La memoria. Una passione - Azione Cattolica Italiana

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La memoria. Una passione - Azione Cattolica Italiana
LA MEMORIA. UNA PASSIONE
di Davide Fiammengo*
(Nuova Responsabilità, n. 4, maggio 2006)
Tempo di memoria debole, tempo di tradimenti facili. Che cosa è tradire, se non
dimenticare? Israele tradisce il suo Dio quando lo dimentica, Lui e le opere del suo amore.
E quando tradisco un amico, che altro faccio se non dimenticarlo? Che è poi un relegarlo
nel nulla: per me non ci sei più.
In un tempo di memoria debole, spesso di smemoratezza radicale (verso Dio, i valori
grandi, la solidarietà) io laico, io in questo scenario in cui fedeltà e tradimenti si intrecciano
vorticosamente e ci pensano i grandi mezzi di comunicazione a insinuare che la vittoria è
dei tradimenti, io laico responsabile, in piccolo, di un domani (e se non per me, per quelli
che vengono dopo di me), io laico che non ha voglia di pessimismo ma certamente di
verità, insomma io laico nel mondo, su che cosa mi gioco tutto e con che cosa misuro la
mia partecipazione a un progetto di futuro?
La risposta viene da sola. Se oggi, così spesso, la passione del mondo è “inseguire il
vento” (Qoelet) nell’insensatezza dell’oblio, la mia passione non potrà essere che
memoria.
Quale memoria? C’è una memoria studiata dai neurofisiologi, tutta una stupenda
questione di neuroni. Non è competenza nostra. C’è una memoria che ripresenta un
passato felice (“ricordo i giorni lontani, un canto nella notte mi ritorna nel cuore”, salmo 77)
o doloroso (“lungo i fiumi di Babilonia, là sedevamo piangendo, ricordandoci di Sion…”,
salmo 137) e qui la memoria dei neuroni è importante per le esigenze del cuore. Ma poi
c’è una memoria che non si ferma né al suo supporto fisiologico, né al ricordo struggente
del passato, ma è tutta del futuro. Un paradosso. Ma la fede è tutta paradosso.
Questo paradosso viene da lontano, ed è un assoluto per il credente. Perché la memoria
di tutte le memorie è la Pasqua. Il Dio liberatore richiama il cuore del suo popolo e anche il
mio di persona alla sua azione di salvezza e la rinnova. Ma questo si accompagna alla
constatazione che nella storia la salvezza non è compiuta del tutto. C’è un presente di
delusioni, una situazione di disincanto e di prova, spesso anche molto dura. Per cui la
coscienza, da una parte fedele al passaggio di Dio e, dall’altra, ferita da una fattualità
negatrice e oscura, comprende che la Pasqua è ancora futura. La Pasqua-ricordo è anche
la Pasqua-attesa. C’è un punto di non ritorno in questa memoria ambivalente ed è quando
il Cristo nostra Pasqua, consegnandoci se stesso nell’Eucarestia, anticipo della sua
passione, ci dice “fate (domani, dopodomani, finché campate) questo (il dare la vita) in
memoria di me”.
Di qui in poi non devo più cercare Dio nel passato, ma nell’oggi e nel domani. E se lo
cerco nel passato, Egli mi riporta all’oggi e al domani. Questo processo vitale, che non mi
supera come un vento fugace, ma mi coinvolge profondamente, posso chiamarlo
tradizione, parola sempre fraintesa e svilita, ma densa di senso e di stimoli.
Torniamo da capo. Io laico (battezzato, “incorporato” a Cristo) mi gioco tutto nell’essere (e
solo minimamente nell’avere), per il mio mondo, memoria, questa memoria che va
trasmessa, ma che anche trasmette (tradizione). Tradizione dice due cose: un contenuto
consegnato da uno ad un altro, magari da un’età ad un’altra. E poi un modo di
trasmettere.
Il contenuto è la fede, il Vangelo. Troppo semplice? Può darsi, ma non c’è altro. Finito il
tempo della cristianità, per fortuna, la fede c’è o non c’è. E se c’è, comporta tutto il
dramma del confronto con la sua negazione e con la pervasività di una cultura del nulla e
dell’angoscia in cui si radica la vita sociale, talvolta la stessa scienza, quasi sempre la
comunicazione di massa. Essere memoria di Dio, “tradizione” della fede è il primo compito
del cristiano. E poiché non c’è, nel modo più assoluto, fede senza libertà, il contenuto
“fede” è contestuale al contenuto “libertà”. Infatti, la fede imposta o passivamente ereditata
contiene in sé la sua negazione e la vera fede è quella che si abbraccia liberamente. Con
il corollario che nella vita pubblica la fede non deve essere imposta e ancor meno
impedita. Noi dobbiamo trasmettere questa sorta di giuramento, o meglio questo patto
sacro per la libertà (di tutti) senza la quale l’opera di Dio viene negata. Del resto non c’è
altra strada perché si consolidi una nuova “compagnia” tra cristiani, tra cristiani e credenti,
tra credenti e non credenti.
Il modo di trasmettere è una scelta di vita in cui la salvezza di Cristo si “tocca con mano”.
Con altre parole lo potremmo indicare nella testimonianza mediante la presentazione al
vivo dei valori della sequela. La tradizione della sequela può essere espressa in tanti
modi. C’è un modo culturale-astratto per polemizzare con un iperlaicismo ormai senza
freni. C’è un modo culturale-concreto per proporre alternative sociali e di promozione
umana. Ma su tutti prevale il modo della vita vissuta secondo lo Spirito, per cui tradizione
è consegna di una capacità di sacrificio, di dedizione all’altro, di costruzione di cose e di
rapporti secondo un progetto di pace. Anche questa è una strada ineludibile se si vuole
dare consistenza a una storia portatrice di un livello di civiltà veramente umana.
A questo punto è quantomeno doverosa un’avvertenza. Non una, ma tante tentazioni
stanno assediando le nostre chiese anche in ordine alla “tradizione”. Prima tra tutte la
tentazione mass-mediatica. Intesa, questa, non tanto come l’uso di strumenti di
comunicazione, quanto come “uno stile di evangelizzazione dominato dalla logica
dell’apparire, dell’efficacia, del consenso, o dalla volontà di creare condizioni in cui la
chiesa conti e condizioni il cammino della società”. Senonché “ciò che a lungo è stato
annunziato con la parola e poi con i segni, oggi deve essere prima testimoniato con la vita,
e poi comunicato con la parola”(Enzo Bianchi). Non c’è tradizione, se non è tradizione
della Croce.
*Già consigliere nazionale diocesi di Torino