atti per sito - Provincia di Lucca
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Autori vari Politica senza il potere in una società conviviale Ripensando il vernacolare attraverso una rivisitazione del pensiero di Ivan Illich Lucca, Palazzo Ducale, 10-11 marzo 2006 Hanno collaborato alla realizzazione del volume: Nicola Lazzarini e Giovanna Morelli Si ringrazia: Marilù Fetonte PREFAZIONE E’ trascorso poco più di un anno da quando la Scuola per la Pace ha realizzato il secondo incontro pubblico seminariale sull’eredità di pensiero lasciata da Ivan Illich. A differenza dal primo, questa volta la parte pubblica è stata preceduta da un incontro di più giorni di una trentina di persone che nel mondo e in Italia, per aspetti diversi, fanno riferimento a questo pensatore che molti, e fra questi anche alcuni avversari, hanno ritenuto il più grande del secolo XX°. Senza giungere ad assolutizzazioni inutili, certamente fu uno dei grandi, e fra questi certamente uno dei più “scomodi”. In un momento di scontro mondiale fra due schieramenti, politici ma anche ideologici, il marxismo e il liberismo, Illich seguì una via propria, irriverente di fronte a verità ritenute consolidate, sempre aperta alla ricerca e alla rimessa in questione, man mano che la realtà mutava, presentando nuovi aspetti e, nel suo pensiero, anche nuove “degenerazioni”, perchè sotto l’apparenza di liberare l’uomo, di fatto lo rendevano più schiavo: la tecnologia, le professioni, la tecnoscienza… La sua opera “La convivialità”, tutt’oggi la più letta e meritevole di essere letta in un momento di preannunciato “disastro ecologico” - come mi confessò in uno dei due colloqui che ebbi con lui prima e dopo la sua conferenza pubblica a Lucca - era da lui ormai considerata, al pari delle altre che lo resero famoso e gli alienarono simpatie (“Descolarizzare la società”, “Nemesi medica”…) come un “libello” di gioventù, che aveva contribuito ad animare dei necessari dibattiti e a introdurre ripensamenti e anche cambiamenti. Ma oggi i problemi urgenti, mi disse, erano altri. Ad esempio il tema della decisione personale in un mondo dominato dalla “comunicazione” gli sembrava attuale e drammatico. Così fu deciso che questo sarebbe stato il titolo della sua conferenza e questo fu il tema che promise di analizzare con noi per tre anni. Così non fu perché la morte lo colse poco dopo, ma il seme dell’interrogazione irriverente era gettato anche a Lucca. Germogliato, seccato? Presto per dirlo. Nel momento in cui scrivo questa presentazione sto leggendo un libro ostico di un altro grande pensatore del secolo XX°, Ilya Prigogine, premio Nobel per la chimica ma soprattutto uno dei grandi studiosi delle leggi dei “sistemi caotici” cui ha dato apporti fondamentali. Nel libro, il cui titolo è “La nuova alleanza”, egli ripercorre la storia della scienza, mostrandone la ricchezza ma anche i ricorrenti dogmatismi e insiste su un aspetto: gli interrogativi scomodi, cui la teoria dominante del momento non sapeva dare risposta, venivano accantonati come inessenziali o inutili. Ma tutti hanno dovuto essere ripresi e integrati in una nuova teoria ogni volta che quella in vigore si veniva a trovare decisamente insufficiente a comprendere nuovi fenomeni non più eludibili. Ciò che disturba il pensiero dominante, ma che ha spessore, prima o poi esige risposta. Pena restare arenati e non poter procedere. Il parallelo, in un campo diverso, con le domande scomode di Illich sull’uomo e sulla civiltà attuale, mi è sembrato inevitabile. Oggi stiamo affrontando due crisi planetarie: la crisi della pluralità e della diversità, la crisi climatica. Su queste, l’eredità di Illich ha ancora molte cose da dire e il suo nome ricorre con sempre maggiore frequenza nelle citazioni di pensatori che cercano uscite dal labirinto. In Francia e Messico, paese questo ove egli soggiornò a lungo, si procede con la pubblicazione della sua opera omnia, ed è con gioia che appena tre giorni or sono ho ricevuto notizia di un grande incontro mondiale di suoi estimatori, proprio in Messico, a Cuernavaca, dove un gruppo di giovani studiosi si sta facendo carico di rivalorizzare il suo immenso e prezioso archivio. All’attualizzazione delle sue elaborazioni anche la Scuola per la Pace ha dato con questi due seminari il proprio modesto contributo. Aldo Zanchetta 22 giugno 2007 SALUTI INIZIALI Andrea Tagliasacchi Vorrei iniziare ringraziando Aldo Zanchetta, animatore e responsabile di tante iniziative promosse dalla Scuola per la Pace. Siamo molto orgogliosi del fatto che questa conferenza si tenga a Lucca e sia promossa dall’Amministrazione Provinciale. Estendo il ringraziamento anche ai convenuti ed ai relatori che interverranno al convegno. Non è il primo convegno che l’Amministrazione Provinciale organizza sulla figura ed il pensiero di Ivan Illich, che fu da noi ospitato il 2 ottobre del 2002 in occasione del suo ultimo incontro pubblico. Quel giorno il filosofo austriaco volle passeggiare per le strade della nostra città che aveva percorso di notte in tempo di guerra, accompagnando un obiettore di coscienza tedesco verso la salvezza. Illich, che allora stava pensando di tornare in Toscana dove aveva studiato da giovane, ci aveva espresso il desiderio di esplorare per lui la possibilità di individuare il nuovo “pensatoio”, che doveva nascere sulle colline lucchesi. Mi ricordo che quella sera dopo l’incontro accompagnammo Illich nel mio ufficio, dove si raccolse in concentrazione e raccoglimento. Come ben sapete Illich morì due mesi dopo a Brema, dove teneva lezioni universitarie; svanì così la possibilità di averlo fra noi. Ma gli amici che lo avevano accompagnato in occasione della conferenza, memori del desiderio di Ivan di lavorare per la Scuola per la Pace, vollero offrire la loro collaborazione per sviluppare i temi che avrebbe voluto trattare. Fu così che nel giugno del 2003 organizzammo un primo seminario pubblico dal titolo “Le paci dei popoli” e intitolammo a lui il nostro piccolo centro di documentazione interculturale. Grazie a Sajay Samuel ed a Samar Farage il contatto tra la Scuola per la Pace e gli amici di Ivan proseguì, fino ad arrivare al secondo seminario che stiamo seguendo in questi giorni. Il seminario di cui oggi inauguriamo la fase pubblica è iniziato con quattro giorni di studio di un ristretto numero di vecchi e nuovi amici di Ivan: quelli del cosiddetto gruppo “Puddle” che avevano lavorato con lui negli ultimi anni, e quelli del gruppo lucchese “Granchio di Kuchenbuch”, che riunisce coloro che furono “fulminati” dall’incontro con Illich. L’obbiettivo di questo convegno è quello di fare il punto sul pensiero di Illich, pensiero che Ivan stava approfondendo con i suoi amici. Il titolo è quantomai significativo, soprattutto alla luce dell’attuale crisi della democrazia rappresentativa: “Politica senza il potere in una società conviviale”. Desidero fare due sottolineature prima di dare la parola agli ospiti. Voglio intanto sottolineare la caratteristica di questo incontro che ha visto nei giorni precedenti un momento di approfondimento sui temi che saranno trattati oggi e domani, ed è molto importante che qui venga pubblicamente riportato ed approfondito il risultato di queste riflessioni. Sono inoltre dell’idea che sia determinante discutere di questi temi in un momento come questo. Noi parliamo in questi giorni del rapporto tra l’uomo e la terra, e questo non è un argomento astratto e generico, perché riguarda la vita stessa degli esseri umani. Spesso il futuro è legato ad un’idea di sviluppo che non necessariamente è sinonimo di miglioramento della qualità della vita, ma anzi, spesso rischia di essere subordinata ad un meccanismo che non controlliamo più: quello della produttività senza freni. C’è quindi l’esigenza di capire se è possibile ricominciare un rapporto nuovo tra uomo e natura, che metta al centro l’essere umano e la libertà dell’individuo. Mi rivolgo soprattutto ai giovani presenti. Purtroppo il livello del confronto e della discussione che ci arriva attraverso i mass media ed il conformismo dilagante relegano queste occasioni nell’ambito dell’eccezionalità. Oggi però abbiamo la fortuna di avere qui dei pensatori che possono darci un contributo molto importante. Non so se ho capito bene il concetto di convivialità, ma mi sembra che ci sia la volontà di rimettere in discussione l’idea stessa del potere, come sostenuto da Ivan Illich. Trovo comunque questo tema molto attuale dal punto di vista dell’esigenza dell’innovazione della cultura politica. Spesso siamo avvitati in un confronto tra innovatori e conservatori in cui si mischiano i ruoli. Quindi o troviamo un livello di confronto più avanzato, che è questo, o si capisce male quale può essere, anche dal punto di vista politico, la strada da intraprendere. C’è quindi bisogno di lavorare per una nuova cultura politica, e questo non è un argomento globale, ma riguarda anche la vita sul territorio, quindi anche il locale. E’ proprio sui territori che spesso noi sperimentiamo la democrazia, il rapporto con la natura, l’industrializzazione, ecc. Esiste infatti un rapporto dialettico tra le risorse: c’è legame tra tutela delle risorse naturali ed industrializzazione, tra produzione ed ambiente. Tocchiamo quotidianamente con mano questi temi. Non stiamo quindi discutendo di tematiche generiche che riguardano solo il futuro del mondo, ma anche e soprattutto di grandi questioni che riguardano la vita di tutti i giorni. Come possiamo portare queste tematiche e queste discussioni all’interno della politica? Questa è la grande sfida. Per questo voglio ancora ringraziare Rossana Sebastiani, Aldo Zanchetta e la Scuola per la Pace per aver organizzato questa iniziativa. PRESENTAZIONE DEL CONVEGNO Aldo Zanchetta Il 2 ottobre 2002 Ivan Illich fu a Lucca per una conversazione dal titolo “La decisione personale in un mondo dominato dalla comunicazione”. Come ormai sua prassi, aveva reso rari i suoi interventi pubblici, e volle legare questa presenza ad una conoscenza preventiva dell’ambiente in cui avrebbe parlato per essere sicuro che non si sarebbe rivolto ad una “platea occasionale”. Volle anche stabilire prima e dopo l’incontro un contatto umano che lui riteneva indispensabile per entrare in sintonia con il proprio interlocutore, dopodiché soddisfatto fece la promessa di lavorare con noi per tre anni sul tema della comunicazione. La morte lo colse dopo due mesi mentre si apprestava a tornare a Firenze città dove si era laureato ed aveva preso i voti sacerdotali nel lontano 1951 - per trascorrervi le feste di Natale. La sua promessa di lavorare con noi era in parte legata al suo desiderio di venire in Toscana a trascorrere gli ultimi anni della sua vita insieme ad un ristretto numero di amici e discepoli. Per inciso osservo che su molte delle sue biografie c’è scritto che Illich era venuto alla luce a Vienna nel 1926; in realtà Ivan era nato in Dalmazia, su una piccola isola - dove c’è ancora una torre fortezza della sua famiglia - vicino a Spalato. Si trasferì poi a Vienna da bambino, insieme ai genitori. Mi confidò che voleva passare gli ultimi anni della sua vita in Toscana per tornare ad assaporare il sole mediterraneo che aveva riscaldato i primi anni della sua vita. La sua morte accese per qualche giorno i riflettori dei grandi giornali sul suo pensiero. I vari necrologi lo definirono come uno dei più grandi pensatori del XX° secolo, qualcuno si spinse a definirlo il più grande. Ivan non era inquadrabile né all’interno del liberalismo né del marxismo, che erano le due grandi famiglie di pensiero dominanti all’epoca, e ciò gli valse un certo isolamento, che lui ruppe con alcuni libri “trasgressivi” su temi di fondo come la scuola, l’energia, la sanità, la tecnologia, per passare poi ad una successiva fase più dedicata alla ricerca e alla elaborazione in piccoli gruppi. Negli anni ’70 ed ’80 la sua figura aveva riempito le pagine dei giornali grazie alla sua radicale rimessa in discussione di verità divenute per noi assiomatiche, originando vivaci polemiche. Le Monde nel 1972 scrisse che Illich “era uno di quegli esseri di eccezione il cui pensiero scuote profondamente”. Molti suoi lettori, che a causa del suo lungo silenzio pensavano fosse già morto, rimasero sorpresi dalla notizia della sua scomparsa. Ho conosciuto persone che mi hanno detto di aver provato molta irritazione durante i primi incontri con Illich, a causa di questa sua radicalità che metteva in discussione punti fermi del loro pensiero. Irritazione che si era poi trasformata poco a poco in una profonda gratitudine per la liberazione che ne era derivata. Egli stesso dopo anni di forte impegno pubblico in cui scrisse il suo lavoro più noto “La convivialità”, ed altri come “Nemesi medica”, “Descolarizzare la società”, “Il lavoro ombra”, ecc., aveva deciso di spegnere i riflettori sulla sua figura, passando - per citare le parole dei suoi amici - dalla “fase di Illich” alla “fase di Ivan”, l’amico che continuava la sua ricerca in piccoli cenacoli, lontano dalle polemiche e dai riflettori. Ivan infatti aveva considerato più importante la ricerca disciplinata della verità in piccole comunità di amici piuttosto che il frastuono della celebrità. Nocciolo centrale della sua riflessione di allora era il predominio assunto dagli strumenti nella vita dell’uomo, fossero questi le automobili o le istituzioni come quella scolastica e sanitaria. Invece di essere al servizio dell’uomo, liberandone energie e tempo, questi strumenti avevano finito per renderlo schiavo. Con la sua critica Illich avrebbe voluto riportarli ad essere “conviviali”, ovvero al servizio dell’uomo, e non produttori di nuove schiavitù. Come le sue analisi si siano poi sviluppate, individuando nuove forme di schiavitù ancor più evolute, ce lo dirà dopo Jean Robert. In un necrologio - non mi ricordo scritto da chi - ho letto che il pensiero di Illich era “penetrante come un raggio laser”, capace di cogliere le future ed impreviste conseguenze di scelte compiute oggi. Per questo motivo alcuni capi di governo lo convocavano in occasione di decisioni importanti: George Pompidou talvolta lo invitava a tenere riunioni con i suoi ministri. Questo per sottolineare la straordinarietà della sua figura. Il suo sguardo capace di guardare lontano nel tempo gli consentì di anticipare con chiarezza, in sintonia con altri personaggi, i grandi problemi con cui oggi ci stiamo scontrando: dalla devastazione dell’ambiente - che pure molti avevano iniziato ad intravedere - al più pericoloso, meno valutato ed irreversibile “inquinamento mentale”, derivante dalle nuove tecnologie elettroniche e dalle biotecnologie. L’inquinamento mentale derivante dalle nuove tecnologie è diventato un fenomeno così importante da far scrivere al Direttore del Centro Internazionale di Valutazione della Tecnologia che “diventa sempre più urgente che noi diventiamo eretici rispetto alla religione della scienza e che reinventiamo la nostra tecnologia. Se falliremo in questo ci precluderemo per sempre la riconciliazione con la natura, perché la natura come noi la conosciamo cesserà di esistere”. Il passaggio di Illich da Lucca accese una fiammella. Ivan diceva che l’unica cosa che possiamo fare è essere delle fiammelle accese nel buio di questo mondo, per mantenere accesa la luce. Alcune persone rimasero così colpite dal suo pensiero che iniziarono a vedersi per approfondire le sue teorie. Sono le persone che si riuniscono nel gruppo “Il granchio di Kuchenbuch”, nome bizzarro che deriva da una citazione di Illich riguardo al metodo di lavoro dello storico Kuchenbuch, il quale diceva che per leggere il presente bisogna stare a giusta distanza da esso, e osservarlo da un punto di vista prospettico. Bisogna fare come il granchio che di fronte al pericolo arretra, mantenendo però sempre lo sguardo fisso sull’oggetto della sua paura. Un’altra fiammella, più consistente, è costituita dal gruppo “Puddle”, composto da amici e collaboratori di Ivan. Questo gruppo non solo ricorda il pensiero di Ivan, ma lavora per dipanarlo e comprenderlo in maniera ancor più organica. Dall’incontro di queste due fiammelle è nato questo secondo incontro pubblico sulla figura di Ivan Illich, incontro che è stato preceduto da quattro giorni di lavoro seminariale, dedicati alla riflessione sui temi che sono evidenziati dai titoli delle conferenze in programma durante questi due giorni. A me piace ricordare Ivan come fecondo liberatore del pensiero da verità condizionanti, perché divenute assiomatiche e non più sottoposte a critiche. Mi piace ricordarlo per la sua capacità di indurre a radicali cambiamenti personali di stili di vita. Così al seminario abbiamo avuto fra noi non “intellettuali professionalizzati”, come direbbe l’amico di Illich Gustavo Esteva, ma ricercatori indipendenti venuti da sette paesi diversi, di varia origine culturale e classe sociale. Sono stati con noi un cantastorie siciliano, un pescatore del Lago Trasimeno, un “pastore” di Corfino, un accordatore di pianoforti, un professore di sociologia dell’Università di Mosca, un ex diplomatico iraniano studioso dei problemi della povertà, un professore francese esperto di pensiero economico, ed altri. Dico questo per sottolineare l’atipicità e la grande libertà intellettuale di questa esperienza. Siamo venuti nel ricordo di Illich, perché in un’epoca di profonda svolta culturale, sociale ed economica come quella che stiamo vivendo, abbiamo bisogno di sperimentare scelte creative e radicali, abbiamo bisogno di continuare a confrontarci col suo pensiero, e pensiamo che questa sia un’operazione di grande significato individuale e collettivo. Abbiamo riflettuto sull’inganno dello sviluppo e della globalizzazione (uno dei pallini di Illich che aveva intravisto fin dall’inizio che lo sviluppo sarebbe diventato una nuova forma di colonizzazione), sull’indebita supremazia dell’economia sulla vita di ciascuno di noi, sull’invadenza della tecnoscienza, sulle resistenze alla globalizzazione, sulla possibilità di alternative. Assieme abbiamo concordato che il lavoro di questi giorni non poteva e non voleva avere come obiettivo soluzioni miracolistiche da proporre per risolvere i problemi del nostro tempo, perché siamo convinti che ogni individuo ed ogni comunità debbano compiere in modo autonomo le proprie scelte, tessendo una rete di relazioni di reciproco arricchimento. Non crediamo a nessuna guerra del bene contro il male, convinti che ogni realtà sia impastata di entrambe queste dimensioni. Non abbiamo quindi soluzioni da formulare. Non crediamo in un altro mondo possibile, ma in tanti altri mondi possibili, arricchiti dalla diversità delle culture, delle economie, delle religioni, dei modi di vita; alcuni di questi mondi sono già esistenti e resistenti, malgrado la guerra portata dalla globalizzazione. Altri mondi sono invece da ricostruire ex-novo, con pazienza, umiltà e coerenza. Due parole sul titolo “Politica senza il potere in una società conviviale”. La storia ci insegna che le grandi ideologie, una volta al potere, hanno tradito le speranze suscitate e le generosità consumate. Spesso la lotta per il potere è tale che la strada per raggiungerlo fa dimenticare il perché della sua conquista. Basti pensare agli zapatisti del Chiapas che affermano provocatoriamente “non vogliamo il potere, perché vogliamo cambiare il mondo”, dissacrando così uno dei miti delle lotte antisistema. Ma neppure pretendiamo, come il sottotitolo potrebbe far supporre, di voler resuscitare epoche ormai tramontate, almeno per l’occidente, ovvero quelle della cultura che Illich aveva definito “vernacolare”, contro la quale la globalizzazione sta conducendo una guerra spietata, e che, per inciso, a nostro giudizio si sta concludendo verso un clamoroso insuccesso ed un disastro umano e materiale. Illich non era contro la tecnologia, come qualcuno superficialmente ha pensato, ma era contro la tecnologia disumanizzante e schiavizzante. Noi pensiamo che il nostro paradigma tecnologico debba essere ricostruito su basi nuove, conviviali. Citando le parole di uno dei partecipanti al seminario possiamo dire che “ripensare al vernacolare che ha preceduto la nostra modernità, è stato da noi scelto come un modo per purificare la nostra mente dagli assiomi del presente, come il granchio di Kuchenbuch suggerisce, e predisporci a cooperare alla costruzione di un futuro conviviale”. In questi due giorni di convegno pubblico non esprimeremo nuove verità né soluzioni miracolistiche, ma semplicemente compartiremo le riflessioni che sulla scia del pensiero di Ivan andiamo facendo. Voglio ringraziare il Presidente Tagliasacchi, la Dirigente Rossana Sebastiani e tutto il suo staff. Ringrazio inoltre gli amici che hanno lavorato per preparare il seminario e tutti i presenti. Mi auguro che il legame di Lucca con Ivan sia mantenuto anche dai futuri amministratori della nostra città. LA GLOBALIZZAZIONE: REALTA’ E MITI Rodrigo Rivas Leggendo i titoli di queste giornate, penso che si possa tranquillamente dire che si vola alto, ma si vola anche basso Si vola alto, perché in qualche misura ci proponiamo di raccontare alcune cose non dette, e questo è quello che farò; si vola alto perché ci prefiggiamo di indicare, oltre ai problemi, anche alcuni percorsi per individuare soluzioni. Si vola basso perché comprendiamo che la realtà è ben diversa dalla teoria. Spesso quando ci si pongono alte ambizioni, le persone ci possono chiedere quali sono i titoli che ci autorizzano ad avere queste ambizioni. Ieri venendo a Lucca, sentivo alla radio un programma dove è stata posta a due insegnanti universitari la domanda “la globalizzazione sta correndo dei pericoli?”, facendo riferimento al caso del presunto protezionismo francese in campo energetico, alle OPA, ecc. I due docenti hanno risposto che i rischi corsi dalla globalizzazione sono causati dalla politica, che non gli permette di esprimersi secondo le sue potenzialità, prova ne è, dicevano, l’abrogazione della Direttiva Bolkestein (Direttiva europea sulla deregolamentazione del mercato del lavoro e la privatizzazione dei servizi). In realtà questa direttiva è una delle leggi più “cavernicole” della vulgata neoliberista in tema di flessibilità di lavoro. E mi sono preoccupato pensando alla platea che di solito questi professori hanno. Desidero ora citare i versi di tre cantautori italiani, perché penso che spesso l’arte, la poesia e la musica riescano a raccontare la realtà meglio della politica. I primi versi sono di Enzo Jannacci e sono tratti da “Prete Liprando e il giudizio di Dio”. “Landolfo, cronista del Millecento, ci ha tramandato le "Storie del Comune di Milano" fra cui questa del giudizio di Dio, protagonista prete Liprando. Noi abbiamo cercato di musicarla con un certo impegno, e la dedichiamo a tutti quelli - e sono tanti - che pur essendo testimoni di fatti importantissimi e determinanti dell'avvenire della civiltà, neanche se ne accorgono!” La seconda è di Francesco Guccini ed è tratta dalla canzone “Don Chisciotte”. “Mi vuoi dire, caro Sancho, che dovrei tirarmi indietro perchè il "male" ed il "potere" hanno un aspetto così tetro? Dovrei anche rinunciare ad un po' di dignità, farmi umile e accettare che sia questa la realtà?” L’ultima, ironica, di Francesco De Gregori, è tratta dalla canzone “Buffalo Bill” “Il verde brillante della prateria ricordava in maniera lampante l'esistenza di Dio Del Dio che progetta la frontiera e costruisce la ferrovia”. Mark Twain, che era uno scrittore statunitense, affermava che “Una delle principali differenze tra un gatto e una bugia è che un gatto ha soltanto nove vite”. Quante rondini servono per fare primavera? Secondo un vecchio tango latinoamericano non ne basta una, perché ne servono tante. Dico questo perché il sindaco di un’importante città italiana disse anni fa che la globalizzazione è come la primavera, ugualmente inevitabile. Ed è portatrice di enormi opportunità per tutti. Terminata questa premessa, desidero sviluppare il ragionamento su dieci tesi elementari sulla globalizzazione: 1. A partire dagli anni ’60 gli USA hanno dovuto far fronte ad una grande concorrenza, prima europea, poi giapponese, nata dal successo della loro stessa politica rivolta a sviluppare i mercati dei paesi distrutti dal lungo ciclo di guerre mondiali. Questa concorrenza ha acuito le caratteristiche del ciclo economico e ha portato alla ricomparsa delle crisi cicliche, la prima delle quali è stata quella del 1973-75. Successivamente, la crescita statunitense è stata lenta se confrontata a quella del secondo dopoguerra. La combinazione di crisi cicliche e crescita lenta ha reso indispensabile per gli Stati Uniti ampliare le esportazioni e gli investimenti verso altri paesi e regioni. Queste sono le sole ragioni del processo che solo dopo è stato denominato globalizzazione. Non siamo certo in presenza di un “fenomeno naturale come la primavera in grado di offrire immani opportunità a tutti”. 4. La globalizzazione trova la sua formulazione teorica nel cosiddetto “Consenso di Washington”, che detta le tre parole d’ordine da applicare universalmente: proprietà privata, stato sussidiario, libera circolazione di merci e capitali (ma quest’ultima non si applica agli USA). Per gli Stati Uniti la combinazione tra libero commercio all’estero, protezionismo interno, flessibilità del lavoro e dollaro moneta mondiale, equivale al migliore dei mondi possibili. Gli USA vivono così in una situazione simile a quella di cui aveva goduto l’Inghilterra nell’800. 5. Su questa base gli Stati Uniti hanno riconquistato il dominio sull’economia mondiale, prodotta dalla globalizzazione, e questo costituisce il fondamento dell’egemonia politica espressa dalla Nuova Politica di Sicurezza Nazionale (2002). 4. Contrariamente a quanto avviene con gli imitatori stolti, la ristrutturazione economica degli USA - lo stesso avverrà con la Cina - è realizzata con il forte appoggio dello stato. Il suo dinamismo è intimamente legato all’aumento dei profitti che, fermi dagli anni ’70, ricominciano ad aumentare dalla metà degli anni ‘80 ed accrescono negli anni ‘90. La crescita dei profitti attenua l’effetto delle crisi cicliche negli USA, grazie all’aumento dei profitti spediti in patria dalle multinazionali. 5. L’aumento dei profitti delle aziende statunitensi è favorito da quattro fattori: a. la diminuzione degli interessi netti da parte delle imprese che producono beni e servizi; b. la crescita esponenziale delle istituzioni finanziarie; c. la forte diminuzione delle tasse sui profitti; d. le modifiche avvenute nel processo di accumulazione del capitale (rivoluzione tecnologica). 6. Lo scopo inseguito - l’aumento dei profitti - e la conseguenza che ne deriva - la guerra sociale - non possono essere proclamati pubblicamente. Quindi si trasforma l’economia in una parascienza che si inventa una realtà a suo uso e consumo. I nuovi aruspici trasformano in verità indiscutibili una serie di tesi non dimostrabili. Straparlano di “economia pura”, cercano di matematizzare la loro disciplina per dimostrarne l’esattezza. Ciò che conta è la loro fedeltà ai loro clienti e al potere. 