione col divieto di distinzioni fra
cittadini in ragione della religione (art. 3), l’esclusione di “ogni forma di privilegio
per alcuno dei culti professati sulla fuorviante considerazione della prevalenza
numerica, nel tessuto sociale, dei credenti a quel culto appartenenti”11. E’ un risultato
conforme alla giurisprudenza costituzionale, che ha abbandonato l’argomento della
prevalenza numerica all’atto della “scoperta” del principio di laicità12, ma al quale
Rimoli perviene muovendo dalla lettura individualistica. Del resto, egli collega il
principio di laicità a quello personalistico e al pluralismo delle formazioni sociali
nella misura in cui si tratti di esplicare “potenzialità insite nell’individuo”, e a patto di
intendere i termini “personalità” e “persona” accolti in Costituzione “in senso
ontologico e non deontologico, secondo un’accezione diffusa in ambito cattolico”13.
Per Travi la libertà religiosa non si esaurisce nel pari rispetto per le convinzioni
interiori, racchiudendo una “dimensione necessariamente sociale”, di comunicazioni
e confronti con gli altri, ritenuta finalizzata al pari delle altre libertà, in un contesto di
pluralismo costituzionalmente garantito, al pieno sviluppo della persona umana. Una
persona che non annulla né attenua la sua identità nella comunità cui eventualmente
aderisca, piuttosto la ricerca attraverso interazioni e comunicazioni dentro e fuori le
comunità, e che proprio attraverso questo processo può aspirare al suo “pieno
sviluppo”.
Le diverse opinioni circa le modalità di convivenza fra laici e cattolici non rimandano
semplicemente a un quid di prescrittivo che sta nella mente dei loro sostenitori,
combinandosi altresì con letture altrettanto diverse della nozione di persona e delle
dimensioni della libertà di religione.
10
F.Rimoli, I diritti fondamentali in materia religiosa, in R.Nania e P.Ridola (a cura di), I diritti costituzionali, III,
Giappichelli, Torino, 2006, 876.
11
F.Rimoli, I diritti fondamentali, cit., 877.
12
V. da ultimo l’accurata ricostruzione di M.Croce, La libertà religiosa, cit., specie 413 ss.
13
F.Rimoli, Laicità (dir. cost.), in Enc.giur., XVIII, Istituto della Enciclopedia italiana, Roma, 1995, 4, con richiami a
Maritain e ai lavori della Costituente.
3. Il concetto di persona evocato dall’art. 3 sembra doversi distinguere dai, e poi
collegarsi ai, processi di formazione della “personalità”, ossia dell’identità di
ciascuno, che “si svolgono” nelle “formazioni sociali” in base all’art. 2. Col garantire
e riconoscere i diritti inviolabili dell’uomo, “sia come singolo sia nelle formazioni
sociali ove si svolge la sua personalità”, la Costituzione presuppone che le identità di
ciascuno non siano monadi isolate e possano formarsi solo attraverso la relazione con
altri. Solo che si astiene dal valutare le formazioni sociali al cui interno, o attraverso
la cui reciproca interrelazione, esse si svolgono. Che si trovi in buona o in cattiva
compagnia, ogni individuo vede così riconosciuti e garantiti i suoi diritti inviolabili, e
potrà, in condizioni di pari dignità sociale, e rimossi da parte dei pubblici poteri gli
ostacoli di ordine economico e sociale che limitano di fatto libertà ed eguaglianza,
aspirare al “pieno sviluppo” della sua “persona”. E tuttavia i circuiti pluralistici non si
sovrappongono a quello sviluppo come un qualcosa di esterno, e da cui ci si possa un
giorno liberare: essi ne fanno comunque parte, così come, nella visione dell’art. 2, i
diritti inviolabili accompagnano costantemente il processo di formazione della
personalità.
La lettura accennata consente di enucleare dal testo una nozione in senso
deontologico di persona14, senza ricondurla all’intento originario, di solito
considerato tutt’altro che esaustivo in sede di interpretazione costituzionale.
Fermarsi all’intento originario, sicuramente da ascrivere a una “accezione diffusa in
ambito cattolico”, significherebbe poi perdere di vista il percorso di sedimentazione
che il significato della nozione di persona ha avuto nella nostra esperienza. Siamo
davvero rimasti fermi, su questo punto cruciale, alle divisioni del 1947, quando ogni
parte aveva bisogno della sua brava carta di identità per rappresentare se stessa?
Come dimostra la stessa lettura di Travi, del tutto estranea ad impostazioni
organicistiche, proprio il risultato del lavoro dei Costituenti ci ha aperto la possibilità
di superare incomprensioni, sospetti e paradigmi del passato, e di riconoscerci nel
contenuto di valore sprigionato dal richiamo a un “pieno sviluppo della persona
umana” di cui libertà ed eguaglianza sono viste quali congiunte condizioni. Questo
potrebbe essere, anzi, il primo apprendimento utile ad individuare la nostra modalità
di convivenza, e a segnalarne il significato agli altri popoli europei15.
In un breve scritto del 1944, Alberto Savinio racconta di un suo incontro con un
generale dall’uniforme che chiudeva “ogni via di comunicazione”; eppure egli
scopre dentro di sé uno stato d’animo opposto, che così commenta: “Non c’è gioia
più generosa e profonda del vedere aprirsi a noi le porte che credevamo chiuse per
sempre, nel veder brillare la possibilità dell’amicizia in coloro che credevamo nemici,
nel veder entrare nella zona del ‘nostro’ anche uomini e cose che stimavamo diversi
da noi per natura, indifferenti a noi per volontà, avversi a noi per destino. E’ la gioia
più ‘umana’ questa e benefica, la più cristiana. La quale ci viene non tanto dal che
vediamo l’errore correggersi negli altri, quanto dal che noi vediamo l’errore
14
Si può vedere più ampiamente C.Pinelli, “Nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità”, in R.Bin e
C.Pinelli (a cura di), I soggetti del pluralismo nella giurisprudenza costituzionale, Giappichelli, Torino, 1995, 75 ss.
