Tanzanìa
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Tanzanìa
Tanzanìa: le donne, i bambini, la povertà e la bellezza. Prima parte. Laudato si’, mi’ Signore, per sora luna e le stelle, in celu l’ài formate clarite et pretiose et belle Cantico della creature Sono stata in Tanzanìa l'estate scorsa, nei villaggi interni, nella provincia di Iringa, distante una giornata di viaggio dalla capitale Dar es Salaam ( in arabo "casa della pace"). Racconto questa esperienza in primo luogo perchè è una gioia comunicarla. E poi perchè nei luoghi di cui parlo non c'erano turisti: sono realtà estranee all'universo dei tour operators . Il mio viaggio era organizzato da una parrocchia di Bologna, la cui diocesi è in un rapporto gemellare con la Tanzanìa, dove da molti decenni Bologna ha, come dire, la "titolarità" nell'esercizio dell' evangelizzazione. Lì ha istituito e finanziato missioni. Un' adesione a un viaggio con una organizzazione di questo tipo ha significato molte cose, nel bene e nel male: ha comunque consentito di potere entrare in una dimensione dell'Africa altrimenti inaccessibile. E di visitare, come ospite gradita, alcune case e luoghi del tutto appartenenti e intrisi della realtà più vera dell'Africa e scambiare con questi uomini e donne così autentici gesti di comunione in nome di una simpatia primordiale. I villaggi da me visitati -Ukumbi, Usokami, Kaning-gombe - sono distanti dalla città di Iringa ancora mezza giornata di viaggio o più: la distanza si calcola a tempo e non a Kilometri, perché le strade non solo non sono asfaltate, ma costellate di dossi e avvallamenti continui o di buche giganti- e poiché gli autisti sono comunque spericolati -avendo tutti i tanzanesi un carattere molto incline al gioco- colle loro jeep corrono all'impazzata: muoversi in auto è come andare sulle montagne russe. Lì, in questi villaggi dispersi, ho incontrato la povertà. L’ho guardata con ammirazione e meraviglia, perché non mordeva l'anima. È assai diversa da quella esistente nelle città in Italia. Lì non è indigenza, non è offesa, squallore. Piuttosto riveste i tratti di un'antica sobrietà in accordo con la naturale durezza della vita. È povertà francescana. Sono certa che, nella sua Palestina, Gesù, quando parlava ai poveri - e le sue parabole sono intessute di squarci di vita di pescatori e contadini- parlava a persone povere come queste. Gli uomini e le donne dell'Africa, nell' immaginario europeo, sono rappresentati come persone avvilite, stremate, prigioniere di una miseria crudele. Mia mamma, nella sua semplicità, mi diceva prima di partire: "Ma cosa vai a fare tra quei selvaggi?". Ma non è un mondo squallido o sgomento quello che ho conosciuto. Dall'Europa si guarda con sufficienza le loro abitazioni, perché sono costruite con fango e argilla, con un tetto di paglia. Non ci sono porte e finestre con infissi e vetri; non ci sono pavimenti ma solo terra battuta, e il mobilio è elementare. Si cucina all'aperto, con tegami, pentole, recipienti vari adagiati per terra (su una terra battuta che è stata spazzata accuratamente con scopette corte, costituite da un fascio di sterpi), accanto a un focolare molto semplice, eretto con la legna che si andati a raccogliere nel bosco (in Tanzanìa i boschi sono molto diffusi, perché nell'altipiano centrale l’altitudine è in media sui 1500 metri); si usa con parsimonia quell’acqua che si è andati a prendere a una fonte. Si può vivere con eleganza e dignità in queste forme: elegia di un'armonia elementare . Dai bambini- oh che incanto i bambini - sgorga la meraviglia della semplicità che sposa la gioia. I loro vestiti sono spesso un po’ bucati, o sdruciti, le scarpe - quasi sempre ciabatte di gomma - sono talvolta logore, consunte. Sono scarpe tramandate di fratello in fratello. Vanno a scuola a gruppetti: li si riconoscono a colpo