McLuhan e l`orizzonte post-umano
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McLuhan e l`orizzonte post-umano
[Mediazone, <http://www.mediazone.info/site/it-IT/TEMI/Temi/tursipostumano.html>, 8 maggio 2006] McLuhan e l’orizzonte post-umano Per comprendere i media ovvero delle soggettività contemporanee di Antonio Tursi Due domande Le tecnologie digitali non innescano rivoluzioni rispetto alla definizione dell’essere umano. Ciò può essere meglio espresso ponendo le seguenti due domande allo scopo di comprendere le soggettività contemporanee: che cosa è l’essere umano? come si è concepito l’essere umano? Ora rispetto alla prima delle due domande, lo scenario mediale attuale non offre particolari e nuove risposte ovvero ci rende unicamente meglio consapevoli dell’assenza di risposte. Infatti, porre la domanda nei termini su indicati significa puntare su una definizione ipostatizzabile (“l’essere umano è…”), una definizione accreditata in virtù di diversi motivi sino all’emergere di una definizione alternativa che, a sua volta, scalzando la precedente, riesce a presentarsi come la definizione ultima. Questa è la modalità di porre le domande e dare le risposte propria alla metafisica occidentale. Ma proprio questa volontà di ergere una definizione valida toto caelo e lo scacco a cui sempre questa volontà è andata incontro, dovrebbero far riflettere a sufficienza sul fatto che la domanda è mal posta e di conseguenza ogni risposta è impossibile a darsi. I tentativi di definizione dell’essere umano non mettono capo a nulla se non al fatto che è impossibile qualsiasi definizione. Una impossibilità dettata non da un deficit di capacità conoscitiva, ma dalla ricchezza della nostra conoscenza. Più conosciamo l’essere umano, più ci accorgiamo che esso non è affatto un’entità fissa e data una volta per tutte (per cui il problema sarebbe quello di trovare la giusta definizione). Ciò che chiamiamo “essere umano” è segnato da confini porosi e mobili, da relazioni costituenti con l’alterità, da un’assenza di essenza immodificabile. In questo senso, l’essere umano ha sempre oltrepassato sé stesso (o meglio le definizioni che hanno cercato di de-finirlo), è sempre stato un oltre-uomo, un post-uomo. Non era affatto necessario attendere l’epoca contemporanea e le sue tecnologie per sapere di questo vuoto pieno che ha alimentato il nostro continuo divenire. L’essere umano non è, diviene e perciò non è riconducibile ad un’etichetta fissa composta da alcune caratteristiche universali. Oggi le tecnologie ci permettono di comprendere questa apertura costitutiva dell’umano e, dunque, la contingenza storica di tutte le definizioni sinora fornite. Ma così perveniamo alla seconda domanda: come abbiamo compreso e come comprendiamo oggi l’essere umano? Rispetto a questa domanda, al contrario che nel caso della precedente, prendere in considerazione i media è necessario e produttivo. Rispetto a questa domanda, al contrario che nel caso della precedente, è possibile segnare delle fratture nel nostro comprenderci. È dato osservare, infatti, una profonda differenza tra un pensiero dell’umano, legato ai media alfabetici, e un sentire l’umano, legato ai media elettrici. I media e i sensi Tale differenza può essere colta riflettendo sul rapporto tra i media e i sensi. Possiamo affermare che storicamente il senso della vista è stato quello maggiormente eccitato e potenziato – anche se l’espansione della funzione di un solo senso è possibile per qualsiasi di essi (tesi, questa, disconosciuta da McLuhan). La tecnologia dell’alfabeto e quella della stampa a tipi hanno contribuito in modo decisivo a questa proliferazione della vista. Eric Havelock e Marshall McLuhan hanno spiegato abbondantemente e definitivamente questo passaggio. L’alfabeto e la stampa a tipi hanno instaurato sistemi chiusi e, quindi, un deciso squilibrio sensoriale: ciò è stato comunque psichicamente e socialmente sopportabile in virtù della lentezza e della limitata dimensione caratterizzanti queste tecnologie. La loro cosificazione del linguaggio, la loro oggettivazione della parola hanno correlativamente fatto emergere il soggetto parlante. Il predominio della vista ha permesso l’emergere, la costruzione dell’individuo occidentale con il suo punto di vista, unico e fisso, sulla realtà a lui esterna. L’individuo costruito, imperniato sul senso dominante della vista è indivisibile, è integro. Gli occidentali hanno sempre sentito come un loro peculiare privilegio questa integrità e, di conseguenza, hanno sempre cercato di preservarla. David H. Lawrence ha scritto: “ci sono sempre quelli che