Postfazione di Patrizia Sentinelli

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Postfazione di Patrizia Sentinelli
Postfazione
di Patrizia Sentinelli *
Il libro Glokers di Silvana Cappuccio, grazie alla ricchezza delle esperienze registrate in prima persona dall’autrice attraverso i suoi molteplici viaggi nei cinque continenti, è strumento prezioso per coloro che vogliono entrare in contatto con la realtà del nostro mondo globalizzato così lontana
dalla retorica neoliberista in cui quotidianamente siamo immersi.
Il libro, e l’obiettivo contenuto in esso dell’affermazione dei diritti fondamentali del lavoro per tutti come chiave di volta per la costruzione della pace
e di un mondo più giusto, è ancora più prezioso per chi, come la sottoscritta,
ricopre un incarico governativo legato alla cooperazione che ha come fine ultimo proprio il fronteggiare e possibilmente eliminare, le disuguaglianze a livello globale.
Proprio per questi suoi scopi la cooperazione internazionale, fondamentale
strategia politica (o quanto meno dovrebbe esserlo) per i Governi di tutto il
mondo, si intreccia con i temi proposti nel testo.
Lo è in quanto parte essenziale delle scelte di politica estera, in relazione
al fatto che mutamenti climatici, presunti scontri di civiltà e conflitti interetnici, così come pure le tragiche azioni terroristiche, chiamano l’intera comunità internazionale ad un rinnovato impegno per declinare interventi che sappiano guardare oltre i confini della guerra permanente, per la costruzione di
percorsi di pace duratura.
Una pace che si concretizza come condizione positiva e non solo come assenza di guerra.
Una pace da raggiungere intessendo trame di relazioni virtuose tra persone
e tra queste ed il vivente non umano e l’ambiente circostante.
Cooperazione significa mettere in discussione stili di vita individuali ma
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Viceministra degli Affari esteri con delega alla Cooperazione internazionale.
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anche politiche.
La cooperazione non può dunque, in questa accezione, essere un settore
– magari marginale – della politica, ma anzi, al contrario, deve informare la
stessa nel suo insieme. Allo stesso modo, quindi, essa non può risultare né
uno strumento impositivo di qualsivoglia modello di sviluppo endogeno
nei confronti dei Paesi impoveriti, né tanto meno divenire complice delle
politiche neoliberiste e da queste utilizzata come cura lenitiva per i mali
prodotti da liberalizzazioni e privatizzazioni sfrenate.
Per assumere un ruolo positivo la cooperazione deve ancorare la politica
estera alla dimensione dei diritti umani e della pace, rendendola non subalterna alle politiche economiche, finanziarie e monetarie di un Paese o di
un’istituzione internazionale o regionale. Richiede un profilo di coerenza
in ogni intervento per dare maggiore efficacia alle politiche di sviluppo, assumendo specifici parametri per misurarla.
La comunità internazionale ha assunto l’impegno di intensificare gli
sforzi per combattere la povertà a partire dalla Dichiarazione del Millennio
dell’Assemblea Generale dell’ONU del settembre del 2000, rafforzandoli
anche attraverso il successivo Consensus di Monterrey nel marzo 2002,
che ha affrontato il tema degli strumenti per mobilitare le risorse necessarie.
Con il Consensus di Monterrey si è cercata dunque una risposta comune, per innalzare l’efficacia degli aiuti dopo il fallimento degli anni
80 e 90. Il punto centrale raggiunto – e che deve essere perseguito con
maggiore forza – è proprio la costruzione di partenariato tra Paesi basato
su una reciproca assunzione di responsabilità.
Ma affinché questo nuovo partenariato informi positivamente le politiche di cooperazione occorre riconoscere un ruolo centrale alle comunità
locali dei Paesi, sia di quelli che vengono chiamati «donatori», sia dei «beneficiari». Le comunità, che rappresentano l’aspetto decisivo per individuare le nuove linee di sviluppo locale – rispettose del territorio,
dell’ambiente, della cultura, delle tradizioni – devono essere sostenute anche con progetti mirati.
E proprio la ricerca, il sostegno alla partecipazione della società civile
alla vita economica, sociale e politica è punto essenziale per affermare
una cooperazione capace di sviluppare sovranità ed empowerment a partire dai soggetti maggiormente vulnerabili; è quindi la partecipazione delle
comunità locali che può offrire una reale implementazione dei diritti, sociali, economici, civili ed ambientali.
Sono le comunità insorgenti ad essere il riferimento per la costruzione
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dei partenariati, non solo i leader e i governi.
La crisi della politica così forte in occidente è presente in forme diverse
anche in tanti Paesi del sud del mondo.
Le ricche esperienze e pratiche agite dalle comunità, dai produttori, dai
contadini, dai lavoratori, dalle donne, indicano un protagonismo vivace che
va valorizzato, conosciuto e nominato anche nei progetti di cooperazione.
In questa dimensione ci siamo mossi anche in Italia e sempre più chiaramente abbiamo assunto l’approccio partecipativo come elemento caratterizzante della nostra cooperazione.
La sfida contenuta all’interno del Consensus di Monterrey chiama infatti
ad una riflessione critica sulle strategie di sviluppo perseguite negli anni
’80 e ’90.
In quel periodo, infatti, l’intervento statale nell’economia viene individuato come causa dell’arretramento dei cosiddetti «Paesi in via di Sviluppo» che le nuove politiche di aggiustamento strutturale avrebbero dovuto
eliminare.