15
C.Pinelli, Il momento della scrittura. Contributo al dibattito sulla Costituzione europea, Il Mulino, Bologna, 2002,
234, dove aggiungo che sotto questo profilo la Costituzione italiana avrebbe anticipato il principio di indivisibilità dei
valori affermato dalla Carta dei diritti fondamentali dei cittadini europei.
correggersi in noi stessi e assieme allargarsi intorno a noi il raggio del bene”. Lo
scritto è intitolato “Sorte dell’Europa”16.
Savinio, si obietterà, allude a valori che possono esserci o meno, e rimandano a una
sfera individuale irriducibile ad altre: cosa ha a che vedere con un testo normativo, la
Costituzione, che assumiamo debba parlare sempre a tutti, e con la dimensione
universale insita nel principio di laicità? L’“errore” nel valutare qualcuno, che
vediamo “correggersi in noi stessi” e che consente nello stesso tempo di “allargarsi
intorno a noi il raggio del bene”, è certo una possibilità nelle relazioni
intersoggettive; e sarebbe fin troppo facile immaginare il caso inverso. Ma è
muovendo dalla consapevolezza di queste possibilità che il testo costituzionale
disegna percorsi che parlano a tutti, senza cadere nella trappola del paternalismo.
4. Travi riferisce la “dimensione necessariamente sociale” della libertà di religione
a un contesto di dialogo fra individui singoli o associati – non fra individui e pubblici
poteri, tenuti piuttosto a garantirne le condizioni –, nel quale trovino posto la
testimonianza e la comunicazione agli altri dell’esperienza di fede, e la
partecipazione della ricerca di un modello di vita. Viceversa, scrive, le ragioni di
ordine religioso non potrebbero “mai tradursi in ‘argomenti’ a favore di una decisione
politica”. Egli prefigura così, altrettanto necessariamente, un doppio circuito
discorsivo, uno fra individui e gruppi sociali ed uno istituzionale, e individua buone
ragioni per tenerli distinti.
L’“accordo strettamente operativo” di Rimoli è una modalità di coesistenza fra
estranei, in quanto esito del fallimento dei tentativi di dialogo con chi si richiami al
‘sacro’ in un contesto discorsivo caratterizzato da parità di armi argomentative e
reversibilità di opinioni. Tralasciando per il momento il merito, chiediamoci solo: chi
potrebbe richiamarsi al ‘sacro’, perlomeno quale suo riconosciuto depositario, se non
l’autorità ecclesiastica? E dove il richiamo potrebbe avere senso se non nella sfera
politica e/o scientifica, dove c’è anzitutto da stabilire chi parla e chi risponde, e con
quali conseguenze? A tali sfere si riferisce infatti Rimoli, ponendosi dalla prospettiva
che le istituzioni laiche dovrebbero assumere di fronte a quelle ecclesiastiche
allorché siano trattati temi di bioetica. Lo scambio fra esperienze o progetti di vita
individuali, riconoscimenti dell’altro, testimonianze, è qui precluso per definizione.
Le diverse visioni del contenuto della libertà di religione e del concetto di persona
conducono dunque in un caso a prefigurare accanto alla sfera politico-istituzionale,
dove l’argomento della fede, conformemente al principio di laicità, non può essere
speso, un dialogo fra individui singoli o associati che può nutrirsi di reciproci
apprendimenti nel rispetto delle convinzioni di ognuno, nell’altro a condensare la
portata istituzionale del principio di laicità in un accordo di coesistenza fra autorità
civili ed ecclesiastiche, a garanzia del pari rispetto delle convinzioni religiose
individuali.
16
A.Savinio, Sorte dell’Europa (17 ottobre 1944), in Id., Sorte dell’Europa, Adelphi, Milano, 1978, 61-62. Ho pensato
allo scritto dopo aver letto le parole di Travi sulla speranza.
Fino a che punto, ci si può chiedere ora, i circuiti discorsivi e le scelte che
concernono il principio di laicità e la libertà di religione presentano un campo di
problemi tali da richiedere soluzioni specifiche rispetto agli assetti costituzionali delle
democrazie pluralistiche?
Se la “lettura schiettamente individualistica” non riguardasse soltanto la libertà di
religione, ma il complesso dei diritti fondamentali, equivarrebbe alla critica rivolta in
via generale da Isaiah Berlin al concetto di libertà positiva come affermazione di sé:
un concetto che alla luce delle esperienze del XX secolo porterebbe a una
sovrapposizione paternalistica di una volontà unica e collettiva sulla libertà
individuale17. Si è però osservato che, generalizzando “il rischio della manipolazione
dell’altro”, Berlin trascura le risorse e gli antidoti che anche grazie alle variabili
derivanti dagli assetti costituzionali “consentono all’opinione pubblica di formarsi
liberamente e di costituirsi come un processo pubblico comunicativo capace di
coinvolgere la società nelle sue svariate espressioni ed articolazioni”18.
Prendere sul serio le premesse anche etiche ed epistemologiche dello Stato
costituzionale, e conseguentemente della strutturazione di una società aperta,
significa nutrire fiducia nello sviluppo di una libertà positiva nell’ambito dei circuiti
discorsivi di quella società, sul presupposto che non siano passivamente dipendenti,
e siano quindi distinguibili, dai processi di decisione politica. Diversamente, finirebbe
col riproporsi lo schema autorità/libertà, e verrebbero misconosciute non solo le
possibilità di sviluppo della libertà positiva, ma la natura intrinsecamente relazionale
dell’identità individuale e il senso democratico del processo pubblico comunicativo,
basato su reciproci apprendimenti.