7. Per propiziare questa trasformazione si aggiorna un sistema di credenze che aveva già dato buoni risultati. Le credenze nel mercato, nel PIL (che aumenta con la guerra, con lo tsunami, ecc.), nella TAV, nelle OPA, ecc., rappresentano veri e propri dogmi. Ci dicono che il mercato “sanziona” implicitamente o esplicitamente determinati comportamenti, proprio come facevano i vecchi insegnanti che ci bacchettavano le mani. Si espandono le parole plastiche, si assume il “pensiero unico” e si diffonde la “sindrome TINA” (There Is Not Alternative). Questo fenomeno non si limita solo all’economia, ma contagia l’insieme delle scienze sociali, incidendo pesantemente sul concetto di giustizia e sui diritti. I media sono i nuovi oracoli, la voce degli dei, che trasformano lo stesso concetto di verità: con la globalizzazione, la verità è ciò che tutti dicono. La stragrande maggioranza dei comunicatori segue la norma, non evangelica, “crescete e prostituitevi”. Già negli anni ’60 McLuhan aveva sentenziato: “in un suo saggio sulla poesia Eliot ha scritto che il poeta si serve del significato come un ladro si serve del pezzo di carne che lancia al cane per distrarlo mentre la casa viene svaligiata. I media fanno lo stesso con il contenuto...pensare che i media trasmettono messaggi è come pensare che la funzione dei ladri sia quella di cibare i nostri cani”. Vedendo l’odierno teatrino della politica sul palco dei media, bisogna ricordare questo punto. 8. L’aumento dei profitti provoca sia un’estrema concentrazione della ricchezza, sia un aumento della povertà. Il sistema organizza la scarsità che deriva dalle sue stesse regole, in un mondo che, viceversa, dalla metà dell’800, crolla sotto il peso delle sue ricchezze. Tuttavia il problema fondamentale della politica e dell’economia è proprio quello di organizzare la scarsità. 9. Per realizzare l’aumento dei profitti, servono la fame ed il debito, l’aggressione alla natura e al mondo del lavoro. Non si tratta, quindi, né di eccessi né di errori, ma di politiche volute. 10. Le dimensioni della rapina globale, la finanziarizzazione dell’economia, il restringimento della democrazia in ogni dove, la rinascita e la giustificazione della guerra, indicano anche che ci troviamo in quello che Fernand Braudel ha definito “l’autunno del sistema”, ovvero all’interno di un transito verso qualcos’altro le cui forme sono tutte da definire. La nostra crisi è doppia: ciclica e strutturale. La prima nasce da movimenti “naturali” del sistema capitalistico. La seconda mette invece in discussione alcuni elementi costitutivi del capitalismo. Infatti l’aggregato del monte salariale a livello complessivo, i costi ambientali e il sistema delle tasse restringono i profitti, mettendone in crisi l’unica sua anima. La crisi rende più necessaria che mai la politica, che invece è sostanzialmente latitante per quanto riguarda il versante riformista. L’enormità dei problemi che ci troviamo di fronte sembra a volte insuperabile. Tuttavia, anche questo va tenuto presente, la storia non è mai decisa dall’infallibile distendersi dalle leggi dell’economia, ma è sempre modellata dalla reazione delle forze sociali e dalla logica del capitale. Quindi tutte le strade sono aperte, anche se non sappiamo dove portano. Come scrisse il poeta Antonio Machado ai primi del 900, “Viandante, il sentiero sono le tue orme, e niente più; viandante non c’è sentiero, il sentiero si fa nell’andare. Nell’andare si fa il sentiero, e nel volgere lo sguardo indietro, si vede il sentiero che mai si tornerà a calpestare. Viandante, non c’è sentiero. Solo scie nel mare”. Desidero ora sviluppare ed approfondire qualche specifica tematica. Partiamo dalla libera circolazione dei capitali e delle merci. Senza sussidi, solo nel 2004, la produzione agricola statunitense sarebbe calata del 15% e le sue esportazioni sarebbero scomparse. Gli USA sovvenzionano per il 99% il valore totale della produzione di riso, danneggiando così i produttori di riso di molti paesi e coloro che lo acquistano. L’Unione Europea fa lo stesso con i succhi di frutta, con il latte, con i pomodori, ecc. Il risultato è che le sovvenzioni dell’UE corrispondono ad 1/4 del valore della merce prodotta, mentre quelle degli USA ad 1/5. Senza queste sovvenzioni ci sarebbe possibilità di concorrenza. Qualcuno potrebbe obbiettare che gli agricoltori ne beneficiano…è vero, ma ci sono alcuni problemi. Dal 1960 il debito dei coltivatori europei raddoppia ogni 5 anni, quindi vivono in pratica per pagare il debito derivante dalla meccanizzazione. Tutto questo sistema grava sui contribuenti. Capitolo multinazionali. La FAO ha affermato che "un pugno di aziende transnazionali, verticalmente integrate, ha guadagnato un controllo crescente sul commercio, elaborazione e vendita mondiale di alimenti… Nel 2004 le 30 maggiori catene di supermercati accumulano circa un terzo delle vendite di alimenti sul pianeta…”. Più in generale, negli ultimi venti anni le imprese multinazionali alimentari che dirigono le grandi catene di supermercati nel mondo, hanno avuto una crescita del 270%. Distratti, forse non ce ne siamo accorti quando, nel 1992, il presidente degli Stati Uniti aveva pronunciato questa frase: “Il successo di Wal-Mart è il successo dell’America”. Ormai la multinazionale della distribuzione è diventata la più grande impresa del mondo. E la pratica del dumping sociale, che le è valsa una multa di 172 milioni di dollari per aver rifiutato la pausa pranzo ai propri lavoratori, contamina l’economia occidentale. Nel 2001 le entrate di Wal-Mart hanno superato il PIL della maggior parte dei paesi del mondo. Per avere successo paga i lavoratori il 20-30% meno rispetto ai concorrenti del settore ed è molto più avara quando si tratta di determinare le protezioni sociali (malattia, pensione ecc.). Come succede sovente con dei padroni liberisti, poi tocca allo stato o alla carità far fronte ai danni. Ad esempio, nel 2004 un rapporto del Congresso statunitense ha stimato che ogni dipendente di Wal-Mart costava 2.103 dollari l’anno alla collettività, sotto forma di complementi d’assistenza vari (sanità, figli, casa, ecc.). Infatti, meno del 45% dei dipendenti può pagare l’assicurazione medica che propone loro l’azienda; il 46% dei loro figli non ha nessuna protezione sociale, oppure è coperto dal programma medico riservato agli indigenti (Medicaid). Jesse Jackson, candidato democratico alla Casa Bianca nell’84 e nell’88, ha recentemente paragonato i reparti della multinazionale a delle piantagioni, perché gli ricordano le condizioni di lavoro dei campi di cotone del sud. Dove investono le ingenti somme di denaro guadagnate le multinazionali? Le reinvestono soprattutto nel settore petrolifero, perché è quello che oggi garantisce i maggiori tassi di profitto. Ad esempio si vedrà che i loro colossali profitti sono impegnati soprattutto in megafusioni o in programmi di riacquisto di azioni. Nel 2004 la Exxon-Mobil ha speso 9,95 miliardi di dollari per riacquistare le sue azioni, la Chevron-Texaco 2,5 miliardi. Successivamente la stessa Chevron-Texaco - 13,3 miliardi di dollari di profitti nel 2004 - ha acquistato per 16,4 miliardi di dollari l’Unocal Corp. (4 aprile 2005), un’impresa con sede in California che possiede giacimenti in Asia (Indonesia, Thailandia, Birmania), battendo la concorrenza della cinese CNOOC e dell’italiana ENI, mentre la Conoco-Phillips ha annunciato a marzo 2005 un investimento di 2 miliardi di dollari nella Lukoil, il gigante energetico russo. Questi movimenti assorbono i soldi che potrebbero essere impiegati nella ricerca di nuovi giacimenti e di nuove tecnologie di estrazione. Possiamo quindi comprendere che queste grandi multinazionali speculano, promuovono giochi finanziari. Questo fenomeno non accadde solo nel nord del mondo. Nel 2005 gli imprenditori messicani hanno spedito quasi 5,2 miliardi di dollari all’estero per acquistare o ampliare la loro partecipazione in aziende estere. In Messico durante i cinque anni di governo del Presidente Fox, la cifra destinata a questi scopi ha raggiunto i 16 miliardi di dollari. Ma le multinazionali creano lavoro? Secondo la rivista statunitense “Fortune” - non sospettabile di estremismo - nell’anno 2004, le 500 maggiori multinazionali creavano il 57% del PIL mondiale ed occupavano il 3,4% dei lavoratori. Non creano quindi lavoro. Portano soldi nei paesi poveri? In America Latina nel 1996, 78 delle 200 maggiori aziende esportatrici appartenevano ad una multinazionale esterna alla regione. Nel 2000, erano diventate 98 e controllavano il 66% delle esportazioni dell’area, con un aumento di quasi il 14% annuo. Le multinazionali pensano solo alla produzione? No, in Messico e in Argentina arrivano a controllare rispettivamente il 76,5% ed il 54,5% degli attivi statali delle banche. In Bolivia controllano l’85% dei fondi pensioni, in Perù si accontentano del 78,5%, in Argentina arrivano al 73,6% ed in Messico al 66,6%. Questi fondi vengono portati in occidente, per questo è possibile per noi vivere ad un tale livello di vita. Vi cito un dato: negli ultimi 20 anni l’America Latina ha esportato annualmente verso il nord del mondo 60 miliardi di dollari, cifra equivalente al Piano Marshall. Per questo si emigra. Nel febbraio 2006 il Ministero degli Interni messicano ha reso noti i dati sulla popolazione residente in Messico alla fine del 2005. La stima che si era fatta fino a quel momento, calcolata in base al tasso di natalità e di speranza di vita, parlava di 106,4 milioni di abitanti. Sono risultati, invece, 103,1 milioni, quasi un 3% in meno. Potrebbe essere una buona notizia, se non fosse che l’unica causa della scomparsa di oltre 3 milioni di persone risiede nell’incremento dell’emigrazione per motivi puramente economico-sociali, di oltre 3,3 milioni di persone negli ultimi 5 anni verso gli Stati Uniti. Siamo quindi in presenza di una vera e propria “fuga di cervelli”. Sempre in Messico tra il 2000 e il 2004 i soldi spediti dagli emigrati hanno coperto il 101% del servizio del debito estero. Ma, se i ricchi ed i loro governi si indebitano e si arricchiscono, i disgraziati devono pagare per tutti, anche se non ne traggono alcun beneficio. Ciò non succede perché nel Messico scarseggiano i soldi…nel novembre 2005 la rivista “Fortune” ha infatti informato che dei 25 individui più ricchi dell’America Latina, ben 11 sono messicani. Capitolo armi. Nel 2004 si è speso in armi 1000 miliardi, e stiamo parlando di costi vivi, senza considerare i morti, le pensioni per le vedove, ecc. Questi 1000 miliardi potrebbero risolvere i problemi legati all’alimentazione ed all’istruzione dei bambini dei paesi poveri. A questo punto desidero citare John Maynard Keynes, un economista liberale: “Nel secolo XIX° si sviluppò fino a un livello stravagante il criterio che, per brevità, possiamo chiamare del tornaconto finanziario, come test per valutare l’opportunità di intraprendere un’iniziativa sia di natura privata che pubblica. Ogni manifestazione vitale fu trasformata in una sorta di parodia dell’incubo del contabile. Invece di utilizzare l’immenso incremento delle risorse materiali e tecniche per costruire la città delle meraviglie, si crearono i bassifondi e si pensò che fosse giusto e ragionevole farlo perché questi, secondo il criterio dell’impresa privata, «fruttavano», mentre la città delle meraviglie sarebbe stata, si pensava, un atto di follia che avrebbe, nell’imbecille linguaggio di stile finanziario, ipotecato il futuro”. Basterebbe questa citazione per capire che i nostri neoliberali vivono in un altro emisfero rispetto al pensiero economico liberale classico. Dal nostro concetto di sviluppo sono scomparsi i concetti di giustizia, di uguaglianza e di parità. Per i ricchi c’è la giustizia, per i poveri ci sono, quando va bene, i diritti umani. Gli economisti solitamente non hanno mai ragione. Se li ascoltate, iniziano sempre i loro ragionamenti dicendo “è molto difficile fare previsioni…”. Il fatto è che spesso gli economisti sono consapevoli di iniettare fiducia, una fiducia però senza fondamenti. Capitolo disuguaglianze. Esiste un indice per misurarle chiamato “Coefficiente di Gini”. Va da 0 a 1. Un coefficiente di Gini con valori compresi tra 0,50 e 0,70 indica una distribuzione del reddito molto ineguale. Un coefficiente di Gini con valori compresi tra 0,20 e 0,35 indica una distribuzione del reddito relativamente equa. In termini tecnici, non si è mai vista nessuna società dove il coefficiente di Gini fosse uguale a 0, valore che sta ad indicare che ogni famiglia riceve esattamente lo stesso ammontare di reddito di tutte le altre. Oggi stiamo andando verso una situazione nella quale una persona avrà quasi tutto il reddito che possiede un paese. Il Rapporto ONU sullo Sviluppo Umano del 1999 ci informava che i primi tre miliardari (in dollari) nella classifica della ricchezza mondiale, possedevano ricchezze maggiori della somma dei PIL di tutti i paesi meno sviluppati con i loro 600 milioni di abitanti. Poi la situazione è peggiorata: nel Rapporto 2002, l’ONU scrive che “Il livello di disuguaglianza a livello mondiale è grottesco”; nel 2006 racconta che sulla terra abitano 6,5 miliardi di persone, ma solo un miliardo di queste - il 15,4% circa della popolazione complessiva, sostanzialmente gli abitanti dei paesi ricchi - detiene l’80% della ricchezza mondiale. Nel periodo 1950-1990, preso in esame dal rapporto ONU, il reddito dei paesi ricchi si è quasi triplicato, quello dei paesi poveri è aumentato del 25,94%. Tra i 73 paesi che dispongono di statistiche affidabili, la disuguaglianza è aumentata in 46, si è mantenuta stabile in 16, si è ridotta in 9. Un indice può derivare dal confronto tra i salari settimanali dei lavoratori dipendenti e le retribuzioni dei loro Chief Executive Officers (CEOs). Tra il 1973 e il 1998 a livello mondiale i salari dei primi risultano diminuiti del 12% in termini reali; quelli dei secondi risultano invece aumentati del 535% negli anni ’90. In questo modo, il rapporto tra lo stipendio degli alti dirigenti e il salario medio dei lavoratori dipendenti è salito da 42 a 1 (1980) a 475 a 1 (1999) ed infine a 531 a 1 (2000). Basta tener presente questo dato per capire la vacuità di un dibattito che gira tutto attorno a grandi indicatori come il PIL. Perché se il rapporto salariale tra alti dirigenti e lavoratori è di 531 a 1, e la distanza continua ad aumentare, la vera posta in palio è sul come si distribuiranno i benefici della crescita. Piccola parentesi italiana sui redditi. Bruno Vespa, è stato pagato dalla RAI 1.193.800 di Euro tra il settembre 2004 e l’agosto 2005. Fanno esattamente 159.472, 5 euro mensili. Il suo contratto stabilisce un compenso di 1.187.800 euro per 100 puntate di Porta a Porta. Gli altri 726.000 sono extra. Tutto questo è avvenuto in un paese nel quale i metalmeccanici hanno rinnovato il loro contratto con due anni di ritardo ottenendo un aumento di soli 100 Euro. Piccola parentesi internazionale. Gli Stati Uniti hanno un reddito pro-capite di 32.339 dollari, contro i 267 dollari dei paesi più poveri (rapporto di 600 a uno). Piccola parentesi europea. Oggi l’Occidente, che si definisce la culla della civiltà, dimentica che nel 1800 Inghilterra e Francia - i due paesi colonialisti per eccellenza - erano gli unici che avevano un reddito superiore a India e Cina. Se non siamo in grado di capire questo processo gigantesco (aumento del numero di poveri, delle disuguaglianze, ecc.), non riusciremo a capire questo mondo. Dobbiamo comprendere che la produzione non deve essere solo al servizio del profitto. La realtà è che per aumentare i profitti si è deciso di aumentare la povertà. Questa è la realtà, tutto il resto sono miti. Non è vero, ad esempio, che l’Africa è povera perché è fuori dal commercio internazionale. Possiamo quindi capire che tutto ciò che ci dicono i mass media non è vero: è falso, ad esempio, che all’aumentare del PIL diminuisca la povertà. Il “volar alto” significa “volare basso”, perché volando basso possiamo vedere le disuguaglianze reali. Tutto il resto è poesia, e non nel senso della poesia vera, perché il poeta deve essere realistico ma non si deve far rinchiudere e limitare dalla realtà contingente. RIPENSANDO IL VERNACOLARE Majid Rahnema Oggi mi è stato chiesto di parlare delle società vernacolari. Vorrei cominciare col dare un significato al termine, per coloro che non hanno partecipato alle discussioni precedenti. Mi risulta che fu Ivan Illich il primo a dare all’aggettivo vernacolare il senso sociologico che oggi gli attribuiamo. La parola indica l’insieme delle attività autonome, indipendenti dai rapporti commerciali, con le quali la gente soddisfa il proprio fabbisogno giornaliero. In latino, precisa Illich, vernaculum designava tutto quello che era allevato, tessuto, coltivato, confezionato in casa, ed era contrapposto a tutto quello che ci si procurava con lo scambio. A questo titolo possiamo affermare che la lingua vernacolare è formata da parole e sfumature sviluppate nel proprio territorio, da chi si esprime in contrapposizione a quello che viene introdotto dall’esterno. Questo modo di vivere, originario degli spazi vernacolari, costituisce l’essenza di quello che noi chiamiamo povertà conviviale, la quale, attraverso i millenni, ha permesso all’immensa maggioranza degli esseri umani di esorcizzare la miseria. Al giorno d’oggi milioni di esseri umani vivono ancora in comunità dove prevale la povertà conviviale, ma sono dilaniati da privazioni sempre più intollerabili e dalle illusioni introdotte dalla società di consumo che nutre in loro la speranza costante di sfuggire un giorno alla miseria e alla indigenza. I più giovani tra loro, attirati dalle promesse del progresso e della modernizzazione, sembrano allontanarsi sempre più da forme di vita tradizionali. Per loro sfortuna entrano così in una transizione a questo punto inevitabile: sospesi tra una situazione familiare in corso di disgregazione ed un’altra futura possibilità che invece promette meraviglie, essi non riescono a dare il giusto valore alla ricchezza del loro passato ed alla loro cultura. Adesso vorrei darvi qualche esempio vivente di queste società cosiddette vernacolari. Vorrei cominciare con una canzone, una filastrocca per bambini che tutti cantano, molto conosciuta e molto popolare in tutte le regioni dell’Iran: “Corro, corro fino in cima della montagna, vedo due donne, una mi dà dell’acqua, l’altra un pezzo di pane, mangio il pane e do l’acqua alla terra, la terra mi dà dell’erba, do l’erba al capretto, il capretto mi dà il suo escremento, do l’escremento al fornaio, il fornaio mi dà del fuoco, do il fuoco al fabbro, il fabbro mi dà delle forbici, do le forbici al sarto, il sarto mi dà un ‘abâ - l’ ‘abâ è un indumento portato dai mullah - do l’ ‘abâ al mullah, il mullah mi dà un libro, do il libro a papà, papà mi dà dei datteri, mangio un dattero, ed è amaro, ne mangio un’altro ed è dolce”. Come potete vedere, questo spiega esattamente quali sono gli invisibili rapporti in una società vernacolare, ove tutto è collegato e proporzionato alle necessità individuali, e ciascuno, senza fare nulla di particolare, ottiene qualcosa dalla comunità. Vorrei adesso portarvi in Brasile con un testo scritto da Dionito de Souza del Consiglio degli Indigeni di Roraima. “Presso i popoli indigeni non ci sono ricchi e non ci sono neanche poveri, perché i beni sono collettivi. Nelle società dei bianchi, al contrario, i beni sono suddivisi in tal modo che per forza di cose si creano i ricchi e i poveri. Tra le popolazioni indigene l’economia di sussistenza produce quello che è necessario per vivere; nella società dei bianchi invece non ci si accontenta di produrre quello di cui si ha bisogno ma si produce sempre di più per accumulare i beni. Tra le popolazioni indigene c’è l’abitudine di cedere all’altro, mentre nella società dei bianchi vige la legge della concorrenza. Il ricco non sa aiutare. Nelle popolazioni indigene il tempo libero è un momento comune: si crea e si gioca insieme. Nella società dei bianchi il tempo libero viene commercializzato, per divertirsi bisogna pagare altre persone. Tra le popolazioni indigene, il lavoro può anche essere un piacere o uno scambio, invece nella società dei bianchi, ogni cosa è isolata, settorializzata.” Adesso andiamo a Calcutta, in India, con un testo preso da un libro che molti conosceranno; è un romanzo e si intitola “La Città della Gioia”. “Un giorno che mi trovavo a Calcutta, un conduttore di risciò mi ha portato in uno dei quartieri più poveri e sovrappopolati di questa città allucinante ove trecentomila senza tetto vivono in strada. Il quartiere si chiama Anand Nagar, la città della gioia. Credo sia stato lo shock più grande della mia vita perché in questo inferno ho trovato più eroismo, più amore, più condivisione, più buon umore, più gioia ed infine più felicità che in molte delle nostre ricche città d’occidente. Incontro gente che non ha nulla e che invece ha tutto. In tanta bruttezza, grigiore, fango e merda, scopro più cose belle e speranza che non in molti dei nostri paradisi. Scopro soprattutto che questa città disumana ha il magico potere di fabbricare santi”. Adesso vorrei andare in Perù con un testo derivante da uno studio eseguito e pubblicato da ApffelMarglin e Pratec. Così è descritto il senso di una comunità andina da uno dei suoi rappresentanti: “Il nostro sentimento comunitario è radicato nella consapevolezza che è solamente appartenendo alla comunità che possiamo essere quello che siamo, sentire quello che sentiamo, gioire di quello di cui gioiamo; la solitudine non esiste in un tale mondo, qui ci conosciamo tutti, ci accompagniamo l’uno con l’altro, ci vediamo ogni giorno; qui la vita si svolge nella simbiosi della comunità, da questo sorge il sentimento che siamo tutti incompleti, poiché sappiamo bene che la nostra esistenza è possibile solamente all’interno di questo flusso energetico della vita che è il mondo comunitario andino”. Ed infine vorrei dire una parola sull’Egitto leggendovi una testimonianza di Madre Emmanuelle, che probabilmente conoscete già. E’ una suora francese. Lei dice: “I poveri che ho conosciuto al Cairo si nutrono in modo certamente frugale ma sostanzioso - si riferisce all’anno 2001, quindi un passato molto recente - hanno vestiti semplici ma sufficienti, possiedono una capanna dove ripararsi in famiglia. Ci vivono felici perché trovano la sorgente di appagamento nel gruppo al quale appartengono, si sentono sicuri poiché sono membri di un corpo vivente che non può disaggregarsi. E’ bello esser uniti nella vita e nella morte […] Nella bidonville si acquista valore attraverso la nudità delle cose, e nella fioritura dell’incontro. Qui il tempo non scorre nel vuoto, si carica di un peso di umanità, ognuno è semplicemente se stesso, ha un rapporto familiare con il prossimo in quanto, nella sua nudità, resta uomo. Tuttavia un fenomeno mi stupisce – continua Madre Emmanuelle – quando sono nella bidonville si direbbe che cambio pelle, perdo ogni traccia del mio ego, non ho più l’avere ma l’essere, esisto come membro di una parte dell’umanità con la quale respiro, mangio e dormo, penso e parlo. Sono povera di beni e ricca di vitalità condivisa e gioiosa, non vivo più al mio ritmo individuale necessariamente limitato e stretto, ma al ritmo dell’umanità dell’uomo”. Credo che potrei andare avanti così ma penso che ognuno di voi riesca a capire ciò che succede nel mondo reale di questi quattro miliardi di persone che la banca chiama poveri perché hanno solo uno o due dollari al massimo al giorno. Adesso vorrei chiarire alcuni concetti che mi stanno molto a cuore, ovvero la differenza tra la povertà – povertà conviviale – e la miseria. Credo che la differenza non sia solo terminologica, ma si riscontri nella realtà della vita quotidiana. E’ molto importante che questo tipo di povertà, povertà conviviale, non sia confusa con la miseria, con la desolazione. Oggi questa confusione è una sorta di nuovo strumento per combattere la povertà conviviale mediante la creazione di illusioni che in realtà gettano le persone in uno stato di miseria senza precedenti. Credo sia importante vedere e soprattutto comprendere quali sono le differenze reali tra questo modo conviviale di vivere (che poi è stato il modo di vivere di milioni di persone prima dell’avvento dell’economia di mercato e della tecnologia) e quello attuale. Ivan Illich ci illustra i cinquecento anni di guerra contro questo modo di vivere conviviale, ci racconta come la guerra contro l’economia di sussistenza sia riuscita ad eleggere il denaro ad unico “sovrano” in contrapposizione con la tradizionale stabilità ed il longevo equilibrio che permettevano di godere di quel minimo davvero necessario per il vivere quotidiano. Ancora Ivan ci dice che il mito del mercato è riuscito a convincere la maggior parte delle persone che il denaro poteva essere un modo migliore per assicurarsi il fabbisogno, e che il letto di povertà che fungeva da sostegno ha cominciato ad indebolirsi sempre di più e a gettare i poveri nella miseria. “Rubando” una parola a Spinoza potremmo definire la povertà come potentia, ovvero come la fonte basilare del potere che ciascuno ha di agire e vivere; ma questa potentia viene attaccata, viene paralizzata ed infine distrutta. Questa è la stessa immagine del letto di povertà o amaca di povertà che cede. Quando si arriva a distruggere il centro della vita di ogni individuo, e facciamo sì che gli sia impossibile preservare il suo sistema immunitario, allora le persone cominciano semplicemente a sentire di non essere più in grado di provvedere al proprio fabbisogno, come se un uomo venisse buttato in mare senza saper nuotare…ed in questo caso l’unico modo per salvarlo è gettargli un salvagente. Attualmente l’imperativo dell’economia moderna è che, se vogliamo salvare questi quattro miliardi di persone che posseggono meno di due dollari al giorno, dobbiamo produrre di più. E’ la cosiddetta “sindrome della torta”: perché se vogliamo che tutti abbiano una fetta di torta, questa deve essere più grande, altrimenti non ne avremmo a sufficienza. In quest’ottica è quindi necessario massimizzare la produzione. In realtà l’economia si comporta come un Giano bifronte. Naturalmente è vero che l’economia mondiale ha compiuto meravigliosi progressi in termini di pura produttività, dato che quello che viene prodotto adesso potrebbe nutrire tra i nove ed i dodici miliardi di persone, il che equivale a quasi il doppio della popolazione mondiale. Nonostante questo, si dimentica che - man mano che questa torta diventa sempre più grande per soddisfare il fabbisogno delle persone che la vogliono mangiare - essa viene prodotta a danno dei milioni di piccole torte che la gente produceva per se stessa e delle torte prodotte localmente con i mezzi che queste persone possedevano. Oggi queste persone, a causa della produzione della maxi-torta, sono private dei loro mezzi per cucinare le loro piccole torte. Questa è la tragedia, una tragedia che oggi viene accantonata perché siamo affascinati dal concetto di “produrre di più”, che ormai ci sembra ormai un fatto normale. Ma gli studiosi di questa materia sanno che, per esempio, durante gli anni ottanta, in Somalia e nell’Egitto meridionale, milioni di persone stavano veramente soffrendo e anche morendo di fame. Nonostante questo i paesi producevano cibi per gli animali domestici occidentali. L’intero sistema è talmente perverso che non va a soddisfare il fabbisogno della gente, di quelle persone che hanno bisogno del cibo più di chiunque altro, ma va a soddisfare i bisogni fabbricati dalla nuova economia. So che i miei amici hanno molte altre cose da dire su questo tema, quindi arrivo alla conclusione. Dal mio punto di vista le risposte al problema della cosiddetta povertà - che io definirei piuttosto produzione di miseria e scarsità - non si trovano nel rafforzare la macchina che ha prodotto tale desolazione, ma forse in un nuovo tipo di sforzo individuale e collettivo mirato ad aiutare tutti quanti. E dicendo “tutti quanti” intendo ognuno di noi qui presente, che senza saperlo, direttamente o indirettamente, partecipa alla produzione di questa scarsità fabbricata. La strada per ricreare nuove, conviviali e semplici forme di vita basate su ricchezze definite eticamente sarà sicuramente lunga e difficile da trovare. Credo che ci saranno molte persone di buona volontà che vorranno affrontare questa sfida in un modo completamente nuovo, con altri mezzi: non attraverso i vecchi strumenti