Cap.5 Pechino e Marco Polo

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Cap.5 Pechino e Marco Polo
Capitolo 5 – Dadu, Pechino in epoca Yuan
Sulla fortuna dei Mongoli e di Khubilai Khan
Gli anni dell’occupazione mongola, quelli in cui la futura Pechino divenne
capitale del Khubilai Khan e del più grande impero cinese che la storia
avesse mai conosciuto, pongono problemi di natura storica sostanzialmente nuovi. Il periodo è stato affrontato da un gran numero di studiosi.1
Grazie a questo prezioso lavoro le zone d’ombra, per altro numerose, sono assai inferiori a quelle di luce. Inoltre l’eccezionale successo della Cina
di Marco Polo, inversamente proporzionale a quella del suo libro (Il Milione condivide con Moby Dick di Melville il triste primato di essere uno dei
testi meno letti e più citati della letteratura umana) ha reso popolare in tutto il mondo la figura di Marco, quella del suo imperatore detto Gran Cane,
la stessa immagine di Pechino che in quegli anni si formò intorno al Palazzo Imperiale (Città Proibita). Questa, sebbene non sia quasi mai chiaro in
che misura e in quale percentuale sia dei tempi di Marco o sia invece assai
più tarda, vive ormai nella cultura del pianeta come simbolo della Cina, di
un certo misterioso Oriente, diventando una sorta di landmark riconosciuto a ogni latitudine.
Tanto successo semplifica e complica al tempo stesso le indagini. Se è vero
che quasi tutto è stato scritto e molto documentato, è altresì vero che esiste ormai un senso comune nei confronti di questo bene dell’umanità che
vive di vita propria, ignora (e se conosce rifiuta) ciò che la ricerca suggerisce. Vive e si alimenta di racconti, di sentiti dire, di voci. Una sorta di leggenda tra il giornalistico e il turistico che mescola alcuni degli errori più
frequenti del nostro presente. Tra le cause che hanno reso possibile questo
fenomeno vanno ricordate a) l’esorbitante numero di testi del Milione riscritti da scrittori anche bravi ma spesso fantasiosi e sempre con una conoscenza della Cina che è caritatevole definire approssimativa; b) la presenza sul mercato librario anglosassone di traduzioni non soddisfacenti del
Milione; c) la sostanziale confusione – tutta occidentale – tra Città Imperiale e Palazzo Imperiale, ovvero tra un’area urbana di Pechino e quella che le
guide turistiche continuano a chiamare la Città Proibita.
A questi errori, in qualche modo espressione del presente, se ne sommano
altri più antichi, secolari. Il fatto è che non solamente Marco, ma tutta la
cultura occidentale ha nutrito, nei confronti dei Mongoli e della loro affa-
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scinante storia, una sorta di rispetto che germina dall’antica speranza europea di trovare un alleato contro l’invincibile Islam. Il sorgere di una potenza militare alle spalle dell’impero del male, ovvero il mondo turco-islamico,
alimentò – dopo il primo momento di sgomento2 - il sogno papale e cristiano di indurre i principi mongoli a una alleanza con le forze sane del
tempo, rappresentate dal grande Federico II e dal pio, santo, re Luigi di
Francia3. Scopo di questa alleanza avrebbe dovuto essere la distruzione
dell’Islam e la riconquista dei luoghi santi di Palestina.4 Tanta, sognante
attesa, si alimentava non solo delle terrificanti imprese militari dell’esercito
mongolo, ma anche di ciò che si sapeva sulla sua cultura religiosa. Già il
fatto di essere nemici dell’Islam rendeva i Mongoli quasi santi agli occhi
degli Europei: ma questo avere un dio unico e non rappresentabile, apparentemente non dissimile da quello cristiano, giungeva come conferma di
una leggenda antica, ben nota nelle corti europee. Diceva questa voce popolare - e mai fino in fondo verificata - che oltre il mondo dell’Islam e degli Infedeli ci fosse un popolo, guidato da un re invincibile e saggio il cui
nome era Prete Gianni. Costui era una Cristiano e da cristiano aveva unito
