La convivialità per approfondire - TED

Transcript

La convivialità per approfondire - TED
SCHEDA_ 1
Titolo_ La convivialità
Autore_ Ivan Illich
Editore_ Boroli Editore
Anno_ 2005 (prima edizione 1973)
Indice
Ivan Illich: critica all’ideologia dello sviluppo di Roberto Mordaci
Prefazione all’edizione italiana di Ivan Illich
Introduzione
I.
Due soglie di mutazione
II.
La ricostruzione conviviale
III.
L’equilibrio multidimensionale
IV.
I tre ostacoli all’inversione politica
V.
L’inversione politica
Cronologia della vita e delle opera di Ivan Illich
Sommario
In questo libro, la cui prima edizione è del 1973, Illich sostiene che lo strumento industriale ha oggi
superato in molti casi quella soglia critica oltre la quale diviene controproduttivo; si allontana cioè
da quegli scopi per cui era stato progettato e genere impotenza. Per esempio, la diffusione dei
mezzi di trasporto riduce la velocità media degli spostamenti; l’iperproduttività produce crisi
economiche. L’alternativa a questo stato delle cose è rappresentata da quella che Illich chiama la
“società conviviale”. Lo strumento conviviale permette un controllo personale e diretto, genere
efficienza senza ridurre l’autonomia, non crea rapporti di dipendenza ed estende il raggio d’azione
individuale.
Ancora oggi il libro di Illich conserva intatte la sua carica polemica e l’appassionata difesa del
precario equilibrio della vita umana che lo hanno fatto diventare uno dei testi di riferimento
dell’ecologia politica.
Una ipotesi della crisi su temi di Ivan Illich – di Aldo Zanchetta
La tesi che sintetizzo è quella esposta da Ivan Illich nel suo libro LA CONVIVIALITA' del 1973.
Illich intuiva con chiarezza allora quello che per i più sarebbe stato chiaro più tardi e mi pare che
quanto da lui ipotizzato si venga attualizzando, il che però non garantisce che le cose andranno
esattamente così fino alla fine. Ma è interessante esaminarla.
Illich vede il problema del mondo attuale nel sopravvento dello strumento (macchina) sulla
persona.
"L'attuale sistema industriale trova nella sua dinamica la propria instabilità: è organizzato in
funzione di una crescita indefinita e della creazione illimitata di nuovi bisogni che, nella cornice
industriale, divengono ben presto necessità....Un simile processo di crescita esige dall'uomo una
cosa assurda : trovare la propria soddisfazione nel piegarsi alla logica dello strumento."
Ne derivano 3 catastrofi:
- la degradazione della natura
- la disintegrazione dei legami sociali
- la disintegrazione della persona umana
L'uomo deve ritrovare il senso del limite, limite alla produzione dei beni ma anche dei servizi
(educazione, sanità, trasporti,costruzioni, disponibilità di energia etc.). Questi servizi da strumento
per l'uomo anche loro finiscono per assoggettare l'uomo. Nella crescita di ciascuno di questi ci
sono due livelli critici.
Il primo inizia quando si "applica un nuovo sapere alla soluzione di un problema chiaramente
definito e con criteri scientifici si arriva a misurare l'aumento di efficienza ottenuto. Ma in un
secondo tempo il progresso realizzato diventa un mezzo per sfruttare l'insieme del corpo sociale,
mettendolo al servizio dei valori che una élite specializzata, sola garante del proprio valore,
stabilisce e rivede senza tregua".
Dalla utilità del servizio si passa al decrescere della sua utilità marginale fino a farla superare dalla
disutilità marginale. Ora secondo Illich nell'ultimo decennio (lo scritto è del '73) parecchie istituzioni
dominanti hanno “saltato gagliardamente la seconda soglia”.
"La scuola non è più un valido strumento di educazione, né i mezzi di trasporto veloce buoni
strumenti di circolazione, né la catena di montaggio un modo di produzione accettabile."
"Se, in un futuro molto prossimo, il genere umano non riuscirà a limitare l'impatto dei suoi strumenti
sull'ambiente ....i nostri discendenti conosceranno la spaventosa apocalisse predetta da molti
ecologi."
A questa situazione il sistema reagisce con "l'escalation della tecnica e della burocrazia.
L'escalation del potere di auto-distruggersi é divenuta il rito sacrificale delle società altamente
industrializzate."
"Oggi si prova ancora a turare le falle dei singoli sistemi. Nessun rimedio funziona, ma si dispone
ancora dei mezzi per permetterseli tutti, uno dopo l'altro....Ciascun aspetto della crisi globale é
separato dagli altri, spiegato in maniera autonoma e trattato a sé. Si propongono soluzioni di
ricambio che danno credito alle riforme settoriali...".
Il superamento contemporaneo da parte di molte istituzioni della “seconda soglia critica” è il
segnale di allarme dell'arrivo della crisi.
"Man mano che la crisi totale si avvicina, diventa chiaro che lo Stato-Nazione moderno é un
conglomerato di società anonime in cui ogni attrezzatura mira a promuovere il proprio prodotto, a
servire i propri interessi......Quando è il momento i partiti politici radunano la massa degli azionisti
per eleggere un consiglio di amministrazione. Essi sostengono il diritto dell'elettore a pretendere
un più alto livello di consumo individuale, il che significa un più alto grado di consumo
industriale...."
Il superamento della seconda soglia da parte della “megamacchina istituzionale”, nonostante che
questa stia reagendo “affinando i meccanismi ed i sistemi di controllo”, é il momento della Grande
Crisi.
"Io posso solo congetturare in che modo si arriverà alla crisi, ma non ho dubbi sulla condotta da
tenere dinanzi ad essa e nel suo corso. Credo che lo sviluppo si arresterà da solo. La paralisi
sinergetica dei sistemi che l'alimentano provocherà il crollo generale del modo di produzione
industriale."
"A fare da detonatore della crisi sarà un avvenimento imprevedibile e magari di poco conto, come il
panico di Wall Street che precipitò la Grande depressione."
"Bisognerebbe essere indovini per predire quale serie di eventi svolgerà il ruolo del crollo di Wall
Street e scatenerà la crisi incombente; ma non occorre essere geni per prevedere che si tratterà
della prima crisi mondiale non più localizzata dentro il sistema industriale, ma che metterà in gioco
il sistema in sé."
A questo punto ci saranno due strade :
"Dinanzi al disastro incombente, la società può adagiarsi a sopravvivere entro i limiti fissati e
imposti da una dittatura burocratica, ma può anche reagire politicamente ricorrendo alle procedure
giuridiche e politiche. La falsificazione ideologica del passato ci vela l'esistenza e la possibilità di
questa scelta."
"Una mutazione improvvisa é qualcosa che non ha nulla a che fare con la correzione automatica o
con l'evoluzione......La maggioranza silenziosa oggi aderisce totalmente alla tesi dello sviluppo, ma
nessuno può prevedere il suo comportamento quando la crisi esploderà....tutto può succedere.
L'inversione diventa realmente possibile."
"...l'uscita dalla crisi imminente dipende dalla comparsa di élite che non si lasciano
recuperare.....Le forze che tendono a porre limiti alla produzione sono già in opera all'interno del
corpo sociale.....non c'è dubbio che le loro voci avranno una diversa risonanza quando la crisi della
società superproduttiva si aggraverà. Essi non costituiscono un partito, ma sono i porta-parola di
una maggioranza di cui ognuno può potenzialmente far parte. Più inattesa sarà la crisi, più
improvvisamente i loro appelli all'austerità equilibrata e gioiosa potranno assumere il valore di un
programma. Per essere in grado di controllare la situazione quando sarà il momento, queste
minoranze debbono comprendere la natura profonda della crisi e saperla esporre in un
linguaggio che tocchi il segno, spiegando chiaramente che cosa vogliono, che cosa
possono e di che cosa non hanno bisogno. Sin d'ora, esse già possono identificare le cose a
cui possono rinunciare. La riconquista della lingua quotidiana é il primo perno dell'inversione
politica".