per impadronirsi del potere, non aumentando il potere con cui imporsi alle persone, non usando il potere dei mezzi di distruzione come armamenti e simili, ma cambiando i paradigmi culturali che oggi dominano le nostre società. L’intervento non è stato rivisto dal relatore LA SOCIETA’ AUTONOMA E CONVIVIALE E LA DECRESCITA Serge Latouche Ho scelto questo titolo in omaggio ad Ivan Illich, ma anche a Cornelius Castoriadis - grande pensatore greco-francese - e a Raimon Panikkar, teologo catalano indiano. In un bell’articolo uscito al momento della morte di Ivan su “Le Monde”, intitolato “Ivan Illich: la buona notizia”, Jean-Pierre Dupuis, un suo discepolo, scriveva che c’è una buona notizia, perchè la rinuncia al nostro modello di vita non è affatto la rinuncia a qualcosa di intrinsecamente buono. Dobbiamo fare come quando ci asteniamo dal mangiare una pietanza, continua Dupuis, per evitare i rischi che questa potrebbe comportare. Di fatto quella pietanza è pessima, quindi noi staremmo meglio se rinunciassimo a mangiarla. Dobbiamo vivere diversamente per vivere meglio. Illich non ha mai usato la parola “decrescita” in maniera esplicita, tuttavia durante un convegno dal titolo “Disfare lo sviluppo, rifare il mondo” - tenutosi a Parigi presso la sede dell’UNESCO nel marzo 2002 citò implicitamente questo concetto. Jean-Pierre Dupuis in un suo articolo ricordava che già negli anni ’70 Illich affermava che la nostra crescita non era sostenibile. Voglio ora parlarvi della “Parabola della lumaca” di Illich, parabola che riassume il concetto della decrescita. La lumaca costruisce la delicata architettura della sua conchiglia aggiungendo l’una dopo l’altra, spirali sempre più allargate. Poi si ferma e mediante alcune operazione rimpicciolisce la sua conchiglia. La ragione è che un’unica spirale ancora più allargata darebbe alla conchiglia una dimensione 16 volte più grande, ma non contribuirebbe a migliorare il suo benessere. Questa grossa conchiglia sovraccaricherebbe l’animale, che sarebbe costretto ad aumentare la sua produttività solo per rimediare alle difficoltà create dall’aumento di peso, al di là dei limiti fissati dalle sue finalità. Oltrepassato questo limite, i problemi legati alla crescita spropositata si moltiplicano secondo una progressione geometrica, mentre la capacità biologica della lumaca non può seguire una progressione geometrica. Questo “divorzio” della lumaca dalla ragione geometrica, ci mostra la strada per pensare ad una società della decrescita serena e conviviale. Il progetto di costruzione di una società autonoma incontra paradossalmente un largo consenso anche se i suoi fautori si schierano sotto diverse bandiere: decrescita, antiproduttivismo, sviluppo riqualificato, sviluppo sostenibile, ecc. Lo slogan antiproduttivista coniato dai verdi corrisponde esattamente a ciò che gli “obiettori della crescita” intendono per decrescita. Di fatto l’accordo sui valori resi auspicabili dalla necessaria rivalutazione va ben oltre i fautori della decrescita, visto che alcuni sostenitori dello sviluppo sostenibile o alternativo avanzano proposte similari. Ad esempio le misure di autolimitazione preconizzate già nel 1975 sono le stesse di quelle di alcuni sostenitori attuali della crescita, come limitare il consumo di carne, contingentare il consumo di petrolio, utilizzare i fabbricati in modo più economico, produrre beni di consumo più durevoli, sopprimere l’uso delle auto private, ecc. Tutti concordano sulla necessità di una forte riduzione del fabbisogno ecologico e sottoscriverebbero volentieri quanto era scritto nel rapporto del Club di Roma del 1970, che, riecheggiando ciò che diceva John Stuart Mill nell’800, sosteneva che tutte le attività umane che non conducono ad un consumo irragionevole di materiali insostituibili o che non degradano irreversibilmente l’ambiente potrebbero svilupparsi all’infinito. In particolare le attività da molti ritenute tra le più auspicabili come educazione, arte, religione, ricerca fondamentale, sport e relazioni umane potrebbero diventare fiorenti. Andiamo oltre. Oggi chi si schiera contro la salvaguardia del pianeta e contro la tutela ambientale? Chi preconizza la deregolamentazione climatica e la distruzione dello strato di ozono? Ci sono addirittura dirigenti di aziende, quadri superiori e responsabili economici favorevoli ad un radicale cambiamento di linea politica per evitare crisi ecologiche e sociali. Il problema è che Bush e Berlusconi, passando da Chirac, Blair e Prodi, pensano che la crescita sia utile al mondo attuale. Occorre quindi individuare con maggiore precisione gli avversari del programma politico della decrescita, bisogna definire gli ostacoli che si oppongono alla sua attuazione, è necessario costruire la forma politica di una società ecocompatibile. Citando Lenin, potremmo dire che bisogna individuare i “nemici del popolo”. Oggi dare un volto all’avversario è molto problematico, perché le entità economiche come le società multinazionali che detengono il potere, sono, per loro stessa natura, anonime. La manipolazione della pubblicità è molto più insidiosa della propaganda politica. In queste condizioni, come è possibile affrontare politicamente “la megamacchina”, ovvero il nemico senza volto? La risposta scontata dell’estrema sinistra è che la fonte di tutti i mali è il capitalismo, quindi dobbiamo uscire da questo sistema, altrimenti non saranno possibili miglioramenti. Ma noi non dobbiamo cadere in dogmatismi che ci impedirebbero di vedere e valutare in maniera razionale gli ostacoli che si pongono davanti a noi. Il Wuppertal Institute di Wolfgang Sachs e il World Watch si sono adoperati a proporre “giochi” tra natura e capitalismo dove tutti vincono (in inglese win win strategies). La più conosciuta di queste strategie riguarda il risparmio energetico, che prevede di diminuire il consumo di energia del 25% senza per questo abbassare il livello di vita. Tasse, norme, incentivi e sovvenzioni potrebbero rendere attrattivi i comportamenti virtuosi ed evitare ingenti sperperi. Ad esempio in Germania sono stati sperimentati con esiti positivi vari sistemi di valorizzazione degli immobili, il cui valore viene calcolato non tanto con i parametri tradizionali, quanto sull’efficacia energetica delle costruzioni. Per una vasta serie di beni - fotocopiatrici, automobili, ecc. - il noleggio potrebbe sostituirsi alla proprietà ed evitare la corsa sfrenata alla nuova produzione, agevolando così un riciclaggio permanente. Comunque nulla prova che così facendo si riuscirebbe ad evitare il cosiddetto “effetto rimbalzo”, ovvero l’aumento del consumo della materia. Un capitalismo ecocompatibile mi sembra teoricamente concepibile, ma irrealistico sul piano pratico. Infatti esso implicherebbe una forte regolamentazione, fosse solo per imporre la riduzione del fabbisogno ecologico. Dominato da forti società transnazionali, il capitalismo non prenderà autonomamente la via virtuosa dell’ecocapitalismo; non rinuncerà alla rapina in assenza di vincoli forti , perché l’ossessione della massimizzazione del profitto non è controllabile. Se qualche istituzione avesse questo potere di regolamentazione, avrebbe un potere tout court, e potrebbe ridefinire le regole del gioco sociale, rifondando la società. Certamente possiamo augurarci una certa limitazione del potere ad opera del potere stesso, come è accaduto nel periodo delle regolamentazioni keynesiane, fordiste e socialdemocratiche. La lotta di classe oggi sembra bloccata, il problema è che il capitale ne è uscito vincitore, arraffando tutta la posta in gioco. Abbiamo assistito impotenti e forse indifferenti agli ultimi giorni della classe operaia occidentale ed oggi stiamo assistendo alla mercificazione del mondo. Ma dobbiamo reagire, perché il capitalismo generalizzato non può non distruggere il pianeta, così come distrugge la società. Questo avviene perché le basi immaginarie della società di mercato poggiano sul gigantismo, sulla dominazione senza freni e sulla ragione geometrica. Dunque una società della decrescita non può essere concepita se non si esce dal capitalismo. La formula “uscita del capitalismo” si riferisce ad una evoluzione storica tutt’altro che semplice, perchè l’eliminazione dei capitalisti, il divieto della proprietà privata degli strumenti di produzione, l’abolizione del rapporto salariale o del denaro, getterebbero la società nel caos ed in preda ad un terrorismo massiccio che tuttavia non basterebbe a distruggere l’immaginario mercantilista. Sfuggire alla crescita non significa quindi rinunciare a tutte le istituzioni sociali che l’economia ha portato con sé (moneta, mercati, ecc.), ma a reimpostarli secondo un’altra logica. Che fare allora? Riforma o rivoluzione? Alcune misure semplici, addirittura apparentemente ovvie, possono dare avvio al circolo virtuoso della decrescita. Sarebbe sufficiente un programma riformista di transizione. Provo ad elencare alcuni punti: 1. pensare ad un fabbisogno ecologico uguale o inferiore alla superficie del pianeta. Questo permetterebbe a tutti di sopravvivere, tornando ad una produzione materiale sui livelli di quella degli anni ’60-’70; 2. internalizzare i costi del trasporto; 3. trasformare i guadagni di produttività in riduzioni del tempo di lavoro e crescita dell’occupazione; 4. restaurare l’agricoltura contadina; 5. stimolare la produzione di beni relazionali; 6. ridurre lo spreco di energia; 7. penalizzare fortemente le spese di pubblicità; 8. decretare una moratoria sull’innovazione tecnologica, orientando la ricerca scientifica e tecnica in funzione delle nuove aspirazioni; Questo ultimo punto riprende quando detto da Cornelius Castoriadis, che si chiedeva come tracciare un limite. Per la prima volta infatti - secondo Castoriadis - in una società non religiosa è stata affrontato il tema del controllo dell’espansione del sapere stesso. Ma come farlo senza una dittatura sugli spiriti liberi? E’ possibile far questo, secondo Castoriadis, seguendo alcune tappe: 1. “non vogliamo - dice Castoriadis – un’espansione illimitata ed insensata della produzione. Vogliamo un’economia che sia un mezzo e non il fine della vita umana”. 2. “Vogliamo un’espansione libera del sapere, ma un’espansione ragionevole, non razionale”. Ho fatto anch’io un sogno, ho sognato di presentarmi alle prossime elezioni presidenziali in Francia. E presentavo un programma, sviluppato in nove punti. Ma poi ho sognato che sarei stato assassinato dopo una settimana…e quindi non mi presentavo… Il programma di una politica della decrescita è paradossale, perché l’attuazione di proposte realistiche e ragionevoli ha scarse probabilità di avere successo e meno ancora di riuscire senza una sovversione totale che passa attraverso la realizzazione di un’utopia: la costruzione di una società alternativa. Questo a sua volta implica infinite misure particolareggiate, ossia quello che Marx si rifiutava di fare. Prendiamo ad esempio il caso dello smantellamento delle società transnazionali giganti. Immediatamente si pongono infiniti interrogativi: quali società vanno smantellate? Fino a che dimensione? La dimensione va calcolata secondo il fatturato o secondo il numero di addetti? Come assorbire i macrosistemi tecnici in unità di piccole dimensioni? Dobbiamo escludere alcuni tipi di attività? Anche Illich aveva riflettuto su questo problema. Pensava che ci fossero strumenti conviviali ed altri che non lo sono e non potranno mai esserlo. Certi strumenti - diceva Illich - sono sempre distruttivi, qualunque sia la mano che li governa, che sia la Mafia, una ditta multinazionale, lo Stato o anche un collettivo di lavoratori. Questo vale, secondo Illich, per le reti autostradali a corsie multiple, per le miniere o per la scuola. Lo strumento distruttivo accresce l’uniformazione, la dipendenza, lo sfruttamento e l’impotenza toglie al povero la sua parte di convivialità per rendere i ricchi ancora più ciechi. Dobbiamo essere coscienti che la decrescita è necessaria alle democrazie consumistiche, perché in una prospettiva di consumo di massa, le disuguaglianze sarebbero insopportabili. Già lo stanno diventando a causa della crisi dell’economia di crescita. La tendenza al livellamento delle condizioni è il fondamento immaginario delle società moderne. Le disuguaglianze si accettano solo provvisoriamente, perché l’accesso ai beni privilegiati di ieri sia oggi generalizzato e perché quello che oggi è lusso domani sia accessibile a tutti. Per questa ragione molti dubitano delle capacità delle società democratiche di prendere le misure che si pongono, vedendo come via d’uscita quella di una democrazia autoritaria (ecofascismo o ecototalitarismo). Di fronte alla prospettiva di abbandonare il livello di vita attuale, le masse del nord sarebbero pronte ad abbandonarsi ai demagoghi che promettono di preservare lo stile di vita odierno. Ben diversa è la scommessa della decrescita. Pensiamo che il fascino dell’utopia conviviale coniugato con il peso dei vincoli del cambiamento, possa favorire una decolonizzazione dell’immaginario e suscitare un numero sufficiente di comportamenti virtuosi in favore di una soluzione favorevole che possiamo chiamare “democrazia ecologica locale”. La rivitalizzazione del locale costituisce una via serena verso la decrescita. Il sogno illuminista di una umanità unificata per la gestione pacifica del pianeta sfugge così alla serie delle false buone idee veicolate dall’etnocentrismo occidentale corrente, perché la diversità delle culture costituisce la condizione essenziale di un commercio sociale tranquillo. E’ probabile che la democrazia possa funzionare solo se la polis è di piccole dimensioni - come Lucca - e saldamente ancorata ai propri valori. Serve una rete di piccole città, reti di nuovi municipi. Si dirà che questa è un’utopia…ma certo! Abbiamo bisogno di utopie, ma l’utopia locale è più realistica di quanto si pensi, perché è dal vissuto concreto dei cittadini che nascono le attese e le possibilità. In una visione pluriversalista - che ho sviluppato dopo Panikkar - in contrasto con la visione universalistica, dovrebbero esserci reti di unità politiche all’interno del villaggio planetario, reti democratiche e culturali; lontano da un governo mondiale. L’alternativa ad un governo mondiale sarebbe la bioregione, vale a dire le regioni naturali dove le piante, gli animali, le acque e gli uomini, formano un insieme unico e armonioso. Bisognerebbe giungere ad un mito che consenta la repubblica universale senza coinvolgere né governi né polizia. Questo richiederebbe altri rapporti tra le bioregioni. La creazione di iniziative locali democratiche è più realistica di quella di una democrazia mondiale. Se è escluso che si possa rovesciare frontalmente la dominazione del capitale e delle potenze economiche, rimane la possibilità di scegliere il dissenso, proprio come hanno fatto gli zapatisti. AFFRONTARE CRITICAMENTE IL MONDO DELLA TECNOSCIENZA Don Achille Rossi Un tema così ampio e delicato richiederebbe competenze molto diverse dalle mie per essere trattato in maniera adeguata. L’unica cosa che posso fare è esporre una serie di reazioni e di pensieri che richiedono un prolungamento e una correzione critica da parte dei lettori. Il mito contemporaneo - Il mondo della tecnoscienza rappresenta il mito della contemporaneità, l’orizzonte entro il quale viviamo senza però esserne riflessivamente consapevoli. Il mito, nel senso che attribuisco a questa parola, è ciò che crediamo senza credere di crederci. La sua forza consiste esattamente nel darlo per scontato, nel non provare alcuna necessità di analizzarlo o di oltrepassarlo. Ogni essere umano pensa e parla, senza esserne cosciente, all’interno di un orizzonte in cui si collocano i suoi pensieri e le sue parole Rubo a Panikkar un esempio che mi sembra particolarmente illuminante. Immaginiamo un vicolo napoletano, con due donne affacciate alla finestra che parlano l’una di fronte all’altra. Ognuna delle due vede il vano da cui parla l’altra, ma non vede il proprio perché sta alle sue spalle. Ecco, questa è la situazione normale del mito, che ci permette di scorgere l’orizzonte dell’altro senza essere consapevoli del proprio. Ogni cultura, come ogni persona, vive di un mito del quale non ha coscienza. Quando il mito inizia a essere conosciuto, si trasforma in una conoscenza e viene sostituito da un altro mito. La vita umana è quindi fondata su qualcosa di non conosciuto, e meno male! Perché se dovessimo conoscere tutto, cadremmo in quella mania di onnipotenza che Freud riconosce come uno dei segni del disagio psichico e che conduce l’essere umano alla distruzione. Il mito dunque è necessario anche per il nostro equilibrio psicologico. Il mito della nostra modernità è il mito scientifico. Il linguaggio è rivelativo nel sottolineare la forza del mito contemporaneo. Pensiamo a quando chiudiamo una discussione affermando:“ma è scientificamente provato!”, oppure “lo dice la scienza!”. È lo stesso atteggiamento degli antichi quando si trinceravano dietro il detto: “Roma locuta, causa finita” (Roma ha parlato il caso è chiuso), oppure dietro il classico “Ipse dixit” (l’ha detto Aristotele). Ma sono gli altri a scorgere il nostro mito, non noi che ci viviamo e lo diamo per scontato (come ci insegna la parabola di Panikkar). Gli altri leggono il nostro mito e noi il loro. Noi diciamo: “guarda gli arabi come sono violenti!”, e gli arabi dicono: “guarda gli occidentali come sono immorali!”. Un mio amico islamico nel corso di un convegno ci spiegava che il “popolino” dei paesi arabi pensa che gli occidentali siano solo “immoralità e Coca Cola”. Questa è la forza degli stereotipi. Relativizzare il mondo tecnoscientifico - Affrontare criticamente il mondo della tecnoscienza significa vedere il limite della cosmovisione scientifica. Noi oggi siamo nella condizione di poter ammettere che la cosmovisione scientifica è una delle chiavi per leggere il mondo, ma non è l’unica. Questo mi pare molto interessante, perché così possiamo prendere coscienza dei nostri limiti. Il mondo tecnoscientifico non va disprezzato né demonizzato, ma solo relativizzato, non considerato come un assoluto. La conoscenza tecnico-scientifica non rappresenta la totalità del conoscere, e meno ancora la totalità dell’umano. Qui si tratta di prendere le distanze dallo scientismo, il quale vorrebbe che l’uomo si affidasse completamente alla scienza, l’unica a poterci fornire la chiave della realtà. La scienza, diversamente dall’antichità in cui era concepita come conoscenza salvifica, oggi equivale a conoscenza razionale e concettuale, come dimostra anche l’etimologia della parola. La ratio era infatti la pertica con cui si prendevano le misure, quindi la conoscenza razionale è la conoscenza di misurazione: ratio sive mensura, la ragione ossia la misura. Sappiamo che la capacità conoscitiva è molto più ampia della ragione e include una conoscenza che ha perso quota in Occidente, ovvero la conoscenza per partecipazione o conoscenza simbolica. Questa non è una forma di conoscenza minore, ma semplicemente quella in cui non c’è separazione tra conoscente e conosciuto, tra soggetto e oggetto. Prima dell’avvento della scienza moderna questa forma di conoscenza era molto valorizzata e significativa. Il simbolo infatti permette una conoscenza per partecipazione. Di questa forma di conoscenza simbolica è rimasta traccia nell’etimologia delle parole. In francese connaissance è il nascere insieme: soggetto e oggetto nascono insieme, tra loro quindi non c’è frattura. Dal punto di vista religioso la conoscenza simbolica è molto importante. Le vicende e le disavventure della religiosità contemporanea dipendono dall’aver dimenticato la forza conoscitiva del simbolo. In Oriente si dice: “non puoi conoscere Dio senza diventare Dio”. La conoscenza è quindi percorso, trasformazione, una conoscenza salvifica e non tecnico-scientifica. Bisognerebbe rivalutare la conoscenza simbolica, perché capire non significa solo, per usare l’etimologia latina, comprehendere, “prendere insieme” o, come in tedesco, greifen, afferrare. Capire significa trasformarsi. Panikkar sostiene che se ci si affida esclusivamente alla conoscenza razionale, a discapito della conoscenza simbolica, si diventa più intolleranti. Questo avviene perché il simbolo, a differenza della razionalità, autorizza diverse interpretazioni. Possiamo partecipare allo stesso simbolo e produrre interpretazioni differenti: se dico Cristo, m’imbatto in tante famiglie di cristiani, se dico Dio, in forme diverse di teismo. Il simbolo permette una partecipazione e differenti concettualizzazioni. Anche qui nessun disprezzo della razionalità scientifica, che è la lettura della dimensione quantitativa della realtà, ma che non rappresenta da sola né la totalità del conoscere né la totalità dell’umano. È un aspetto importante della conoscenza ma non esclusivo: il logos è più ampio della razionalità. Nell’uomo, oltre alla dimensione del logos, c’è anche il mito, che ci permette di avere una vita serena senza essere scissi né in preda all’ansia di possedere. Il mito si esprime nel rito, che è l’affidarsi innocente alla fede che ci anima. Né bisogna dimenticare il corpo e tutti gli aspetti che vi sono connessi. La china nichilistica - Per affrontare criticamente il mondo della tecnoscienza, è opportuno chiedersi in quale direzione esso ci porti. La mia risposta, che potrebbe apparire drastica, è che la tecnoscienza non ci conduce da nessuna parte, perché c’è una continua moltiplicazione dei mezzi, ma una totale assenza di fini. Questo processo genera un complesso tecnocratico che diventa esso stesso un fine e riduce gli esseri umani in suo potere. Illich ha illustrato in tutta la sua opera i connotati di questo complesso tecnocratico. Quando l’oggettivazione, introdotta dal metodo scientifico e in sé ineccepibile, travalica i suoi confini e invade ogni aspetto del vivere umano, tutto viene oggettivato. Si scivola così inesorabilmente verso un mondo popolato di oggetti…e anche l’uomo diventa una cosa tra le altre. Talvolta penso che il nichilismo verso cui piegano alcune correnti filosofiche contemporanee non sia un fatto casuale. Quando mi chiedo perché la realtà perde così tanto di significato, mi viene da rispondere che questa caduta nichilista è imputabile ai processi economici in atto che mercificano tutti gli aspetti della vita. Intravedo una relazione molto stretta tra il nichilismo della filosofia e le dinamiche di questo tardo capitalismo, che ha quantificato i bisogni umani, li ha valutati secondo parametri quantitativi e li ha immessi sul mercato. Viviamo in un mondo dove tutto è mercificato: il corpo, la sessualità, il patrimonio genetico, la salute, l’istruzione, i servizi. Credo quindi che esista un rapporto molto stretto tra la diffusione della tecnocrazia e questi esiti che soffriamo nella quotidianità. Recuperare l’uso dei sensi - Per non dare l’impressione di essermi impegolato in questioni troppo teoriche, voglio ritornare al vivere quotidiano e mostrare come il mondo della tecnoscienza impoverisca i nostri gesti abituali e ci espropri dell’uso dei sensi. In un bel testo di Illich scritto per i 70 anni di un amico, Ivan diceva che noi forse siamo l’ultima generazione a cui è consentito l’uso dei sensi. Questa espressione mette il dito sulla piaga perché ci invita a pensare quanto sia diventata meccanica la nostra quotidianità. Voglio mostrarlo esaminando nel dettaglio i gesti che non possiamo fare a meno di compiere ogni giorno. Il parlare perde nella nostra vita il carattere relazionale e si riduce sempre più a uno scambio di concetti. Ci mandiamo e-mail, sms, e perdiamo il carattere fondamentale del parlare che è invocazione: chi parla, parla sempre a qualcuno, ha di fronte un volto. Gli strumenti che abbiamo a disposizione ci evitano invece questo confronto col volto dell’altro. La mia esperienza quotidiana m’insegna che parlare è sempre più difficile nell’epoca dei cellulari e della televisione. Nell’era dell’homo videns, come direbbe Sartori, la parola è sempre più umiliata. Un altro verbo che desidero analizzare è mangiare. Il mondo tecnoscientifico ha ridotto il mangiare a gesto individualistico per recuperare le forze, eliminando l’aspetto comunitario e conviviale. Mangiare non è solo assumere cibo, ma nutrirsi della relazione reciproca. Questa perdita di significato è continua e inavvertita. Viene meno così il carattere di convivialità, tanto sottolineato dalle culture non occidentali. Senza dire dell’umiliazione del gusto che questa forma di fast food comporta. Camminare è un altro verbo quasi perduto. Oggi ci spostiamo ma non camminiamo. Camminare significa vedere e soprattutto incontrare. Quando ci si sposta non ci si accorge di cosa ci sta attorno. Da questo punto di vista dovremmo imparare dagli africani, dagli asiatici o dai latinoamericani. Stiamo perdendo l’esperienza dell’essere in un luogo, con le piante, le case, gli animali, il paesaggio. Non sappiamo relazionarci con il territorio e in questo modo siamo meno umani. Molte periferie delle grandi città sono in realtà “non luoghi”, perché non rispettano questa esigenza fondamentale degli esseri umani. Ricordo l’impressione terribile che mi aveva provocato una periferia romana in un giorno di festa: la solitudine, l’anonimato e il vuoto potevi toccarli con mano. E se la frenesia dell’uomo contemporaneo dipendesse proprio dalla mancanza di luoghi? Respirare. L’unico vero ritmo che ci appartiene è quello del nostro respiro. Non a caso in Oriente tutto comincia con l’ascolto del proprio respiro. Il mondo tecnoscientifico ci impone invece un ritmo che non ci appartiene, che dipende dal tempo dell’orologio e non dalla durata umana. Anche qui il linguaggio è rivelatore: quando una persona o una cosa diventano opprimenti diciamo che “non ci lascia respirare”. Riposare. Questo verbo è assolutamente squalificato nella civiltà tecnologica, perché è interpretato come tempo perso e non come recupero del proprio ritmo. Dietro questa visione, c’è la considerazione del corpo come mero strumento di produzione. Se le cose che ho detto hanno un qualche fondamento, allora dovremmo avviarci verso una grande trasformazione, che tocchi tutti gli aspetti della vita. La trasformazione di cui parlo ha una forza maggiore della rivoluzione, che poggia sulla realizzazione di un rovesciamento immediato, mentre la trasformazione è un processo che non termina mai e che interessa tutte le dimensioni della vita. Per concludere vorrei lanciare due inviti. Il primo è quello di guardare il mondo con altri occhi, che è la condizione indispensabile per mettere in moto la nostra capacità trasformativa. Il secondo è quello di riprenderci tutto ciò che ci appartiene e che ci è stato tolto dal mondo tecnoscientifico. Solo così si apre la strada per la nascita di un nuovo mito che unisca gli esseri umani e non umili la diversità delle culture e delle civiltà. L’ASTRAZIONE DEL LINGUAGGIO: PAROLE E MUSICA COME COSTRUZIONE SCIENTIFICA Mathias Rieger Prima di iniziare credo di dovermi presentare brevemente. Sono musicologo e musicista, e figlio di un musicista. Oltre a svolgere la mia attività di musicologo suono anche la batteria per la danza del ventre. Oggi vi presenterò un trattato sulla disincarnazione della parola. Il relatore precedente ve ne ha parlato. E’ la storia di come abbiamo raggiunto la nozione di un nuovo modo di parlare. Cosa vuol dire parlare e fare musica nel mondo di oggi? Ho fatto una ricerca storica su questo tema e devo ammettere che è alquanto astratta e tecnica come materia, pertanto ho scritto un trattato quindici mesi fa e l’ho dedicato ad una suora, si chiama Madre J. E’ una suora benedettina, vive in America e posso affermare che è la mia più vecchia amica, nel senso che ha novantotto anni. Così ho tentato di spiegarle cosa vuol dire