le tribù intorno a sé e le aveva condotte all’assalto dell’Islam e delle terre di
Malcometto e del Diavolo. La leggenda rifletteva un brandello di verità storica
che non è possibile qui nemmeno delineare.5 Quando dalle lotte per il
potere emerse in Mongolia la figura di Gengis Khan tutto sembrò corrispondere. Cristo aveva finalmente deciso di intervenire in prima persona6:
un’alleanza tra Mongoli e Cristiani avrebbe sconfitto l’Anticristo e restituito i luoghi santi alla Cristianità. Vennero inviate missioni, lettere. Ci fu addirittura uno scambio di missive tra il Papa e i khan mongoli.7 Non ne
venne fuori nulla, ma l’atteggiamento della storiografia ne risultò influenzato per sempre. Sicché la Cambalic che Marco descriveva, le mura e i palazzi della reggia, lo stesso aspetto del Khubilai Khan divennero parte della
nostra cultura, del mondo occidentale. E i modi garbati, raffinati, colti del
principe mongolo sembrarono convenienti a un occidente bramoso di rispecchiarsi in qualcosa di simile a Oriente. Naturalmente c’era anche la
storia, non necessariamente concorde: da questa emergeva una dittatura
pesantissima per la Cina, che lasciò il paese prostrato e un solco d’odio tra
i due popoli che è tuttora palpabile. Ma nonostante questo, e le guerre note e le note stragi, perdura una sorta di atteggiamento condiscendente “Si
sa, queste cose le hanno dette i cinesi…” che lungi dal morire vive nascosto dietro le quinte anche dell’accademia. Così ricordare che i Mongoli non erano
nemmeno in grado di comunicare con gli abitanti del paese che occuparo2
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no, in quanto non ne conoscevano nemmeno la lingua, pare quasi marginale.8 La sostanziale debolezza della presenza mongola in Cina (settanta
anni per conquistarla, pochi mesi per esserne scacciati) pare quasi perdere
di valore rispetto alla rassicurante immagine dei khan mongoli che Marco
ci consegna e che le romanzesche fiction ispirate dal suo racconto hanno
alimentato. Eppure proprio Marco – nel suo travagliatissimo testo – usa
parole pesanti come pietre, riferisce commenti che non poteva avere certo
appreso dai mongoli il cui senso non lascia nemmeno lo spazio per il dubbio. Il silenzio con cui sono state accolte è la spia di un atteggiamento
complessivo nei confronti dei mongoli che perdura, si estende al nostro
secolo e che, dunque, non è possibile ignorare. L’occupazione mongola
della Cina, nonostante tutto quello che fecero e distrussero, gode di una
considerazione benevola, spesso apertamente solidale. In qualche modo
anche le vicende della futura Pechino ne sono state interessate: il suo indiscusso ruolo di capitale è stato accettato con troppa facilità. Molte domande che gli storici si sono posti sono state lasciate cadere, pagine intere di
contributi scientifici sono state dimenticate. Come se nulla debba turbare il
sogno di una splendida capitale orientale dove, finalmente!, Oriente e Occidente si incontrano e solidarizzano.
Khubilai Khan e la cultura cinese
Negli stessi giorni in cui Zhongdu cadeva sotto l’offensiva mongola, in
Mongolia Sorghaghtani Beki – moglie del generale Tolui – diede vita a
Khubilai, colui che di Pechino sarebbe stato artefice, ideatore e realizzatore. Il primo compito è dunque delineare la personalità di un uomo destinato a recitare un ruolo di simile importanza nella storia della città. A maggior motivo perché nonostante a) fosse nipote di Gengis Khan, b) fosse a
sua volta khan mongolo, c) fosse il condottiero che portò alla Mongolia il
possesso della Cina, d) fosse generale alle prese per tutto il suo regno con
guerre distruttrici e sovente inutili, ciò nonostante Khubilai sembra avere
avuto in sorte tutto quello che la storia ha negato a Gengis Khan. Il nonno
entra nella leggenda dell’umanità come lupo affamato, come mostro9.
Compare come incomprensibile incubo alle porte delle città dell’Asia,
dell’Asia centrale e del Vicino Oriente. Non è un uomo, ma un flagello.