"Saranno necessari gruppi capaci di analizzare coerentemente la catastrofe e di esprimerla con un
linguaggio semplice. Essi dovranno saper patrocinare la causa di una società che si pone dei
confini, e farlo in termini concreti, comprensibili da tutti, desiderabili in generale e immediatamente
applicabili."
Il ragionamento di Illich, che ho semplificato certamente mutilandolo (per cui rinvio al libro “La
Convivialità”), è conseguente e realista.
"Ma non basta servirsi delle parole di tutti i giorni come buoni strumenti per mettere in luce il vero
volto della realtà; bisognerà anche saper maneggiare uno strumento sociale che sia adatto a
determinare il bene pubblico."
"...tale strumento è la struttura formale della politica e del Diritto. Nell'ora del disastro, la catastrofe
si muterà in crisi se un gruppo di persone lucide che conservano il proprio sangue freddo saprà
ispirare fiducia nei concittadini. La loro credibilità dipenderà dall'abilità nel dimostrare che non solo
è necessario ma è possibile instaurare una società conviviale, a condizione di usare
coscientemente una procedura regolata, che riconosca al conflitto di interessi la sua legittimità, dia
valore al precedente storico, e attribuisca un valore esecutivo alle decisioni prese da uomini
comuni, dai quali la comunità si sente rappresentata. Nell'ora del disastro, solo se si resta radicati
nella storia si può avere la fiducia necessaria per sconvolgere il presente. L'uso conviviale della
procedura garantisce che una rivoluzione istituzionale rimanga uno strumento che trova nella
pratica i propri fini. Un ricorso lucido alla procedura, fatto in spirito di opposizione continua
alla burocrazia, è la sola maniera possibile per evitare che la rivoluzione si tramuti essa
stessa in istituzione."
Illich vede i molti trabocchetti che si frappongono a questa rivoluzione, che non può essere opera
né di nuclei terroristi, né di sette di devoti, né di esperti di nuovo tipo. Neppure di un partito
addestrato e compatto (come avvenne nella Grande Depressione). Neppure di una maggioranza
che si opponga allo sviluppo in nome di principi astratti.
"Una élite organizzata che decanti l'ortodossia dell'antisviluppo forse si sta già costituendo, ma un
coro del genere, con l'antisviluppo come unico e solo programma, è l'antidoto industriale alla
immaginazione rivoluzionaria. Incitando la gente ad accettare una limitazione volontaria della
produzione senza mettere in questione la struttura-base della società industriale, non si farebbe
che conferire maggior potere ai burocrati che ottimizzano lo sviluppo, e ci consegnerebbe ostaggi
nelle loro mani. La produzione stabilizzata di beni e servizi ultra-razionalizzati e standardizzati
allontanerebbe dalla produzione conviviale ancor più, se possibile,"
La crisi non deve essere 'gestita', deve essere risolta con una virata completa di percorso. Resta
un problema : come può democraticamente questa minoranza pilotare il cambiamento seguendo
vie politico-giuridiche ?
"I fautori di una società capace di porsi limiti non hanno bisogno di riunire una maggioranza. In
democrazia una maggioranza elettorale non si fonda sull'adesione esplicita di tutti i suoi membri a
un'ideologia o ad un valore determinato. Una maggioranza elettorale favorevole alla limitazione
delle istituzioni sarebbe molto eterogenea: comprenderebbe le vittime di un particolare aspetto
della sovrapproduzione, gli esclusi dalla festa industriale e coloro che rifiutano in blocco i caratteri
della società totalmente razionalizzata......Tutte queste persone potrebbero formare una
maggioranza elettorale, ma non costituiscono né una setta nè un partito..."
Occorre non chiedere al testo di Illich più di quanto voglia offrire, cioè chiedere delle formule
applicative. Dice infatti nelle prime pagine:
“Non mi servirebbe a nulla offrire un'immagine dettagliata della società futura. Voglio fornire una
guida all'azione e lasciare libero corso all'immaginazione. La vita in una società conviviale e di tipo
moderno ci riserverà sorprese superiori alle nostre previsioni e speranze. Non propongo una
utopia normativa , ma i presupposti formali di una procedura che permetta a qualunque collettività
di scegliersi continuamente la propria utopia realizzabile. La convivialità é multiforme, si basa non
sul dogma, ma sull'anatema delle condizioni che la renderebbero impossibile. Io non propongo qui
né un trattato di organizzazione delle istituzioni né un manuale tecnico per la fabbricazione dello
strumento giusto, né un modo d'impiego dell'istituzione conviviale.. Non sono né il commesso
viaggiatore di una tecnologia 'migliore' né il propagandista di una ideologia..Voglio solo definire
degli indicatori che segnalino ogni qual volta lo strumento manipola l'uomo, per poter bandire le
attrezzature e le istituzioni che distruggono il modo di vita conviviale”.
A proposito, ma cosa è la convivialità secondo Illich? Vedete un po’ voi :
"La convivialità é la libertà individuale realizzata nel rapporto di produzione in seno a una società
dotata di strumenti efficaci".
"Passare dalla produttività alla convivialità significa sostituire a un valore tecnico un valore etico, a
un valore materializzato un valore realizzato".
"La società conviviale riposerà su contratti sociali che garantiscano a ognuno il più ampio e libero
accesso agli strumenti della comunità alla sola condizione di non ledere l'eguale libertà altrui".
"Chiamo società conviviale una società in cui lo strumento moderno sia utilizzabile dalla persona
integrata con la collettività e non riservato ad un corpo di specialisti che lo tiene sotto il proprio
controllo." Conviviale é la società in cui prevale la possibilità per ciascuno di usare lo strumento
per realizzare le proprie intenzioni."
SCHEDA_ 2
Titolo_ Quando la povertà diventa miseria
Autore_ Majid Rahnema *
Editore_ Einaudi (gli Struzzi)
Anno_ 2005
Indice
Introduzione
Ringraziamenti
Libro primo
Archeologia della povertà
VI.
Lungo i cammini della vita: racconto di un itinerario personale
VII.
Viaggio alle origine: arti di vivere di fronte alla necessità
VIII.
Due casi di povertà “socialmente fabbricati”: dagli Amerindi del Canada ai “domiciliati
sui marciapiedi” di Calcutta
IX.
Genealogia di una parola vertiginosa: dall’aggettivo al sostantivo povero
X.
Dal povero “diversificato” a quello del “villaggio globale”: una costruzione sociale della
povertà che stigmatizza i poveri
XI.
Povertà volontarie
XII.
Povertà conviviali: un’etica di vita semplice e comunitaria
Libro secondo
La grande rottura: le miserie moderne all’assalto della povertà
XIII.
Il senso e le conseguenze della grande rottura: anatomia di un’economia produttrice di
scarsità
XIV.
La modernizzazione della povertà: miseria e distruzione del “tempio interiore della vita
umana”
XV.
Dal “prossimo” Galileo alle guerre contro la povertà: un’archeologia dei mutamenti
dell’aiuto e le sue maschere
XVI.
Sui sentieri della semplicità volontaria: verso una povertà reinventata
Epilogo
Bibliografia
Sommario – a cura di Aldo Zanchetta
Premessa
“Coloro che hanno causato i problemi non sono le persone più adatte a risolverli” (Albert Einstein)
Alla vigilia di una nuova grande campagna mondiale contro la povertà legata agli 8 obbiettivi del
Millennio fatti propri dalle Nazioni Unite (”No excuse 2015”) - fra questi prioritariamente quello della
lotta alla povertà che in Italia sarà lanciato con la Marcia di Assisi dell’ 11 settembre prossimo con
lo slogan “stop alla povertà”- una riflessione approfondita sul tema mi sembra del tutto importante.