oggi fare musica e parlare. Nel frattempo, quattordici mesi fa si è verificato un cambiamento fondamentale nel mondo: non è stato economico, non era politico e neanche sociale. Questo cambiamento era la nascita della mia piccola bimba Hannah. Quindi adesso ho il problema di spiegare cosa vuol dire tutta questa roba così altamente astratta come l’acustica musicale, la proporzionalità ed altro di cui parleremo, e devo spiegarlo a questa vecchia suora. E l’altra notte ho sognato che avrei dovuto anche spiegarlo alla mia bambina e credo che ciò sia molto, ma molto più difficile. Dunque lei mi guarda e dice: papà, di che cosa stai parlando? Le dico: ecco veramente parlo di un nuovo modo di parlare. Come l’acustica musicale nel diciannovesimo secolo ha cambiato la nostra nozione di parlare e fare musica. Lei mi guarda e dice: insomma papà, so che stai facendo delle cose molto strane, per esempio critichi l’idea di trasporto, e poi mi metti nella mia carrozzina e mi porti in giro per tutta la città, va bene, poi leggi dei libri sulla descolarizzazione di Ivan Illich. Ivan Illich è il tipo per cui non abbiamo un televisore, lo so, e poi vai all’università e insegni. Poi discuti con il tuo amico Jean Robert sul diritto di ognuno alla sua merda e poi mi metti addosso questi maledetti Pampers. Ok, mi sono abituata a tutto questo, ma poi mi trascini in Italia, che è veramente bello come posto, e sono molto felice di esserci. Qui ti siedi in una stanza per sei giorni e discuti di lavorare insieme, credo, lo chiami movimento sociale, e poi parli di qualcosa che proprio non capisco: ogni giorno ti preoccupi perché io abbia cibo a sufficienza e che io cresca. Adesso, qui in Italia, ti metti a discutere di qualcosa che non mi piace proprio, l’idea di decrescita, come faccio a decrescere. Ma cosa veramente vuoi dire con il cambiamento della nozione di parlare e fare musica oggi? Beh - le dico - sto parlando della musica e del parlare come costrutti scientifici. Allora mi guarda e dice: ecco una di quelle cose astratte! Ma cos’è che vuoi dire precisamente, puoi spiegarmelo in una frase? Sinceramente al primo istante mi sono sentito un po’ perso, ma poi penso, forse è molto semplice: parlerò, se vogliamo proprio andare al nocciolo dell’argomento, di cosa vuol dire essere un papà oggi. Hannah mi guarda e dice: ma cosa vuoi dire con questo essere un papà oggi. So che mamma parla di cosa vuol dire essere una mamma oggi. Ma papà, cosa ti sta succedendo? Allora rispondo: tu sai che quando parlo di essere un papà, vuol dire che sono il tuo papà come quando tu dici che tu, Hannah, sei mia figlia, naturalmente. Ho approfondito la storia dell’acustica in un certo senso per arrivare a comprendere come fanno certe persone a pensare di poter parlare di te senza riferirsi a me o a chiamarmi un papà senza riferirsi automaticamente a te. Questo rapporto fra noi, tu che sei la mia bambina ed io che sono tuo padre, questo rapporto costitutivo che fa sì che tu non possa pensare che ci sia una differenza fra me e te, o che noi non facciamo parte di un insieme, è una caratteristica simile a quella che oggi tende a scomparire dall’idea della musica e dal parlare. Guardando la storia mi sforzo sempre di distanziarmi dal presente. Quindi come io provo a spiegare a Hannah cosa vuol dire trovarsi nel cosiddetto mondo tecno-scientifico, così ho tentato una volta di spiegarlo alla mia più vecchia amica, Madre J. L’ho fatto perché era nata prima dei tempi della tecnoscienza, prima dell’epoca del telefono, prima dei tempi dell’inquinamento e si potrebbe aggiungere prima dei tempi dello sviluppo. L’ho fatto perché volevo prima spogliarmi delle mie proprie certezze. Sono qui presenti dei membri del gruppo del Granchio di Kuchenbuch; dovrei informare tutti voi che Kuchenbuch è ancora vivo, voglio dire che esiste veramente, potete contattarlo, e lo considero un mio amico; è anche un sassofonista appassionato di free jazz, se volessi descriverlo direi di lui che è il terremoto più incantevole che io abbia mai incontrato, ecco questo è Ludolf Kuchenbuch. Ora permettetemi di tornare a mia figlia e alla storia dell'acustica, solo per sottolineare un punto che è stato accennato prima, il cambiamento del parlare e del fare musica nel cosiddetto mondo tecno-scientifico. Madre J. viene da Monaco, vive in un convento benedettino nel Connecticut e, come lei ama sempre sottolineare, è nata non solo pre-inquinamento, ma anche pre-telecomunicazione. Ama raccontarmi come ha salutato il Kaiser da ragazza. E quando parla della Guerra Mondiale, bisogna chiederle, quale? Una sua esperienza particolarmente indimenticabile di quell’epoca è un infantile orrore che provò quando sua madre le accostò il ricevitore del telefono all’orecchio per la prima volta. Sentì la voce di suo padre, che sapeva a Vienna solo il giorno prima, e adesso era apparentemente rimpicciolito e incastrato dentro una cornetta di legno. Madre J. mi ha confessato che a tal proposito da quel momento non si è mai sentita a suo agio quando sente una voce che le parla senza che l’interlocutore sia presente. Ve l’ho detto, è come essere Hannah senza avere un padre. Adesso sto parlando con voi perché mi sto rivolgendo a voi direttamente. Se parlo nel microfono non sto parlando con voi, ma con il microfono. Naturalmente con il passare degli anni Madre J. ha usato il telefono spesso per scambiare brevi messaggi. Quasi cinquant’anni trascorsi a intonare canti hanno trasformato Madre J. in una profonda avversatrice della telecomunicazione. Sette volte al giorno un gruppetto di suore si raduna nella cappella di legno del convento per intonare gli antichi canti gregoriani. Per Madre J. cantare e parlare sono attività costitutive dell’Io di chi parla e canta. La persona che vi parla sono io, perché sto parlando con voi. Una persona che deve sempre necessariamente essere rivolta verso un’altra persona, ecco perché siete seduti davanti a me e non dietro. Parlare è sempre parlare a qualcuno - verso qualcuno - in altre parole rivolgersi a qualcuno. Nello stesso modo intonare canti gregoriani è analogo a parlare con un ascoltatore. Per Madre J. ascoltare è un’attività che non può essere separata dalla presenza delle persone che cantano. La condizione che Madre J. descrive come fondamentale nell’intonare canti in un convento è difficile da capire per me oggi giorno. Come musicista, utilizzatore del telefono o relatore armato di microfono, sento il fare musica ed il parlare principalmente come una forma di produzione o di consumazione di suoni tecno-genici. Posso immaginare la voce di Madre J. o il suono dei miei amici musicisti solo come qualcosa che possa essere salvato, trasferito su nastro, riprodotto ed elaborato. Parlare, disse Ivan Illich, è diventato senza faccia e senza luogo in un’era di comunicazione, e cito le sue parole: “La parola emessa come articolazione del soma dell’oratore e conseguentemente dell’ascoltatore, è ormai comunemente identificata a un segno fonetico gestito come un messaggio. Questa disincarnazione dell’espressione si è imposta attraverso una profonda omissione del potere della voce di creare “luogo”, della sua fecondità “topos-generatrice”. [… ] Gli oratori - disse Illich - possono oggi dislocare le proprie voci e renderle onnipresenti in uno spazio di qualsiasi dimensione - come sto facendo io in questo momento. Ma solo la viva vox ha il potere di generare il guscio entro il quale il relatore e il pubblico sono nel luogo del loro incontro”. Questa viva vox, la viva voce che per Madre J. è la quintessenza del cantare, oggi è stata sommersa dalla gestione mediatica del suono. Le mie conversazioni con Madre J. sulle sue esperienze del fare musica e del parlare come inscindibili dal luogo e dalla persona, mi hanno dimostrato la profondità dell’abisso che separa i nostri due orizzonti di esperienza. Forse, un giorno, la stessa cosa accadrà fra Hannah e me. Nel contesto del coro nel convento, mi trovo estraneo come musicista moderno. D’altronde trovo difficile spiegare la mia musica, e che cosa posso sentire quando sono in uno studio o sul palco come musicista, ad una donna che ha interiorizzato cinquant’anni di canto gregoriano. Come faccio a spiegarle che ho suonato tamburi con suoni pre-registrati di sciamani nepalesi o persino accompagnato estratti dei rumori di liposuzione durante un intervento di chirurgia plastica americana? E come le spiego qualcosa di così quotidiano per me come il fatto che questa musica non solo è suonata sul palco o nello studio, ma può anche essere ascoltata come musica preconfezionata nelle discoteche o nei bagni degli uomini ? Il fisiologo tedesco Hermann Von Helmholtz, un uomo che è vissuto nella metà dell’ottocento, mi ha aiutato a capire la genesi storica di questo strappo epocale. Mi ha aiutato a rispondere alla domanda sulla differenza fra me, mentre faccio musica, e Madre J. mentre intona i suoi canti gregoriani. Von Helmholtz ha scritto un libro di quasi seicento pagine sull’acustica musicale, il quale ha un ruolo centrale nella mia disciplina di musicologo. Ho tentato di spiegare a Madre J. questo trattato, che definisce i fondamenti della musica per i musicologi. In realtà ha segnato la morte della comprensione del parlare, fare musica e ascoltare come attività radicate nel rapporto costitutivo fra oratore e ascoltatore o un musicista e il suo pubblico. Come musicologo sono allenato a pensare ciò che non vorrei mai che qualcuno pensasse di mia figlia, ovvero pensare alla musica come un oggetto indipendente. Fino all’ottocento il significato di termini musicali elementari come tono, consonanza e udito, era basato su due pilastri. Un pilastro era la tradizione, quello che era stato già scritto sulla musica. E il secondo pilastro era l’esperienza sensuale: cosa le persone sentono. Von Hermholtz fu il primo a dare a quei termini elementari un significato scientifico, o acustico. Ciò sarebbe oggi paragonabile a qualcuno che chiami Hannah un portatore di geni. Von Hermholtz dichiarò che l’orecchio non rivela la natura di quello che sente, in altre parole disse che tutti i musicisti avevano sbagliato tutto. Infine definisce il suono - che sia musica, linguaggio o rumore - come un oggetto scientifico indipendente dal parlatore o dallo strumento musicale. Ecco cosa ha veramente creato uno scandalo fra i musicisti riguardo alla teoria di Von Hermholtz: il suono è diventato qualcosa che poteva essere sintetizzato ed elaborato arbitrariamente. Immaginate un laboratorio acustico dove l’eterogeneità fra un violino, una voce umana ed un motore a vapore viene ridotta a delle graduali differenze nelle forme di onde sonore. Von Hermholtz impiegò vari metodi per presentare ai suoi lettori la sua linea di pensiero acustico quale chiave per capire la musica. Musicisti, filosofi, studiosi musicali ed altri hanno generalmente considerato l’acustica come irrilevante nella loro arte, Von Hermholtz invece ha indotto i suoi lettori a pensare in termini acustici. Poco dopo la pubblicazione del suo libro, altri scienziati naturali e studiosi musicali tentarono di rendere questa pesante impresa intellettuale più facilmente digeribile. Dieci anni dopo la prima edizione, le definizioni acustiche di Von Hermholtz dominavano i dizionari di musica. La nozione musicale di ascolto viene sostituita con la definizione fisiologica dell’orecchio come oggetto scientifico ed anche la sua controparte, il tono, non è più spiegato musicalmente ma semplicemente come vibrazione periodica. Questo approfondimento del costrutto scientifico dell’orecchio e del suono che Von Hermholtz ha sviluppato principalmente attraverso mezzi teorici, si realizza oggi nella produzione mediatica e nella ricezione sonora grazie al telefono o ad altri mezzi di trasmissione ed elaborazione delle onde sonore. Parlando dell’acustica in questo modo, tornando alla storia dell’ottocento, ho rivisto il rapporto tra me ed Hannah. Adesso non devo solo agire come musicista e musicologo sotto l’egida di costrutti tecno-scientifici, ma devo anche imparare cosa vuol dire essere il padre di Hannah oggi. L’intervento non è stato rivisto dal relatore STRUMENTI ADDIO! Jean Robert Nei suoi anni trascorsi a Cuernavaca Illich si dedicò a documentare la distruzione del senso vernacolare del buono e del sufficiente, attraverso una riflessione sugli strumenti. Ivan rese popolare il concetto di conviviale e di vernacolare. La convivialità è innanzitutto una caratteristica di quegli utensili che permettono a chiunque l’uso dei propri poteri innati; quindi l’utensile conviviale è l’opposto degli attrezzi industriali. Illich esaminò l’uso della tecnologia moderna nella scuola, nei trasporti, nella medicina e nell’alloggio; e dimostrò che in ciascun campo tali strumenti infrangono le abilità innate delle persone di guarire, di imparare o di costruire un tetto. Le scuole, per Illich, svuotano le strade di possibilità vernacolari di imparare, l’automobile ed i trasporti pubblici paralizzano i piedi; i medici giudicano negativamente le antiche arti della sofferenza; la pianificazione degrada l’abitazione a garage. Illich affermò che tutto questo era causato dall’istituzionalizzazione della tecnologia, una tecnologia controproduttiva, ovvero una sinergia negativa tra un modo autonomo ed uno eteronomo di produrre. Inoltre Illich dimostrò in che modo il potere simbolico inerente all’uso istituzionale delle tecnologie conformi le nostre certezze e crei assiomi dai quali si generano teoremi sociali. In ogni caso l’incontro tra l’utente e la tecnologia adegua le percezioni alle condizioni di un cliente o, nel caso della medicina, di un paziente. Illich esaminò il rapporto paziente-medico e cliente-professionista e si accorse che in molti casi la figura del paziente/cliente era influenzata in maniera così forte da mutare la percezione di se stessi. Ivan chiamò questa coniazione un’imputazione di bisogni e desideri che contribuiva a professionalizzare il cliente. Siccome le professioni usano istituzioni di servizio atte a soddisfare i loro clienti, il professionista viene assimilato all’operatore di un utensile. Ad esempio quando ci si ammala c’è la convinzione che sia necessario andare dal medico che utilizza gli strumenti della sua professione per aggiustare le funzioni danneggiate. Quello descritto sino ad ora è l’Illich degli anni ’70. Negli anni ’80 Ivan fu molto critico con se stesso; era sbagliato, sosteneva, mettere sullo stesso piano martelli, scuole, ospedali ecc.- cioè strumenti materiali ed istituzioni - come aveva fatto negli anni ’70. Illich ed altri stavano varcando un limite oltre il quale non era più possibile pensare in tali termini. Ovvero si stava oltrepassando l’era della strumentalità dominante. Ivan sosteneva che “non avevo percepito questo spartiacque quando scrivevo i miei primi libri. Mi rimprovero per aver persuaso molte buone persone che mi hanno letto bene, che fosse sensato che si parlasse di un sistema scolastico come di un arnese sociale, o di un establishment medico come se fosse un utensile”. L’assimilazione delle istituzioni agli utensili ricorda che in quegli anni si riteneva generalmente che l’essenza di un’istituzione - come quella di un utensile - potesse essere manifestata dall’espressione “un martello è un utensile per inchiodare, una scuola è un dispositivo sociale per inchiodare la testa dei bambini”. Gli utensili e le istituzioni sono cause strumentali per l’adempimento di scopi. Quando scriveva i suoi primi libri Illich non vedeva ancora la storicità della strumentalità ma vedeva con tutta chiarezza la discrepanza tra gli utensili conviviali e gli strumenti industriali. Oltre certe soglie critiche di grandezza, di potere e di controllo amministrativo, gli utensili materiali e le istituzioni di servizio come le scuole, le autostrade o gli ospedali, diventano inevitabilmente controproduttivi. La controproduttività di un utensile si può interpretare come una deviazione dalla sua qualità di utensile, cosicché la convivialità si può leggere come una difesa degli utensili, cioè come la richiesta di una strumentalità equa e conviviale. Questo conferisce autonomia agli utenti degli strumenti. Negli anni ’80 Illich iniziò a rimettere in discussione determinate affermazioni contenute nei suoi libri sugli strumenti e sulle istituzioni, soprattutto riguardo al paragone utensili-istituzioni. Cercherò di riassumere come Illich visse questo cambiamento di punti di vista e come poté associare tale cambiamento ad uno spartiacque storico. Prima di questo mutamento Ivan vedeva il cliente di una istituzione di servizio come “qualcuno che stava in piedi di fronte alle grandi istituzioni con l’idea che almeno poteva utilizzarle per la soddisfazione dei suoi propri sogni o bisogni”. L’allusione alla soddisfazione dei propri sogni e bisogni indica chiaramente che Illich pensava che le istituzioni, proprio come gli utensili, dovevano essere al servizio di esigenze personali. Il fatto di stare in piedi di fronte ad un’ istituzione è come stare fermi di fronte ad un utensile, potendo decidere se utilizzarlo o meno. La convivialità attribuita agli strumenti era messa in relazione alla loro grandezza, al potere che conferivano, ma anche alla distanza e libertà di prendere o lasciare. A differenza delle sue opere tardive, i libri dell’epoca della convivialità consideravano la distanza tra utente ed utensile come un dato di fatto. Nelle sue ultime riflessioni Illich si rese conto che eravamo entrati in un’epoca in cui la distanza tra l’utensile e chi lo utilizza non era più garantita, e quindi non c’era più la libertà di prenderlo o lasciarlo. Se questa libertà viene negata, lo strumento ci prende, ci afferra…ecco che l’utensile si trasforma nel tentacolo di un sistema che fagocita il corpo, facendolo diventare sottosistema. Secondo Illich quindi questa distanza viene meno: tale cambiamento inizia negli anni ’80, quando ci si viene a trovare nell’era dei sistemi, un’era in cui non c’è più spazio tra noi e l’utensile. Illich capì quindi che la gente era assorbita da istituzioni da cui non poteva più distinguersi. Durante tutta la storia c’erano strumenti che si potevano prendere o lasciare, ma tutto era visto come utensile, non come parte di un corpo. La nozione di un cambiamento d’era implica che non possiamo più pensare al mondo nel quale viviamo come un gigantesco “banchetto di utensili”. Dopo questo passaggio Ivan si rese conto che il cliente tipico non era più una persona di fronte ad un’istituzione, ma piuttosto qualcuno che era stato risucchiato da un sistema che non poteva più essere rappresentato, perché una rappresentazione implica sempre uno sguardo “dal di fuori”. Invece il mondo-sistema diventa un flusso ininterrotto di stimoli sensoriali. Parole come “scelta”, “decisione” e “responsabilità” perdono il loro senso, perché senza la possibilità di stare “di fronte a”, senza una distanza critica, manca anche uno sguardo politico. In un mondo del genere, privato della distanza tra strumento ed utente, dove lo sguardo non ha più un punto di vista particolare, l’utensile non viene più valutato secondo la sua utilità, ovvero la sua capacità di soddisfare i nostri bisogni. Illich attribuiva al mondo-sistema un carattere quasi dogmatico e religioso, perché in questo mondo gli scopi personali sono illusori. Tutto quello che ebbe inizio avrà una fine e viceversa. L’epoca che si conclude nel nostro tempo ebbe una genesi? Quando? E’ possibile comparare il tempo dell’inizio con quello della fine? Come possiamo chiamare tale epoca? La possiamo definire “era degli strumenti” o “era tecnologica”. Prima della sua morte Illich aveva sufficiente materiale per scrivere la storia dell’utensile, la storia della distanza tra la mano e lo strumento tecnologico. Per designare questa distanza, Illich introdusse il temine tecnico “distalità”: c’è una distalità tra il corpo e la mano, c’è una maggiore distalità tra corpo e utensile. La caduta dell’idea di strumento è la fine dell’epoca della distalità tra la mano e lo strumento. Dopo l’era della tecnologia non ci sono ancora parole adatte per descrivere la mutazione degli strumenti, che non mantengono più la distalità col corpo dell’utente (che non è poi un vero utente, perché non può lasciarli). La tesi della storicità degli strumenti implica il fatto che ci fu un tempo nel quale non c’era ancora il concetto di utensile indipendente. Bisogna quindi parlare di un tempo in cui non c’era ancora distalità. Aristotele scrisse magnifiche pagine sulle modalità operative dei fabbri, dei falegnami, gioiellieri, ecc., ma i suoi commenti sono radicalmente diversi da quelli di Teofilo. Aristotele non voleva né poteva separare concettualmente il martello dalla mano del fabbro, perché entrambi erano organi. Nel 1128 il monaco Teofilo, un uomo versatile, descrive e raffigura gli artigiani ed i loro utensili. Gli utensili per Teofilo si offrono, lascivamente coricati, alla prima mano che ne richiede per farne uno strumento nel senso tecnologico. Si pensò che il loro offrirsi alla prima mano non fosse cosa buona. Addirittura il monaco Ugo di San Vittore nel 1128 teorizzò che la parola meccanica derivasse dal greco moichos - adulterio. L’originalità di Illich fu quella di associare questa trasformazione con un cambio semantico, con un nuovo concetto di causalità e con alcuni nuovi concetti teologici. Cambiamento semantico. La parola greca organon fu tradotta in latino come instrumentum : Barbara Duden vede qui l’origine della cassa di utensili concettuali della strumentalità, nella quale si trovano concetti come divisione del lavoro, produzione, riproduzione, ecc. L’organon greco era parte di un corpo attivo, la cui attività poteva solitamente essere espressa da un gioco verbale tra presente e aoristo, activum e medium. Invece lo instrumentum è separato dalla mano, è un mezzo che contiene una intenzionalità. Un nuovo concetto di causalità. La separazione tra mano e strumento di lavoro, già tanto esplicita nel 1128 nei disegni di Teofilo, è razionalizzata nel secolo successivo in un nuovo concetto di causalità. La lingua greca usa la stessa parola aitía per designare una causa o una colpa. Dai tempi dei maestri di Aristotele fino al ‘200 c’erano stati quattro concetti complementari di causalità corrispondenti alla materia, alla forma, al fine ed alla mano di un artigiano. Nessuna mano poteva essere separata da questo quadrilatero. Quando un artefatto non è più un attributo di nessun corpo, acquisisce una sorta di intenzionalità. Ecco il nuovo concetto di causalità: la qualità di un oggetto dotato di una paradossale intenzionalità meccanica; questa nuova causalità fu chiamata causa instrumentalis. L’epoca strumentale o era tecnologica è il periodo nel quale la causa strumentale rompe lo schema quadricausale, fino a rimanere l’unica causa dell’uomo tecnologico. Nuovi concetti teologici. Non appena venne inaugurato il concetto di causa instrumentalis, i teologici del ‘200 iniziarono a parlare di un nuovo tipo di strumento chiamato sacramento, proprio in un momento in cui la Chiesa concepiva la sua missione come quella di omnia benedicere, benedire tutto, lodare Dio per tutto. I teologi trovarono che la parola instrumentum era utile per nominare sette benedizioni tanto speciali che richiedevano una categoria separata. Istituirono quindi i sette sacramenti, come azioni che, quando si compiono, sono usati da Dio. I sacramenti sono quindi strumenti divini che, svolti da un essere umano, sono ripresi da Dio stesso. Concludo con una riflessione: dobbiamo pensare e continuare a pensare ed a sperare nella convivialità anche in un’era tecnologica come quella odierna. L’intervento non è stato rivisto dal relatore L’INVADENZA PROFESSIONALE NELLA SCELTA: COME LA CONVOCAZIONE PER UNA “SCELTA INFORMATA” TRASFORMA LE PAZIENTI IN MANAGER DI SE STESSE Silja Samerski La signora C. è seduta di fronte al consulente genetico. Tra di loro sulla tavola ci sono carte, diagrammi e grafici. Dietro di loro c’è un’ora e mezzo di sessione educativa riguardo alla distribuzione statistica dei difetti di nascita, all’ereditarietà mendeliana, alle mutazioni cromosomiche e alle loro pericolose conseguenze per il futuro del bambino che deve nascere. La signora C. è incinta di quattro mesi. Per la sua età e per il fatto che ha un cugino ritardato, il suo ginecologo ha diagnosticato che è a rischio e le ha suggerito di sottoporsi all’amniocentesi. Ma poiché l’amniocentesi comporta nuovi rischi e può solo fornire ragioni per interrompere la gravidanza, il medico non vuole prescriverla. Vuole invece che sia lei a individuare la soluzione. Così l’ha mandata da un genetista che avrebbe dovuto renderla capace di fare una scelta “informata”. Nella clinica di consulenza genetica, un giovane medico specificamente preparato in genetica umana, le ha fornito gli elementi (input) che lui considerava necessari per poter prendere una decisione. Ha accertato la sua condizione di rischio, ha aggiunto alcuni altri rischi di cui ella non era consapevole, quindi ha elencato le opzioni - che principalmente vertevano sul fare o non fare il test - e quindi ha illustrato le possibilità e i rischi connessi con ogni opzione. La signora C. ha scoperto che essere incinta significa dover prendere decisioni all’ombra del rischio: il rischio di dare la vita ad un bambino disabile, dice il consulente, o il rischio di interrompere la gravidanza. Se l’amniocentesi non darà il semaforo verde che lei spera, dovrà prendere in considerazione quest’ ultima ipotesi. Ma tutto questo deve essere deciso da lei e da suo marito, come chiarisce bene e ripetutamente il consulente: “dovete decidere voi, poiché noi non entriamo nel merito delle conseguenze”. In bioetica, questa nuova richiesta di una capacità “di prendere decisioni autonome” nel sistema dei servizi, è generalmente vista come un successo nella lotta per l’emancipazione. Le pazienti, si dice, sono state finalmente liberate dai dettami degli esperti. La scelta libera e informata della cliente viene considerata come un argine al controllo dello Stato e degli esperti. Durante questa chiacchierata voglio discutere di questo mito. Voglio argomentare che la possibilità di fare una propria scelta non dovrebbe essere scambiata per una nuova libertà, ma al contrario dovrebbe essere considerata come una crescita del potere degli esperti, cioè come un’invasione professionale nella scelta. Nel XX° secolo la conoscenza e le competenze, per avere valore, dovevano essere acquisite sotto la supervisione tecnica di esperti e valutate secondo i loro standard scientifici. Nel XXI° secolo non solo la conoscenza e le abilità, ma anche la scelta viene rimodellata come un oggetto scientifico. La libertà, la scelta e l’autonomia, sono ridefinite in modo tale che per essere esercitate appropriatamente richiedono informazioni scientifiche e guida da parte dei servizi. Nelle società di mercato, la “scelta individuale” è considerata l’emblema della libertà e dell’autonomia. Sia che si parli di lavoro, di vacanze, di pratiche religiose, di relazioni amorose, di stili di vita, o di trattamento medico, coloro che sono considerati “self empowered” oggi, sono coloro che possono scegliere ciò che vogliono in ogni situazione di vita. “L’essersi liberati” dai lacci tradizionali e poter scegliere tra un numero crescente di opzioni è considerato come un incremento di libertà. Al massimo questa nuova “libertà” è considerata come “ambivalente” perché impone nuove “responsabilità” all’individuo. Di fatto, la decisione che la donna incinta, la signora C., deve prendere, sembra una decisione di investimento in una speculazione di borsa: essa deve scegliere tra opzioni preselezionate e essere pronta ad accettare i rischi associati. Facendo l’esempio della consulenza genetica prenatale intendo prendere in esame questo tipo di