Dal saggio di Rimoli risulta però chiaramente come la sua lettura individualistica
riguardi le sole questioni che toccano convinzioni religiose, in quanto espressive della
sfera del sacro. Su questo presupposto, si potrebbe pertanto obiettare, estendere ad
esse il concetto di libertà positiva significherebbe non rispettare ma contraddire le
premesse di una società aperta.
Nondimeno, il presupposto non sembra tenere conto della sussistenza di numerose
questioni che toccano convinzioni religiose senza per ciò stesso implicare interventi
ultimativi di depositari di una verità. Se se ne tiene conto, un’actio finium
regundorum tra processi comunicativi attivi nella società e dimensione sociale della
libertà di religione, condotta in un campo non predicibile di interazioni
intersoggettive, che consente di reinventare in continuazione spazi di
rappresentazione individuale e collettiva, apparirà quantomeno arbitraria. D’altra
parte una risoluzione nel sacro di ogni pretesa di verità prova troppo, poiché ad
opporsi propriamente al relativo è l’assoluto, di cui il sacro è solo una delle
espressioni: e lo Stato costituzionale si è dimostrato tanto più in grado di rispondere
alle pretese di verità, quanto più ha fatto ricorso alle sue virtù inclusive.
Ammettere nella sfera pubblica anche informale della sola dimensione “etica” oltre
che “epistemica” della democrazia, in quanto espressiva di una visione universale,
corrisponde sul piano istituzionale alla versione francese di laicità, meno
17
18
I.Berlin, Quattro saggi sulla libertà (1969), Feltrinelli, Milano, 1989.
P.Ridola, Diritti fondamentali. Un’introduzione, Giappichelli, Torino, 2006, 154-155.
comprensiva di quelle pluraliste19. Una versione perciò meno in grado di fare i conti
con una situazione dell’Occidente europeo che si è lasciato alle spalle “l’aggressiva
autoaffermazione dell’immagine antropocentrica di sé e del mondo contro quella
teocentrica” ma si trova davanti a “una modernizzazione uscita dai binari” e a “una
coscienza normativa in generale declino”20.
4. Non possono però nemmeno sottacersi i risvolti problematici della “dimensione
necessariamente sociale” della libertà di religione. Come si è detto, per evitare quelle
decisioni pubbliche motivate con argomenti di fede da ritenersi antitetiche al nucleo
minimo essenziale del principio di laicità, essa comporta del pari la necessità di
distinguere il circuito delle istituzioni dal circuito informale che si sviluppa nella
società e nella sfera strettamente politica.
Dopo aver ritenuto “un eccesso laicistico di generalizzazione” estendere alle “scelte
di organizzazioni e di cittadini nella sfera pubblica politica” la “neutralità ideologica
dell’autorità statale, che garantisce pari libertà etiche ad ogni cittadino”21, Habermas
osserva infatti che “Ciascuno deve sapere e accettare che oltre la soglia istituzionale
che separa la sfera pubblica informale da parlamenti, tribunali, ministeri e
amministrazioni, contano soltanto le ragioni laiche” e che “le soglie istituzionali tra la
sfera pubblica politica ‘sfrenata’ e i corpi statali costituiscono dei filtri i quali, dalla
babele di voci dei pubblici circuiti di comunicazione, lasciano passare soltanto i
contributi laici”22.
Nella sfera pubblica informale, il dialogo habermasiano esige rinunce parallele. Se i
“cittadini religiosi” debbono accettare la “riserva di traduzione”, ossia l’impegno dei
laici a tradurre nello spazio pre-parlamentare i contenuti di verità di enunciati
religiosi in un “linguaggio universalmente accessibile”, i “cittadini laici” debbono
concepire il loro disaccordo con le concezioni religiose come un “dissenso
ragionevolmente prevedibile”, nel quadro di “una società post-secolare, orientata
anche epistemicamente sulla sopravvivenza delle comunità religiose”23.
Il contributo di Habermas mi sembra convincente nel motivare l’esigenza di dialogo
in presenza di sfide che coinvolgono ambedue le “grandi culture dell’Occidente,
quella della fede cristiana come quella della razionalità ‘secolare’”24. Più dubbia
appare la consistenza delle soluzioni, dal momento che le parallele rinunce di credenti
e non credenti comportano “una formazione razional-solidaristica della volontà” che
“non può venir prescritta legalmente, ma solo richiesta. Un obbligo legale di
19
Come rileva N.Colaianni, Eguaglianza e diversità, cit., 50, il modello francese si distacca da quelli che caratterizzano
il costituzionalismo europeo e occidentale, dove la laicità “partecipa del maggiore equilibrio, del bilanciamento, che il
costituzionalismo riserva ai diritti, i quali non precedono la legge ma sono fondati, unitamente alla legge, nella
Costituzione”.
20
J.Habermas, Tra scienza e fede, cit., 113. Osserva R.Bodei, L’etica dei laici, in G.Preterossi (a cura di), Le ragioni dei
laici, Laterza, Roma-Bari, 2005, 26, che “la fede nei princìpi morali, ancora in parte viva all’inizio del XX secolo, è
stata, contro ogni iniziale aspettativa, abbondantemente scossa ed erosa”.
21
J.Habermas, Tra scienza e fede, cit., 32.
22
J.Habermas, Tra scienza e fede, cit. risp. 33 e 35.
23
J.Habermas, Tra scienza e fede, cit., 41 ss. Corsivo dell’A.
24
J.Ratzinger, Ciò che tiene unito il mondo, in J.Ratzinger-J.Habermas, Etica, religione e Stato liberale, cit., 54.
solidarietà sarebbe un controsenso”25. Non solo nei contenuti, ma per le condizioni
che lo rendono possibile, il dialogo dovrebbe contare sulla sola moral suasion, sulla
efficacia reciprocamente persuasiva delle argomentazioni addotte dalle parti.
Fa eccezione la soglia istituzionale oltre la quale “contano soltanto le ragioni laiche”.