Non possiamo infatti non interrogarci sul fallimento dei vari megapiani lanciati fino ad oggi a livello
mondiale che hanno visto la povertà accrescersi e trasformarsi sempre più in miseria. Ricordate l’
affermazione con cui si chiuse verso gli anni 70 un imponente congresso della FAO a Roma:
“entro 10 anni non ci saranno più nel mondo bambini che vanno a letto con la fame” ? Il messaggio
attualizzato della stessa FAO all’ inizio del nuovo millennio ci ha detto che le persone che nel
mondo soffrono la fame sono “ancora” 830 milioni (e assai, assai di più quelle in povertà) e che l’
unico obbiettivo realistico è il loro dimezzamento entro il 2015, obbiettivo legato però al verificarsi
di 3 condizioni che invece non si stanno puntualmente realizzando: se non ci saranno guerre
importanti, se non ci saranno grandi disastri naturali, se le nazioni ricche riporteranno allo 0,7% del
loro PIL l’ aiuto allo sviluppo.
A questo punto una seria riflessione è consigliabile prima di gettare altre energie nella fornace
delle disillusioni. E’ ovvio che questi 8 “obbiettivi del millennio” sono condivisibili e da perseguire.
Ma farlo ripetendo politiche già fallimentari o semplicemente riverniciandole e che hanno ottenuto
come principale obbiettivo quello di aumentare la ricchezza di una sempre più ristretta minoranza
(grosso modo pochi anni fa l’ 80% della ricchezza prodotta nel mondo era appannaggio del 20%
della porzione più ricca mentre oggi sempre l’ 80% si avvia ad essere posseduto dal 15%, cioè da
un numero ancor più ridotto) potrebbe essere un grave segno di irresponsabilità. Forse non
sarebbe male legare il lancio di nuove campagne ad una seria preventiva riflessione che tenga
conto delle esperienze fatte in questi anni e soprattutto ascoltare il parere dei diretti interessati, i
“poveri”. In occasione del recente “II Forum della solidarietà lucchese nel mondo” la dichiarazione
finale, costruita assieme ai circa 30 rappresentanti dei partners coi quali le varie realtà lucchesi
lavorano nelle ‘periferie del mondo’, termina così: “Facciamo nostra l’ esortazione di Jean Leonard
Tuadì che ci invita, prima di fare cooperazione con i popoli del sud del mondo, ad imparare a
camminare con loro.” Mi pare una evidenza fino ad oggi dimenticata e malamente supplita dall’
accordo di presunti rappresentanti cooptati allo scopo e non riconosciuti dalle proprie basi (vedasi
la “Dichiarazione finale del II Vertice dei popoli indigeni americani” riuniti a Quito nel luglio 2004).
Il contenuto del libro
Ad oltre 2 anni dalla prima edizione francese il prossimo 31 maggio uscirà nelle librerie edita da
Einaudi la traduzione italiana di un libro che certamente farà molto discutere e che a mio avviso
ogni persona impegnata nel mondo della solidarietà internazionale e della lotta alla povertà
potrebbe utilmente leggere, quale che sia il suo accordo o disaccordo finale con le tesi dell’ autore.
Iniziamo la presentazione traducendo dal testo francese, in attesa di quello italiano ormai
imminente, una lunga serie di interrogativi iniziali ai quali l’ autore cerca di rispondere lungo le 322
pagine di tale edizione. (“Quand la misere chasse la pauvreté – Fayard / Actes Sud – 2003)
“Cosa è in effetti la povertà? Una costruzione dello spirito, un concetto, un vocabolo? Un modo di
vita, la manifestazione di una mancanza, una forma di sofferenza? Si contrappone alla miseria o
ne è il sinonimo? E’ una soglia arbitraria stabilita dagli esperti per distinguere i poveri dai non
poveri o ancora una delle frontiere che separano i comuni mortali dai santi o dai ‘poveri di spirito’
che ne hanno fatto una scelta? E quanto al personaggio chiamato arbitrariamente il povero, è esso
questo ‘caimano’ ‘fatto con la merda del diavolo’ (Roman de Renart) o il felice sfortunato che trova
nella morte l’ unica ricompensa: essere invitato alla tavola di Dio? Che sia l’ uno o l’ atro egli deve
essere abbandonato alla propria sorte oppure soccorso? E’ veramente possibile aiutarlo, e come,
in un mondo dove l’ aiuto si trasforma spesso in minaccia e non serve troppo spesso che al suo
promotore? Infine come spiegare l’ aumento del numero di uomini e donne segnati dalla miseria e
dall’ aggravamento della propria situazione proprio quando non cessano di moltiplicarsi i grandi
progetti di aiuto ai poveri e allorché l’ economia dispone di tutti i mezzi necessari per assicurare
almeno la loro sopravvivenza?”
Il libro nelle parole dell’ autore è “il frutto di una conversazione ad alta voce….non pretende essere
il lavoro di uno ‘specialista’ della povertà. Non è il prodotto di alcuna disciplina scientifica. E’ il
risultato di uno sguardo personale e di una interrogazione libera e aperta su un mondo complesso,
un mondo dove vivono queste persone che, le une e le altre noi chiamiamo a nostro modo, i
poveri.” E’ piuttosto il tentativo di “condividere col lettore le prospettive e i punti di vista costruiti nel
corso di una vita che mi hanno aiutato a comprendere i silenzi e a decifrare i linguaggi fino ad
allora a me sconosciuti.”
Questa la genesi del libro di Majid Rahnema dal titolo italiano malamente “Povertà e miseria”
malamente tradotto non rendendo la pregnanza del titolo francese “Quand la misère chasse la
pauvreté”. In risposta alle citate domande la tesi centrale del libro, dottamente costruita e
documentata, è la seguente: “una economia il cui principale obbiettivo è quello di trasformare la
rarità in abbondanza non tarda a divenire essa stessa la principale produttrice di bisogni che
generano nuove forme di rarità e, in conseguenza, di modernizzare la miseria.”
Tesi non nuova, già sostenuta da Ivan Illich nei lontani anni ‘70 nel suo libro ‘La convivialità” e
splendidamente condensata nella sua conferenza del 1980 a Yokohama “Le paci dei popoli” e
riportata nel libro ‘Nello specchio del passato’ (entrambi i libri riediti recentemente e
contemporaneamente in Italia da due editori ora in lite giudiziaria fra loro circa i diritti col rischio
che essi possano essere fatti scomparire dalle librerie per provvedimento giudiziario dalla vertenza
in atto). Di Illich infatti l’ autore si dichiara amico e debitore e il quale “fino alla sua morte che ha
coinciso con il termine della scrittura di questo libro fu per me un amico nel senso più esigente
della parola e compagno di strada instancabile del quale nulla poteva alterare lo sguardo
penetrante che portava sull’ opacità di questo mondo. Molte delle prospettive che ho potuto
scoprire nel corso del mio pellegrinaggio in terre di povertà mi sarebbero passate inavvertite senza
il suo aiuto fraterno.”
Tesi non nuova, ripeto, ma alla quale Rahnema contribuisce sostanzialmente con una analisi
penetrante e riccamente documentata ed alla quale è dedicata la parte centrale del libro,
preceduta da una prima parte destinata alla descrizione di come è cambiata nella storia, dall’ età
della pietra ai giorni nostri, la percezione della povertà. Infatti “il rispetto del passato è
indispensabile alla reinvenzione costante del nostro presente, sia che l’ eredità ci provenga dai
tempi antichi o dall’ età dei lumi…..le società del dono o quelle che hanno visto nascere le povertà
conviviali ci insegnano tanto quanto quelle che hanno prodotto la rivoluzione industriale, è dunque
essenziale per noi il portare uno sguardo ‘archeologico’ su tutte le acquisizioni di questa eredità
comune al fine di utilizzare tutto ciò che contengono di arricchente per il nostro presente.”
Nella terza e ultima parte, dopo l’ esame di una casistica di situazioni attuali nelle quali i ‘poveri’ del
mondo stanno affrontando dal basso una soluzione realistica e ‘conviviale’ dei propri problemi
(Roraima in Brasile, Anand Nagar in India, Dahar in Senegal, Oyo in Nigeria, gli ayllus del Perù etc
ma senza dimenticare riferimenti ai maya del Chiapas, i sem terra del Brasile e altre esperienze
oggi rilevanti),
l’ autore giunge infine alla “riformulazione di certi interrogativi…..volta ad una
migliore comprensione della sorte dei ‘poveri’ dell’ epoca moderna e all’ esame approfondito delle
soluzioni proposte in un contesto diverso. Se questo libro tenta di effettuare un bilancio dei grandi
programmi di lotta alla povertà, il suo obbiettivo è innanzi tutto quello di permettere al lettore di
porre la problematica della povertà nel contesto generale dei grandi squilibri nati da un sistema
produttivistico sempre più dissociato dall’ ambito sociale”.