autodeterminazione professionalmente insegnata. La seduta con il genetista è solo uno dei vari rituali educativi che insegnano ai clienti a prendere le loro decisioni, ma è senza dubbio uno dei più lampanti: come la maggioranza delle clienti dei consulenti in genetica, la signora C. è incinta. La curva dei rischi e il calcolo delle probabilità collide direttamente con la sua delicata condizione di donna che aspetta un bambino. Lei è preoccupata del benessere del bambino che deve arrivare e il genetista la informa dei rischi e le offre strategie per gestire il rischio. Così la sessione educativa con il genetista esemplifica come la richiesta di una presa di decisione autonoma reinterpreta la libertà di scelta e l’autonomia. Il fraintendimento dei rischi - Prima di tornare alla signora C. devo fare alcune annotazioni su uno dei concetti chiave della consulenza genetica, ovvero il rischio. Ciò che è chiamato scelta informata di fatto è una decisone basata su calcoli statistici del rischio. Cosa significa ciò quando una donna incinta è messa di fronte ad una serie di numeri statistici che rappresentano presumibilmente la sua idea di bambino sano? E cosa le dicono questi numeri? Nel XIX° secolo, quando ogni cosa, dal calcio di un cavallo alla grandezza di una sedia, veniva contato e registrato statisticamente, il sociologo e statistico Adolphe Quételet osservò che le leggi statistiche che regolano la società e le masse non possono essere applicate all’individuo: “queste leggi non hanno, in virtù di come sono state formulate, niente di personale in se stesse, e per questa ragione possono essere applicate agli individui con alcune restrizioni. Applicarle ad un individuo sarebbe così sbagliato come usare una tabella sulle probabilità di morte per determinare il giorno in cui una persona morirà”. Non più di cento anni dopo, tuttavia, ci siamo abituati a considerare le probabilità come predizioni personali. Ogni consultazione con un dottore oggi è potenzialmente piena di rischi spaventosi. Da una valanga di dati, gli statistici calcolano le probabilità che permettono loro di predire la frequenza con la quale una cosa può accadere nella popolazione artificiale dalla quale è stato ricavato il campione. Non appena trovano la loro strada nella pratica clinica, tuttavia, queste frequenze si trasformano in rischi minacciosi. I pazienti si aspettano sempre e giustamente che il loro dottore dica qualcosa di concreto e tangibile su di loro. Quando il medico attribuisce loro un rischio, essi inevitabilmente pensano che questa sia una diagnosi, una personale minaccia che sovrasta il loro presente come una spada di Damocle. Ma la definizione di rischio non si riferisce ad una persona concreta, ma ad un caso costruito; mai ad un “Io” o un “Tu” in una definizione colloquiale, ma sempre a un caso preso da una popolazione considerata statisticamente. “La caratteristica fondamentale dei dati statistici è sempre quella di perdere di vista l’uomo preso singolarmente per considerarlo invece una frazione della specie. E’ necessario denudarlo della sua individualità per arrivare all’eliminazione di ogni effetto accidentale che l’individualità può introdurre nel problema”. (Poisson S.D.) Nell’epoca delle curve di popolazione, delle previsioni di pioggia, e delle rassicurazioni genetiche, la consapevolezza del significato circoscritto dei calcoli statistici si è affievolita. I medici associano le probabilità statistiche di una diagnosi a un pericolo personale, dando un’apparenza di concretezza ad una frequenza astratta. Questo fraintendimento delle probabilità statistiche come personali minacce trasforma le persone sane in pazienti sofferenti di una nuova malattia iatrogena: ansia da rischio. Una volta che l’attestazione di un rischio di cancro al seno o di un attacco di cuore abbia scatenato fantasie su sofferenze e morte precoce, gli pseudo-pazienti trovano difficile recuperare la pace della loro mente. Sebbene liberi dalla malattia, essi vivono sotto l’ombra delle profezie mediche. I dottori non possono dissipare i nuovi timori dei loro pazienti, essi possono soltanto suggerire diverse strategie per gestire il rischio. Prendere medicine per la profilassi, osservare prescrizioni dietetiche e di esercizi fisici, e soprattutto eseguire regolari screening e monitoraggi sono considerati la salvaguardia contro il male evocato dai calcoli statistici. Il counseling genetico - Il counseling genetico è un servizio per insegnare ad una donna in attesa di un figlio come fare una “scelta informata”. La maggior parte della clientela dei consulenti in genetica è costituita da donne incinte classificate a rischio. A mano a mano che diventa più costrittiva la rete delle tecniche di monitoraggio prenatale come gli ultrasuoni e il siero materno, esami designati ad individuare i rischi, sempre più donne saranno etichettate “a rischio” e approderanno negli studi dei consulenti in genetica. Qui il genetista fa alla donna una lezione sulle diverse malattie genetiche, sulle probabilità di difetti congeniti, sulla sua collocazione nel diagramma dei vari rischi e sul pronostico minaccioso che incombe sul futuro del bambino ancora nel grembo e infine sull’obbligo per una donna moderna di prendere una decisione. Scopo dell’ora o due di corso accelerato in biostatistica e genetica non è l’ottemperanza ad una prescrizione di condotta professionale, ma la prestazione di “un’assistenza individuale per arrivare ad una decisione”. I genetisti spronano le loro clienti a prendere la propria decisione, dopo essere stati preparati professionalmente a farlo. La decisione è un evento storico: alla donna incinta viene chiesto, alla luce del suo profilo di rischio, se vuole subordinare la sua decisione al risultato di ulteriori test. La donna in gravidanza non è semplicemente assoggettata alla guida professionale, ma le si insegna a prendere la propria decisione. Questa decisione, comunque, ridefinisce radicalmente la sua condizione. Infatti la obbliga a gestire un profilo di rischio per il feto e a sentirsi responsabile delle conseguenze. Per questo mi sono dedicata ad analizzare la consulenza genetica intesa come una lezione su come prendere una decisione manageriale. Durante questo studio ho registrato trenta sedute di counseling in tre differenti centri di consulenza in Germania. La creazione di profili di rischio - Tornando alla signora C., essa durante il suo programma educativo ha imparato a scegliere tra due rischi: in caso di un risultato positivo del test, dovrà decidere se terminare o meno la gravidanza; da una parte il rischio di indurre un aborto, dall’altra parte il rischio di partorire un bambino disabile e di essere “condannata” per non averlo evitato. La signora C. si ritrova in un situazione dove può scegliere soltanto il minore dei mali. Ogni anno migliaia e migliaia di donne incinte sono poste di fronte a questo dilemma. Entrano nella stanza preoccupate per il benessere del nascituro, con il dubbio se effettuare o meno alcuni esami addizionali. Dopo la seduta sono gravate da un nuovo compito: sono state rese responsabili della gestione del rischio del feto. In seguito analizzerò come un’ iniziativa mirata alla responsabilità e all’autonomia porta la madre, in maniera surrettizia, ad essere una sostenitrice di un miglioramento della diagnosi prenatale per le future popolazioni. L’attribuzione del rischio - “L’Informazione” è un valore vuoto, specialmente nel counseling genetico. Dopo la seduta, la signora C. non conosce niente di nuovo su se stessa e sul bambino che deve nascere. Al contrario, essa è stata informata dei vari rischi statistici che si considerano come un’informazione significativa per lei. Dall’esito positivo del suo test di gravidanza, il consulente deduce un “rischio base”. Dalla sua documentazione egli tira fuori un’illustrazione che mostra un circoletto bianco con un sottile spicchio nero dentro: “Guardi qui - dice - ogni donna ha questo cosiddetto rischio di base, dal 3 al 5%, che il bambino possa avere una malattia congenita”. Quindi le elenca tutto quello che può avere il bambino che deve nascere: palato aperto, difetti al cuore, ritardo mentale. Questo rischio riguarda tutte le donne in gravidanza senza eccezioni, sentenzia il dottore, quindi anche la signora C. Ciò include anche le malattie genetiche che possono inaspettatamente saltar fuori in una generazione. “Può capitare a tutte, ciò fa parte del rischio di base”, le dice per aiutarla. I test prenatali di routine non possono prevedere la maggior parte delle anomalie genetiche. La sindrome di Down può essere prevista ed è per questo che il bambino con gli occhi a mandorla è diventato in generale l’emblema del ritardo mentale. Per cui l’educazione sugli errori citologici che portano al Trisoma 21 è un capitolo ineludibile dell’educazione prenatale. Il genetista mostra alla signora C. una curva di rischio rapidamente crescente e le chiede l’età. Egli stabilisce che la probabilità è 1.87. Questo numero misura la frequenza di bambini nati con la sindrome di Down nella schiera statistica delle donne di trentasei anni. Che cosa può significare questo per una donna in attesa del suo primo bambino? Come lo psicologo cognitivista Gerd Gigerenzer ha dimostrato, le probabilità sono travisate dalla maggioranza delle persone, sia si tratti di esperti che di clienti. Una previsione del tempo del trenta per cento di possibilità di pioggia, per esempio, viene interpretata in modi fantasiosi. Ciò significa realmente che il meteorologo è il creatore di un domani fittizio. Ma per il solo reale domani che esiste, il rischio è irrilevante. La signora C. tuttavia è preoccupata per il suo solo reale domani, per il suo bambino che sta per arrivare. I vari rischi che le sono stati delucidati non hanno aggiunto una sola virgola alla sua conoscenza di se stessa e del suo bambino che deve nascere. Tutto quello che il consulente poteva fare era spiegare cosa potrebbe accadere ed esprimere questo “potrebbe” in termini statistici. Ma le sue formulazioni colloquiali - “il tuo rischio” - e l’equazione tra rischio e incertezza, o addirittura pericolo, conferiscono un’apparenza di concretezza a una frequenza astratta. Le probabilità statistiche alla fine si traducono in una minaccia personale, una presunta, tangibile realtà. Lezioni su come prendere decisioni come manager di se stessi - I clienti come “decision maker” I consulenti in genetica giustamente respingono l’accusa di far pressione sui loro clienti perché si sottomettano ai test. Il genetista Schmidtke chiarisce molto bene che non è possibile per i medici stabilire una prescrizione medica per la diagnosi prenatale: prima di tutto, perché questa non è una cura. Nell’eventualità di un risultato positivo del test, la donna dovrebbe decidere tra far nascere un bambino “evitabile” e interrompere la gravidanza; secondariamente perché essi non possono fondare il loro parere sulle probabilità di rischio. I consulenti in genetica fanno velocemente marcia indietro quando i clienti chiedono loro di interpretare i valori di rischio che gli sono stati esibiti . Nella migliore delle ipotesi gli esperti inseriscono una postilla riguardo alle statistiche in generale del tipo: “queste sono solo statistiche”. È accaduto che un consulente abbia detto esplicitamente ad una sua cliente di dare lei stessa senso ai dati numerici. Dopo averla informata che il rischio di mettere al mondo un bambino affetto dalla sindrome di Down era dell’1%, disse:“Questo è prima di tutto solo un numero. Può essere considerato sia alto che basso. Questo è un punto di vista assolutamente personale ed è giusto così. Alcuni diranno che è fortunatamente basso, e un’altra famiglia dirà, e anche loro hanno ragione, che è più di quanto possano accettare. La cosa può essere vista in modi del tutto diversi.” La trappola della decisione - Senza una pressione diretta la signora C. è stata trasformata in una “decision maker” nel sistema dei servizi prenatali. “Sia che tu lo faccia o no, ad un certo punto la decisione va presa”, come un altro consulente le aveva dichiarato seccamente. I consulenti genetici non si preoccupano di quello che le loro clienti decidono, quello che interessa loro è che facciano una “scelta informata”. I consulenti, quindi, offrono l’opzione non soltanto di usufruire dei test prenatali, ma anche di astenersi dal farli. Allo stesso modo in cui il consulente genetico calcola i rischi che un test può implicare, calcola anche, in anticipo, i rischi cui la stessa donna si espone se sceglie di non sottoporsi all’amniocentesi. Nel fare questo il consulente modella il futuro della donna in modo tale che ogni possibile risultato può essere visto come una conseguenza della sua decisione. Questo imprigiona la donna in una trappola: “la trappola della decisione”. Che il risultato dell’amniocentesi sia un aborto o un bambino down, di colpo la donna si trova responsabile anche di cose sulle quali non può avere alcuna influenza. L’essere semplicemente incinta, fatto che non era messo in discussione una o due generazioni fa, ora non è più possibile. La trappola della decisione trasforma lo stato di “attesa” nella “decisione autonoma” di accettare il rischio di dare la vita ad un bambino disabile. Un altro consulente ha detto esplicitamente alla sua cliente che oggi una donna deve incolpare solo se stessa se lascerà le cose al destino. Se non la obbliga a fare il test, tuttavia mette ben in chiaro che lei deve essere consapevole di che cosa sta facendo se sceglie di non farlo. Dopo averla informata dei rischi correlati alla sua età, circa il far nascere un bambino Down, afferma con sguardo assente: “In ogni caso, lei sa, che se non vuole semplicemente inchinarsi al fato, può non farlo”. Conclusioni - La consulenza genetica prenatale è un esempio significativo di un nuovo genere di impresa educativa. Questa, in modo esplicito, facilita una “scelta informata” sulla base dei rischi in un campo dove tradizionalmente c’era posto per una buona speranza, ma non per una decisione, anche negli stati avanzati di gravidanza. Questo non solo non incrementa l’autonomia della donna, ma nemmeno l’avvicina al suo desiderio: un bambino sano o per lo meno “normale”. Non di meno cambia radicalmente ciò che significa essere madre. Ciò che è in gioco qui non è solo la salute mentale della cliente, ma anche la sua preoccupazione per il bambino che porta in grembo. La donna che riceve la consulenza aspetta un bambino, un “Tu” che sta per venire alla luce. Mano a mano che il suo ventre cresce, lentamente si rivolge allo sconosciuto che diverrà l’essere più caro. E questo particolare stato d’animo di attesa, delicato e vulnerabile, è diventato la porta d’accesso per la reinterpretazione scientifica di “Io” e “Tu”. Nella consulenza genetica il suo desiderio di aver cura del bambino in arrivo viene trasformato nel dovere di soppesare rischi e benefici, di considerarlo come un profilo di rischio calcolabile, un membro senza volto di una popolazione statistica. L’intervento non è stato rivisto dalla relatrice IL BENEVOLO DISORDINE DELLA VITA Marcello Buiatti La civiltà umana sta attraversando un momento molto critico, ed una delle criticità maggiori riguarda proprio il rapporto tra uomo e scienza. Molte persone vedono la scienza come un insieme di regole apodittiche, considera gli scienziati come uomini con capacità magiche di predire il futuro e rifornire strumenti assolutamente sicuri per migliorare la vita delle persone. Questa tendenza deriva da una sorta di continuazione del processo evolutivo dell’homo sapiens. L’uomo ha iniziato cacciando e pescando, poi ha trovato gli ambiente adatti alla vita. Successivamente il nostro cervello ha iniziato ad immagazzinare informazioni, ad astrarre gli input provenienti dall’esterno per proiettarli sulla materia (questa è l’arte: chi dipinge non dipinge l’oggetto che vede, ma l’immagine che ha dell’oggetto stesso). Da qui è iniziato il processo evolutivo. Quindi abbiamo iniziato a costruire l’oggetto sul progetto, abbiamo modificato l’ambiente secondo il progetto e le nostre esigenze, abbiamo creato oggetti frutto della nostra costruzione, abbiamo scambiato gli oggetti, poi li abbiamo venduti (nascita della moneta), ed oggi stiamo scambiando solo moneta. C’è stato quindi un processo di alienazione completo, da quella che è la nostra materia viva a qualcosa che è sempre più lontano dall’uomo “materiale”. Il primo grande cambiamento è avvenuto con la nascita della società industriale. Non può a questo punto non venire in mente il film “Metropolis” (1927), che altro non è che una città del 2000, orgogliosa dei suoi grattacieli e delle sue sopraelevate. Siamo stati guidati, proprio come descritto da “Metropolis”, dall’utopia meccanica, abbiamo cioè pensato di esser così bravi da poter prevedere e cambiare tutto secondo i nostri fini. In questo processo si innesta il mutamento storico delle scienze che hanno a che fare con la vita. Noi che lavoriamo in questo campo abbiamo grandissime responsabilità verso la gente, siamo responsabili nei confronti delle persone, perché studiamo la vita, studiamo gli essere umani che sono vivi. Per cui i concetti che noi traiamo dai nostri studi sulla vita e che comunichiamo, hanno a che fare con gli esseri umani, quindi influenzano molto la concezione di noi stessi. Ma noi stessi subiamo influenze dall’esterno, perché una concezione che diventa generale, si trasforma in immaginario scientifico e noi ci riflettiamo in essa. Vi faccio un esempio concreto. Il “Dogma centrale della biologia molecolare” rappresenta la concezione prevalente della scienza. Il termine dogma ci comunica già qualcosa di molto sbagliato, perché la scienza non offre verità universali, ma, in quanto ricerca, deve discutere continuamente le verità, che sono sempre locali e parziali. Il termine dogma quindi non ha niente a che fare con la scienza, ed implica una impostazione rigida, molto aderente all’utopia meccanica, secondo cui si è capaci di capire tutto e quindi di offrire verità universali La vita è vista come un computer con un DNA, dentro il quale è contenuto il futuro. In questa concezione è implicita una grande paura del disordine, il terrore del cambiamento, la paura della diversità, la voglia di essere tutti omogenei e migliori, una nozione quest’ultima terribile e profondamente sbagliata. Il concetto di migliore implica che il nostro obiettivo di esseri umani è di fare un mondo composto da tutti migliori, ottimali, tutti uguali, perché se c’è un ottimo cerchiamo di uniformare tutto a quel modello. La richiesta di produrre “il migliore” è quella che proviene dalla gente, perché piace molto. Mi chiedono, ad esempio, di cercare il gene dell’immortalità, della fedeltà coniugale, dell’omosessualità, ecc. Noi allora tendiamo a cercare quel gene. Molti testi scolastici, giornali, televisioni, ecc. contengono questi messaggi, ma la vita non è fatta così, è molto diversa. Secondo la logica del “Central dogma” gli esseri umani sono degli oggetti che possiamo modificare, sono oggetti e quindi possono essere brevettati e venduti. I componenti del DNA sono considerati come il software di un computer. E’ quindi possibile predire tutto, cambiare alcune componenti senza danneggiarne altre. Le conseguenze ideologiche e filosofiche di questa concezione sono terribili: gli esseri umani sono diversi fisicamente o mentalmente solo perché hanno DNA diversi, non sono influenzati dall’ambiente. Da questo deriva che l’unico modo per cambiare gli uomini è quello di modificare il DNA. E ci sono due modi per modificarlo: uno è quello di eliminare chi ha un DNA “sbagliato”, l’altro - più moderno e tecnologico - è quello di modificare i geni contenuti nel DNA, estraendo quelli considerati “scomodi” e sostituendoli con altri. Queste concezioni non hanno niente a che fare con la scienza, vengono molto prima della biologia moderna. I sostenitori del determinismo e meccanicismo sostengono inoltre che le differenze tra le razze sono causate da diversi DNA, e questo non è vero, perché non esistono diverse razze di esseri umani dal punto di vista biologico. Già Platone nella Repubblica diceva che per non dare alla gente troppe ambizioni ed aspettative sul futuro era consigliabile dire loro che il figlio dell’oro è d’oro ed il figlio del bronzo è di bronzo. Questo significa che era necessario convincere coloro che sono di bronzo (i più poveri), che la loro situazione non poteva mai cambiare, nemmeno in futuro. La pecora Dolly è l’immagine dell’omogeinizzazione. Vogliamo clonarci, perché siamo i migliori e vogliamo che tutto il mondo sia come noi. Dolly è il simbolo dell’utopia meccanica, ma anche della non realtà scientifica dell’utopia meccanica, perchè la clonazione è fallita dal punto di vista scientifico. Una ricerca condotta da Wilmuth - il “creatore” di Dolly - su tutti gli animali clonati ha dimostrato che nessuno dei pochissimi superstiti è completamente normale. Questo ha reso Wilmuth il più acerrimo nemico di Severino Antinori, il sedicente “clonatore” di esseri umani…forse la vita non è così meccanica come sembrava? Nascono quindi alcuni problemi teorici fondamentali dal punto di vista di un biologo: noi siamo veramente determinati solo dal DNA? Sarebbe bene che noi fossimo tutti omogenei e predeterminati? Dobbiamo rispondere a queste domande utilizzando gli strumenti che ci offre la biologia contemporanea, non quella moderna. Faccio questa distinzione, perché la biologia risente dello spirito del tempo, e la biologia moderna risente ancora della concezione uomo-macchina. Dai dati biologici sappiamo che nel processo evolutivo vince non il migliore, ma chi ha la capacità di cambiare, chi è plastico, chi “se la cava”. Abbiamo infatti scoperto che durante l’evoluzione si sono affermati meccanismi che garantiscono una certa dose di variabilità, perché coloro che sono variabili vivono meglio. La variabilità potenziale scelta di momento in momento avviene grazie alla comunicazione tra le molecole. C’è da dire che le diverse classi di organismi hanno sistemi diversi per variare; nel caso dei batteri ad esempio, la vita è molto corta (circa 20 minuti), quindi non hanno bisogno di mutare durante la vita, ma di generazione in generazione, quindi cambiano il loro DNA molto velocemente e si scambiano DNA anche fra specie molto lontane. Piante ed animali invece hanno cicli ci vita molto più lunghi, quindi devono essere plastici durante la loro esistenza; per questo non mutiamo rapidamente i nostri geni, eccetto quelli che producono gli anticorpi e quelli che “curano” il cervello, questo perché la capacità di plasticità del nostro cervello è maggiore rispetto a quella del DNA, che assume diverse forme. Questo è importante perché il DNA deve riconoscere le proteine ed i segnali per complementarità di forme. I segnali che vengono dall’esterno (proteine) attivano di volta in volta determinati geni, che rappresentano solo una piccola parte del DNA (l’1,4%, abbiamo 25.000 geni). Il resto del DNA - la stragrande maggioranza - è formata da DNA stesso che serve per regolare il funzionamento dei geni, per dargli plasticità: se fa caldo mi si devono avviare solo i geni che producono il sudore, perché si attiva un fine meccanismo di passaggio di segnale da alcune proteine che stanno intorno alle mie cellule, fino al DNA. I geni sono “ambigui”, perché possono essere letti in modo diverso. Un singolo gene può infatti essere trascritto ad iniziare ed a finire in punti diversi, dando diversi RNA e quindi diverse proteine. Oppure l’RNA che viene da uno stesso gene può riorganizzarsi, producendo diverse proteine: basti pensare che un solo gene può formare 38.000 proteine, quindi svolgendo 38.000 compiti diversi, e questo avviene grazie a segnali che arrivano. Le proteine che collegano i neuroni del cervello sono di diverso tipo: abbiamo le caderine, che per aumentare di numero modificano il loro DNA, e le neurexine (3 geni producono 2250 neurexine). Un gene quindi non è un enzima, è ambiguo, è plastico, e ci aiuta a creare “il benevolo disordine della vita”, ovvero la libertà che ci serve per vivere meglio in armonia. Tutti questi processi devono avvenire in modo armonico, senza rotture della rete, reti che si adattano all’ambiente, alle sensazioni, ecc. Dobbiamo essere contenti della nostra plasticità. Noi abbiamo un serbatoio di variabilità impressionante. Questo anche grazie al fatto che, nonostante siamo forniti solo di 25.000 geni, abbiamo nella corteccia cerebrale ben 100 miliardi di neuroni capaci di fare un milione di miliardi di connessioni (per contare da 1 a un milioni di miliardi servirebbero 32 anni!). Le sinapsi (connessioni tra neuroni) cambiano durante tutta la vita, e questo ci permette di avere pensieri completamente diversi e di conservarli nella nostra memoria. La nostra strategia di adattamento, sin dall’inizio, è stata fondata proprio sui pensieri, cioè sull’elaborazione mentale, il cambiamento dell’ambiente, ecc. Questo è il contrario dell’immagine del computer, che non è plastico. Il nostro cervello è anche vicariante. Ad esempio una persona vedente a cui facciamo sentire un suono attiva solo l’area dell’udito, la persona non vedente invece utilizza anche l’area della visione, quindi ha un udito migliore. Un topolino che viene allevato al buio fin dalla nascita diventa cieco, perché i fasci di neuroni che vanno dall’occhio al cervello si atrofizzano, le sinapsi relative muoiono e nuovi fasci collegano i baffi (organi tattili) al cervello. Questo per dimostrare che noi abbiamo bisogno di diversità, non solo fisica, ma anche culturale, perchè il contenuto di informazione è infinitamente superiore nel cervello che nel DNA. E’ necessario a questo punto sottolineare alcuni punti: • • • le diverse popolazioni umane hanno lo stesso patrimonio di diversità genetiche ma diversi patrimoni culturali. L’evoluzione culturale é un processo infinitamente più rapido ed efficiente di quello genetico. Inoltre l’evoluzione culturale può regredire anche in forme diverse, cosa che non succede in quella genetica. La comunicazione fra esseri umani influenza non solo la mente ma anche il corpo ed il cervello, determinando notevolmente i comportamenti e le dinamiche fisiologiche. Ultimamente ci stiamo dimenticando dell’importanza della diversità culturale e non. Una delle cose più sbagliate e pericolose è il tentativo di omogeneizzazione dell’agricoltura, perché è una omogeneizzazione di esseri viventi. Più specie possono resistere al cambiamento delle stagioni, delle piogge, del clima, ecc. Anche le donne contadine di Oaxaca, rispondendo ad un sondaggio, dissero che volevano un mais variabile, che riuscisse a garantire un po’ di raccolto ogni anno. Noi paesi industrializzati invece, dal tempo della cosiddetta “rivoluzione verde”, abbiamo pensato all’ideotipo, il migliore, che si ottiene con fertilizzanti, pesticidi, ecc. I risultati inizialmente furono anche positivi, ma fu un errore puntare ai singoli ideotipi, che hanno distrutto molte specie locali. Grazie alla rivoluzione verde, dal 1963 al 1984 abbiamo assistito ad un aumento della produzione agricola in molti paesi del sud del mondo, ma questa tendenza si è bruscamente invertita a partire dal 1985. Contemporaneamente i pesticidi ed i concimi chimici hanno provocato desertificazione, le campagne si sono spopolate, perché i contadini non avevano i soldi per acquistare i fertilizzanti, ed il costo di produzione (a causa dei prodotti chimici utilizzati) è aumentato. Comprendiamo quindi che l’agricoltura industriale si avvia ad avere costi esorbitanti, e questo è dimostrato dal fatto che non esiste in Europa un’agricoltura che non sia sovvenzionata dallo stato. Prima di continuare desidero puntualizzare le differenze fra questi tre tipi di modelli agricoli: • • • agricoltura di sussistenza. L’agricoltore si nutre