Un protagonista di spessore biblico, in ogni caso immenso.10
L’immagine che si è affermata di Khubilai è invece diversa, come se appartenesse a un altro mondo, lontano secoli da quello del nonno.11
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Dopo avere conquistato il paese, egli volle conquistare le menti, e
forse il più suo successo più famoso fu non soltanto essere stato il
primo uomo a conquistare la Cina, ma anche ad averla pacificata.12
Lo si ricorda elegante e colto, non amante della guerra né degli spargimenti
di sangue. La storia ha preferito presentarlo come osservatore capace di
seguire i consigli dei propri collaboratori. Rispettoso delle idee religiose
degli altri, della Cina ma anche degli Occidentali. Affezionato marito e
padre, travolto in vecchiaia dal dolore dei molti lutti familiari. Tuttavia a
contrastare questa radiosa immagine pesano le guerre che condusse in Cina. I catastrofici attacchi al Giappone che costarono decine di migliaia di
morti. La conquista della Birmania e l’inconcludente aggressione al Vietnam dove i mongoli riportarono sconfitte disastrose. Ancora, una spedizione contro l’Indonesia che costò lutti e denaro ma che non ottenne alcun apprezzabile risultato. E, per finire, le gravi colpe per le condizioni in
cui versavano le casse dello Stato alla sua morte. Inflazione e spese insostenibili avevano prosciugato le casse: nessuna politica fiscale negli anni
successivi sarebbe stata più in grado di colmare l’immenso deficit.13
La sua immensa fama ha finito con l’oscurare, spesso in modo incomprensibile, i molti errori. Come mai? C’è in primo luogo una spiegazione più
generale, molto cinese. Nel ritrarre gli imperatori che hanno governato il
paese, la storiografia cinese si è fatta a lungo imprigionare da una sorta di
immagine edificante che doveva servire da modello per i futuri imperatori.
Contava, in sede di ricostruzione storica, non tanto raccontare ciò che era
effettivamente avvenuto (d’altronde cosa significa effettivamente per uno
storico?) quanto confermare un modello di comportamento per le generazioni successive. Ciò che è stato osservato a proposito delle capitali valeva
anche per gli imperatori: in un affascinante stravolgimento dell’approccio
storico l’evento viene estratto dal processo che lo ha prodotto e collocato
in una dimensione atemporale. Poiché i principi sono “giusti” per definizione e consentono di governare a lungo, ne consegue che necessariamente chi ha governato a lungo deve essere stato interprete fedele dei principi.
Ne consegue così, ad esempio, che due imperatori importanti, separati da
quasi cinque secoli e da una storia personale profondamente diversa (il
mongolo Khubilai Khan e il mancese Qianlong) finiscano con l’avere nella
storiografia cinese una personalità politica e umana quasi coincidente. Non
perché siano effettivamente stati simili, ma perché entrambi hanno interpretato nel modo migliore possibile la parte del principe secondo i modelli
e i valori propri della cultura cinese.
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Ciò detto non va nascosto che la vita del Khubilai Khan ha molti punti di
estremo interesse, appartenenti a una personalità non comune nemmeno
nella millenaria storia della Cina.
Cresciuto in un ambiente lontano dalle lotte per il potere Khubilai Khan si
impratichì fin da giovane nei problemi tecnici e logistici dell’economia cinese. La madre, alla morte di Tolui, si rifiutò di diventare moglie del cognato secondo il costume mongolo. Ottenne invece dal khan Ögödei un
fondo in Cina nord-orientale dalla cui gestione trasse le risorse per la propria sopravvivenza e per quella dei propri figli. Le difficoltà dell’impresa
dovettero sembrare al giovane Khubilai Khan insormontabili: i mongoli
non amministravano i terreni. Contrariamente ai Jin, ma come i Qidan,
essi non avevano alcuna esperienza e nessun desiderio di misurarsi con
problemi di ordinaria amministrazione14. Fin da ragazzo Khubilai Khan
imparò a chiedere aiuto a funzionari cinesi e a discutere con loro, assai più
esperti, le decisioni più importanti. Iniziata da giovane questa abitudine
non venne mai meno nel futuro Gran Cane: monaci chan (Haiyun), di ispirazione taoista ma sincretici15 (Liu Bingzhong), turchi uiguri (Lian Xixian), potenti signori locali (Shi Tianzhe), letterati confuciani (Yao Shu e
Xu Heng) entrarono a far parte della sua corte personale assai prima della
nomina a Gran Cane. Da essi, e dai molti altri che riunì intorno a sé, trasse
non solo una formazione più aperta, ma anche nozioni nuove per un
mongolo e per la classe dirigente del tempo. Così, ad esempio, fu decisiva
per la cultura di Khubilai Khan la scoperta che le passate dinastie barbare
Liao e Jin erano assai più ricche dei mongoli perché erano state capaci di
fare fruttare le immense ricchezze del paese. Preferendo l’amministrazione
allo sterminio, lo strumento fiscale alla rapina avevano fatto il bene della
Cina e della dinastia16. La sua ascesa al potere supremo, in gran parte legata
anche alla profonda conoscenza della Cina maturata in quegli anni e ai
collaboratori di cui si era circondato, avvenne intorno alla metà degli anni
sessanta. Quando ebbe la meglio nelle lotte di successione che si erano –
come di consueto – aperte in Mongolia alla morte di Möngke.