Impossibile ripercorrere il lungo e documentato cammino intellettuale ricostruito nel libro dall’
autore, oggi anche caro amico, ma concludo queste note proponendo le righe finali:
“Nelle mie frequenti conversazioni con amici resi sensibili all’ avanzare della miseria e alla
degradazione continua della condizione dei poveri, mi si chiede spesso se io sono pessimista o
ottimista sull’ avvenire. La mia risposta è sempre la stessa: nessuna delle due posizioni mi sembra
ragionevole.
E’ certo che le tendenze attuali rafforzano la tesi di una polarizzazione mondializzata ancor più
spint a delle società e delle violenze strutturali che ne sono le conseguenze inevitabili. Noi
potremmo quindi andare verso una catastrofe generalizzata e, probabilmente, verso uno
sprofondamento violento del sistema che rischierebbe di far scivolare la maggioranza degli uomini
e delle donne in una povertà subita o direttamente nella miseria.
In alternativa è anche possibile immaginare che un pullulare di azioni individuali o collettive
orientate verso dei modi di vita semplici e verso una povertà conviviale favorisca e rinforzi percorsi
opposti. Noi abbiamo visto che le donne e gli uomini che, qua e là, hanno fatto localmente queste
scelte sembrano ‘vincenti’ su molti piani: la loro vita più ricca ha loro consentito di sfidare la miseria
che li circonda e il loro esempio apporta l’ aiuto più prezioso che vi sia per il loro prossimo.
Aldo Zanchetta
27.05.05
(*) Già ministro dell’ istruzione del suo paese, l’Iran, ne è stato successivamente rappresentante
all’ONU per poi divenire membro del Consiglio esecutivo dell’UNESCO e infine rappresentante
residente delle Nazioni Unite in Mali. Da 20 anni si è consacrato ai problemi della povertà. E’
autore con Victoria Bawtree del libro “The Post-Development Reader”, di numerosi studi ed articoli
pubblicati in riviste di vari paesi.
SCHEDA_ 3
Titolo_ Sobrietà
Autore_ Francesco (Francuccio) Gesualdi
Editore_ Feltrinelli
Anno_ 2005
Indice
Appello
1. Squilibri scandalosi
2. Ricchezza ladra
3. Obbligatorio dimagrire
4. La sobrietà come stile di vita
5. Reinventare la produzione
6. L’economia del bene comune
7. Lavorare su tre gambe
8. Da qui a là
Note
Riferimento utili
Recensione del libro: “Sobrietà: dallo spreco di pochi ai diritti di tutti”
di Sandra Cangemi (pubblicato da “Manitese”, maggio 2005)
Vi piacerebbe farvi una passeggiata in quell’ ”altro mondo possibile” di cui parla tanto il movimento
dei movimenti, ma che fate fatica a immaginare? Allora non perdetevi l’ultimo libro di Francesco
Gesualdi. Comincia con una fotografia impietosa delle contraddizioni mortali dell’impero
neoliberista e del disastro verso cui ci sta portando, ma non lasciatevi scoraggiare. Dopo una
cinquantina di pagine, Gesualdi vi traghetta sulle rive della sua isola che non c’è, ma che potrebbe
esserci e, anzi, forse sta già cominciando a nascere, un pezzetto qui e uno là, anche se forse
abbiamo qualche difficoltà a vederla.
Mi dispiace, sei di troppo
Il merito di questo libro è che sa metterci un bel paio di occhiali sul naso, aiutandoci a vedere
meglio sia da vicino, nella realtà che stiamo vivendo, sia da lontano, verso un mondo che
possiamo imparare a immaginare e a praticare insieme. Gesualdi ci parla di un’economia saggia,
materna, dotata di buonsenso, meno ossessionata dall’onnipotenza e dal mito del progresso e
della tecnologia. Un'economia più capace di vedere le persone vere, con i loro limiti, i loro bisogni,
le loro ricchezze, e di prendersi cura degli esseri viventi e della natura. “Siamo così dominati dalla
cultura del denaro”, scrive l’autore, “da aver dimenticato che la ricchezza vera
non è il denaro, ma i beni e i servizi che a loro volta dipendono dal contributo della natura e del
lavoro umano associato al sapere. Senza natura e senza lavoro non esisterebbe nulla (...) E’
urgente creare un sistema in grado di accogliere tutti. (...) E’ importante per la gente perché ha
bisogno di sicurezze ed è importante per la comunità perché ha bisogno del contributo di tutti. Solo
il sistema nel quale viviamo considera il lavoro un costo, un peso, una zavorra e si permette di dire
a milioni di persone “mi dispiace, sei di troppo”. Ma scherziamo? Se uno spargesse del petrolio per
strada verrebbe preso per matto. Invece, buttiamo via la gente e ci consideriamo normali”.
Proviamo a immaginare la giornata tipo di un abitante dell’altro mondo possibile. Lavora solo il
lunedì e il martedì per un’azienda farmaceutica pubblica (perché in questo mondo tutte le imprese
che producono beni e servizi essenziali sono pubblici) e in cambio riceve tutto ciò che gli serve per
vivere: una casa decente, cibo, abiti e beni di prima necessità da acquistare nei mercati pubblici a
prezzi calmierati, acqua pulita ed energia (senza sprechi), trasporti, informazione, scuola,
assistenza sanitaria. Per il resto può scegliere se guadagnare qualcosa di più lavorando per
un’impresa privata (o per un’attività in proprio) oppure dedicarsi al suo orto, a riparare la bicicletta,
a frequentare gli amici, dare una mano ai vicini di casa anziani o a curare il verde pubblico,
partecipare all’assemblea di quartiere e dire la sua sull’amministrazione della città. O, ancora,
frequentare i corsi di formazione permanente dove le persone si scambiano conoscenze e
competenze.
Tutti i servizi essenziali sono facilmente raggiungibili a piedi o in bici o coi mezzi pubblici; chi ha
bisogno di auto ricorre al car sharing. Le risorse sono destinate in primo luogo a soddisfare i
bisogni essenziali di tutti e solo quello che rimane può essere utilizzato da un’economia privata
ben regolamentata. Sicuramente ci sono meno ricchi, nessuno affoga più nella sovrabbondanza di
prodotti, ma il benessere per tutti è una realtà concreta. Un sogno impossibile? Dipende. Da noi, e
da quanto riusciremo a cambiare. Dentro, prima ancora che fuori.
SCHEDA_ 4
Titolo_ Obiettivo decrescita
Autore_ Mauro Bonaiuti (a cura di)
Editore_ EMI
Anno_ 2005
Indice
Introduzione di Marco Bonaiuti
PARTE PRIMA: LE RAGIONI DELLA DECRESCITA
Abbasso lo sviluppo sostenibile! Viva la decrescita sostenibile! di Serge Latouche
Per un decrescita sostenibile, pacifica e conviviale. Un approccio sistemico di Mauro Bonaiuti
Georgescu-Roegen, bioeconomia e biosfera di Jacques Grinevald
La decrescita è solubile nella modernità? di Paul Ariès
L’effetto rimbalzo. Per una critica dell’ottimismo tecnologico di François Schneider
Per una sobrietà felice di Pierre Rabhi
Verso la semplicità volontaria di Serge Mongeau
Onnipotenza di George Didier
Decrescita e democrazia di Vincent Cheynet
PARTE SECONDA: I CANTIERI DELLA DECRESCITA
Uscire dall’ideologia dell’automobile di Denis Cheynet
I sistemi di scambio locale di François Terris
Una “scommessa contro l’effetto serra” di Sabine Rabourdin e Fabrice Flipo
Sommario
Obiettivo Decrescita
di Sandra Cangemi (pubblicato su “Manitese”, aprile 2005)
Consumare fa bene all’economia. Consumare è patriottico. Consumare ci fa stare meglio, crea
occupazione, rende tutti più ricchi e più felici. Consumare significa difendere il nostro stile di vita, il
nostro modello di sviluppo, il nostro mondo dagli attacchi di chi ci odia e ci invidia, a cominciare dai
non meglio definiti “terroristi”. E l’ambiente? E la scarsità delle risorse, il petrolio in esaurimento,
l’effetto serra, le montagne di
rifiuti che ci assediano?