di quello che produce. In questo modello si tende a produrre ogni anno qualcosa e per questo si mantiene la biodiversità; agricoltura industriale. Si produce il più possibile con alti costi e si compete per quantità. In questo caso si cerca la varietà ottimale; agricoltura di qualità. Si punta alla qualità con alti prezzi. La qualità si basa anche sulla biodiversità ed i prodotti tipici. Oggi stiamo perdendo i linguaggi e la variabilità genetica dei semi e delle razze. Il sud del mondo ha variabilità genetica, nel sud sono presenti i centri di origine di tutte le piante coltivate. Non è certo un caso se dove c’è biodiversità ci sono più lingue, più linguaggi. In Nord America ed in Europa non c’è praticamente più biodiversità, e contemporaneamente sta calando il numero delle lingue parlate. Il modello unico di economia modifica il clima, distrugge la variabilità a livello di ecosistema, di specie e di popolazione, consuma le risorse naturali ed umane, distrugge la diversità culturale, rende sempre più difficili le strategie esplorative, ovvero le strategie di adattamento degli esseri viventi. Il simbolo umano di questo modello è il Prodotto Interno Lordo (PIL, la massa monetaria circolante), considerato universalmente il parametro unico di benessere. Ma questo non è vero, perché, ad esempio, il PIL aumenta con le catastrofi naturali (serviranno soldi per la ricostruzione), il malfunzionamento del servizio sanitario pubblico (le persone pagheranno per farsi visitare dai privati), ecc. Inoltre il PIL non tiene conto del lavoro in famiglia, del lavoro volontario, del valore delle risorse naturali (inclusa la diversità), ecc. E allora perché il PIL è considerato ancora come il parametro principale per valutare la ricchezza di un paese? Perché noi crediamo che il benessere sia dato direttamente dalla moneta. Stiamo andando verso la finanziarizzazione di tutto, le tecnologie più avanzate sono utilizzate per produrre cose inutili: basti pensare che il primo prodotto delle nanotecnologie è stato un abito autosmacchiante, presentato lo scorso anno a Pitti Uomo. Sappiamo che in Italia viene considerato ricco chi compie speculazioni finanziarie e non chi produce. Questi sono tutti esempi di alienazione degli esseri umani dalla loro natura di esseri pensanti. Gli uomini non sono più contenti di pensare. Quindi o facciamo ripartire il mondo dalle cose reali, o rischiamo di proseguire secondo uno schema alienante che rischia di rovinare la nostra vita e quella altrui. E se pensiamo quanto fa male non pensare, capirete cosa voglio dire. OSSERVAZIONE SUL CONTRASTO FRA NOZIONI SCIENTIFICHE E COMUNE SENTIRE Samar Farage e Sajay Samuel E’ con gioia che Sajay ed io torniamo a Lucca: sedere qui nel Palazzo Ducale, camminare sulle mura, condividere vino, conversazioni e musica con gli amici che abbiamo incontrato è una bellissima sensazione. Per noi questa città è unica. Perché è soltanto a Lucca, in ogni visita, che l’arco del tempo volge all’indietro, richiamandoci e ricongiungendoci a quella bellissima sera nel cui ricordo siamo qui riuniti. Dire semplicemente grazie al Presidente Tagliasacchi per il suo continuo sostegno alla Scuola per la Pace e ai suoi programmi non è abbastanza. Dire semplicemente grazie a Rossana Sebastiani per i suoi sforzi ad organizzare questo ed i precedenti incontri, non è abbastanza. Dire semplicemente grazie ad Aldo Zanchetta per aver creato il Centro di documentazione interculturale “Ivan Illich”, per la quasi eroica insistenza nel mettere insieme così tante persone per questa serie di seminari e conversazioni non è abbastanza. Il suo compito non è stato certamente facile. Siamo grati per tutti gli sforzi che tengono in vita una piccola fiamma in un angolo di mondo, Lucca, dove degli amici possono riunirsi per pensare di e oltre Illich. Permettetemi di elencare quattro istanze che oggi sono considerate politiche. Alcuni di voi possono considerare altri argomenti più importanti, ma nessuno negherà che queste sono politicamente fondamentali. Prendo come prima istanza il cambiamento climatico per nessun’altra ragione se non perché è un problema di vastissima portata. La seconda istanza riguarda l’energia, nel cui nome alcuni stati dichiarano guerra ad altri. Cibi geneticamente modificati è la terza istanza, in modo particolare per i problemi posti dalla bioingegneria, sia per quanto riguarda le medicine, che gli animali e le persone. Infine il rischio del terrorismo, come il più discusso fra i problemi politici di oggi, costituisce la quarta istanza. Il cambiamento climatico non è quello che voi avvertite quando sudate in un giorno sorprendentemente caldo, sebbene in suo nome potreste smettere di usare un condizionatore. L’energia non è quella che voi usate quando andate al mercato, anche se in suo nome potreste evitare di usare la macchina. Potete sentirvi bene per aver aiutato a mettere al bando i cibi geneticamente modificati, anche se voi non vi rendereste mai conto di queste modifiche mangiando la vostra pasta. Il rischio in questi casi non è qualcosa di palpabile. Ciascuna di queste quattro istanze, dal cambiamento climatico al rischio del terrorismo, è un’idea scientifica. Io voglio pensare in modo ragionevole sulle idee scientifiche. L’argomento che discutiamo questa mattina è “Scienza, Etica e Vita”, cioè esplorare le relazioni, se ve ne sono, fra idee scientifiche e vita quotidiana. Questo argomento non sarebbe interessante se le idee scientifiche non uscissero dal laboratorio. Quando dico “idee scientifiche” non parlo di tecnologie che sono il risultato della scienza. Non sto quindi parlando della prevalenza o dell’effetto di simili oggetti tecnoscientifici; piuttosto voglio esplorare la cosiddetta “natura” delle idee scientifiche in quanto tali. E’ ovvio che le idee scientifiche non sono più confinate all’ambulatorio del medico o dello psicologo. Un’attenzione minima alle parole che noi usiamo dovrebbe rimuovere qualunque dubbio circa la saturazione della lingua di ogni giorno da parte della terminologia scientifica. Tralasciamo il discorso pubblico o privato che viene usato tra amici e innamorati. Facciamo soltanto attenzione per il momento al discorso politico. E’ evidente a ciascuno di noi, leggendo i giornali, che i termini scientifici costruiscono la struttura del discorso politico. Potete forse immaginare il campo della politica contemporanea senza parole come “ecologia, energia, calorie, rischio, sesso, sistema, disoccupazione” e così via? Questo uso allargato dei termini scientifici è soltanto la manifestazione di una connessione più profonda tra scienza e politica. Sia che noi parliamo di “cambiamento climatico”, di “commercio”, oppure di “cibi geneticamente modificati” o di rischi della sicurezza, risulta chiaro che il discorso politico verte su idee scientifiche. Così possiamo concludere che il discorso politico contemporaneo è scientifico in due modi: primo perché verte sulle idee scientifiche e secondo perché è condotto nella terminologia della scienza. Questo non è un fatto sorprendente: molti sanno che il discorso politico è scientifico poiché riflette l’aspetto tecnoscientifico della vita moderna. Tuttavia, pochi sono disposti a discutere le categorie del discorso politico contemporaneo. Sebbene molti sembrino disposti a discutere, pochi sono disposti a pensare alla natura di ciò che deve essere deciso. Mi sembra che il problema di chi partecipa sia un problema secondario. Il problema primario è o dovrebbe essere: che cosa forma la materia di questi problemi politici ? Cioè, qual è la natura di idee scientifiche come “rischio”, “biosfera”, “ecosistema”, “gene”, “energia”? Vorrei esaminare la possibilità che ci sia una frattura fondamentale che separa le idee scientifiche, o ciò che chiamerò costruzioni scientifiche, dai concetti di senso comune. Aristotele considerava l’uomo un animale politico per sua natura. Secondo Aristotele l’uomo, per il fatto che parla, va oltre ciò che egli condivide con gli altri animali. Diversamente dagli animali, i quali esprimono sensazioni di piacere o di pena, è solo l’uomo che può parlare di giustizia e ingiustizia, di ciò che è buono, di ciò che è adatto. E la vita politica, per Aristotele e poi per tutta la lunga tradizione occidentale, è quella in cui gli uomini, vivendo in comunità, sollevano interrogativi circa il bene comune. Pertanto la domanda più ampia da fare è se le categorie nelle quali il discorso politico appare oggi, possono ospitare le grandi questioni della giustizia, del bene, di cosa sia appropriato. Considero la possibilità che i costrutti scientifici non si affidino a questa concezione tradizionale di politica. Invece essi si adattano meglio alla politica, intesa come un tipo di gestione scientifica della gente. Prima che io presenti questo argomento più vasto devo elaborare la distinzione che suggerisco tra costrutti scientifici e concetti di senso comune. Provo a spiegare questa distinzione con un esempio. E’ noto che, a partire da Newton, il mondo è scientificamente concepito come essenzialmente matematico. Dopotutto è stato Newton stesso che ha confessato nella prefazione alla sua opera di essere un moderno che cerca di sottomettere “fenomeni della natura alle leggi della matematica”. Nessuna meraviglia che Newton desse alla sua opera il titolo “principi matematici di filosofia naturale”. Qual è la differenza tra una descrizione quantitativa o matematica e una comprensione qualitativa o formale del mondo? Perché Newton fa una tale distinzione tra qualità e quantità? All’inizio è abbastanza evidente. Pochi di noi vedono “massa, spazio, energia e forza” quando guardano il mondo. Anche ora, per noi, “ghiaccio, acqua e vapore” appaiono come cose diverse, non solo come diverse manifestazioni di una combinazione di molecole di idrogeno e ossigeno. Qual è allora la differenza fra ghiaccio e vapore da un lato e H2O dall’altro? “Non c’è niente nell’intelletto che non sia prima nei sensi”. Questa è una famosa massima tomista che è stata ampiamente ripetuta per descrivere la relazione tra pensiero astratto e l’attività dei sensi. Sino a Cartesio, quasi tutti quelli che ragionavano su questi argomenti, erano d’accordo sul fatto che la ragione fosse dipendente dai sensi; il concetto era legato all’oggetto. Come si spiega che per la maggior parte della storia occidentale il comprendere concettuale fosse considerato come radicato nei sensi? Il concetto dipendeva dall’oggetto perché il concetto non era altro che l’astrazione dall’oggetto. Per la tradizione scolastica aristotelica il potere espressivo degli oggetti era unito al potere attivo dei sensi e dell’intelletto attraverso tre fasi di astrazione: percezione sensoriale, senso comune, percezione concettuale. Consideriamo l’azione del vedere per capire come la ragione fosse legata ai sensi. Per la tradizione pre-cartesiana era dato per certo che tutti gli oggetti esprimessero luminosità e colore. Secondo questa teoria, l’occhio poteva vedere il colore e la luce, l’orecchio poteva udire i suoni, la lingua assaporare l’amaro e il dolce. I colori non possono essere assaporati proprio come i sapori amari non possono essere uditi. Ora nel guardare un oggetto, diciamo una porta, è evidente che l’occhio non la tocca direttamente. Pertanto le qualità della porta debbono essere portate all’occhio. Delle molte qualità della porta, includendo la misura, la forma e la sostanza, solo le forme di luce e di colore possono fisicamente interessare l’occhio senza cambiarlo. La luce e il colore vengono propagate attraverso un mezzo trasparente come l’aria o l’acqua. La scolastica chiamava queste immagini di luce e colore emanate da quella porta come “sue specie”. Le specie illuminerebbero e colorerebbero l’occhio nel raggiungerlo ma questo non è ancora il vedere. L’occhio non era uno schermo vuoto nel quale si proiettavano le figure. Invece era un organo animato e senziente che era coinvolto nell’attività del vedere. Con qualcosa come piccole dita, l’occhio estrarrebbe o astrarrebbe le impressioni visive dalle specie e le invierebbe al senso comune. A differenza dell’occhio che era il senso esterno per la vista, il senso comune era il senso interno. Esso poteva non soltanto catturare quegli aspetti degli oggetti non afferrati dagli altri sensi come il movimento e la forma, ma anche ricevere le specie proprie a ciascun senso. Come sede per i diversi sensi, il senso comune potrebbe discriminare, giudicare e sintetizzare le specie per astrarre una forma percettibile. Per esempio la porta è allo stesso tempo quadrata e marrone. Noi percepiamo questa unione di due qualità, forma e colore, in un unico oggetto, la porta, a causa del senso comune che forma un’immagine mentale della porta. L’immagine così formata dal senso comune sta per la percezione della porta. Vedo quella porta con i miei occhi, ma percepisco quella porta come tale a causa del potere sintetizzante del senso comune. Tuttavia il passaggio dal mondo dei sensi esterni a quelli interni non cessa con l’immagine sensibile del mondo. La percezione non è la concezione e la concezione è la forma più alta di astrazione. Per la scolastica, la concezione concettuale di un oggetto richiedeva un terzo e ultimo gradino di astrazione. Un’immagine puramente concettuale dell’oggetto viene raggiunta soltanto quando la facoltà cogitativa, o l’intelligenza attiva di San Tommaso d’Aquino, astrae il concetto dalla percezione. Posso concepire l’idea di porta, che è l’essenza o la natura della porta astraendo da quella porta particolare tutte le sue peculiarità di forma, colore, misura, ecc. Così la massima “niente sta nell’intelletto che non sia prima nei sensi”, significava che l’uomo concepiva il mondo così come è. Un’armonia o accordo fra il mondo e la mente è mantenuto da astrazioni successivamente raffinate, in quanto percezione e pensiero dipendono da ciò che è dato. Entrambi non possono costruire il mondo. Tuttavia le idee scientifiche moderne si basano proprio sul rovesciamento di tutto questo. Vi ricordate Newton e la sua battaglia contro le qualità? Sono qualità come luce e colore che egli vuole trasformare in quantità matematiche; mentre per la tradizione, qualità e quantità erano due distinte sostanze, per esempio rosso non è un numero; per Newton, verde potrebbe essere una quantità. Per la tradizione aristotelica, differenti tipi di cose richiedevano differenti metodi di studio. Per esempio mentre la geometria era adatta allo studio delle linee, dei cerchi e degli archi, non era adatta allo studio delle cose naturali che cambiano costantemente. Newton era indifferente al senso del cambiamento. Egli era così ansioso di sottoporre tutta la natura alla matematica che inventò una tecnica per descrivere il cambiamento: “il calcolo”. Cartesio voleva rimpiazzare le immagini di colore e di luce che volano nell’aria con un modello matematico e meccanico di trasmissione di luce e colore. Egli aveva già assimilato il modello di visione strettamente fisico e meccanico basato sulla geometria dei raggi di luce elaborato da Keplero. Keplero sosteneva che la lente dell’occhio non era sensibile ed era incapace di astrarre le forme visuali dell’oggetto. L’occhio lavorava come una camera oscura: trasportando i raggi di luce proiettati sulla retina in una forma rovesciata. Questo modello di vista proposto da Keplero paralizzava l’occhio sensibile. E ciò che Keplero fece per l’occhio, Cartesio l’avrebbe fatto per gli oggetti. Dopo Cartesio, gli oggetti perderanno la loro intrinseca potenzialità di essere visti, proprio come gli occhi perderanno la loro innata capacità di vedere. Cartesio insisteva che tutta la realtà fisica era composta solo da tre tipi di elementi: terra, fuoco e aria. Per lui i grandi oggetti fisici come quella porta erano fatti di particelle di terra. Egli allora spiega la luce come un movimento meccanico di particelle. Il vedere è descritto come la pressione della materia sulla superficie dell’occhio e tutto questo è matematicamente modellato. Se la luce è una pressione meccanica, allora che cosa è il colore per Cartesio? Cartesio immaginava che le particelle dell’etere, essendo sferiche, potessero ruotare, ed erano i diversi modi di rotazione che causavano le differenze cromatiche. Per esempio, il rosso era causato da un roteare più veloce del blu. Permettetemi di riassumere la visione meccanicista del tempo di Cartesio. L’oggetto marrone quadrato che io vedo attraverso la stanza è la conseguenza di particelle di terra composte in una certa forma, e delle particelle di fuoco che trasmettono una pressione meccanica al mio occhio; tutto ciò fa roteare le particelle eteree che generano così il colore marrone. Senza dimenticare che, sebbene io veda quell’oggetto correttamente, esso è impresso nella mia retina capovolto. Questa è la spiegazione meccanica e matematica della vista che si è liberata delle forme della qualità della tradizione aristotelica. Quali conclusioni possiamo trarre da questo esempio chiaramente semplificato? Voglio condurre la vostra attenzione soltanto su un aspetto curioso delle moderne idee scientifiche. Considerate quello che Cartesio ha detto degli oggetti che noi vediamo. Egli ha detto che non c’è bisogno di sostenere che “c’è qualcosa in quegli oggetti che è simile alle idee o sensazioni che noi abbiamo di essi”. Ricordate che per Cartesio le sensazioni non conducono la forma di un oggetto alla mente. E ancora, poiché le sensazioni come la vista sono pensate come una conseguenza puramente fisica della materia in moto, la facoltà del senso comune diventa superflua. Così si apre un baratro fra la mente e il mondo; fra il concetto e l’oggetto. Di conseguenza, le percezioni del mondo diventano rappresentazioni puramente arbitrarie di esso. Questa rottura è insita nella natura delle moderne idee scientifiche. Se voi pensate che Cartesio sia troppo lontano nel tempo, sicuramente Einstein è più attuale. Einstein diceva che “I concetti fisici sono creazioni libere della mente umana, e non sono unicamente determinati dal mondo esterno”. Da Cartesio ad Einstein le idee scientifiche introducono una frattura fra la percezione e la realtà, fra ciò che sembra reale e ciò che è reale. Le moderne idee scientifiche così riflettono un’inversione della massima di San Tommaso: “non c’è niente nei sensi che non sia prima nell’intelletto”. Permettetemi di presentare una citazione da Galileo: nel Dialogo dei massimi sistemi fa dire a Salvati, “non c’è limite al mio stupore quando penso che Copernico ha potuto far conquistare alla ragione il senso, al punto che sfidando il senso la ragione è diventata signora delle loro credenze”. Per Galileo la validità della ragione non poteva basarsi sulla validità dei sensi. Al contrario: alla luce della certezza delle costruzioni matematiche, i sensi appaiono troppo deboli. Nessuna meraviglia che Galileo potesse anche dire che qualità come il colore, il gusto e l’odore erano soltanto create dalla coscienza umana, e che solo gli aspetti misurabili di una sostanza come la forma, la misura e il movimento fossero concepibili. Questo è un sentimento che Cartesio confermò radicalmente. Per lui le idee di massa e movimento erano chiare e distinte poiché erano matematiche nell’essenza. Le descrizioni quantitative di massa e movimento non sono astrazioni dal mondo sensibile. Invece, esse sono semplificazioni deliberatamente costruite. Nei sogni di Cartesio, Newton e la loro progenie, le costruzioni matematiche chiare e distinte rimpiazzavano la sensibile profusione di oggetti, qualità e forme. Nessuna meraviglia che fosse Cartesio a dire “penso quindi sono”. In un mondo matematicamente ordinato il sensibile può essere figurato nella forma del razionale. Ricordate la frase di Newton che voleva assoggettare il mondo della natura alle leggi della matematica? La nozione di “leggi di natura” sostiene esattamente questo: la natura obbedisce alle costruzioni matematiche. Questa allora è la ragione per cui io raccomando il termine “costruzioni scientifiche” per parlare delle moderne idee scientifiche. Le costruzioni, sia teoretiche che pratiche, sono un artefatto. Il concetto “costrutti scientifici” ci rimanda a come il mondo che è dato e i sensi che lo percepiscono sono ridisegnati per adattarsi all’artefatto. Contrariamente i concetti sono forme nate dal senso comune, che esprime l’unione tra il mondo e i sensi. Uno storico della scienza recentemente ha coniato una frase utile ad afferrare la distinzione che io suggerisco fra i concetti e i costrutti. Poiché i concetti sono il modo di conoscere le cose dall’esterno all’interno, dal mondo alla mente; i costrutti sono il modo di conoscere dall’interno all’esterno, dalla mente al mondo. Per la scienza moderna il dato scompare sotto il peso del costrutto; il mondo può essere immaginato come qualcosa che può essere fatto e rifatto. La credenza che i costrutti scientifici siano essenzialmente quantitativi fu consolidata subito dopo Newton. Solo le idee presentate in forme matematiche sono considerate legittimamente scientifiche, essendo tutte le altre mere opinioni. Il corso delle scienze naturali rimane fermo sulle sue basi matematiche e sperimentali. Ma dal Settecento le scienze umane hanno imitato le scienze naturali. La psicologia, la sociologia, l’economia e anche la politica sono considerate scienze sociali perché sono matematiche o hanno al limite trasformato la loro materia in termini matematicamente misurabili. Le categorie attraverso le quali noi definiamo noi stessi e la nostra esistenza comune sono costrutti arbitrari rimossi dall’esperienza del senso comune. Alcuni di voi si staranno chiedendo sottovoce “e allora?”. Bene, portiamo la nostra attenzione alla scienza politica o alla scienza della politica. La gente è il soggetto della scienza politica che può quindi essere considerata come la scienza della gente, della sua volontà, dei suoi comportamenti. Scienziati politici, economisti e statistici forniscono il materiale per le politiche pubbliche - gli eserciti senza fine delle leggi, regole e istituzioni - che provvedono ad illustrare come la gente si deve comportare. Ma se la scienza politica è il tentativo di matematizzare la vita politica di ogni giorno, allora le politiche pubbliche sono esperimenti condotti su di essa. Le quattro istanze politiche che ho nominato all’inizio di questo discorso (cambiamento climatico, energia, cibi geneticamente modificati e rischio del terrorismo), sono i soggetti della scienza politica. La scienza politica incornicia le istanze che le politiche pubbliche ambientali, energetiche e agricole mettono in essere. In ciascuna di queste istanze ci sono i costrutti scientifici - rischio, energia, gene - che creano la vera cornice di un’istanza politica. E le soluzioni politiche a questi problemi scientifici sono esse stesse tecnoscientifiche. Questo è ovvio nei trattati, accordi, leggi, regole e regolamenti, che mirano al miglioramento della salute, alla protezione della terra e a fornire sicurezza. Essi sono tutti scritti in termini scientifici e vertono su cose scientifiche. Questo quindi è ciò che si intende per politica oggi: la gestione scientifica del mondo e dell’uomo. Alla propria base, ciascuno dei termini chiave delle quattro istanze politiche che ho elencato sopra, è un costrutto scientifico. E’ autoevidente che l’ingiustizia non possa essere dibattuta in simboli matematici. E’ sempre possibile dire quando l’applicazione di una descrizione quantitativa è andata troppo oltre. Ma è impossibile descrivere matematicamente ciò che è buono. Se dibattere ciò che è buono e cattivo, adatto e non adatto, giusto e non giusto, è la vera natura dell’uomo come animale politico, allora segue che partecipare all’odierno discorso politico significa essere apolitici. E’ pertanto senza frutto per la gente comune come voi e me entrare nel dibattito su ciò che deve essere fatto in merito al cambiamento climatico e così via. O noi ci manteniamo estranei a queste idee, o accettiamo di partecipare alla gestione scientifica del mondo e dell’uomo. Per recuperare la tradizionale pratica della politica sembra che sia necessaria un’Áskesis epistemologica rispetto ai costrutti scientifici. Una corretta discussione politica circa il bene comune non può essere condotta se non attraverso concetti radicati nell’esperienza comune di ogni giorno. Per coloro che ancora credono che la vita politica si sviluppi intorno al dibattito su cosa è il bene comune, quanto detto sino ad ora può suonare limitativo. Ma non penso che sia motivo di disperazione dire che non posso partecipare ad un dibattito sul rischio in quanto non posso sperare di capirlo. Non penso che diffonda pessimismo la denuncia del discorso politico vittima della seduzione esercitata dalla gestione scientifica degli uomini. Non credo che sia un segno di debolezza discutere perché si rinunci ad un discorso ed a una pratica politica, per come vengono condotti oggi. Penso che una tale rinuncia sia la precondizione per scoprire la forma della nostra vita in comune. Sono dell’idea che rinunciare a ciò che si chiama oggi politica sia necessario per quella sobrietà gioiosa ricercata da coloro i quali hanno visto più lontano di noi. L’intervento non è stato rivisto dai relatori RITORNO ALL’EVIDENZA Massimo Angelini Guardo intorno per non parlare a un uditorio indistinto. E parlo a te, non a un microfono, e parlo con la mia voce, senza l’eco degli altoparlanti: perché ci sia un io che parla con un tu. E se qualcuno non sente, vuole dire che la sala è troppo grande e inadatta a un incontro tra persone. Mi interesso del mondo rurale, dei suoi prodotti, degli usi e degli ortaggi tradizionali. Sono impegnato nel sostegno ai contadini che vivono vicino a Genova. Mi interesso del sapere della gente comune, quello che nasce dall’esperienza. Il sapere verboso, complicato e astratto lo trovo poco interessante. In questi due giorni di convegno ho sentito parlare di argomenti importanti, ma qualche volta ne ho sentito parlare con un linguaggio difficile, e qualche volta mi sono chiesto se la gente che conosco e frequento riuscirebbe a capire davvero quello che è stato detto. In occasioni come questa, qualche volta sento nelle parole di chi parla il piacere della complicazione, e il sapere che nasce dalla testa, vive di pensieri senza corpo, e fa sentire piccolo e inadeguato chi non ha studiato abbastanza e non conosce tutte le parole. E tutto questo non lo so più apprezzare, anche perché sono convinto che la cultura e il sapere nascono prima dalle mani. Non mi fido della cultura e del sapere che non nascono dalle mani, e non mi fido di chi parla di cose che non conosce con le mani. Penso che chi non sa fare una cosa dovrebbe astenersi dal parlare di quella cosa: e penso che nel mondo delle troppe parole c’è bisogno di castità e di pudore. Eppure conosco persone che insegnano la storia del movimento operaio senza aver mai lavorato. Conosco persone che insegnano la storia dell’agricoltura, senza aver mai piantato un cavolo. Conosco persone che scrivono guide sui vini senza aver mai fatto una vendemmia. Sono certo che l’esperienza aiuti a raccontare il mondo; e sono certo che chi passa il tempo sui libri può solo raccontare opinioni: deboli, senza fondamento e senza passione. A volte mi dico che se potesse parlare solo chi ha l’esperienza “delle mani”, tanti convegni sarebbero risparmiati. Sull’esperienza si fonda il sapere della gente comune, il sapere che nasce da un rapporto diretto e quotidiano con il mondo, quello che parla il linguaggio dell’evidenza: il linguaggio che tutte le persone possono condividere. Questo sapere condiviso - pratico, spesso legato a un luogo e a una comunità - non genera caste, perché tutti ne possono essere titolari e portatori. Negare il sapere della gente, quello dell’esperienza - pratico, spesso legato a un luogo