Tenendo presente l’esperienza tedesca e quella di molti altri ordinamenti democratici,
Habermas sembra considerarla pacifica dal punto di vista giuridico, e ne fa il perno
su cui costruisce l’intero schema delle sue proposte. Sulla solidità di quella soglia è
però lecito qualche interrogativo in riferimento al nostro Paese, il che consentirà di
tornare alle cose dette da Rimoli e da Travi da una diversa prospettiva.
5. La questione è risalente, e sono note, pur se discusse, le ragioni della particolare
difficoltà, i ritardi e i limiti con cui il principio di laicità ha potuto radicarsi da noi.
Ricordo solo che Jemolo, deprecando un “confessionismo di costume”, guardava
all’Italia come a un terreno di “scontro fra due religiosità: quella che si compiace
dell’unus ordo, non distinzione tra secolo e Chiesa, la stessa scala di valori, la fede
che anima la vita individuale posta a dirigere anche quella collettiva, e non solo nella
scelta di una tavola di valori etici ma pure nelle manifestazioni estrinseche, nel
cerimoniale; e la religiosità per cui ogni valore si dilegua se manca la spontaneità, se
c’è anche solo l’apparenza della coercizione o della convenienza, e lo stesso
instaurarsi di un costume è malefico in quanto uccide la spontaneità”26. E’ un ritratto,
quello di Jemolo, che aiuta ad intendere il legame profondo fra principio di laicità e
libertà di religione: quanto più il primo è presidiato nelle istituzioni, tanto più
ciascuno può interagire con gli altri senza dipendenze, usufruendo dell’aspetto sociale
e comunicativo della libertà di religione in vista di una ricerca interiore di senso a
sua volta suscettibile di venir trasmessa.
Purtroppo siamo lontanissimi dall’aver raggiunto condizioni simili, anzi ce ne stiamo
allontanando a vista d’occhio. Tenuto a freno fino ai primi anni Novanta dal partito di
maggioranza relativa, il confessionismo di costume è oggi come rinverdito, ad opera
di quei politici che non hanno esitato ad ostentare fedeltà agli auspici della Chiesa
cattolica al momento di motivare certe scelte legislative27. Quando è così, non c’è più
soglia istituzionale che tenga. E’ il fenomeno che Travi depreca con parole severe.
Non credo però che i laici, anche non credenti, se ne lascino confondere fino ad
ascrivere alla Chiesa, come lui aggiunge, “posizioni e pretese che le sono estranee”.
25
J.Habermas, Tra scienza e fede, cit., 175.
A.C.Jemolo, I problemi pratici della libertà, II ed., Giuffrè, Milano, 1967, 150, che così proseguiva: “L’uomo
liberale non ha, come tale, voce in capitolo allorché si tratti di scelta tra due religiosità; ma non può non constatare che
soltanto la preferenza data alla seconda permette di realizzare una società civile in cui siano in parità di posizione
uomini religiosi e non religiosi, appartenenti a confessioni diverse”.
27
G.Zagrebelsky, Imparare democrazia, Einaudi, Torino, 2007, 27, ha parlato di “opportunisti della religione”, e
L.Elia, A proposito del principio di laicità dello Stato e delle difficoltà di applicarlo, in Studi on. Berti, II, Jovene,
Napoli, 2005, 1073, ha rilevato “la tentazione da parte di partiti o di coalizioni di partiti – per acquisire vantaggi
elettorali – di offrire soluzioni di questioni sul tappeto (non ancora chiuse) ritenute da essi più favorevoli per le autorità
ecclesiastiche”.
26
Anche se il dibattito pubblico sulla laicità, specie quando svolto in forme mediatiche,
è confuso quanto scadente, la posizione della Chiesa è stata espressa reiteratamente e
senza equivoci: e neanche da essa si può prescindere per esaminare quanto sta
capitando intorno alla soglia oltre la quale “contano soltanto le ragioni laiche”, e
quindi alle possibilità di un dialogo sincero e corretto.
Afferma dunque la Chiesa che alcuni princìpi, definiti “non negoziabili” – ossia
“tutela della vita in tutte le sue fasi, dal primo concepimento fino alla morte naturale;
riconoscimento e promozione della struttura naturale della famiglia, quale unione fra
un uomo e una donna basata sul matrimonio, e sua difesa dai tentativi di renderla
giuridicamente equivalente a forme radicalmente diverse di unione che, in realtà, la
danneggiano...; tutela del diritto dei genitori di educare i propri figli” – “non sono
verità di fede anche se ricevono ulteriore luce e conferma dalla fede. Essi sono
inscritti nella natura umana stessa e quindi sono comuni a tutta l’umanità. L’azione
della Chiesa nel promuoverli non ha dunque carattere confessionale, ma è rivolta a
tutte le persone, prescindendo dalla loro affiliazione religiosa”28.
Anche quando si concretizzi in forti dissensi da decisioni politiche adottate o da
adottarsi, la posizione non dovrebbe prestarsi ad accuse di ingerenza. Tuttavia, le
modalità e le motivazioni con cui viene sostenuta tendono a restringere o a dilatare
l’area del “non negoziabile” in ragione di singole contingenze.
In occasione del referendum abrogativo della legge sulla fecondazione assistita, la
scelta di invitare gli elettori a respingere il quesito, irreprensibile in termini di
principio quanto rischiosa ai fini del risultato, fu accantonata senz’altro a favore di
una campagna astensionistica tanto più efficace, quanto più suscettibile di far leva su
un’ampia fascia di elettori indifferenti o non in grado di orientarsi. Per vincere29, si
preferì allora puntare sul “relativismo” di solito rimproverato alla società
contemporanea.