Consumare è un dovere!
Dai, non fate i disfattisti. Con tutta la tecnologia di cui disponiamo oggi, pensate che non saremo in
grado di
risolvere in tempi brevi questi problemucci? La situazione non è mica così grave come la
descrivono quelle Cassandre degli ambientalisti. E poi cosa volete, tornare all’età della pietra? Ai
tempi delle candele? Si sa, il
progresso comporta qualche prezzo, ma non si sta meglio qui che in Africa? Non si sta meglio ora
che nell’ottocento? Per aumentare i consumi si fa di tutto: persino tagliare le tasse (o, per lo meno,
si sostiene di farlo). Perché sono quelli che trainano l’economia e quindi consumare è, prima che
un piacere, un dovere.
Sto banalizzando, è chiaro. Ma più o meno è questo il messaggio che ci viene comunicato tutti i
giorni. Il Pil cresce meno del dovuto o addirittura cala? Tutti i media danno la notizia come se si
trattasse di una catastrofe
nazionale. E nessuno (nemmeno quelli di sinistra) si fa venire qualche dubbio semplice semplice:
"ma 'sto Pil sarà davvero il metro migliore per misurare la crescita economica?" E poi questa
crescita economica che cos’è? A vantaggio di chi va? Quali conseguenze ha? Si traduce in
benessere reale? Per chi, per quanti?
Eresie e voci fuori dal coro
Le voci dissonanti sono, ancora oggi, considerate con sospetto o addirittura con disgusto, un po’
come una bestemmia in chiesa. E in effetti parlare di essenzialità, di sobrietà, addirittura di
decrescita, come fanno Mauro
Bonaiuti e vari altri autori nel saggio "Obiettivo decrescita" (Emi), suona come una bestemmia in
un mondo votato a ben altre divinità: il denaro, i beni materiali, il successo individuale, il potere.
Pensate un po’ cosa
dev’essere successo quando, nel 1966, il docente di economia rumeno-americano Nicholas
Georgescu-Roegen pubblicò la sua prima opera, "Analytical Economics: Issues and Problems",
che dietro il titolo asettico nascondeva una vera e propria bomba: la proposta di una riforma
radicale della “scienza economica”, da riformulare sulla base delle scoperte della termodinamica
(in particolare la legge dell’entropia, cioè del degrado
irreversibile dell’energia) e della biologia evoluzionista. In sostanza, dice Georgescu-Roegen,
l’economia non è un sistema indipendente basato sul paradigma meccanicistico, una “macchina a
sé”, ma è un sottosistema di un
complesso molto più ampio, quello della Terra, e deve sottostare alle regole della biologia e della
fisica. Nessun organismo vivente cresce senza limiti, e proprio lo sviluppo economico
esponenziale, ribelle e cieco a ogni legge biologica, è la causa della crisi senza precedenti della
biosfera. La “scienza economica”, dunque, ha ben poco di scientifico, basata com’è su presupposti
ottocenteschi. Queste “eresie”, ancorché incontrovertibili,
costarono all’economista rumeno l’ostracismo dei colleghi, come ricorda nel libro il filosofo e
bioeconomista (nonché allievo di Georgescu-Roegen) Jacques Grinevald), portandolo infine ad
abbandonare in malo modo L’American Economic Association.
Quale sostenibilità?
Ma la crescita zero non basta, sottolinea Serge Latouche. E non serve credere alla favola bella
della “tecnologia che ci salverà tutti”, oggi invocata da tanti, più o meno in buona fede, al servizio
del mito, altrettanto illusorio, dello “sviluppo sostenibile” (un modo per cambiare il nome alle cose
senza modificare nulla nella realtà). E’ sotto gli occhi di tutti il paradosso dell’efficienza, cioè il fatto
che la tecnologia oggi viene prevalentemente utilizzata per produrre di più (riducendo
l’occupazione!) e dunque aumentare esponenzialmente l’uso di energia, il prelievo di risorse,
l’eliminazione di scarti. I motori moderni sono più efficienti, è vero, ma se ognuno di noi pretende di
usare un’auto il disastro ecologico è inevitabile, ed è quello che sta succedendo.
Rinuncia in positivo
Occorre dunque invertire la rotta: non bisogna solo bloccare la crescita, bisogna decrescere.
Attenzione, però: ridurre semplicemente i consumi senza cambiare nulla di questo sistema
economico significherebbe provocare un crollo della domanda globale e quindi dell’occupazione,
aggravando la miseria e i conflitti sociali non solo in Occidente, ma soprattutto nel Sud del mondo.
Si tratta dunque di immaginare una trasformazione sociale, economica e politica radicale verso
una vera sostenibilità, che garantisca, nel Sud come nel Nord, il diritto di tutti a soddisfare i bisogni
fondamentali e a una distribuzione più equa delle risorse. Il che vuol dire rinunciare al mito che “di
più è meglio”, smontare il paradosso del benessere (alla crescente disponibilità di beni materiali da
un certo punto in poi non corrisponde un aumento, ma al contrario un peggioramento del
benessere soggettivo e collettivo) e riequilibrare la nostra vita: meno oggetti, meno lavoro, meno
consumi e più relazioni, più convivialità, più servizi alla persona, più condivisione, più
autoproduzione, più partecipazione alla vita sociale e politica.
Rieduchiamoci!
Per una sobrietà felice, osserva il filosofo Pierre Rahbi, occorre anzitutto una nuova educazione.
Occorre un rilancio dell'agricoltura su piccola scala, a misura d'uomo e sostenibile. Occorre
rilocalizzare i consumi. Occorre limitare la produzione industriale e rafforzare quella artigianale.
Occorre ridurre la produzione di beni (specie quelli voluttuari) e investire invece sui servizi alle
persone, sulla ricerca ecologica, sul recupero ambientale. La semplicità volontaria, scrive Serge
Mongeau, fondatore dell'Istituto per un'ecosocietà di Montreal, richiede scelte responsabili fin da
ora, per non scivolare verso un mondo sempre più povero di risorse e dunque sempre più
conflittuale, spaccato tra un'élite di potenti blindata e privilegiata e una maggioranza globale di
impoveriti repressi e sfruttati. La difficile scommessa, secondo lo psicoterapeuta Georges Didier, è
conciliare i diritti collettivi con la libertà-responsabilità personale, la necessità della rinuncia
individuale con un approccio democratico e non autoritario. Per questo, la prima trasformazione
necessaria è quella interiore: diventare adulti nel vero senso della parola, fare spazio all'altro e
riconoscerlo nei fatti come pari, con i nostri stessi diritti. Il che significa scegliere e accettare il
limite. Si tratta, in sostanza, di cominciare a definire un modello di società molto diverso
dall’attuale, che non è facile da inventare, e ancor meno da costruire. E proprio sul piano delle
proposte e delle testimonianze di sperimentazioni concrete il libro curato da Bonaiuti lascia un po'
a desiderare. Su questo, probabilmente, occorrerà scrivere un altro libro. O, meglio, molti altri libri.
SCHEDA_ 5
Titolo_ Sviluppo: storia di una credenza occidentale
Autore_ Gilbert Rist
Editore_ Bollati Boringhieri
Anno_ 1997
Sommario
Per mezzo secolo, la credenza nello sviluppo ha fatto illudere sull'avvento del benessere per tutti.