e a una comunità - e agire come se il solo sapere degno di essere detto, insegnato e trasmesso fosse quello dei laboratori, dell’università, delle cliniche e degli studi professionali, mina le fondamenta del bene comune e attenta alla democrazia. Non può esistere democrazia in una società fondata su una professionalizzazione del sapere che sempre di più tende a invadere ogni aspetto della vita: il dietologo per mangiare, il sessuologo per fare l’amore, il puericultore per allevare i figli e, perché no, un consulente anche per morire. L’abitudine alla delega delle conoscenze è sempre più diffusa, anche se riguarda saperi innati, appresi dalla familiarità e dalla consuetudine, o consegnati nello scorrere della tradizione. L’abitudine alla delega rende inesperti a vivere e rende bisognosi; trasforma la vita in una sequenza di procedure, nell’esecuzione di un manuale di buone pratiche. Negare l’esperienza e le conoscenze che derivano dalle mani e dai sensi, quelle comuni a tutti, è negare che tutti possono essere generatori e portatori di sapere e questo genera gerarchie di competenze e di potere, rende impossibile la democrazia e, aggiungerei, contribuisce alla dissociazione da se stessi e dal mondo. Nel passaggio tra il 1500 e il 1600, la scienza empirica, quella fondata sull’esperienza, è stata oscurata dalla scienza sperimentale. Questo passaggio ha segnato un cambiamento profondo nel modo di apprendere il mondo. Si è definita la figura dello scienziato come specialista, come iperspecialista fino a smarrire la visione d’insieme delle cose e il senso della sintesi. Sono cambiati gli strumenti adatti per osservare e raccontare un mondo fatto di particelle estranee alla nostra esperienza. Se la fonte per conoscere il mondo non è più il “mesoscopio” dei miei occhi, ma il microscopio elettronico o il radiotelescopio, cosa succede? Succede che i miei occhi non bastano più, non sono sufficienti per conoscere, e che la conoscenza è riservata a chi usa e sa interpretare anche per me quegli strumenti. Ma il microscopio o il telescopio quale mondo ci fanno vedere? Attraverso questi strumenti, saprei riconoscere mio figlio o mio padre? Saprei riconoscermi allo specchio? Saprei innamorarmi? La scienza, attraverso linguaggi e strumenti alla portata di pochi, oggi racconta un mondo che le persone non possono capire senza qualcuno che glielo interpreti. Tra il 1500 e il 1600, l’accesso ufficiale alla conoscenza passa dal laboratorio per rimanerci, e si pongono due condizioni perché un fenomeno possa essere studiato: che sia ripetibile e che non subisca influenze esterne. E questa, se ci pensi, è una bizzarria, perché la vita muta continuamente e ogni cosa vive nella contaminazione e nell’influenza di ciò che la circonda. Eppure quella che nasce dalla ripetizione asettica è diventata la vera conoscenza, quella scientifica: è da questa che si ricavano le leggi generali, dimenticando che la vita, la nostra vita, è particolare e irripetibile Insieme al cambio della strumentazione, la scienza sperimentale ha portato al trasferimento dell’osservazione della natura dal mondo al laboratorio e ha portato verso una professionalizzazione del sapere sempre più spinta ed esclusiva. Ti propongo un esempio. Tutti noi vediamo che il sole gira intorno alla terra e percepiamo che la terra è ferma (se non te ne accorgi più, se non te lo ricordi, chiedi a un bambino!). Ma ci hanno insegnato che è vero il contrario, che è la terra a girare intorno al sole e aggiungono che la terra gira su se stessa: ci hanno insegnato che i sensi ingannano. Eppure, in assenza di punti fissi, se si pensa alla relatività del movimento dei corpi celesti è del tutto indifferente dire che la terra gira intorno al sole o il suo contrario, oppure dire che gira su se stessa o che è immobile. Ma, non è altrettanto indifferente dire che i nostri sensi - quelli di tutti noi - ci ingannano. E tutto questo come potrebbe non generare conseguenze per la salute mentale e per quella della democrazia? Credo che i danni derivati dall’affermazione che la terra gira intorno al sole siano superiori ai benefici che a quell’affermazione sono seguiti. Del resto, prima di Keplero e Galileo l’astronomia era sufficientemente raffinata per spiegare agli uomini tutto quello di cui avevano bisogno: le meteore, i movimenti delle stagioni e le forme apparenti della luna erano fenomeni già spiegati, non servivano altri modelli. La conoscenza del cielo coincideva con l’esperienza di ogni persona, i nostri occhi e il nostro buon senso rendevano tutti abbastanza esperti, e tutti potevano capire. Oggi invece il cielo è letto con gli strumenti dell’astrofisica, strumenti che sono a disposizione di pochi. Questi pochi comunicano ad altri pochi le loro scoperte, spesso con linguaggi difficili e con ipotesi che si negano a vicenda. E quello che la gente comune sa sul cielo attraverso gli occhi o per esperienza diretta non vale più nulla, è negato o è messo in ridicolo. È grave il fatto che ci abbiano insegnato a non fidarci più dei sensi, sostituendo all’evidenza teorie che contraddicono l’esperienza comune. Qualcuno potrebbe dire che grazie all’astrofisica è stato possibile esplorare lo spazio, contornare la terra di satelliti e teorizzare l’implosione che ha dato origine all’universo. Sinceramente, non credo che l’esplorazione dello spazio, la sua militarizzazione e la pervasività delle comunicazioni satellitari abbiano reso il mondo migliore e le persone più felici. So, però, che conoscere le stelle più lontane e non conoscere il viso del mio vicino di casa è strano e in sé ha qualche cosa di insano. Negare l’esperienza porta al disorientamento e alla sfiducia negli strumenti dei quali si dispone: non è questo un seme di follia, di scissione dal mondo e da noi stessi? Ma la negazione dei fenomeni è una storia vecchia, che va oltre Galileo; si ripete da millenni che esiste un mondo dietro il mondo, ma poiché non è accessibile a tutti serve qualcuno che ne sia mediatore o interprete e lo spieghi a tutti. Mediando e interpretando il mondo-dietro-il-mondo (cioè, la “vera” realtà che non possiamo vedere e per accedere alla quale i nostri sensi non bastano) stregoni, sacerdoti, scienziati diventano indispensabili e sempre più potenti. Giocando con la superstizione del mondo-dietro-il-mondo e della conoscenza riservata a pochi, si mortifica il senso comune e l’evidenza dei sensi, e in questo modo si dichiara, e così si rende, la gente comune sempre di più inabile e impotente. La storia della negazione dei fenomeni è profonda e viene da lontano. Su questa negazione ci hanno costruito la loro fortuna sistemi di pensiero, credenze, fede, scienza e potere. Ascolta: se riesco a comunicarti che quello che vedi non è reale, ti destabilizzo; se ti convinco che quello che vedi non è vero, ti rendo bisognoso, ma anche dipendente, oppure suddito. Non caderci, non cadiamoci: quello che è sotto gli occhi di tutti non ha bisogno di esperti, non ha bisogno di protesi dei nostri sensi. Pensaci: quando i nostri sensi non bastano più, quando la nostra capacità di capire non basta più, quando le nostre mani non servono più, cosa resta di noi, della nostra autonomia, della nostra umanità? Dico senza vergogna e senza orgoglio che da alcuni anni non leggo libri che raramente. Mi piace passare il tempo parlando con la gente, incontrandomi quotidianamente con le persone. Ogni giorno mi incontro con persone che hanno una cultura fondata sulle mani, un sapere legato all’esperienza, continuamente ridefinito, un sapere che serve a fare qualcosa, che si trasmette attraverso la pratica, l’imitazione, la ripetizione dei gesti, meno bene con le parole, raramente con i libri. Nel mondo contadino il sapere è cumulativo, parla un linguaggio comprensibile nella comunità, si evolve lentamente nel tempo delle generazioni, non è fisso, si rinnova lentamente. Nel mondo contadino l’autorevolezza non nasce dai titoli accademici, dai libri letti, dal livello di scolarizzazione raggiunto o dalla quantità di citazioni conosciute, ma dal saper far bene una cosa, in modo riconosciuto e approvato nella comunità. Io non so niente dei grandi problemi dell’universo, non conosco nulla dei grandi temi della vita, non conosco l’eternità, non so cosa sia e se voglia dire qualcosa che non capisco. So solo che possiamo riprendere gusto per l’evidenza. Un piccolo esercizio: tornare a decidere se sia la terra o il sole a girare, chiudendo i libri e guardando il cielo, per ritrovare una risposta semplice, alla portata di tutti, che non semini contraddizione. Mentre le risposte complicate spesso allontanano, e di solito portano con sé l’istituzione della casta e il dominio degli esperti. Così, di evidenza in evidenza, potremmo/possiamo arrivare a capire che tutti siamo esperti nel mestiere che si chiama “vita”, e che non abbiamo bisogno di mediatori, perché siamo sufficienti a noi stessi, con le nostre capacità, più di quanto ci sia permesso immaginare. Vorrei solo dire che servono occhi nuovi, e non di nuovi esperti, ma i nostri. E credo che possano bastare. POLITICA SENZA IL POTERE: L’ESPERIENZA ZAPATISTA Roberto Bugliani Prima di iniziare l’intervento desidero fare alcune considerazioni sui lavori del seminario residenziale e del convegno. La prima riflessione, un po’ amara, è che, ripensando ai quattro giorni del seminario residenziale, possiamo dire che purtroppo oggi si può parlare di resistenza e di rivoluzione solo nei conventi. Andando avanti di questo passo in un prossimo futuro ci resteranno solo le grotte… Il titolo del convegno “Politica senza il potere” può sembrare singolare, ma se lo rovesciamo in “Potere senza politica” allora non ci appare più così singolare, perché effettivamente oggi la politica è ridotta a mera amministrazione dell’esistente, avendo perso ogni sua connotazione critica e progettuale. Per cui riconferire importanza alla politica significa anche opporsi a questa radiografia dell’esistente che è il “Potere senza politica” e accettare la sfida sottesa al titolo del convegno,ossia “Politica senza il potere”. Un’altra sollecitazione l’ho avuta dall’intervento di Rodrigo Rivas che ha citato tre testi di cantautori, e questo mi ha fatto pensare che anche le cosiddette “arti minori” oggi contengano una buona dose di verità politica. Perciò anch’io desidero rispondere a questa “provocazione” citando i versi di una canzone di Ivano Fossati “Cara democrazia”, versi che mi paiono molto significativi: Con santa pazienza Ho dovuto aspettare Con quanta buona fede Sono stato ad ascoltare Cara, cara democrazia Sono stato al tuo gioco Anche quando il gioco Si era fatto pesante Così mi sento tradito O sono stato ingannato […] Sono giorni duri Sono giorni bugiardi Cara democrazia Ritorna a casa Che non è tardi. Inizio il mio intervento vero e proprio, facendo un breve excursus storico su quello che è accaduto in Chiapas in questi anni. Il 9 agosto 2003 il Comitato clandestino rivoluzionario indigeno dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (EZLN), con un atto celebrato nel Municipio Autonomo di Oventic (Chiapas), davanti a più di 20.000 basi di appoggio zapatiste e a migliaia di rappresentanti delle società civili straniere ha decretato la morte dei cinque Aguascalientes, spazi politico culturali di incontro tra comunità indigene e società civili, istituiti l’8 agosto 1994 durante la Convenzione Nazionale Democratica. Il nome Aguascalientes deriva dallo stato messicano che porta il medesimo nome, stato in cui ebbe luogo la Convenzione delle forze rivoluzionarie messicane nella seconda metà del XX° secolo. Questo ci fa capire quanto gli zapatisti siano attenti alla loro storia e a quella della resistenza internazionale e latinoamericana. Sempre quel 9 agosto, l’EZLN ha annunciato la nascita di cinque “Giunte di Buon Governo”, a cui è stato conferito il nome di Caracoles. Apro una piccola parentesi: caracol in spagnolo significa chiocciola e il disegno a spirale sul guscio della chiocciola è un simbolo importante per il pensiero indigeno, simbolo che è interpretato dagli zapatisti come un mulinello per entrare nel cuore (la conoscenza), ma anche un mulinello per uscire dal cuore e camminare nel mondo. Le Giunte di Buon Governo sono costruzioni politiche che amministrano i territori ribelli ed hanno giurisdizioni su trenta municipi autonomi. Questa trasformazione è stata molto importante dal punto di vista politico, in quanto inaugura una fase fortemente innovativa della lotta indigena, lotta annunciata da diversi documenti tra cui la XIII° Stele, un vero e proprio manifesto della nuova fase zapatista. Questo documento parla dei vecchi e nuovi rapporti tra società civili internazionali e movimento zapatista. Qui parlerò di società civile, e mi rendo conto che è una categoria non molto caratterizzata, un po’ nebulosa, che comunque contiene anche elementi innovativi. Gli zapatisti, parlando dei vecchi rapporti con le società civili internazionali, ricordano alcuni casi tra cui quello della “scarpetta rosa”, ovvero di una scarpa rosa, spaiata, che era tra gli aiuti inviati dalla cooperazione internazionale. La “scarpetta rosa” è diventata il simbolo della cooperazione inutile, è diventata la metafora dell’elemosina, un’elemosina che viene rifiutata, perché “l’appoggio che noi chiediamo - sostengono gli zapatisti - è per la costruzione di una piccola parte di questo mondo che contenga molti mondi, è dunque un appoggio politico, non un’elemosina”. Il 9 agosto 2003, durante la cerimonia per la nascita del Caracoles, il Subdomandante Marcos, rivolgendosi alle comunità, disse “adesso vi restituiamo l’udito, la voce e lo sguardo. A partire da oggi tutto ciò che riguarda i municipi autonomi ribelli zapatisti verrà discusso dalle loro autorità e dalle Giunte di Buon Governo […] L’EZLN non può essere la voce di chi comanda, ovvero del Governo, a patto che chi comanda comandi obbedendo e sia un buon governo […] L’EZLN parla per quelli di sotto, per i governati, per i popoli zapatisti che sono il suo cuore e il suo sangue, il suo pensiero e la sua strada. Noi, come esercito, siamo pronti a difenderli […] di modo che fin da adesso io non sono più il portavoce dei municipi autonomi ribelli zapatisti. Ormai essi hanno chi parla, e bene, per loro, cioè le strutture amministrative civili. Nella mia funzione di comandante militare delle truppe zapatiste, vi comunico che a partire da questo momento i Consigli Autonomi non potranno ricorrere ai miliziani per le attività di governo. Perciò dovranno sforzarsi di fare, come fanno tutti i buoni governi, vale a dire ricorrere alla ragione, e non già alla forza, per comandare”. Nel suo discorso Marcos ha voluto mettere in evidenza l’attuale separazione tra l’aspetto politico e quello militare della lotta zapatista, e conferire al primo un ruolo decisivo. Tra le parole ascoltate quel 9 agosto cito volentieri quelle della Comandante Ester, ricordando con ciò l’importanza della presenza femminile nel movimento zapatista, perché le donne zapatiste sono da sempre orgogliose di essere state protagoniste della rivoluzione del 1994, perché le donne indigene sono tre volte sfruttate in quanto indigene, povere e donne. Ecco le sue parole: “Noi indigeni vogliamo rivendicare il nostro diritto ad essere messicani. Non abbiamo bisogno di cambiare la nostra cultura, i nostri abiti e la nostra lingua, il nostro modo di pregare, di lavorare e di rispettare la terra. Inoltre non smetteremo di essere indigeni per essere riconosciuti come messicani. Non ci possono togliere ciò che siamo, sì, siamo di pelle scura, non ci possono trasformare in bianchi, perché i nostri avi hanno resistito per cinquecento anni al disprezzo, all’umiliazione, allo sfruttamento. E noi continuiamo a resistere”. In questo brano c’è un elemento che vorrei sottolineare, ovvero la tensione molto forte ad essere cittadini messicani, uguali agli altri, ma anche diversi, perché indigeni. Il dibattito di questi anni sull’uguaglianza ha prodotto alcuni equivoci, tra cui quello di pensare che l’altro non esiste perché siamo tutti uguali. Gli zapatisti rifiutano questo modo di ragionare, perché dietro il concetto astratto di uguaglianza si nasconde una lunga serie di equivoci e di prevaricazioni, in Messico come altrove. Per quanto riguarda la questione dell’uguaglianza, Carlo Montemayor - studioso e storico messicano - ricorda che proprio quando è stata creata nel 1824 la Repubblica Messicana, i padri fondatori hanno deciso per decreto l’uguaglianza di tutti i cittadini, e che quindi non esistessero più specificità e differenze. Quindi gli indigeni, visto che tutti erano uguali, non avevano più diritto ad esistere in quanto tali. Scrive Montemayor: “L’eguaglianza è servita a negare l’esistenza dei popoli indigeni e ha prodotto il loro disconoscimento come soggetti di diritto”. Montemayor cita poi uno scritto di Alfonso Cano del 1956 in cui si dice: “non c’è niente di più pericoloso che considerare uguali dinanzi alla legge coloro che non lo sono per loro situazione sociale ed economica”. Non siamo tutti uguali, dunque, benché il contrario ci possa apparire come il non plus ultra della democrazia. Gli zapatisti ovviamente vogliono essere uguali di fronte alla legge, ma uguali nella differenza di cultura, di costumi, di tradizioni che costituisce la loro identità. L’argomento dell’uguaglianza trascina un altro argomento giuridico. Cito a questo proposito una notizia apparsa su “Chiapas al dia”, un bollettino di informazione diretto da un gruppo di ricercatori del Chiapas: “Questo processo di creazione di nuove forme di governo indigeno contraddice l’idea formalista e positivista secondo la quale solo le istituzioni politiche possono esistere e soltanto se esiste un processo giuridico formale di creazione dell’accordo con le regole generate all’interno del chiuso campo giuridico. Come possiamo vedere, se il diritto non ha la capacità, in un dato momento specifico, di creare le istituzioni che la società richiede, la società stessa può andare avanti nella costruzione delle sue nuove strutture politiche. Probabilmente ciò produrrà uno scontro con l’ordine vigente. A seconda delle forze di entrambi, lo stato ed il movimento sociale che sviluppa queste nuove istituzioni, in seguito si daranno meno le condizioni per un suo riconoscimento giuridico e formale”. La costituzione dei Caracoles pone sul tappeto anche un problema giuridico formale, ossia il rapporto tra il diritto formale e la sovranità popolare. Fino a che livello la sovranità popolare è così popolare e sovrana da poter esprimere un cambiamento radicale dell’ordine politico-istituzionale vigente? Questa domanda, naturalmente, riguarda e insieme trascende la realtà chiapaneca per investire quella che oggi va sotto il nome di democrazia rappresentativa e di rappresentanza politico-istituzionale. Ricordo a questo proposito il caso paradigmatico dell’Ecuador, dove nel 2005 un’insurrezione popolare ha provocato la caduta del Presidente (ex colonnello) Lucio Gutiérrez. Il protagonista dell’insurrezione è stato il movimento, nato nelle grandi città, definito in maniera dispregiativa Forajido (facinoroso, delinquente), mentre un ruolo marginale hanno avuto i movimento indigeni. Il movimento Forajido ha chiesto successivamente una nuova Assemblea Costituente, ovvero una rifondazione dello stato democratico e una nuova costituzione. Il Parlamento ed i partiti ecuadoriani hanno rifiutato la proposta, ed i giuristi dell’Ecuador hanno affermato che, anche se è vero che il popolo è sovrano, in un sistema di democrazia rappresentativa sono i partiti a rappresentare il popolo, quindi sono loro a decidere. Qui il cerchio si chiude, e quella che era una democrazia rappresentativa si trasforma in una “dittatura rappresentativa”. Gli zapatisti pongono quindi all’ordine del giorno della nostra riflessione politica molti problemi, che possono apparentemente sembrare lontani, ma non è così. Il problema dell’uguaglianza e della diversità, la questione dell’autonomia, il problema dell’identità culturale e politica, ecc. sono i grandi temi che anche noi affrontiamo ogni giorno. Per questo il Chiapas non è poi così lontano, nemmeno dall’Italia. CONVIVIALITÀ E ÁSKESIS COME ARTE DI ESISTERE Giovanna Morelli Vorrei focalizzare, in un rapido excursus, il motivo conduttore dello work in progress illichiano; un motivo che si sviluppa attraverso le varie categorie critiche applicate da Illich all’analisi della modernità e postmodernità, e si radicalizza a fine novecento. Proprio alla luce delle ultime pagine illichiane possiamo formulare un nuovo, ampio senso di “Convivialità” e da questo concludere alla tematica illichiana dell’ Áskesis, testimoniata dalla stessa esistenza di Ivan Illich: penso al “convivium”o giardino filosofico fiorito attorno a lui, per coltivare e condividere l’esercizio dello spirito, per sperimentare un’arte di vivere e di pensare la vita. La iniziale tematica della Convivialità, con la quale Ivan Illich apre gli anni 70, si salda, alla fine del decennio, al tema del Vernacolare. Illich studia le società vernacolari tradizionali, le loro crisi, le loro rigenerazioni, esemplificando una possibile società vernacolare modernizzata: un mondo di strumenti “conviviali” a misura di uomo, dove il prodotto tecno-industriale sia riconvertito a favore della iniziativa autonoma, emancipata dalle tormentose fatiche di un tempo, un mondo in cui il valore d’uso torni ad avere la meglio sul valore di mercato. L’uomo vernacolare tradizionale studiato da Illich è un uomo locale, radicato a un certo tempo e luogo della crosta terrestre. Il Genere, ovvero la complementarietà asimmetrica dei due universi maschile e femminile, è un importante fattore di coerenza comunitaria. Spesso Illich usa il Genere per mettere a fuoco l’intero universo vernacolare. Il Genere - come prototipo di essere umano specifico - è infatti l’opposto del Neutrum, l’essere umano neutro con attributi sessuali a favore del quale tante nostre battaglie si sono spese. L’universo vernacolare in quanto universo chiuso, autoreferenziale, arcaico, ha subito, dovunque, il trauma della storia. Il “fato solitario”,i “cento anni di solitudine” finiscono. Superato l’impatto con la storia, aprendosi fisiologicamente all’esterno apportatore di alterità, l’arte comunitaria di vivere ha maturato inedite soluzioni e ibridazioni, ha reagito ai grandi progetti egemonici di civiltà, ha infiltrato e reso vive per secoli tutte le griglie. A questo proposito Illich fornisce l’esempio di varie polarità relative alla lingua 1. Status degli utenti: classi basse/classi alte; analfabeta/acculturato. Distribuzione geografica: regionale, superregionale. Organizzazione: informale/codificata. Funzione: quotidiana/specialistica. Medium: oralità/scrittura/stampa. Nel corso della storia nessuno di questi parametri è stato rilevante per la qualificazione vernacolare di una lingua. Bensì essa sarà vernacolare (o non) a seconda della modalità di diffusione e di elaborazione. Una lingua comune può infatti imporsi in luogo o accanto agli altri idiomi, in virtù della fisiologica interazione delle differenze. Come sono esistiti vernacoli popolari sono esistiti vernacoli aristocratici. Lingue elitarie, idiomi commerciali, seconde lingue, sono sempre esistite e possono essere considerate altrettanto vernacolari di una lingua popolare, finché non vengano pre-fabbricate, clonate dall’alto. E’ allora che ogni vernacolo si riduce al fantasma di se stesso. Un contenuto indigeno non basta a garantire la qualità vernacolare dell’esperienza. Balì, anni 70: una ritualità musicale indigena viene fissata al registratore e così riutilizzata e divulgata, con risultato, dice Illich, drasticamente antivernacolare. “Non era all’opera il missionario di una chiesa, partito o media, bensì un maestro di scuola nazionalista che voleva fare delle potenzialità tradizionali di una vallata, l’oggetto di un insegnamento pianificato […] Non solo la musica tradizionale ma anche la cultura alternativa del riso doveva diventare oggetto di insegnamento […] è il rappresentante della tradizione popolare che impone le costumanze locali allo scopo di sostituire l’arte del vivere con un sistema di produzione da lui gestito ed ecologicamente adeguato”.2 Siamo qui alla polarità apprendimento/istruzione. L’apprendimento è contestuale, è cioè un processo integrato alla completezza esistenziale dei protagonisti. Nelle comunità studiate da Illich “Un ambiente e un mondo di uomini di complessità letteralmente indicibile 1 2 Lavoro Ombra, A.Mondadori 1985, pp. 56,57 e Nello specchio del passato, Red edizioni 1988, p. 123 Lavoro Ombra, cit. , pp. 95,96 ha plasmato genti e terra, e in ogni istante questa esistenza era contesta di questa arte di vivere.”3 L’istruzione invece è qualcosa di sradicato, qualcosa di non elaborato. Non elaborato dal gruppo, dal terreno comunitario, ma soprattutto non elaborato dalla vivente matrice umana che ha garantito una qualche tenuta vernacolare sino alle soglie dei nostri giorni. Vernacolarità è questo “auto-radicamento” alla propria matrice interiore. L’uomo vernacolare è l’uomo psichicamente metabolico, che secerne a se stesso il suo stile, i suoi segni e significati, i suoi strumenti. “Intransitività” dell’esistenza, “autoplasmazione intransitiva”, “l’essere dell’agente che plasma dinamicamente se stesso”. E’ il grande leitmotiv illichiano . Lavoro in profondità: gestazione, incubazione dei propri vissuti. Lentezza, pazienza, complessità di un parto, di un processo organico. Illich, nel suo libro su Ugo di San Vittore e la lettura 4, porta l’esempio del monaco medioevale che legge e medita, spesso paragonato dai contemporanei a “una mucca che rimastica il suo bolo”. San Bernardo legge parole del Cantico dei Cantici: “Assaporandone la dolcezza non smetto di masticarle, i miei organi interni si satollano, il ventre s’impingua e tutte le mie ossa prorompono nella lode”. Ma la possibilità stessa di questo auto-radicamento viene ad essere drasticamente minacciata quanto più “l’esterno” degli immateriali media globali e delle macro (o micro) istituzioni si rivela in realtà “interno” e invasivo. Illich interiorizza i suoi temi e concentra la sua analisi sul livello simbolico e linguistico, dove vivono le nostre forme mentali. “In pochi decenni il mondo si è amalgamato” - scrive Ivan Illich sul finire degli anni 70 - “Le reazioni degli uomini agli eventi quotidiani si sono standardizzate. Le lingue e le divinità possono ancora apparire differenti, ma ogni giorno altra gente si aggrega a quell’enorme maggioranza che marcia al ritmo della medesima megamacchina […] Ora striduli ora soporiferi, i media penetrano a forza nella comune, nel villaggio, nell’azienda, nella scuola.[…] Oggi solo chi è tagliato fuori dal mondo oppure l’anticonformista ricco e ben protetto può fare giocare i propri bambini in un ambiente dov’essi sentano parlare persone, anziché divi, annunciatori o istruttori. In ogni parte del mondo si vede dilagare quella disciplinata acquiescenza che caratterizza lo spettatore, il paziente e il cliente […] Culture differenti diventano così scialbi residui di stili d’azione tradizionali, relitti sbiaditi in un unico deserto di dimensioni planetarie.” 5 La densità, il calore, l’erotismo dell’apprendimento e della formazione si contrappongono alla freddezza an-erotica, alla passività dell’istruzione e dell’informazione da cui siamo afflitti: flussi di esperienze, di opinioni, di identità prefabbricate per un consumo veloce, epidermico, automatico. Il mondo dei significati si sgancia dal proprio atto fondativo e si costituisce in una sorta di sistema inerziale da cui scaricare i nostri byte di scambio significante. Decentramento del soggetto, sempre meno presente a se stesso quanto più presente alla rete. Estensione contro intensità. Da intransitivo a transitivo. Da attivo a passivo.