Tuttavia già prima, nel 1262, una ribellione anti-mongola di importanti
feudatari cinesi, signori aggregati all’esercito mongolo, modificò in modo
definitivo il suo orientamento. Tutti i signori che i Mongoli avevano negli
anni passati unito al proprio esercito vennero rimossi e i posti chiave
dell’amministrazione affidati solamente a persone di sicura fede, generalmente mongoli o provenienti dall’Asia centrale. Fu una decisione importante, che non sempre è stata tenuta nella giusta considerazione in sede di
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analisi storica. Ed è una decisione, è bene ricordarlo, che segue la conquista dello Yunnan ma precede quella di Linan / Hangzhou con cui i mongoli posero termine alla dinastia cinese dei Song17.
Quando, più tardi, ormai alla testa di uno dei più potenti imperi che la storia ricordi, Khubilai Khan dovette affrontare il problema
dell’amministrazione della Cina, questo vecchio orientamento adottato nel
1262 non solo non venne cancellato, ma acquistò una vera e propria formalizzazione. La società cinese in epoca Yuan non era una società egualitaria: i Mongoli occupavano il gradino più importante e le popolazioni
dell’Asia centrale o Qidan e Jurchen il secondo posto. Solo dopo giungevano i cinesi (Han) conquistati prima del 1273. La gran parte delle popolazione cinese, entrata a far parte dell’impero mongolo dopo quella data,
venne raccolta nell’ultima e meno importante gruppo detto Nanren (Uomini
del sud). È stato sottolineato come una simile divisione non fosse rigida,
come personalità cinesi abbiano avuto ugualmente accesso a posti chiave
sia per capacità personale che per mancanza di quadri dirigenti. Tuttavia
mai in Cina una dinastia aveva costruito la propria amministrazione su una
discriminante etnica di tale rilevanza.18
A confermare l’orientamento di chiusura diffidente verso i letterati cinesi
intervenne una seconda decisione, forse più grave ancora della pregiudiziale etnica. La sospensione del reclutamento attraverso esami pubblici (jinshi)
mirò a impedire che giungessero ai vertici dell’amministrazione Yuan uomini esperti cui la società cinese riconosceva grande prestigio per il solo
fatto di avere superato prove di tale difficoltà. L’ingresso
nell’amministrazione avvenne per anni scegliendo tra coloro i cui padri
avevano a loro volta occupato posti amministrativi importanti. È vero,
come Mote ricorda19, che una simile prassi (Yin) apparteneva anch’essa alla
cultura cinese ed aveva conosciuto una certa diffusione in epoca Song,
tuttavia, combinata con le pregiudiziali etniche di cui sopra e la sospensione dei concorsi di Stato 20 , parve ai cinesi una sorta di blindatura
dell’amministrazione. Né bastò a smorzare i contrasti e a lenire le tensioni,
che i compiti dell’immenso impero Yuan fossero così complessi da obbligare a ignorare queste norme e a dare accesso a funzionari cinesi. Non
desta meraviglia, con queste premesse, che il Shumiyuan, Ufficio per gli
Affari Militari, fosse composto solamente da Mongoli. Sebbene ufficialmente presiedesse alla riorganizzazione e amministrazione dell’esercito,
venne visto come una sorta di governo ombra più influente presso
l’imperatore di ogni altra struttura di amministrazione civile21.