Di fronte alla situazione attuale, caratterizzata da miseria e disoccupazione nel Nord come nel Sud
del mondo, l'autore s'interroga sulla persistenza di quella che considera alla stregua di una
credenza religiosa. E risalendo il corso della storia recente (e meno recente: la colonizzazione)
cerca di fare il punto sulle teorie e sulle strategie che hanno preteso di trasformare il mondo. Dopo
i capitoli introduttivi, che offrono una definizione dello "sviluppo" come "mito occidentale", nonchè
una sintesi delle premesse della mondializzazione, il libro ricostruisce analiticamente le vicende
delle teorie dello sviluppo e delle loro proiezioni istituzionali a livello di organizzazioni
internazionali. Si va dal Punto IV di Truman (1948) che lanciò la nozione di sottosviluppo, alla
Conferenza di Bandung (1955), al trionfo del terzomondismo (rapporto Hammarskjold, 1975), alle
teorie attuali dello sviluppo sostenibile, o durevole, o umano. Il tutto è visto nella prospettiva
unificante della globalizzazione e soprattutto della diffusione su scala planetaria di quello che per
l'autore è un tratto costitutivo dell'immaginario occidentale. In questo senso, il libro rientra in
un'antropologia critica della modernità che osa affrontare i temi già proposti con successo da
Serge Latouche in "L'occidentalizzazione del mondo".
Lo sviluppo, storia di una credenza occidentale: una lettura di Massimiliano Lepratti
In questa sede verranno riassunti solo i capitoli più utili a comprendere le elaborazioni originali di
un fenomeno genericamente classificabile come “terzomondismo”.
Cap. 7 Le periferie e lo studio della storia (anni ’60 e ’70)
Quella che globalmente venne poi chiamata scuola della dipendenza nacque come reazione
all’idea accennata da Truman e sviluppata da Rostow di una filosofia della storia i cui soggetti sono
gli stati e il cui svolgersi è il passaggio obbligatorio di tutti i soggetti dal “sottosviluppo” allo
“sviluppo” secondo i medesimi stadi.
La scuola ebbe due filoni: i neomarxisti USA e dependentistas del Sud del mondo.
I neo marxisti USA
Nel 1966 Paul Baran e Paul Sweezy fecero uscire il volume Monopolist Capital. Baran e Sweezy
si rifacevano alla teoria dell’imperialismo di Lenin e Rosa Luxemburg, trovando nell’egemonia delle
grandi imprese nordamericane l’istituzionalizzazione dei monopoli denunciati dai due pensatori (e
organizzatori) marxisti.
Secondo Baran e Sweezy le grandi imprese svolgono il loro dominio attraverso il monopolio dei
prezzi con il quale riescono ad aumentare l’accumulazione di surplus proveniente da tutto il mondo
in presenza di una produttività crescente cui riescono a non far corrispondere una diminuzione del
prezzo di vendita.
Il testo si chiude con l’auspicio di una rivoluzione che parta dai popoli del Sud.
I dependentistas
All’inizio solamente latinoamericani e poi aperti al contributo di altri continenti, i dependentistas
partirono dalle analisi della CEPAL per “superarle a sinistra”
La CEPAL (Commissione economica per l’America Latina) era un organismo dell’ONU incaricato
di promuovere lo sviluppo della regione e insediato a Santiago del Cile, sotto la presidenza
dell’argentino Raul Prebisch, negli anni ’50.
La CEPAL contestava il libero scambio, sostenendo che, nelle condizioni date, diveniva
forzatamente scambio ineguale e invitava pertanto le “periferie” a rifiutare il ruolo di esportatrici
specializzate di materie prime per sviluppare invece una industrializzazione che sostituisse le
importazioni.
I dependentistas accettavano la teoria “cepalina” dello scambio ineguale, ma ritenevano che
l’attenzione ai soli rapporti internazionali potesse fare il gioco delle peggiori borghesie del Sud e
che la critica dovesse essere completata con un’attenzione ai rapporti interni, ai rapporti di classe.
I dependentistas, pur nelle differenti visioni di ognuno, condividevano alcuni assunti fondamentali
della Cepal (evitando come quella ogni analisi degli aspetti culturali e ambientali):
- non è pensabile la teoria degli stadi verso lo sviluppo di Rostow, perché il capitalismo centrale
(del Nord) e quello periferico (o, meglio, e le economie periferiche) hanno tratti diversissimi
- (in particolare) è evidente che il capitalismo centrale domina le periferie (e che lo scambio
ineguale è una delle forme di questa sudditanza)
- le vicende interne degli stati del Sud non possono essere , quindi comprese, se non le si
inserisce nel quadro del loro stus di dipendenza dai rapporti economici internazionali (secondo
dependentistas e Cepal il soggetto di studio non possono essere i singoli stati, quanto il sistema
capitalistico mondiale)
Cap. 8 Lo sviluppo autocentrato (l’esperimento della Tanzania) (anni ’60 e ’70)
1967
1974
la dichiarazione di Arusha del Presidente tanzaniano Nyerere (pedagogista) esprime un
programma politico di sviluppo autocentrato per il paese.
la dichiarazione di Cocoyoc di Samir Amin, Marc Nerfin e Johann Galtung esprime un
punto di vista più teorico (e tocca tematiche ambientali)
La dichiarazione di Arusha ha i suoi ascendenti in Gandhi e nelle sue idee economiche. Secondo
Gandhi i villaggi dovrebbero puntare all’autosufficienza (salvo ricorrere ai cerchi concentrici
economici del livello superiore per quel che non possono produrre da soli –e questi cerchi non
escludono il commercio internazionale per i beni che non possono essere reperiti altrimenti); inoltre
nella visione di politica economica del Mahatma lo stato dovrebbe nazionalizzare l’industria e
ridurre al minimo la burocrazia.
Nyerere tentò di realizzare lo sviluppo autocentrato (Ujamaa) chiamandolo “socialismo africano”.
Siccome l’habitat disperso dei villaggi non permetteva di far funzionare la democrazia locale,
Nyerere inizialmente suscitò raggruppamenti volontari (nel 1967 c’erano solo una ventina di villaggi
ujamaa, nel 1973 erano passati a raggruppare due milioni di persone), ma nel ’73 questo processo
fu reso obbligatorio e produsse traumi sul tessuto sociale.
Lo sviluppo autocentrato in generale (aldilà della specifica esperienza tanzaniana) e il relativo
rifiuto della dominazione economica che si esercita attraverso i rapporti internazionali è la
conclusione logica dei lavori della scuola della dipendenza (sarà soprattutto Samir Amin a
indagarne le potenzialità generali).
Le indagini più interessanti rivelano come lo sviluppo autocentrato sia possibile solo in presenza di
democrazia e meccanismi di ridistribuzione globale.
Cap. 9 Il trionfo del terzomondismo (anni ’70)
Il gruppo dei paesi non allineati per bocca del presidente algerino Boumedienne chiese
un’assemblea straordinaria dell’ONU sul tema delle “materie prime e dello sviluppo”.
Il nuovo ordine economico internazionale
L’assemblea si tenne e il 1° maggio 1974 produsse la Dichiarazione relativa all’instaurazione di un
nuovo ordine economico internazionale, considerata il momento più avanzato del terzomondismo.
In realtà la Dichiarazione aveva tre enormi punti deboli:
1- era un documento delle borghesie del Sud che domandavano alle borghesie del Nord di poter
usufruire di una fetta maggiore di utili derivanti dallo sfruttamento delle popolazioni del Sud (il
documento parla di stati, non di popolazioni e scorda i rapporti di classe interni)
2- cadeva nel momento della fine del Terzo Mondo: nel 1973 l’aumento del prezzo del petrolio
spaccava i paesi del Sud tra chi ne godeva i vantaggi e chi ne subiva gli svantaggi; la crisi
conseguente riduceva l’impegno del Nord negli aiuti internazionali; a breve il processo avrebbe
portato alla nascita del debito estero.
3- presupponeva un sistema sovranazionale (e non meramente internazionale) per la sua
attuazione.
Una via originale: il rapporto Dag Hammarskjöld
Fu il programma dell’ONU per l’ambiente e promuoverlo, insieme alla Fondazione Hammarskjöld.