Di converso, la recente “Nota sulle iniziative legislative sulle unioni di fatto”
richiama e fa propria una nota della Congregazione per la Dottrina della Fede ove si
osserva che il fedele cristiano deve formare la propria coscienza confrontandosi con
l’insegnamento del Magistero, e pertanto non “può appellarsi al principio del
pluralismo e dell’autonomia dei laici in politica, favorendo soluzioni che
compromettano o che attenuino la salvaguardia delle esigenze etiche fondamentali
per il bene comune della società”30. Qui il richiamo a princìpi “non negoziabili” si
dilata, fino a tradursi in una richiesta ultimativa ai parlamentari cattolici di scegliere
fra insegnamento del Magistero e principio di laicità.
28
Discorso ai partecipanti al Convegno promosso dal Partito Popolare Europeo, 30 marzo 2006, in La verità sulla
famiglia. Matrimonio e unioni di fatto nelle parole di Benedetto XVI, Quaderni de “L’Osservatore romano”, Città del
Vaticano, 2007, 23.
29
Come ricorda S.Prisco, Laicità, in Dizionario di diritto pubblico, Giuffrè, Milano, 2006, 3342, la decisione delle
gerarchie ufficiali della Chiesa di sostenere la propaganda astensionistica “è stata ritenuta dagli osservatori fra i fattori
determinanti del mancato raggiunimento dei quorum necessari per la validità della consultazione”.
30
Consiglio Episcopale Permanente, Nota a riguardo della famiglia fondata sul matrimonio e di iniziative legislative in
materia di unioni di fatto, Roma, 28 marzo 2007, ove è riportato il passo citato nel testo della Nota dottrinale circa
alcune questioni riguardanti l’impegno e il comportamento dei cattolici nella vita politica, a cura della Congregazione
per la Dottrina della Fede, 24 novembre 2002.
Sia quando si risolvono in opzioni tipiche di una parte politica che si rivolge
all’elettorato per ottenerne comunque il consenso, sia quando esprimono la voce di
un’autorità depositaria delle verità di fede, che pure nella specie si dichiara impegnata
a promuovere princìpi che “non sono verità di fede”, simili prese di posizione vanno
al di là della testimonianza, fino a spingersi ai bordi della soglia istituzionale di cui
parla Habermas.
Se la tendenza si consolidasse, la posizione delle autorità ecclesiastiche risulterebbe
sbilanciata rispetto a quella delle autorità civili. Mentre le prime interverrebbero
liberamente tanto nei circuiti del pluralismo sociale quanto, in via informale, in quelli
istituzionali31, le altre resterebbero giuridicamente vincolate a mantenere aperti, in
forza del principio di laicità, i circuiti comunicativi nella società, e ad esporsi in
Parlamento con risposte politiche suscettibili di dar luogo alle relative responsabilità.
Conviene altresì ricordare come la dimensione sociale della libertà di religione sia
stata particolarmente valorizzata dal Concordato del 1984, che ha così aperto una
pagina nuova nei rapporti fra Stato e Chiesa proprio dal punto di vista
costituzionalistico32, e nella successiva giurisprudenza della Corte33. Se però la
tendenza cui accennavo si consolidasse, quella dimensione non servirebbe soltanto ad
arricchire il senso dei circuiti interindividuali e lo sviluppo della persona, anche con
la ricerca, tra credenti e con i credenti, di bussole per convivere con l’incertezza.
Servirebbe pure da piattaforma per erigere un baluardo identitario, tanto più a fronte
di una rappresentanza politica in crescente affanno, e incapace di far valere
serenamente “ragioni laiche”.
L’ipotesi desta inquietudine per il futuro, e si regge su elementi che già ora inducono
rammarico per le perdute occasioni di confronto.
6. E’ convinzione della Chiesa che leggi nelle materie indicate, volte a riconoscere
diritti dell’individuo in riferimento a scelte che lo concernono direttamente, non
importa se giustificate da acquisizioni scientifiche o dal mutare dei costumi,
aprirebbero inevitabilmente la strada a decisioni ritenute contrarie alla natura
dell’essere umano, quali il riconoscimento dell’eugenetica, dell’eutanasia, del
matrimonio fra omosessuali e dell’adozione di figli da parte loro.
La concezione della natura umana che viene prospettata appare dunque volta a
fissare una barriera invalicabile non tanto nei confronti di innovazioni scientifiche già
31
Osserva L.Zannotti, La sana democrazia. Verità della Chiesa e princìpi dello Stato, Giappichelli, Torino, 2005, 78,
che “la Chiesa accetta volentieri le opportunità offerte dalla forma democratica dello Stato, giovandosi dei suoi valori e
approfittando dei suoi limiti, cercando di sfruttarne gli aspetti problematici ed inserendosi nei processi di
trasformazione, collaborando quando merita e rivendicando la separatezza se deve difendere i propri princìpi o
sostenere i propri interessi non sempre di natura strettamente religiosa”.
32
G.Amato, Una grande riforma, in G.Acquaviva (a cura di), La grande riforma del Concordato, Marsilio, Venezia,
2006, 136.
33
In particolare, nel dichiarare l’illegittimità costituzionale delle norme penali poste a tutela del sentimento religioso
con riguardo alla sola confessione cattolica, la Corte rilevava come “la protezione del sentimento religioso è venuta ad
assumere il significato di un corollario del diritto costituzionale di libertà di religione, corollario che, naturalmente, deve
abbracciare allo stesso modo l’esperienza religiosa di tutti coloro che la vivono, nella sua dimensione individuale e
comunitaria, indipendentemente dai diversi contenuti di fede delle diverse confessioni” (sent.n. 326 del 1997).
sperimentate e delle relative regolazioni normative, quanto soprattutto di quelle
possibili.
Ad esempio, dichiarazioni contrarie alla interruzione dei trattamenti terapeutici
fondate sul valore della vita fino al “tramonto naturale” trascurano che quegli stessi
trattamenti, correntemente definiti a buon diritto “artificiali”, hanno già alterato in
modo irreversibile i termini del rapporto fra corpo e mente e la correlativa nozione di
natura, ponendo dilemmi prima impensati in riferimento alle scelte ultime di ognuno,
e corrispondentemente modificando il senso dei giudizi che altri possano darne. Una
morte provocata dalla loro interruzione rimane la morte di un essere umano, con lo
stesso carico di significati anche valoriali di quella di qualsiasi altro essere umano.