temono per il nocciolo integro in se stessi, per quell’integrità che può venire preservata grazie all’ignoranza o alla religione o alla cessazione del pensiero” (citato in McLuhan, McLuhan, 1988: 154). Il dominio della metafisica, come direbbe Martin Heidegger, trova qui la sua ragion d’essere e l’esposizione più completa dei suoi risultati: si genera a questo punto quella caverna dell’interiorità, quel luogo consacrato dove custodire le essenze o le idee. Platone fu l’iniziatore dell’individuo come soggetto. Egli, pur apparentemente avversando la nascita e la diffusione della scrittura, fu il gran demolitore del tribalismo greco, del teatro mentale dell’emisfero destro in cui imitazione, risonanza, memorizzazione poetica dominavano. Per Platone gli uomini “invece di identificarsi con ciò che dicono, debbono distaccarsene, diventare il «soggetto» che si stacca dall’«oggetto» e lo riconsidera, lo analizza e lo valuta, invece di limitarsi a «imitarlo»” (Havelock, 1963: 45). L’emergere di questo soggetto, con la sua coscienza, segna una divisione interiore profonda e lacerante tra un io attore e un io osservatore, con quest’ultimo posto in posizione di predominio. Il tentativo di Platone era quello di fondare una polis individualizzata. In questo sforzo fu aiutato (o meglio istigato) dall’alfabeto il quale generò un ambiente visivo, fatto di qualunque cosa (dall’architettura alle strade alla pittura) e capace di agevolare il predominio dell’emisfero sinistro o lineare. La diffusione dell’alfabeto, attraverso l’istruzione, permise l’affermazione ad Atene di un nuovo individualismo democratico e competitivo. Questo carattere individualistico delle istituzioni greco-romane affascinò naturalmente il mondo cristiano, poiché la rivelazione cristiana, con la sua dottrina della resurrezione, s’incentra sulla responsabilità personale di ciascun individuo. Il cristianesimo si lega all’idea di una sostanza del sé metafisica, individuale e indipendente, e la sancisce definitivamente. Addirittura McLuhan arriva a chiedersi se “il Dio che quella cultura [che aveva trovato un senso nelle categorie di Newton, ndr] aveva adorato non era esageratamente a immagine di un certo tipo d’uomo? Non era troppo razionalizzato, una specie di divinità ad uso dei deisti?” (McLuhan, 1999: 73). Il periodo umanistico-rinascimentale segnò l’apogeo dell’individuo, che “sta facendo” (Leon Battista Alberti) e che si pone come “modello de lo mondo” (Leonardo da Vinci). Giovanni Pico della Mirandola, esaltandone la dignità, ne mostra la volontà onnipotente capace di ricondurre a sé e di plasmare il mondo intero. Nonostante Havelock e McLuhan abbiano individuato e segnalato il momento di emergenza (la Grecia alfabetizzata) e di consolidamento (l’Europa tipografica) di questo soggetto-individuo, in una perlustrazione della cultura postalfabetica, elettrica, digitale non mancano le circostanze in cui si rinviene la persistenza di una simile concezione del soggetto. Già in un apripista dell’era dei computer, dell’era cibernetica, quale è stato Norbert Wiener, è dato ritrovare quella che può essere descritta come una costante della modernità, proprio di quella modernità che ha creduto nella scienza e che si è ritrovata, anche in virtù dell’impresa scientifica, a credere nell’individuo. In altri termini, la scienza mentre ha compreso sempre più a fondo il mondo fisico, è stata incapace di affrontare e interpretare il mondo sociale. Se la presenza di questa contraddizione è comprensibile agli albori dell’impresa scientifica moderna, la quale nasce proprio in concomitanza e forse in conseguenza dello sviluppo del soggetto moderno, del cogito cartesiano, questa stessa presenza è difficile da accettare nell’ambito della scienza del Ventesimo secolo, di un secolo che in varie forme ha rigettato quel soggetto. In definitiva è sconsolante l’osservazione, giustamente compiuta da Katherine Hayles, che per Wiener il pensiero della cibernetica era un mezzo per rilanciare l’umanesimo liberale e non per superarlo (Hayles, 1999: 7). Antonio Caronia (Caronia, 1996: 167-168) mostra, invece, come i due pilastri della concezione identitaria (identità come zoccolo duro) vengano denunciati dalla nuova dimensione tecnologica delle reti. Infatti, sia la stabilità della forma corporea sia l’isolabilità del flusso mentale individuale mostrano il loro limite come pilastri dell’identità “in quanto percezione di se stessi come processo continuo e, appunto, individuabile”. La fluttuazione del corpo e la connessione delle menti, oltre che il superamento della dicotomia corpo/mente, mostrano