Il rapporto sostenne un approccio originale allo sviluppo e alla cooperazione:
lo sviluppo
non è solo un problema economico
dev’essere un processo autocentrato, collegato al sistema
internazionale in modo selettivo
è un problema anche del Nord (che soffre di malsviluppo)
la cooperazione internazionale va gestita da un’ONU riorganizzata
le risorse possono essere trrovate attraverso nuove tasse e
tagli alle spese militari
va indirizzata verso stati che lavorino per correggere le
ineguaglianze interne e per promuovere i diritti umani
Cap. 10 Gli anni ‘80
Médecins sans frontières svolse un ruolo nel favorire l’approccio riduttivista e conservatore a cui la
cooperazione allo sviluppo si votò a partire da quegli anni:
- innanzitutto perché privilegiò la cooperazione d’emergenza e tecnica, rispetto alla cooperazione
allo sviluppo, politica
- e poi perché fece nascere nel 1985 Liberté sans frontières, un’organizzazione appoggiata dalla
destra liberista, che vedeva come priorità non il problema della povertà e dello squilibrio Nord Sud
(anzi, riteneva il Nord sostanzialmente innocente), ma la democrazia liberale e i diritti umani
(questa visione la portò tuttavia a celebrare le virtù della Corea del Sud!)
Lo sviluppo sostenibile
Insieme alla cooperazione, anche lo sviluppo negli anni ’80 subì un ripensamento attraverso una
maggiore attenzione alle tematiche ambientali.
Il documento più importante fu il documento della Commissione Bruntland (del 1988, e servì poi da
base per la conferenza sull’ambiente di Rio, 1992)
Il documento in realtà era pieno di contraddizioni:
- partiva dall’idea di preservare i bisogni delle generazioni future (ma i bisogni non sono
genetici, bensì sociali e non è possibile pensare a quali saranno quelli della società del
domani)
- imputava al genere umano intero, e non alla classe media globale con il suo stile di vita
sciagurato, la colpa della distruzione ambientale (senza distinzione tra distruzione del
vivente e delle scorte minerali)
- riteneva cosa buona la crescita economica e il commercio internazionale
Cap.11 Gli anni ‘90
L’UNDP
Il pakistano Ul Haq (ex Banca Mondiale e membro del Forum Terzo Mondo) insieme ad altri (tra
cui A.Sen) elaborò per il Rapporto 1990 dell’UNDP la nozione non economicistica di sviluppo
umano (che prestava più attenzione alla buona vita rispetto alla crescita economica).
Il rapporto, anziché tentare di definire (invano) i bisogni, definì una serie di priorità sociali (acqua,
salute, istruzione di base) e applicò il criterio anche alla cooperazione proponendo il “tasso
dell’aiuto allo sviluppo prioritario” (in cui eccellono Paesi Bassi, Danimarca, Svezia e penano USA
e Italia).
I rapporti successivi proposero anche una serie di strumenti concreti per misurare fatti sociali fino
ad allora mai considerati in modo così sistematico; pur senza rivoluzionare granché l’UNDP ridiede
così ossigeno alla nozione di sviluppo, dopo il decennio dell’”aggiustamento strutturale” (a cui
l’UNICEF acconsentì di prestare il volto umano).
Gli anni 2000
Ciò che emerge dai decenni precedenti è l’inadeguatezza della “scienza economica”, capace
solo di rilevare (in modo piuttosto impreciso) i fenomeni di mercato e incapace di conoscere
l’esistenza di altre economie (del dono, informale, familiare,di sussistenza) che in Francia arrivano
al 75% del PIL (secondo Ahmet Insel) e nei paesi del Sud hanno un peso assai superiore (e
spiegano la sopravvivenza dei poveri).
L’incapacità di capire che culture, ambiente e politica sono variabili importanti svaluta ancora di più
la credibilità della “scienza economica” e dovrebbe insegnarci a seguire con un approccio molto
più critico e relativista le sue previsioni e le sue ricette per la risoluzione dei problemi sociali (e non
solo) dei diversi paesi.
SCHEDA_ 6
Titolo_ Bioeconomia.
Autore_ Nicholas Georgescu-Roegen
Editore_ Bollati Bolinghieri
Anno_ 2003
Indice
Introduzione di Mauro Bonaiuti
PARTE PRIMA
EPISTEMOLOGIA
PARTE SECONDA
IL SISTEMA BIOECONOMICO
PARTE TERZA
LA DINAMICA EVOLUTIVA
BIOECONOMIA
L'economia politica come estensione della biologia
La legge di entropia e il problema economico
Il programma bioeconomico minimale
Lo stato stazionario e la salvezza ecologica.
Un'analisi termodinamica
Ineguaglianza, limiti e crescita da un punto di vista bioeconomico
Analisi energetica e valutazione economica
Bioeconomia ed etica
Ricette fattibili contro tecnologie vitali
Quo vadis homo sapiens-sapiens?
Bibliografia su Georgescu-Roegen
Indice dei nomi
Sommario
La teoria bioeconomica rappresenta il primo e forse più rigoroso tentativo di articolare l'economia
alle scienze della vita. Come risulta dalle carte di Georgescu-Roegen, egli intendeva, negli ultini
anni della sua vita, pubblicare un volume dal titolo Bioeconomics che ragionevolmente doveva
costituire una prima sistematizzazione di questa concezione economica alternativa al mainstream.
Com'è noto, egli non riuscì a portare a termine tale progetto. Il presente volume intende riprendere
questa sfida, pubblicando una raccolta dei più significativi contributi di Georgescu-Roegen
nell'ambito della bioeconomia (compresi alcuni testi dattiloscritti inediti) ma, soprattutto, cerca di
dare alla teoria bioeconomica un carattere di maggiore sistematicità, integrandola anche con gli
sviluppi più significativi che si sono avuti in tempi recenti in particolare nella biologia e nelle teoria
dei sistemi complessi. Il volume vuole inolte recuperare lo spirito originale che animava la teoria
bioeconomica. Questa infatti, per nulla incline ai facili compromessi legati alle teorie dello sviluppo
durevole o sostenibile che tanto hanno affascinato accademici e tecnocrati, cercava risposte
rigorose e coerenti agli ideali di una economia giusta e compatibile con le leggi fondamentali della
natura, ideali che oggi emergono con rinnovato slancio dalla società civile.