d'occhio, perché portano la divisa. Ma penne e carta non sono garantite. Fuori le aule sono di una vivacità incontenibile, ma dentro sono disciplinatissimi: l'autorità è molto sentita. E a proposito di autorità: bambini più grandi hanno l’obbligo di prendersi la cura dei fratelli più piccoli, e così se li portano sulla schiena, avvolti come fanno le mamme, e al tempo stesso con un senso del dovere "naturale." E i più piccoli obbediscono loro. Bambini sbucano ovunque, di sopra, di sotto, da un fianco dall'altro; di solito sono in gruppo, senza adulti. A volte se ne incontra qualcuno solitario che, timidamente, mi osserva interrogante e stupito: gli occhi espandono un sacro bagliore (la pelle nera segna un contrasto perfetto col bordo della cornea) . Una volta, a messa, un bambino sui due anni ci guardava e poi di fretta si rifugiava in lacrime gemente tra le braccia della mamma: eravamo per lui "spauracchi bianchi", una sorta di mostri; come l'uomo nero per un bambino bianco. Dopo aver familiarizzato, i loro corpi si accalcano intorno. Li si sente premere con dolcezza e naturalezza: non si pratica l'occidentale "distanza di sicurezza" tra persona e persona. È indicibile la grazia di questi bambini: uno sbocciare inesausto di freschezza e giubilo. La povertà si annida e si confonde a questa elementarietà : di strutture, di merci, di risorse, di stili di vita. Forme e gesti semplici, arcaici, che si tramandano di generazione in generazione. Come vivono questa “povertà”? Non si sentono poveri, mi ha detto- nella missione di UkumbiSuor Pelagia, che è nativa, ma ha vissuto a lungo in Italia. Qui non si patisce la fame, a meno che un’annata di siccità non imperversi. La terra dona ogni anno i suoi frutti: il mais è ovunque, i fagioli sono onnipresenti nei pranzi; gli animali,anche se magri, non mancano. Ma c'è qualcosa di cui noi europei siamo orfani da secoli: la gente qui ha il forte senso della comunità, intrecciata e fusa con quella potenza originaria che è la natura. La comunità, con la vicinanza affettiva che emana, sostiene in ogni aspetto della vita. Chi se ne va di qui, dal villaggio, e se ne va in città, è perché tenta la fortuna, aspira a un tipo di vita occidentale. In città ci sono più servizi, più confort. Nel villaggio non si muore di fame, ma la vita è dura: significa per esempio lavorare tutto il campo con la zappa, separare a mano - con l'aiuto del vento- i grani di mais della pula, andare lontano a prendere l' acqua. I sentieri che conducono alla fonte si conoscono come le proprie tasche, perché si devono percorrere anche al buio al mattino prima dell'alba. Ma qualcuno comincia a desiderare di vivere in una casa dove l'acqua la si prende dal rubinetto. Il modello occidentale ha iniettato il virus della tentazione di una vita nell'agio. Loro, come tutti, vedono solo l'aspetto della comodità, e ne sono abbagliati. La sirena della "libertà svincolata dal peso della necessità" cela l'inganno sepolto sotto tale seduzione. Nei villaggi l’elettricità non c’è. Non ci sono gli elettrodomestici più comuni, quindi: frigorifero, lavatrice (alla partenza abbiamo lavato a mano le nostre lenzuola, collettivamente), ferro-da-stiro elettrico (c’è quello con le braci), cucine a gas, né tanto meno radio o televisori. Eravamo a 2000 metri, ma non ci sono termosifoni: si usano le braci. Qualcuno- e sono in aumento- ha il telefonino, qualcun altro, ma ancora meno, ha una motocicletta, scassata però. Quasi tutti i veicoli, soprattutto i pulman, carichi all'inverosimile, sono vecchi e inquinanti: sono i rifiuti dell’occidente. La gente si muove per lo più a piedi, e i bordi delle strade ospitano sempre le sagome di viandanti. Viandanti pazienti e tenaci che camminano, silenziosi e austeri, per ore e ore. Figure per eccellenza dell'umanità che transita, sulla via della vita.