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Un ultimo elemento, tra quelli di importanza primaria, deve essere ricordato prima di tornare alla nuova capitale che Khubilai Khan costruì. Egli
incaricò il lama tibetano Phagspa (P’ags-pa, 1235-1280), esponente di prestigio della corrente Sa-skya, di produrre una scrittura che fungesse da
ponte tra l’alfabeto uiguro adottato da anni dai Mongoli e la scrittura cinese. Non vi è alcun dubbio che Phagspa produsse un vero e proprio capolavoro linguistico, ma l’esperimento fu un fallimento22. La nuova scrittura
non venne adottata né seguita, e fu invece apertamente boicottata dai letterati cinesi. Nonostante la genialità della nuova scrittura, la cui invenzione è
uno dei grandi capolavori di Phagspa e della cultura lamaista tibetana, il
gesto venne interpretato dalla classe dei letterati come un attacco linguistico alle loro competenze. Imposto dall’alto, come strumento dello Stato,
doveva servire a introdurre una nuova lingua colloquiale in cui la maestria
dei letterati cinesi e l’analfabetismo dei mongoli potevano finalmente incontrarsi23. Può darsi che l’incontro tra Mongoli e Cinesi su una piattaforma linguistica paritaria fosse realmente, in buona fede, obbiettivo di Khubilai Khan. Si riconosca pure come dietro questa decisione faccia capolino
l’ideale universale, comune a tutta la storia mongola, di ridurre le differenze tra i popoli creando una nuova e più alta unità. Si ricordi pure che una
analoga opera di smantellamento delle identità locali/tribali era stata portata avanti dal grande Gengis Khan in Mongolia e proseguita da Khubilai
Khan, non a caso ricordati come sovrani fondatori di un popolo che prima
non aveva una identità nazionale ma solo di clan e di tribù.
Tuttavia c’è abbastanza materiale per nutrire più d’una perplessità. Khubilai Khan è ricordato per avere gettato un ponte verso il Confucianesimo,
per avere dato uno spazio al Taoismo forse anche in memoria del favore
(interessato?) che aveva goduto presso Gengis Khan.24 Di lui si ricorda
l’interesse spontaneo verso la Cina, la grande quantità di letterati cinesi
utilizzati come consulenti di altissimo livello. Una certa moderazione frutto dell’educazione materna, del ruolo della moglie, di una maggiore
sensibilità personale – verso la cultura in generale e le religioni degli altri.
Tutto questo smorza, forse, mitiga i termini di ciò che è doveroso chiamare una dittatura etnica imposta alla Cina con l’obiettivo di tagliarne fuori la
classe dirigente e di piegarla ad occupanti stranieri. Si può forse nutrire
simpatia per il fondatore storico della Città Proibita, per il principe di Marco, per colui che aveva immense ricchezze a disposizione ma si accontentava della semplicità della caccia nelle terre natie. Ma in nessun caso tale
simpatia può spingersi fino a tracciare quadri interpretativi forzatamente
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positivi, in contrasto con quanto noto e universalmente accettato.25 Khubilai Khan non fu Gengis Khan, ebbe un compito storico diverso, un diverso carattere, una maggiore propensione ad ascoltare e a rispettare. Ma il
regime cui diede vita in Cina non fu mai amato dai cinesi che ne videro la
prepotenza, la legittimità che viene dall’uso della forza, il carattere anticinese. È proprio Marco a ricordarlo, in una delle pagine meno citate del suo
straordinario libro:
E dovete sapere che tutti i cataini odiano il dominio del Gran Can
perché metteva sopra di loro rettori tartari, e per lo più saraceni, e
loro non li potevano patire, parendoli d’essere come servi. E poi il
Gran Can non avea giuridicamente il dominio della provincia del
Cataio, anzi l’avea conquistata con la forza.26
Le capitali di Khubilai Khan: Shangdu
Non solo Khubilai Khan gode di una fama che ne rispetta la grandezza
ma, talora, ne altera i valori. Anche la sua capitale, Dadu, è stata raccontata
sia senza dare il giusto peso a elementi che pure Marco ricorda, sia ignorando ciò che gli studi più documentati hanno prodotto negli ultimi anni.
La definizione classica della Dadu / Pechino di Marco e del Khubilai
Khan può essere così sintetizzata: la costruzione di Dadu iniziò nel 1267 e
terminò nel 1293, coinvolgendo dunque l’intero regno di Khubilai Khan.