La crescita economica della materia vivente di Andrea Fumagalli
Una raffinata critica al modello produttivista facendo leva sulle leggi della termodinamica e della
matematica. E' ciò che ha sviluppato l'economista di origine rumena Nicholas Georgescu Roegen
nella sua attività quarantennale di docente negli Stati uniti e che oggi viene riproposta nel volume
«Bioeconomia». Una lettura dei processi produttivi che mostra tutta la sua attualità in una
condizione in cui la produzione della ricchezza fa leva sulla comunicazione e sulla brevettabilità del
vivente
Nicholoas Georgescu-Roegen può fregiarsi di aver coniato per primo il termine «bioeconomia», nel
1977, allorché intitolò un articolo pubblicato sulla Review of Social Economy dal titolo Inequality,
limits and growth from a bioeconomic viewpoint («Ineguaglianza, limiti e crescita da un punto di
vista bioeconomico»). Riprese poi il termine in modo più esteso, sino a poter parlare oggi di «teoria
bioeconomica» di Georgescu-Rotgen, in una lecture (Bioeconomics and Ethic) tenuta nel 1983 alla
Duke University nel 1983, la stessa università dove oggi insegna Michael Hardt, che con Toni
Negri, ha poi riletto il concetto di bioeconomia in chiave foucaultiana. Oggi la Bollati Boringhieri
ripubblica questi saggi in una raccolta dal titolo Bioeconomia (pp. 156, ? 28), con un'utile e corposa
introduzione di Mauro Bonaiuti. Il termine «bioeconomia», in questi tempi, sembra essere tornato
in auge non solo in seguito alla diffusione del pensiero foucaultiano, almeno per ciò che concerne il
concetto di «biopolitica». Il prefisso «bio» è infatti anche utilizzato in modo estensivo per definire
tutto l'apparato tecnologico-produttivo che ha a che fare con lo sfruttamento della materia vivente,
dalle biotecnologie, alla biogenetica, alla bioagricoltura. Come risulta dalle carte dello stesso
Georgescu-Roegen, egli intendeva, negli ultimi anni della sua vita, pubblicare un volume dal titolo
Bioeconomics, che ragionevolmente doveva costituire una prima sistematizzazione di questa
concezione alternativa al mainstream. Non ne ebbe però il tempo. Georgescu Roegen è, da
questo punto di vista, un'economista anomalo, la cui fama negli ambiti ristretti dell'ecologismo
radicale degli anni `70 è dovuta essenzialmente al libro The Entropy Law and the Economic
Process, pubblicato nel 1971 per i tipi della Cambridge Press. Nato nel 1906 a Costanza in
Romania, studiò matematica e statistica sino al Dottorato alla Sorbona di Parigi nel 1930. Ritornò
in patria, dove ebbe importati incarichi pubblici. A metà degli anni Trenta, a Harward, incontrò
Schumpeter, che lo orientò definitivamente verso la scienza economica e nel 1948 si stabilì
definitivamente negli Usa, dove morì nel 1994. Roegen non ebbe immediatamente una formazione
economica e, come spesso accade in questi casi, fu meno condizionato dalla moda
dell'individualismo metodologico allora e oggi imperante, forte della maggiore interdisciplinarietà
che aveva caratterizzato i suoi studi e di un'elevata conoscenza della matematica, che gli
consentiva di individuarne i limiti nello studio delle scienze sociali.E' quindi ovvio che la teoria
bioeconomica di Georgescu-Roegen abbia rappresentato innanzitutto una critica radicale alla
teoria neoclassica, sia dal punto di vista dei contenuti che da quello epistemologico. Un approccio
critico, oggi più che mai nascosto al grande pubblico, ma che andrebbe invece diffuso e
pubblicizzato, alla luce, ad esempio, della grande attualità del tema della sostenibilità ambientale
negli anni del mancato decollo del Protocollo di Kyoto. Georgescu-Roegen ha mostrato, più di
trent'anni fa, i limiti, essenzialmente di natura entropica, del processo di crescita/sviluppo
economico. L'idea di uno sviluppo economico illimitato, forte del successo del paradigma
taylorista-fordista dei «trent'anni gloriosi» del dopoguerra, ha sempre misconosciuto il fatto che
ogni attività economica comporta l'irreversibile degradazione di quantità crescenti di materia e
energia. Per molti economisti, il processo economico non può creare e non può distruggere né la
materia, né l'energia, una verità, questa, che deriva dal principio di conservazione della materiaenergia, ovvero dalla prima legge della termodinamica. Ma se è pure vero che questo aspetto è
provato, quasi nessuno osserva, però, che il processo economico assorbe energia e la espelle in
modo diverso. Per un economista eterodosso come Georgescu-Roegen «ciò che entra nel
processo economico rappresenta risorse naturali preziose, e ciò che viene espulso scarti senza
valore». Un fisico esperto di termodinamica tradurrebbe in modo diverso e affermerebbe che la
«materia-energia entra nel processo economico in uno stato di bassa entropia e ne esce in uno
stato di alta entropia». Capire il concetto di entropia non è facile, ma è fondamentale per cogliere il
ruolo non neutrale svolto dal processo economico nello sfruttamento dell'energia naturale e
umana. L'energia esiste in due stati qualitativi: energia disponibile o libera, sulla quale l'uomo ha
un quasi completo controllo, ed energia non disponibile o legata, che l'uomo non può usare in
nessun modo. L'energia chimica contenuta in un pezzo di carbone è energia libera, perché l'uomo
può trasformarla in calore o, se vuole, in lavoro meccanico. Non altrettanto può dirsi per «il
favoloso ammontare di energia termica contenuto nelle acque marine, che è energia legata. Le
navi si muovono in cima a quest'energia, ma per farlo hanno bisogno dell'energia libera di un
combustibile o del vento». Quando un pezzo di carbone brucia, la sua energia chimica non varia,
non è diminuita né aumentata. Ma l'energia libera iniziale si è dissipata sotto forma di calore, fumo
e cenere, che l'uomo non è più in grado di utilizzare. Si è degradata in energia legata. In un lasso
di tempo infinitamente breve (il tempo necessario al carbone per bruciare) si è dissipato un
processo per la cui costituzione era stato necessario un tempo infinitamente più lungo (il tempo
necessario alla formazione del carbone). Le leggi della termodinamica, ed in particolare la
seconda, detta anche legge dell'entropia, ci dicono che in un sistema chiuso l'energia libera tende
a trasformarsi in energia legata, ovvero, che l'entropia (cioè l'ammontare di energia legata)
aumenta ininterrottamente. La legge dell'entropia non è in contraddizione con la prima legge della
termodinamica: infatti, l'aumento del livello di entropia non significa che è aumentata l'energia, ma
semplicemente che si è trasformata. Sulla base di queste considerazioni, il processo economico
non fa che trasformare energia libera in energia legata, ovvero da «risorse naturali preziose (a
bassa entropia) a scarti senza valore (ad alta entropia)». In altre parole, il processo economico non
è neutrale rispetto alla natura, anzi, come scrive lo stesso Georgescu-Roegen, «il processo
economico è saldamente ancorato a una base materiale sottoposta a vincoli precisi». Le
conseguenze di questa analisi sono rilevanti. In primo luogo, la lotta economica dell'uomo per la
sopravvivenza è incentrata sulla bassa entropia ambientale. In secondo luogo, la bassa entropia è
scarsa (ma in senso diverso dal concetto di scarsità ricardiana, usato dagli economisti: per
scarsità, qui si intende il fatto che, ad esempio, un pezzo di carbone o un giacimento di petrolio
può essere usato solo una volta). In terzo luogo lo sviluppo economico tende a diventare da
sostenibile a insostenibile con lo scorrere del tempo. Il mito della crescita economica è così
destinato ad esaurirsi. Dal punto di vista metodologico, il processo economico non può essere più
rappresentato come un processo circolare statico basato sul flusso: domanda, produzione,
distribuzione, domanda, ma piuttosto da una rappresentazione evolutiva e dinamica, più a forma di
spirale che di cerchio, dove non si possono ricreare mai le stesse condizioni di riproducibilità. In
un'ottica del genere, anche le ipotesi sulla razionalità strumentale degli individui hanno poco senso
e il concetto di equilibrio perde qualsiasi rilevanza. I saggi di Georgescu-Roegen sono stati scritti
negli anni Settanta, nel periodo di massima espansione e di crisi del paradigma taylorista-fordista
La teoria bioeconomica che ne consegue non può che essere imbevuta della critica al paradigma
produttivistico dell'epoca, che accomunava destra e sinistra dell'epoca, senza alcuna
considerazione, se non marginale, per i vincoli ambientali. Nel contesto attuale il paradigma
postfordista di accumulazione flessibile si fonda su tecnologie della comunicazione e sullo
sfruttamento non solo della materia-energia ma soprattutto della materia vivente umana. L'aspetto
bioeconomico non può più quindi riferirsi solo alla natura ma anche alla prestazione lavorativa che
sempre più tende a coincidere con la vita stessa. La centralità della conoscenza e del lavoro
cognitivo nella produzione flessibile postfordista delle economie a capitalismo avanzato ripropone
la questione di quanto e come sia possibile sfruttare la vita nella sua complessità (dai geni al
cervello) ai fini della produzione capitalistica di ricchezza. Se lo sfruttamento della natura e la
sostenibilità ambientale come elemento centrale del processo di sussunzione formale del lavoro
meccanico sono state al centro dell'elaborazione teorica e metodologica di Georgescu Roegen,
oggi la nuova teoria bioeconomica ci porta ad affrontare i limiti del processo di «sussunzione
reale» della vita. Per rispondere a tali questioni, ancora aperte, il contributo di Georgescu Roegen
è sicuramente prezioso e utile
(da Il Manifesto, 15 gennaio 2003)