Definirla naturale non rivela solo l’intento, criticabile quanto si vuole eppure
legittimo, di ribadire l’immanenza di una moralità oggettiva. Ripristina pure l’idea di
un’associazione indissolubile della ragione, comprese le acquisizioni scientifiche,
alla natura34, che in nome di una visione essenzialistica, imprigionata in un dogma
senza tempo, nega il presupposto del problema dell’interruzione dei trattamenti
terapeutici e quindi la disponibilità al confronto.
Come si spiega l’insistenza sul punto? Essa si accompagna costantemente all’allarme
per una società così pervasa da “relativismo”, e per legislatori così inconsapevoli del
proprio ruolo, da aprire inevitabilmente la via a regole di convivenza interpersonali
ritenute contrarie alla natura, e a manipolazioni scientifiche della natura ritenute non
più contingenti e isolabili ma irreversibili e generalizzate. Si ha l’impressione che, se
non regnasse il timore per una china così sdrucciolevole, i richiami alla nozione di
natura acquisirebbero una diversa portata.
Nelle encicliche e nei discorsi degli ultimi due Pontefici35, il richiamo ai rischi del
“relativismo” è continuo.
Parlando dinanzi al Presidente della Repubblica e al Parlamento riunito in seduta
congiunta, Giovanni Paolo II ha messo in guardia dal “rischio dell’alleanza fra
democrazia e relativismo etico che toglie alla convivenza civile ogni sicuro punto di
riferimento morale e la priva, più radicalmente, del riconoscimento della verità”; e
ancora: “Se non esiste alcuna verità ultima che guidi e orienti l’azione politica le idee
e le convinzioni politiche possono essere facilmente strumentalizzate per fini di
potere. Una democrazia senza valori si converte facilmente in un totalitarismo”36.
Benedetto XVI ha parlato di “relativismo” in due accezioni diverse, anche se
complementari. “Oggi un ostacolo particolarmente insidioso all’opera educativa”, ha
osservato in un suo discorso, “è costituito dalla massiccia presenza, nella nostra
34
Nel dibattito con Habermas, il Cardinale Ratzinger aveva dichiarato di non voler ricorrere al modello argomentativo
fondato sul diritto naturale per la seguente ragione: “L’idea del diritto naturale presupponeva un concetto di natura, in
cui natura e ragione fanno presa l’una nell’altra, la natura stessa è razionale. Questa visione della natura si è spezzata
con la vittoria della teoria dell’evoluzione. La natura come tale, secondo essa, non è razionale, anche se in essa vi sono
modi di operare razionali: questa è la diagnosi che da quella prospettiva ci viene posta e che oggi in larga misura sembra
incontrovertibile” (J.Ratzinger, Ciò che tiene unito il mondo, cit., 50).
35
Un’ampia rassegna delle encicliche e dei discorsi pastorali sul tema della democrazia nel corso dell’ultimo secolo è
condotta nel I Capitolo del volume di L.Zannotti, La sana democrazia, cit., 1 ss.
36
Cfr. L’Osservatore Romano, 15 novembre 2002. V altresì l’enciclica Evangelium vitae, là dove Papa Giovanni Paolo
II considera “l’esito nefasto di un relativismo che regna incontrastato” quanto accade allorché “l’originario e
inalienabile diritto alla vita è messo in discussione o negato sulla base di un voto parlamentare o della volontà di una
parte – sia pure maggioritaria – della popolazione”.
società e cultura, di quel relativismo che, non riconoscendo nulla come definitivo,
lascia come ultima misura solo il proprio io con le sue voglie, e sotto l’apparenza
della libertà diventa per ciascuno una prigione, perché separa l’uno dall’altro,
riducendo ciascuno a ritrovarsi chiuso dentro il proprio ‘Io’. Dentro a un tale
orizzonte relativistico non è possibile, quindi, una vera educazione: senza la luce
della verità, prima o poi ogni persona è infatti condannata a dubitare della bontà della
sua stessa vita e dei rapporti che la costituiscono, della validità del suo impegno per
costruire con gli altri qualcosa in comune”37.
Altrove il Papa ha affermato che “L’espressione ‘verità del matrimonio’
perde...rilevanza esistenziale in un contesto culturale segnato dal relativismo e dal
positivismo giuridico, che considerano il matrimonio come una mera formalizzazione
sociale dei legami affettivi. Di conseguenza, esso non solo diventa contingente come
lo possono essere i sentimenti umani, ma si presenta come una sovrastruttura legale
che la volontà umana potrebbe manipolare a piacimento, privandola perfino della sua
indole eterosessuale”38.
Il termine relativismo, che nel primo caso è sinonimo di indifferenza di un individuo
per gli altri e per sé, viene associato nel secondo al positivismo giuridico, visto quale
indifferenza del legislatore per i contenuti o per i valori sottostanti le sue scelte. Le
due accezioni risultano complementari, nel senso che l’indifferenza del legislatore è
ritenuta speculare a quella della società. Così, anche dietro la più recente precisazione
che “il diritto non esiste allo scopo di dare forma giuridica a qualsiasi tipo di
convivenza o di fornire riconoscimenti ideologici: ha invece il fine di garantire
risposte pubbliche a esigenze sociali che vanno al di là della dimensione privata
dell’esistenza”39, si scorge una profonda sfiducia per un legislatore sempre e
comunque al seguito di una società volta all’autodistruzione.