“Io vivo” diventa “io sono vissuto”. Se abbiamo difficoltà a concepire alternative (all’istruzione e a tutto quanto) è perché stiamo perdendo ogni giorno di più il nostro auto-radicamento, il nostro spessore metabolico. Rammentiamo l’immagine illichiana delle Tre assi 6. Dobbiamo avere chiaro quale è l’asse su cui vogliamo impegnare le nostre energie di cambiamento. La prima è l’asse tecnologica. Qui si tratta di prendere posizione sulla qualità soft o hard delle tecnologie. Il loro impatto ambientale. Lo sviluppo energeticamente e ecologicamente sostenibile. Tecnologie alternative. Eco-progetti. La seconda è l’asse politica, concernente le opzioni destra-sinistra, socialismo-liberalismo, equità o dis-equità distributiva, proprietà dei mezzi di produzione. La terza, quella illichianamente decisiva, è l’asse esistenziale, homo vernacularis/homo oeconomicus, l’asse che oppone autonomia a etero-esistenza. Quella dove si gioca la domanda fondamentale. Quale uomo? Quali i bisogni fondamentali dell’uomo? Quale è “la natura dello appagamento umano”? Le scelte che possiamo operare sull’asse tecnologica e su quella politica non ci garantiscono di per sé circa la qualità esistenziale. Da questo punto di vista Illich rileva spesso l’equivalenza di regimi socialisti e liberali. Ugualmente opzioni tecnologiche di sostenibilità ambientale possono assecondare un’esistenza standardizzata secondo i criteri sviluppisti. L’inversione di tendenza non è energia pulita ma minore produzione di energia. L’inversione di tendenza non è l’auto stupro dell’assistenza 3 Lavoro Ombra, p. 98 La Vigna del Testo, Raffaello Cortina 1994, pp. 52,53 5 Disoccupazione creativa, Red edizioni 1996, pp.20,21 6 Lavoro Ombra, cit. , pp. 145 e sg. 4 professionale delegata al cliente nei programmi di self-help, ma l’emancipazione creativa dall’assistenza. Sulle assi ambientale e politica possiamo registrare molti effetti collaterali, talora devastanti, dei vari monopoli anticonviviali. Ma la ricaduta immediata è sull’asse esistenziale. E’ la “nemesi strutturale e endemica” che crea esseri inabili. Su questa asse credo si giochi la nostra politica senza il potere, o forse, detto in modo più radicale, la nostra politica senza politica (Illich usa, nel corso degli anni, espressioni diverse e sfumature concettuali diverse, ma tutte ugualmente mirate a sottolineare la priorità dell’asse esistenziale. Politica della Convivialità, ecologia politica radicale. Politica dell’impotenza e fine della politica…). Politica senza il potere è cercare di riappropriarci dell’arte della nostra vita, arte di vivere, di godere, di soffrire, di far festa, di abitare, di tollerare il dolore, di sopportare il presente, di morire e dare un senso alla morte. Disconnetterci. Rinuncia attiva al consumo e alla produzione, motivata da un illuminato edonismo, “senza ridursi a vano folklore”. A fine anni 80 Illich radicalizza la sua analisi, studiando le modificazioni percettive e autocettive cui siamo sottoposti nella odierna società dei “sistemi”: una “catastrofica rottura” nella percezione di Sé e del corpo; un nuovo orizzonte epistemologico esplosivo che caratterizza la società industriale pronta a trasformarsi in società cibernetica. Scrive Illich nel 1990: “Noi siamo alle soglie di una transizione ancora inavvertita […] gli esperti che ci hanno donato i nostri bisogni si affannano oggi a riconcettualizzare il loro regalo, a ridefinire ancora una volta l’umanità. Per sopravvivere, ci assicurano, dobbiamo vederci […] come dei cyborgs […], delle unità infinitesimali di una serie di sistemi inclusivi, terminanti non si sa dove […] Se questo punto di vista si imporrà, sarà la fine degli uomini e delle donne […]”. Nel 1993: “Il paradigma contemporaneo è strumentale. L’occhio è addestrato a competere con il comando “ricerca” di Word Perfect […] la percezione sensoriale è intesa come il risultato di una interfaccia tra due sistemi, di cui l’uno è un artefatto e l’altro una persona”. 7 Nelle sue più recenti analisi Illich studia appunto l’assottigliamento dell’esperienza del Sé, contestualmente alla perdita di importanza soggettiva della “carne” e di tutti i suoi sensi. Come sappiamo, per analizzare la “forma di disumanità specifica della nostra società industriale”, Illich introdusse l’idea di Monopolio Radicale (e Controproduttività paradossa). Ciò si instaura ogni volta che un processo espropria il soggetto della funzione al cui potenziamento era destinato. “I monopoli radicali rendono la gente incapace di fare da sé”. 8 La produzione industriale intensiva di merci, la tecnocrazia assistenziale, la terapizzazione dell’esistenza sono altrettanti esempi di Monopolio Radicale. L’essere umano in quanto paziente di una terapia continua (o cliente di una prestazione ininterrotta), è reso inabile dalla cura (o prestazione) stessa. Epoca dei servizi professionali menomanti. Ma se a metà anni 70 Illich parlava di Iatocrazia, a metà 90 siamo ormai in piena Biocrazia. Dalla gestione professionale della malattia, della sofferenza e della morte, siamo passati a una ottimizzazione sistemica dell’intera esistenza, in nome della salute e della vita. Da “attore tragicomico” del proprio destino, l’uomo si è successivamente trasformato in “paziente bisognoso” e infine in “sistema cibernetico autoreferenziale”. Nel corso dell’ottocento la griglia medico-diagnostica, con i suoi nuovi supporti tecnici, ha disabituato il paziente al sentimento della propria corporeità, e ha disabituato il medico alla diagnosi mimetica. Il tardo novecento esaspera l’auto-astrazione riducendo la diagnosi “a un groviglio di curve di probabilità organizzate in un profilo”. La riconversione statistico-cibernetica del corpo umano o il feticismo naturista-biologico, che contagia anche la nostra chiesa, dimenticano entrambi che il corpo umano non è un’unità di vita o di materia inglobabile in qualche perfezionato sistema di calcolo e di gestione, ma è innanzitutto il dominio senziente di un Sé. “Riduzione dell’essere umano a ‘una vita’ sulla quale i comitati di etica possono pronunciare sentenze”, scrive Illich nel 1995, nella postfazione a una nuova edizione di Nemesi medica. La necessità di “disconnessione” dal sistema si radicalizza, diventando sempre più esplicitamente una re-interiorizzazione del Sé. Un esercizio di riconnessione a se stessi (Áskesis). L’uomo sradicato da se stesso ha bisogno di ritrovarsi, e di ritrovarsi secondo un’auto-percezione integrale. Potremmo parlare di un sesto senso, di un “senso armonico”, che ci avverte quando stiamo attentando, oltre la soglia di incolumità, al 7 8 La perte des sens , Fayard 2004, pp. 104, 105, 196, 199. Nemesi Medica, B. Mondadori 2004, p.50 Sé e ai suoi sensi, o alla loro organica integrazione. Io credo che possiamo raccogliere l’ultima prospettiva illichiana ridefinendo il Conviviale come ciò che alimenta questo “senso armonico”, questa auto-percezione integrale. E’ qui che l’arte, il fare artistico può porsi come paradigma di esperienza conviviale (non a caso “conviviale” e “vernacolare” sono costantemente associati da Illich alle parole “stile” e “arte”). Il gesto artistico infatti è un gesto fortemente integrato e integrante, che attiva i più radicali, segreti canali di corrispondenza tra le varie facce dell’umano. Illich lancia un appello agli insegnanti d’arte: “L’insegnante d’arte può fare della sua aula lo spazio di libertà in cui resuscitare l’arte di vivere oppure rendersi uguale al pedagogo”. 9 Non si tratta di insegnare la fruizione e produzione dell’oggetto artistico come fine a se stessa. Ma di attingere alla sensibilità artistica per ravvivare l’auto-radicamento e quel fondamentale senso armonico da cui far nascere nuova - e integrale- specificità umana. Il secondo argomento che vorrei approfondire è il problema oggi centrale del rapporto relativismouniversalismo. Credo infatti che Illich ci abbia fornito una posizione illuminante, che supera le semplificazioni correnti. Perché l’esempio delle élite dissidenti possa riuscire efficace devono porsi due condizioni, dice Illich. Io credo che una di queste ponga il tema dell’identità (specificità), l’altra quello dell’universalità. La prima: “Le forme di vita indipendenti dalle merci devono diffondersi secondo modelli che i destinatari possano cercarsi da soli”. La seconda: “Il nuovo stile di vita […] deve fare propria un’immagine dell’essere umano stesso quale appartenente alla specie homo vernacularis e non homo industrialis” 10 Si tratta della scelta tra “due diverse concezioni dell’essere umano”. Quale Uomo? E’ questo un punto fondamentale. Il rigoroso pluralismo illichiano non esclude una prospettiva universalistica. Illich ci ricorda che l’arte di vivere non è mai “genericamente umana”. Ma anche ci ricorda che “la vita autenticamente umana” non è “un concetto infinitamente elastico” 11. L’arte di vivere è molteplice e una ed è ciò che rende la vita autenticamente umana. In questo senso particolare e universale si toccano. L’uomo planetario illichiano è l’uomo radicale, sostanziale, ossatura di tutte le più diverse identità. “La più grande matrice umana che sorregge la vita di ogni singolo uomo”. 12 Non è l’Homo aequalis, neutro, indipendente da connotazioni specifiche, introdotto dalla coscienza post vernacolare. E’ invece ciò che possiamo intuire attraverso le differenze e solo attraverso di esse. Non possiamo esperire un sapore o un colore generico, ma attraverso l’esperienza dei mille sapori particolari sappiamo cos’è il sapore. Così non esiste un uomo generico. Ma attraverso l’esperienza di ogni uomo specifico, di ogni stile umano particolare, sappiamo cos’è l’Uomo, il più radicale dei nostri vissuti e in quanto tale anche il meno coscientizzato. Impegnarci per una difesa delle differenze è al tempo stesso impegnarci per una difesa dell’invariante antropologica che le rende possibili: l’“autoplasmazione intransitiva”, “l’essere dell’agente che plasma dinamicamente se stesso”. La sfida finale della nostra Áskesis si gioca tra il Sé e la coscienza che ha di se stesso: dall’auto-radicamento metabolico (esercizio dell’ autenticità vernacolare) all’auto-integrazione (esercizio della percezione armonica, arte conviviale dell’uomo polifonico) all’auto-consapevolezza antropologica (esercizio dell’universalità). Questo Universalismo Pluralista, o, se vogliamo, questa Antropologia Radicale, consta dunque di due momenti tra loro complementari. Il primo: sensibilità alla differenza. Rifiuto di ogni prospettiva che imponga un discorso omologato, letterale e centralizzato per affrontare il composito mondo umano. Illich, in Genere e sesso, si sofferma sul riduzionismo di alcune cosiddette “scienze umane”. Ciò significa: ridurre una realtà complessa e stratificata a un unico livello, per esempio ridurre l’uomo al suo livello biologico. Oppure: ridurre le più diverse specificità a un unico canone storiografico. Se descrivo la cultura dell’Altro tramite le griglie concettuali della mia, continuo a descrivere la mia cultura, resto interno al mio mondo. Il discorso centralizzato è il discorso del potere. Potere è anche l’universo piatto, orizzontale, totalitario della comunicazione. Potere è “lo pseudo senso comune novecentesco” con le sue “parole chiave”, i suoi “apriorismi epocali”: sessualità, lavoro, produzione, sviluppo, assistenza…Ogni traccia dell’Altro è viceversa l’opera in cui esso vive, come dentro a un’opera d’arte vive il suo senso, inseparabile da quelle 9 Lavoro Ombra , cit., p.101 Lavoro Ombra, cit. , p. 162 11 Nemesi Medica, cit. , p. 286 12 Nemesi Medica, cit. , p. 168 10 linee, da quella materia, da quei colori. Non posso sostituire le mie griglie a quelle dell’Altro. Posso però piegare poeticamente le mie parole sino a farne metafora delle sue. Il secondo: sensibilità alla comunanza. A partire dalla esperienza artistica dell’Altro, è possibile rifondare un discorso comune, un discorso Universale che non sia logos totalizzante, ma che ci salvi dalla Torre di Babele. Un metadiscorso che ampli di continuo la gamma delle proprie metafore, anziché servirsi di pochi concetti per spiegare ogni cosa. A questo metalinguaggio spetta il compito di portare nelle differenze la coscienza dell’Unico Uomo Radicale, facendo implodere contraddizioni e idiosincrasie, xenofobie e pregiudizi dei linguaggi-oggetto. Questo discorso è in sé una terapia, una liberazione, un’auto illuminazione che culture e individui dovrebbero praticare al proprio interno per liberarsi di ogni elemento oscurantista, separatista, dogmatico che li chiude e li oppone. A una forte creatività identitaria ha infatti spesso corrisposto, come la storia ci insegna, un difensivo e bellicoso rifiuto del diverso. L’Universalismo Pluralista non assolutizza nessun tratto particolare, come accade invece nei totalitarismi e secessionismi ideologici. Ma ci salva anche dalla non meno pericolosa assolutizzazione delle differenze. Se perdiamo per strada i tratti dell’Uomo Radicale il nostro pluralismo diventa uno stereotipo nichilista e impotente, che non può coerentemente disporre di alcun criterio limite con cui arginare vecchie e nuove atrocità. La lunga, difficile Armonizzazione delle Differenze, se mai sarà, non lascerà nessuno immutato. Ciascuno dovrà sacrificare qualcosa. Non si tratta di “ricercare la tolleranza media di tutte le idee” ma di sperimentare gli opposti, acquisire uno sguardo binoculare. Non rinchiudiamoci, ad esempio, nell’uomo storico o nell’uomo mistico, ma partiamo dall’uno per arrivare all’altro. Proviamo a innestarci. La soglia di metamorfosi è ampia. Ampia ma non infinita. La coscienza planetaria è coscienza di una doppia soglia: la soglia di massima inclusione e la soglia di esclusione terminale, oltre la quale si intravede il regno del suicidio post umano. La nuova radicale minaccia alla millenaria, inconscia Autorialità umana può aiutarci ad acquisirne finalmente la coscienza. Può aiutarci nella messa a fuoco di una teoria critica dell’estinzione che coscientizzi la qualità suicida latente sotto il disinvolto appeal di molte scelte epocali. Dallo sterminio fratricida, dove si tratta di edificare sé a danno dell’altro, stiamo passando allo sterminio mutazionale: la sistematica alienazione del Sé e della identità carnale della specie. Proviamo a credere davvero, come molti oggi credono, che sia prioritario “colmare il divario digitale tra nord e sud del mondo” distribuendo un computer portatile a milioni di bambini poveri. Proviamo a credere che videogiochi e reality show ci facciano più intelligenti, sociali e preparati alla vita. Proviamo a pensare di curarci la depressione con un pacemaker al nervo vago, o di sostituire il sangue con pellicole di nano particelle, alla voce “diritti tecnologici”, rivendicati dalla ricerca “transumanista”. E poi proviamo a tornare alla realtà. Questo ritorno ci dà piacere? Se non ce lo dà, o l’argomento non ci tocca, forse la nostra auto-percezione è prossima all’atrofia. Il puerilismo tecnologico, il Sé mediatico-epidermico ci introducono in una sorta di post civiltà, dove l’impronta collettiva dell’intera civiltà umana è saccheggiata e letteralmente rivenduta sul mercato della psiche sintetica già in corso. A fronte di una simile Parodia Universale di civiltà possiamo superare antichi antagonismi e unirci in una sorta di iper civiltà, che faccia tesoro di tutto il nostro autografo millenario. Primi secondi e terzi mondi, tutti i mondi possibili dovrebbero unirsi contro l’unico mondo che vorremmo impossibile: il mondo post umano. Ciò chiama a raccolta le nostre originalità, le nostre devianze minoritarie. Il genocidio antropologico di cui scriveva il nostro Pasolini ha falcidiato insieme cultura popolare e cultura colta. La linea di resistenza vede oggi il nuovo patto tra cultura classica e cultura etnica contro il discorso dominante, spacciato per popolare. L’uomo Vernacolare che ci sarà dato scoprire in qualche nicchia di mondo, col suo metabolismo ancora forte, può servirci di esempio per riattivare il nostro metabolismo languente, il rapporto creativo ma armonico coi nostri limiti, col nostro corpo e il corpo vivente del mondo, la libertà e la gioia di una vita austera oltre la tirannia del superfluo post umano. A noi stessi possiamo a nostra volta recare in dono la migliore eredità della storia occidentale. Questa storia non è un monolite. Tra le sue pieghe esiste da sempre un “altro occidente”, un’“eresia” occidentale. Cerchiamo quanto di metabolico e conviviale hanno espresso le nostre arti e i nostri costumi comunitari. Cerchiamo l’umanesimo planetario che le nostre filosofie e religioni hanno distillato dalla loro anima migliore. Non è un caso se il nomade Illich, teologo in marcia dal cattolicesimo verso lontane, profonde selve spazio-temporali, ha radicato il suo pensiero alla grande tradizione classica cui è debitore delle sue metafore fondamentali: vernacolo, convivio, Áskesis. La politica senza potere che i fratelli zapatisti hanno iniziato nel fondo della loro Selva Lacandona, facendo da battistrada a noi tutti, regalandoci se stessi come metafora vivente, noi dobbiamo giocarcela qui. Il nostro zapatismo europeo saprà riconoscere le attività, le esperienze, i mezzi ad alta intensità psichica che possono essere per noi la vera rivoluzione, così da riattivare nuovi radicamenti, nuova comunità, nuova etnia, nuova civiltà. CONCLUSIONI Sajay Samuel Non ho nessuna domanda per Giovanna, ma ho piuttosto un commento: sono stato colpito dalla sua chiara e coraggiosa esposizione delle tante idee di Illich. Mentre stavo seduto su quella sedia, ascoltando la traduzione, ho vissuto momenti veramente importanti. Mi sembrava di essere al cospetto di un maestro artigiano che intreccia un vibrante e colorito tappeto mettendo insieme le tante cose di cui abbiamo discusso. La ringrazio. Alcune delle sue formulazioni, alcune delle sue frasi mi fanno rammentare un breve aneddoto su Illich degli anni settanta. Verso la fine della Guerra in Vietnam egli era considerato uno dei più radicali pensatori e in un breve articolo apparso sui giornali, ora non saprei dire dove, fu pubblicata una sua immagine, una caricatura di Illich vestito da marine, come un soldato; ma invece di munizioni la sua cintura portava fogli d’appunti, quegli appunti che teneva sempre in tasca. Nella didascalia della caricatura il giornalista sosteneva che questi appunti contenevano le idee che Illich scriveva nei suoi tanti libri e che usava in conversazioni, dibattiti e discussioni. I libri di Illich, continuava il giornalista, erano come piccole bombe che ti scoppiavano in testa, esplodendo nella mente di un attento lettore, sfidandolo a pensare e a ripensare. Dopo quattro giorni d’intenso dialogo fra noi in privato, e adesso due giorni di dibattito pubblico, immerso, come credo sia stato per tutti, in intense conversazioni, cibo, vino, ballo e canto, credo di sentire un piccolo movimento dentro di me, lo spiraglio di qualcosa che alcuni potrebbero chiamare speranza, una speranza nata dalla disponibilità ad una fiduciosa collaborazione attraverso le differenze di età, lingua ed esperienza, per tentare di capire ciò che comunemente viene definita arte di vivere e per comprendere che pensare è doloroso (è anche piacevole, naturalmente) e che ci vuole tempo per pensare attentamente. I pensieri infatti devono bollire lentamente per quattro giorni, dieci giorni, mesi, anni e mentre bollono cambiano chi sei e come sei: comprendiamo così cosa facciamo e scopriamo che questo cambiare è praticato meglio in compagnia di amici. Da ciò quindi la sensazione di avere vissuto con entusiasmo una sorta di bellissimo e intenso momento che dà origine ad un esaurimento che non è stanchezza, ma piuttosto l’adagiarsi, il riposare dello spirito e del corpo dopo i gioiosi sforzi. Aldo Zanchetta ha promesso ad alcuni di noi una buona cena, altro cibo, altro vino, altra conversazione e anche per questo di nuovo lo ringrazio, ma devo ringraziare anche tutti voi per aver dimostrato a Jean Robert, Matthias, Costas, Majid ed a me stesso com’è possibile pensare ad Illich, con e dopo Illich. Grazie. L’intervento non è stato rivisto dal relatore CONCLUSIONI Aldo Zanchetta Vorrei iniziare con una parabola che mi ha raccontato ieri un amico, Carlo Moscardini…e può darsi che voglia essere un’allusione al lavoro di questi giorni. E’ la storia di un millepiedi che si ammala ai piedi e va dalla volpe per chiederle cosa deve fare. La volpe ovviamente non ha risposta al suo problema, e lo porta dal gufo saggio. Il gufo saggio, conosciuto il malanno del millepiedi, gli dice di trasformarsi in un canarino, così avrà solo due piedi a sarà più facile per lui curarsi. Il millepiedi risponde che non è possibile per lui trasformarsi in un canarino, al che il gufo gli risponde che lui ha dato l’idea generale e che i dettagli non sono problemi suoi. Ecco, io non vorrei che questi nostri convegni diano idee generali senza fornire risposte concrete a specifici problemi del nostro tempo. Mi ha fatto molto piacere che Latouche abbia citato il Chiapas, e sono contento che abbia sostenuto che il Chiapas è per lui un esempio molto importante di lotta antisistema. Concludo parafrasando il Subcomandante Marcos. Quando nel 1996 il governo messicano accettò di aprire le trattative di pace con gli zapatisti, essi convocarono tutte le cinquantasei etnie indigene del Messico. Alla prima riunione uno dei rappresentanti chiese a Marcos quale fosse la linea politica da seguire, e lui rispose che non c’era linea, perché dovevano costruirla tutti insieme. Anche il nostro convegno si conclude senza conclusione, in quanto non abbiamo né l’intenzione né il materiale per formulare conclusioni. Per quattro giorni abbiamo lavorato durante il seminario residenziale in maniera informale, e siamo arrivati alla conclusione, citando Paulo Freire, che “nessuno salva se stesso, nessuno salva nessuno, tutti ci salviamo insieme”. Quindi non abbiamo proclami finali o formule da proporre ma abbiamo l’ intenzione di continuare a lavorare insieme. In parte condivido la sollecitazione di Massimo Angelini, perché questi seminari possono essere talvolta inconcludenti e un po’ ripetitivi. In questo periodo sto sentendo, come Scuola per la Pace, l’esigenza di trovare nuove modalità e nuove forme di lavoro. Credo che chi verrà dopo di me alla Scuola per la Pace dovrà fare uno sforzo per trovare nuovi stimoli e nuove esperienze che superino questa fase un po’ intellettuale del nostro lavoro. Mi è dispiaciuta l’assenza di Gustavo Esteva, che avrebbe raccontato sicuramente l’esperienza dell’Università della Terra. Esteva, che si definisce un “intellettuale deprofessionalizzato”, ha conosciuto molto bene Ivan Illich, e lui stesso dice che grazie al contatto con Ivan ha lasciato la vita da guerrigliero per diventare un filosofo nonviolento. Anche in Italia ho conosciuto “intellettuali deprofessionalizzati”, persone che lavorano il tempo necessario per guadagnare quel minimo che serve per sopravvivere, investendo il resto nel tempo nell’azione disinteressata. Non so se la Scuola per la Pace riuscirà mai a creare queste alternative, ma sento che esistono esigenze forti e concrete di cambiamento. Concludiamo quindi senza conclusione. Saluto gli amici di Ivan - Silja, Sajay, Samar, Jean ed altri con i quali stiamo dialogando da tre anni, da quando un uomo come Ivan Illich, che camminava fuori dal pensiero unico, passò da Lucca ed accese una piccola candela che noi stiamo tentando di tenere accesa. Insieme agli amici di Ivan discutiamo cercando di capire meglio il mondo e noi stessi. E penso che questa sia già un’azione positiva di trasformazione. RELATORI Massimo Angelini è un ruralista, impegnato nel recupero produttivo delle varietà agricole tradizionali e nella riappropriazione di saperi, usi e titolarità delle comunità locali. Ha collaborato con Illich". Roberto Bugliani è autore di saggi, narrativa e poesia. Ha collaborato a numerose riviste, tra cui "Alfabeta" e "Allegoria". Ha tradotto testi del Subcomandante Marcos, narratori e saggisti dell'Ecuador come Alicia Yánez Cossío, René Báez, J. Gallegos Lara e il romanzo "La danza del serpente" del messicano C. Montemayor. Ha pubblicato presso Manni (Lecce) varie opere. Marcello Buiatti é Docente Ordinario di Genetica all’Università di Firenze, Presidente della Associazione Nazionale Ambiente e Lavoro e del Centro interuniversitario di Filosofia della Biologia "Res viva". Gli interessi prevalenti del prof. Buiatti sono sia in ambito scientifico che in quello filosofico. E’ autore di oltre 200 pubblicazioni in gran parte su riviste internazionali e di sei libri fra cui "Lo stato vivente della materia", 2000; “Le Biotecnologie”, 2004; “Il benevolo disordine della vita”, 2004; “La biodiversità”, 2007 Samar Farage, libanese, insegna sociologia alla Pennsylvania State University (USA). Ha lavorato con Illich negli ultimi anni dellavita dello studioso. Serge Latouche, è attualmente Professore emerito presso l’Università di Parigi Sud e obiettore di coscienza. Diploma post-laurea in scienze politiche e dottore in filosofia, è Presidente onorario della “Ligne d’horizon” (Associazione degli amici di François Partant). Ultime opere pubblicate: «L'invention de l'économie» (2005); «Survivre au développement» (2004); «Justice sans limites. Le défi de l'éthique dans une économie mondialisée» (2003); «Décoloniser l’imaginaire»; «La mégamachine. Raison techno-scientifique, raison économique et mythe du progrès» (2004). «L'Occidentalisation du Monde» (2005). Giovanna Morelli, laureata in Filosofia, già critico teatrale, pubblicista, regista d’opera. Svolge ricerca comparata sull’esperienza artistica (letteratura, teatro, cinema, arti visive). Docente di Arte Scenica all’Istituto Musicale “Boccherini” di Lucca, ha pubblicato saggi, tenuto conferenze e master class. Rodrigo Rivas, economista di origine cilena, residente in Italia dal 1974, ha lavorato presso varie organizzazioni di solidarietà internazionale dirigendo per alcuni anni il mensile “ManiTese” e Radio Popolare. Ha tenuto corsi presso varie università italiane e latinoamericane e collabora con varie riviste, oltre a svolgere consulenza economica a favore di organizzazioni contadine e popolari sudamericane. Majid Rahnema, iraniano, già ministro della cultura nel suo paese, poi rappresentante presso l’ONU e successivamente membro del Consiglio Esecutivo dell'UNESCO, da oltre 20 anni si dedica allo studio dei problemi della povertà nel mondo ed al drammatico problema della sua crescente degenerazione in forme di abbrutente miseria malgrado, o forse proprio a causa dei grandi progetti di lotta alla povertà costruiti su premesse irrealistiche. Don Achille Rossi ha compiuto studi in filosofia, teologia, scienze relogiose. E' attualmente Parroco a Città di Castello (PG) e dirige la sezione culturale della rivista mensile "l'Altrapagina". Mathias Rieger, tedesco, ha studiato storia dell’arte e musicologia all’Università di Brema e ha collaborato con Illich. Jean Robert, svizzero, architetto, insegna all’Università di Cuernavaca (Messico). Ha collaborato per molti anni con Illich nel famoso centro di documentazione CIDOC. Silja Samerski, tedesca, laureata in filosofia e biologia all’Università di Tubingen. Ha collaborato con Ivan Illich, dedicandosi ad analizzare gli effetti simbolici delle consultazioni professionali. Sajay Samuel, indiano, ex professore universitario di “business management”, ha intessuto un intenso dialogo con Illich sulla distruzione delle politiche costituzionali da parte di associazioni professionali e delle burocrazie governative. Aldo Zanchetta, ingegnere chimico, già imprenditore, ha coordinato la Scuola per la Pace dal 2001 al 2006. Attualmente si occupa del riconoscimento dei diritti dei popoli indigeni dell' Amerindia.