l’impossibilità di applicare oggi i meccanismi di identificazione vigenti nel neolitico (che arriva a comprendere la modernità industriale). Purtroppo, la cultura digitale non sempre ha colto questa denuncia, anzi alcuni tra i suoi principali propugnatori hanno finito semplicemente con il reimpostare, su basi neotecnologiche, la questione del soggetto così come lasciata in eredità dalla modernità, basti pensare a un teorico della prima ora quale George Gilder (Gilder, 1990-1994). Immaginatevi un anfibio Ben diversa è invece la visione mcluhaniana. L’estensione dei sensi, la loro esteriorizzazione, la conquista del senso del collettivo, del buon senso, la perdita dei confini rigidi dell’individualità sono tutti aspetti legati al ruolo forte giocato dalla corporeità. È possibile rinvenire nell’interpretazione mcluhaniana della fruizione televisiva un elemento decisivo per delineare la figura del post-uomo: la spersonalizzazione del sentire. La tesi che la fruizione televisiva sia tattile e immersiva e non visiva e frontale è una delle intuizioni più produttive e note del nostro autore. La distinzione tra media caldi e media freddi ha segnato, nella sua accettazione o nel suo rifiuto, molti discorsi mediologici. Oltre allo spostamento dalla lettura (elaborazione di concetti) al sentire (emergenza di percetti), possiamo cogliere anche un’ulteriore slittamento: dal sentire autoriferito del soggetto al sentire spersonalizzato. Di questo sentire non si può cioè predicare l’appartenenza piena al dominio del soggetto: il telespettatore non riesce a controllare le risposte tattile, submuscolari del suo corpo alle sollecitazioni del tubo catodico. Si instaura un rapporto eteroriferito tra un corpo non più controllabile e racchiuso all’interno di schemi mentali e un apparecchio, una macchina. Interno e esterno collidono e si confondono: lo spettatore televisivo “è bombardato da atomi che rivelano l’esterno come interno in un’avventura incessante tra immagini annebbiate e contorni misteriosi” (McLuhan, 1964: 349). Il fatto che McLuhan leghi questa riflessione sulla fruizione televisiva alla descrizione del rapporto tra guidatore e automobile, permette di richiamare anche i rapporti perversi ma intimi tra corpi e veicoli descritti da James Ballard in Crash (Ballard, 1973). Ma la strada ad una visione del post-uomo è aperta dallo stesso McLuhan allorché, osservando il corpo elettrizzato, immaginificamente scrive: “cercate di immaginarvi un anfibio con la sua corazza posta all’interno e gli organi posti esteriormente. Così è l’uomo elettronico con il suo cervello all’esterno della scatola cranica e il suo sistema nervoso a fior di pelle; una creatura simile può essere soltanto di cattivo umore e rifuggire dalla violenza diretta. Può essere paragonata a un ragno abbandonato e rannicchiato nella sua ragnatela sonante che risuona assieme a tutte le altre ragnatele. Non è fatto di carne e sangue, ma è solo un elemento, effimero, di una banca di dati, facilmente dimenticato e perciò frustrato” (McLuhan, Powers, 1986: 126). Questa visione del post-uomo, al di là di alcune connotazioni negative che andrebbero sviscerate, è da McLuhan inserita nel solco che si scava tra due diverse e contrapposte opzioni evolutive che segnano l’adattamento della nostra vita psichica e biologica alla velocità del cambiamento tecnologico: l’inumano e l’uomo nuovo. La prima opzione è individuata nell’esito estremo dell’industrializzazione, nel momento in cui la “macchina invisibile”, il sistema di cui l’uomo non è più padrone, sovverte la sua stessa umanità. Guardati in quest’ottica, i media si configurano come un “poderoso impianto di distacco” (McLuhan, 1999: 194), come il “grande sistema del Ciò che vuole il pubblico” (Wyndham Lewis citato in McLuhan, 1999: 195). In questa condanna nei confronti del “secolo del materialismo” è evidente l’influenza del cattolicesimo. Ma è anche evidente il rifiuto degli esiti nefasti della dottrina dell’azione, dell’“uomo dell’azione (fronte bassa, mascella d’acciaio, sguardo di pietra, cuore di marmo)”, dell’super-ismo a cui ha messo capo il mondo moderno che “procede attraverso la dialettica della violenza per privazione della materia stessa” (McLuhan, 1999: 2003). McLuhan avverte che ogni attesa rigenerativa nei confronti del superuomo è destinata allo scacco, poiché “oltre il secolo dell’uomo comune ci sono secoli di uomini sempre più comuni” (McLuhan, 1999: 203). Rispetto a questa possibile deriva, la risposta mcluhaniana (sempre inseparabile dalla sua fede cattolica) sembra a prima vista molto conservatrice: egli propone un nuovo