Ma privatizzazioni e liberalizzazioni hanno dato risultati non positivi e,
in alcuni casi – se guardiamo al contesto internazionale – i dati sulla povertà sono addirittura peggiorati sia da un punto di vista quantitativo rispetto
al numero dei poveri, sia se prendiamo come riferimento l’aumento
dell’esclusione e l’impoverimento dei diritti in particolare del lavoro e
dell’ambiente. Gli esempi li troviamo in particolare nei Paesi dell’Africa
subsahariana, dove il numero dei poveri è raddoppiato negli ultimi 20 anni
non diminuendo neppure laddove il PIL presenta dati positivi. Ma ciò vale
anche per l’Ame-rica latina, l’Asia centrale e i Caraibi.
Dunque la sfida di una nuova cooperazione a cui facevo riferimento
chiede in sostanza di mettere in discussione proprio quelle politiche autoritative e dissipative e lo stesso concetto di sviluppo, riponendo
all’attenzione internazionale il primato dello spazio pubblico sul mercato,
quello dei beni comuni sulle merci, dei diritti del lavoro sul diritto generico
a lavorare e dunque del complesso dei diritti sui favori e sui privilegi per
pochi.
È proprio in questo quadro che è significativo collocare il tema dei diritti del lavoro, della sua qualità e condizione, e delle finalità e modi di produzione.
Nel disegno di legge delega di riforma della cooperazione che il Governo italiano ha consegnato al Parlamento nell’aprile 2007 si indica specificatamente, tra le finalità di cui all’art. 1, lo sviluppo dei sistemi produttivi
locali ed il miglioramento delle condizioni di lavoro, oltre a quello di pro253
cessi di rinnovamento delle politiche di governo dei territori. Questo a motivare, in modo del tutto inequivocabile, che la politica di cooperazione per
l’Italia è politica che contribuisce all’esercizio dei diritti stessi e che la lotta
alla povertà si compie attraverso il rispetto e sostegno allo sviluppo locale
definito insieme alla comunità di appartenenza.
Nel mondo ci sono ancora grandi sofferenze pagate dai lavoratori e lavoratrici: assenza di occupazione, precarietà, insicurezza, bassi salari, intermittenza. Ma penso in particolare alla piaga del lavoro minorile. Nascosto a volte, eppure così fortemente esteso e praticato per arricchire i nord
del mondo.
Eppure tante esperienze di ONG sono in campo per affrontare questa
piaga e rimuoverla.
Fondamentale, a questo proposito, è il lavoro prezioso portato avanti
proprio dalle Organizzazioni Sindacali anche con la declinazione in specifici programmi d’intervento. Ma per parlare di cooperazione efficace occorre praticare una politica coerente.
Pertanto la lotta alla povertà richiede il superamento di programmi di
cooperazione frammentati, giustapposti, parcellizzati assumendo invece
una visione generale strategica in tutti i campi della politica.
Concretamente, ad esempio, alle questioni legate al settore agricolo. In
molte parti del mondo l’agricoltura resta il settore maggiormente rilevante
della produzione mondiale ed in particolare la popolazione rurale è legata,
per la sua sopravvivenza, all’attività agricola. Basti vedere il quadro relativo all’Africa subsahariana, dove – secondo la NEPAD (New Partnership
for Africa’s Development) – circa l’80% della popolazione vive nelle aree
rurali e dipende dall’agricoltura. Ma questa stessa attività agricola viene
messa in discussione dall’approccio industrialista, vale a dire da quel modello agricolo fondato sul ciclo lungo della produzione, che va a vantaggio
del profitto delle multinazionali che producono per il commercio globalizzato. Anche i negoziati EPAs (Accordi di partnership economica) hanno
risentito di questa impostazione.
Ed è perciò che l’Italia si è battuta in sede UE per offrire maggior sostegno alle produzioni locali e ai mercati regionali difendendo lavoro e ambiente
C’è in campo una catena alimentare «senza terra» che utilizza magari
anche Ogm per aumentare il volume di scambio commerciale globale togliendo la terra ai contadini e costringendo interi continenti a divenire solo
piattaforme di consumo.
L’agricoltura legata alla terra è invece l’obiettivo che vogliamo perse254
guire come cooperazione italiana. Produzione prevalentemente indirizzata
al consumo locale e quindi ciclo corto, rispetto della biodiversità, delle tradizioni, dei saperi e dei sapori, garantendo sovranità e sicurezza alimentare
e al contempo un lavoro capace di rispettare la quantità (rispetto al numero
dei lavoratori occupati) ma anche la qualità delle produzioni.
L’agricoltura rurale, peraltro composta soprattutto da imprese di piccole
e medie dimensioni, e le agricolture familiari, contribuiscono a formulare
la risposta alle sfide definite dal protocollo di Kyoto e riprecisate recentemente a Bali.
Fondamentali per contrastare gli effetti negativi dei mutamenti climatici
sono inoltre le strategie di mitigazione e adattamento che richiedono, per
essere affrontate, conoscenza e know how tecnologico al servizio della tutela ambientale.
Dunque lottare contro la povertà significa attenzione all’ambiente e al
lavoro, declinandolo anche rispetto al genere.
Le persone che vivono sotto la soglia di povertà, non solo dal punto di
vista del reddito ma anche di quello legato alla restrizione dei diritti e rispetto alla diffusa emarginazione dai processi decisionali, sono in prevalenza donne. Perciò occorre precisare, sia a livello bilaterale che multilaterale, nuovi programmi che abbiano al centro politiche di genere.
Quando le donne diventano soggetti attivi di sviluppo locale, anche attraverso l’intervento della microfinanza, è tutta la comunità a trarne beneficio.
Diritti della salute, dell’educazione, del lavoro devono essere saldamente
connessi. Va superata la concezione che affida l’aumen-to del benessere
mondiale al mercato, alla competizione e alle armi.
Occorrono invece politiche nazionali di sostegno e promozione e partecipazione sociale. Insomma una nuova cooperazione.
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