7. Il fatto è che vi sono altre accezioni di relativismo. Lascerò da parte il ‘relativismo
culturale’, che ispira oggi la vasta corrente di opinione propensa a scorgere nella
Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e nell’inerente valore della dignità un
lascito della tradizione occidentale, e perciò ad essa relativo quanto relative possono
essere altre tradizioni, culture o civiltà. Mi soffermerò piuttosto sul significato
ascritto al termine da Hans Kelsen, per la particolare importanza che ha storicamente
assunto per la teoria e la prassi della democrazia contemporanea.
Scrive dunque Kelsen che
“Chi ritiene inaccessibili alla conoscenza umana la verità assoluta e i valori assoluti, non deve
considerare come possibile soltanto la propria opinione, ma anche l’opinione altrui. Perciò il
relativismo è quella concezione del mondo che l’idea democratica suppone. La democrazia stima
allo stesso modo la volontà politica di ognuno, come rispetta ogni credo politico, ogni opinione
37
Discorso di apertura del Convegno Ecclesiale della Diocesi di Roma, 6 giugno 2005, in La verità sulla famiglia, cit.,
19.
38
Discorso in occasione dell’inaugurazione dell’Anno Giudiziario del Tribunale della Rota Romana, 27 gennaio 2007,
in La verità sulla famiglia, cit., 62.
39
Consiglio Episcopale Permanente, Nota a riguardo della famiglia fondata sul matrimonio, cit.
politica di cui, anzi, la volontà politica è espressione. Perciò la democrazia dà ad ogni convinzione
politica la stessa possibilità di esprimersi e di cercare di conquistare l’animo degli uomini attraverso
la libera concorrenza. Perciò, la procedura dialettica adottata dall’Assemblea popolare o dal
Parlamento nella creazione delle norme, procedura che si svolge attraverso discorsi e repliche, è
stata opportunamente definita come democratica”40.
In uno scritto più tardo, egli integra così il suo pensiero:
“Che i giudizi di valore abbiano una validità soltanto relativa – principio basilare del relativismo
filosofico – implica che opposti giudizi di valore non siano esclusi né logicamente né moralmente.
Uno dei princìpi fondamentali della democrazia è che ognuno deve rispettare l’opinione degli altri,
giacché tutti sono uguali e liberi. Tolleranza, diritti della minoranza, libertà di parola e di pensiero,
così caratteristici della democrazia, non trovano posto in un sistema politico basato sulla credenza
nei valori assoluti....Può accadere che sia giusta l’opinione della minoranza e non quella della
minoranza. Unicamente perché esiste la possibilità, che solo il relativismo politico può ammettere,
che ciò che è giusto oggi sia errato domani, la minoranza deve aver modo di esprimere liberamente
la propria opinione e deve avere ogni possibilità di divenire maggioranza”41.
Kelsen ritiene altresì
“un errore grossolano presumere che la teoria relativistica dei valori propria del positivismo
implichi la concezione che non esistono valori, che non vi è legge e ordinamento morale, che la
democrazia è una mera finzione”, poiché “Il relativismo politico significa soltanto che i giudizi di
valore in generale – senza i quali le azioni umane non sono possibili – ed in particolare il giudizio
che la democrazia è una buona o la migliore forma di governo, non può essere provata come
assoluta per mezzo di una conoscenza razionale e scientifica, una conoscenza cioè che escluda la
possibilità di un giudizio di valore opposto. La democrazia, se realmente stabilita, è, anche dal
punto di vista di una teoria dei valori relativistica, la realizzazione di un valore e in tal senso,
sebbene il valore sia solo relativo, una realtà e non una mera finzione”42.
Ho abbondato coi richiami ad una teoria per giunta notissima, per segnalare la portata
dell’equivoco che si consuma nel parlare di “relativismo” tralasciandone il significato
dal punto di vista democratico. Da qui la reazione di chi rileva un “confuso quanto
pregiudizialmente negativo approccio al relativismo etico, concepito solo come
fattore di disgregazione morale, e non, invece, come presupposto di ogni effettiva
aspirazione alla democrazia”43. Ancora, la critica alla democrazia per i suoi caratteri
relativistici, che “è, tout court, il rigetto della democrazia”, viene distinta dal
relativismo quale “indifferenza verso la qualità dei legami sociali”, che è “come un
tarlo sempre allerta, annidato nella società”, ma rispetto a cui la democrazia “è il
meno colpevole di tutti i regimi politici”44. Il cristianesimo, si aggiunge, “tende più a
vedere gli aspetti negativi che quelli positivi dell’autonomia dei singoli, derubricata a
‘relativismo etico’, a sua volta concepito come il vizio segreto della democrazia. A
differenza dell’etica laica, la democrazia non può, tuttavia, prescindere dal
40
H.Kelsen, Essenza e valore della democrazia (1929), in La democrazia, Il Mulino, Bologna, 1981, 141.
H.Kelsen, I fondamenti della democrazia (1955-56), in La democrazia, cit., 261 ss.
42
H.Kelsen, I fondamenti della democrazia, cit., 262, sub (1).
43
F.Rimoli, Laicità, cit., 365.
44
G.Zagrebelsky, Imparare democrazia, cit., 17.
41
relativismo senza negare se stessa. Esso fa parte delle acquisizioni evolutive del suo
codice genetico, attivate dalle guerre di religione che devastarono
l’Europa....Innestandosi gradualmente sull’idea di tolleranza scaturita dalla
stanchezza dinanzi a tali massacri, la democrazia dei moderni ha messo tra parentesi
e ha neutralizzato la precedente difesa senza quartiere dei valori assoluti, dilanianti e
micidiali per la vita e la salute del corpo politico”45.
E’ precisamente per questo che Kelsen, scrivendo negli anni Venti dello scorso
secolo, si può considerare l’aquila del costituzionalismo democratico europeo. Il suo
relativismo significa tolleranza, un valore cruciale per collegare il liberalismo alla
democrazia e non confondibile con l’indifferenza, giacché l’essere indifferenti verso
le altrui pratiche e convinzioni, anche religiose, “priverebbe la tolleranza del suo
oggetto”46.