umanesimo capace di riconoscere l’eccellenza umana e la necessità del “ritorno degli uomini all’attività razionale”. “La cosa più poetica del mondo è la coscienza umana ordinaria. Mi sembra da subito che questo sia un fondamento molto democratico e profondamente cattolico per qualunque Umanesimo. È cruciale per noi comprendere questa questione nell’era dei cosiddetti mass media” (McLuhan, 1999: 170). Dichiarazioni di questo tipo hanno giustificato letture del pensiero del mediologo canadese in chiave di umanesimo antropocentrico: è il caso nostrano di Gianpiero Gamaleri. Il quale però, pur evidenziando l’attenzione centrata sul “fattore uomo” (Gamaleri, 1976: 36, 79), sul primato dell’uomo, non può non riconoscere che si tratta di “un uomo capace sempre più di modificare la propria conoscenza e la propria azione in conseguenza dei nuovi equilibri sensoriali stabiliti dai media” (Gamaleri, 1976: 79). Ma questa metamorfosi continua provocata dai media dichiara la fine della comprensione dell’uomo definito “da un nucleo solido, una base permanente e stabile del suo essere” (Abbagnano, 1967) e padrone del proprio destino. Dichiara l’impossibilità di stabilire un modello “normale” di uomo in base al quale escludere quelle che sono state dette a lungo “anormalità” (cfr. McLuhan, 1964: 25-26). A questo punto, però, qualcosa non quadra: da un lato, si è detto che McLuhan apre la strada ad una visione del post-uomo, paragonandolo ad un anfibio o ad un ragno; dall’altro, si leggono richiami a un nuovo Umanesimo. Ci si potrebbe fermare qui, segnalando la compresenza di spinte eterogenee, finanche opposte nel nostro autore. Ma la questione è ben più complessa e riguarda il modo in cui McLuhan pensa la religione: il cristianesimo per lui è essenzialmente religione della carne. Su questa base, che in altra sede andrà sviluppata, si deve comprendere come l’eccellenza umana sia fondata essenzialmente su un elemento di coniugazione e vicinanza con l’alterità, sia essa la carne degli animali o quella del mondo. L’uomo per McLuhan è eccellente in quanto si apre all’ibridazione, si coniuga e si estende (anche nei media, anche grazie ai media). La razionalità o coscienza non è definita, inoltre, con le categorie astratte della metafisica, ma è concretissima (del corpo, dei sensi) capacità di mettere in relazione e non di dividere e astrarre: “la razionalità o la consapevolezza è in se stessa una ratio o un rapporto tra le componenti sensorie dell’esperienza, e non qualcosa di ‘aggiunto’ a quest’esperienza” (McLuhan, 1964: 122). Una mediologia matura e normale non può dunque che assegnare questo ruolo decisivo alla funzione mediatrice del corpo. Non si può che constatare come in McLuhan una tale esplicita assegnazione sia una conseguenza affatto necessaria del suo tentativo di denunciare la scissione tra medium e messaggio, proposta e imposta per oltre due millenni sulle nostre squadrate lande. Una tale assegnazione ribadisce ancora come l’orizzonte di comprensione della natura umana che ci è aperto dai media non-alfabetici, sia essenzialmente legato ad un luogo -- il nostro corpo. È questo luogo che noi siamo, e non invece un punto (di vista) esterno che dall’alto lo governa o lo percorre. E, nello specifico, un luogo non dato una volta per tutte, ma sempre in continua e radicale mutazione. Un luogo che però si nega alla vista (al dominio della vista) più noi ci approssimiamo ad esso. ( [email protected] ) Riferimenti bibliografici Abbagnano, Nicola (1967), “L’uomo di domani”, La Stampa, Torino, 27 agosto. Ballard, James G. (1973), Crash, Feltrinelli, Milano, 2004. Caronia, Antonio (1996), Il corpo virtuale, Muzzio, Padova. Gamaleri, Gianpiero (1976) La galassia McLuhan. Il mondo plasmato dai media, Armando, Roma. Gilder, George (1990-1994), La vita dopo la televisione. Il Grande Fratello farà la fine dei dinosauri? Castelvecchi, Roma, 1994. Havelock, Eric (1963), Cultura orale e civiltà della scrittura. Da Omero a Platone, Laterza, Bari, 1973, 4 ed. 2001. Hayles, Katherine N. (1999), How we became posthuman. Virtual bodies in cybernetics, literature, and Informatics, University of Chigaco, Chigaco (Usa). McLuhan, Marshall (1964), Gli strumenti del comunicare, Il Saggiatore, Milano, 1995. McLuhan, Marshall (1999), La luce e il mezzo. Riflessioni sulla religione (a cura di Eric McLuhan e Jacek Szklarek), Armando, Roma, 2002. McLuhan, Marshall; McLuhan, Eric (1988), La legge dei media. La nuova scienza, Roma, 1994. McLuhan Marshall; Powers, Bruce R. (1986), Il villaggio globale. XXI secolo: trasformazioni nella vita e nei media, Sugarco, Milano, 1998.