8. Mi pare in definitiva difficile negare che, a condurre a un punto morto la
discussione sul rapporto fra principio di laicità e libertà di religione, sia soprattutto
l’insistenza su un indiscriminato “relativismo”.
Ogni distinzione appare perciò benvenuta. Si nota ad esempio che Bockenforde e
Habermas, nel rilevare che lo Stato secolarizzato si nutre di premesse normative che
da solo non può generare, propugnano “un ripensamento delle democrazie plurali”
nella versione proceduralistica sostenuta da Kelsen47. Mi pare un passo avanti nella
direzione del reciproco apprendimento di problemi di convivenza costituzionale coi
quali siamo tutti chiamati comunque a confrontarci.
Sono invero numerose, e risalenti, le riflessioni sul rapporto fra costituzionalismo e
democrazia che non sono rimaste arroccate nella difesa delle acquisizioni teoriche di
Kelsen, e ne hanno aggiornato il lascito senza rinnegarlo. E il loro punto di partenza
più frequente e comprensivo è costituito dal senso del limite della razionalità
artificiale, ammonizione che viene da tragiche esperienze, e profondamente
introiettato nel costituzionalismo europeo del secondo dopoguerra grazie alla sua
traduzione nel principio di dignità. Un senso del limite che, come non comporta
rinuncia a progetti, iniziative e opere scientifiche capaci di arricchire di senso il
presente e il futuro, così non equivale a dimenticare l’intuizione kelseniana che,
nell’ordine politico, soltanto una procedura democratica può stimolare le virtù
trasformative e autocorrettive necessarie a una convivenza pluralistica.
Si nota giustamente che “una linea puramente difensiva-passiva degli ideali e della
prassi democratica” non fa i conti col venir meno della religione civica, per cui “o si
verifica un regresso verso forme di identificazione collettiva già sperimentate in
passato (razza, etnia, gruppo religioso) o si va avanti nel faticoso e sempre instabile
cammino del dualismo che ha caratterizzato, con le sue tensioni e i suoi
45
R.Bodei, L’etica dei laici, in G.Preterossi (a cura di), Le ragioni dei laici, Laterza, Roma-Bari, 2005, 20-21.
J.Habermas, Tra scienza e fede, cit., 158.
47
A.Scola, Una nuova laicità. Temi per una società plurale, Marsilio, Venezia, 2007, 40.
46
compromessi, la nostra storia”48. Bisognerebbe solo aggiungere che i princìpi del
diritto più alto della legge, che connotano lo Stato costituzionale, riflettono una
consapevolezza del dilemma, e orientano la risposta nel secondo senso.
D’accordo, si dirà, ma lo Stato costituzionale non ha immunizzato la società aperta
dall’indifferenza, o almeno da una situazione in cui, nel campo delle scelte morali,
prevale “l’etica della situazione su quella della convinzione”49. Muovendo da una
prospettiva diversa, ci ritroviamo così davanti il problema che lo schema di dialogo di
Habermas lascia irrisolto: come le parallele rinunce di credenti e non credenti da lui
sollecitate, l’apprendere e il vivere in un orizzonte di senso può essere soltanto
richiesto, non prescritto.
Il fatto è che i princìpi del diritto più alto debbono limitarsi a dettare le condizioni
che consentono alla società aperta di essere e restare tale. Se si traducessero in
risposte concrete ai problemi che vi nascono, rivelerebbero una pretesa regolativa del
tutto contraddittoria con le loro stesse premesse. Problemi simili possono venir
affrontati efficacemente solo nella società dove si presentano, e attraverso positivi
esempi alternativi anziché condanne pregiudiziali.
Alcune indicazioni in questo senso si rivelano preziose. I cristiani tentati dal
condannare gli indifferenti come “frutto del relativismo filosofico e morale” e dal
ritorno a “un’identità pura e dura”, si è detto, dovrebbero chiedersi se così “non si
precludano di fatto un ascolto e un’accoglienza del loro messaggio”; e ancor più
significativa risulta la proposta di una “differenza cristiana” mostrata “con la vita, il
comportamento, la forma di appartenenza alla polis”50. Converge in quella direzione
il rilievo che, nella “pratica di una laicità correttamente intesa e destinata a dare
frutti”, la relazione con l’altro “è tanto più feconda, quanto più non sottace le
differenze”51.
A queste condizioni, l’invito al dialogo cessa di ridursi a una litanìa, o a un esercizio
diplomatico. Sono condizioni costose per quanti si impegnino a rispettarle, poiché
sfidano abitudini, convenzioni e ruoli sociali. A maggior ragione, non ci si può
attendere un contagio di esperienze del genere senza istituzioni non solo rispettose
dei reciproci ruoli, ma in grado di accompagnare una crescita di consapevolezza
collettiva che può maturare solo autonomamente. Dopotutto, il gioco del potere è in
ogni caso pervasivo. Lo è anche quando si nutre di paura, di sfiducia, di un
opportunismo talora spietato: allora, oltre a mettere a repentaglio la soglia
istituzionale che serve a filtrare le ragioni laiche, avvelena i circuiti dove la
dimensione sociale della libertà di religione è chiamata per Costituzione a prosperare.
Cesare Pinelli
48
P.Prodi, Il sacramento del potere. Il giuramento politico nella storia costituzionale dell’Occidente, Il Mulino,
Bologna, 1992, 521.
49
G.Guizzardi, La pluralità del pluralismo, in F.Garelli, G.Guizzardi, E.Pace (a cura di), Un singolare pluralismo.
Indagine sul pluralismo morale e religioso deli italiani, Il Mulino, Boogna, 2003, 13 ss.
50
E.Bianchi, La differenza cristiana, Einaudi, Torino, 2006, 34.
51
S.Prisco, Laicità, cit., 3343.