Gli splendidi palazzi della Zhongdu capitale dei Jin erano stati distrutti
dalle fiamme durante le guerre che portarono alla fine della dinastia Jin e
l’affermarsi di quella Yuan. Quando la capitale venne ricostruita il sito originale di Zhongdu venne sostituito da una più grande area rettangolare
con al centro la splendida area lacustre della periferia nord-orientale. La
costruzione della capitale si articolò in tre principali progetti: i palazzi imperiali, le mura e il fossato, i canali. La prima fase fu la costruzione dei
palazzi e venne conclusa quasi completamente nel 1274. La seconda fase
fu la costruzione delle residenze per i principi reali, gli uffici di governo, il
Taimiao (Tempio degli Antenati Imperiali) e del Shejitan (Altare della Terra e del Grano) a Est e a Ovest del Palazzo, e del sistema delle strade per
le residenze. Nel 1293 venne infine completato lo strategico canale Tonghui, che collegava la Capitale al Grande Canale. (…) La nuova Dadu fu
una città rettangolare di quasi 30 chilometri di perimetro. Negli ultimi anni
di Khubilai Khan la popolazione della città fu di 100,000 nuclei familiari,
grosso modo 500,000 persone. La pianta della città fu il risultato di una
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programmazione omogenea, le strade più importanti larghe 24 passi, quelle strette di una larghezza pari alla metà. La pianta a scacchiera regolare
generava un’impressione di piacevole ordine.27
Talora questa scheda è stata integrata con citazioni tratte dal Milione che
descrivono riserve di caccia e zone non costruite all’interno della città,
compiendo il grossolano errore di citare Marco Polo avendone o una conoscenza approssimativa o, probabilmente, solo indiretta. Sicché vengono
utilizzate come descrizione di Dadu pagine che Marco scrisse a proposito
di un’altra città, anch’essa capitale, di Khubilai Khan: Shangdu, posta
nell’attuale Mongolia Interna (Cina)28.
Dadu, notevole sforzo e impresa mongola del regno di Khubilai Khan,
non fu – dunque – capitale unica. Gioverà partire da qui per porre in ordine i numerosi elementi di questo affascinante e complesso mosaico.
La prima città del regno di Khubilai Khan che Marco descrive è Shangdu29, denominata anche Giandu o Clemenfu. Chiamata inizialmente Kaiping Fu prima di assurgere (nel 1264) agli onori di Capitale (du) Suprema
(Shang) è sita nella Mongolia interna a poche decine di chilometri dal confine con la provincia di Hebei.30
La città di cui Marco da descrizione accurata venne costruita da Khubilai
Khan su ordine del fratello maggiore Möngke Khagan, in quel tempo khan
dei Mongoli. L’incarico (1256) faceva parte della formalizzazione di un
maggiore coinvolgimento dei Mongoli nella gestione della Cina. La tradizione vuole che la nuova città sia stata collocata in una regione posta a
nord dei monti che separano la Cina dalla Mongolia. Alla sua costruzione
contribuì in modo rilevante Liu Bingzhong che abbiamo già visto essere,
fin dalla prima ora, uno dei consiglieri cinesi più ascoltati da Khubilai
Khan.31 Quando Marco vi giunse (1275) i lavori di costruzione di Dadu,
iniziati nel 1267, erano già a buon punto. Tuttavia, nonostante la nuova
capitale fosse già in funzione Khubilai Khan trascorreva ancora tre mesi
l’anno in Shangdu, un periodo di tempo notevolmente lungo se si accetta
l’idea che la città fosse ormai – sostanzialmente – un luogo dove sfuggire
all’insopportabile calura di Dadu / Pechino.
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Figura 1: Shangdu, Capitale Suprema di Kubilai Khan. (cfr. Harada, op cit ora in Steinhardt) – Dinastia Yuan, XIII sec. d.C.
Tuttavia le sorprese non cessano qui. Uno studio della pianta della città
conferma la persistenza del modello tripartito di città che abbiamo già veduto affermarsi in epoca Liao e Jin: città esterna, città imperiale, palazzo
imperiale.32
La cinta muraria esterna, che tutto raccoglie e cinge, misurava circa 2,5 km
di lato e consisteva in terra compressa, fino ad una altezza variante tra i
quattro e i sei metri. Aveva una sola porta d’ingresso a occidente e due
porte per lato a settentrione, oriente e meridione. Le due porte orientali e
una delle due porte meridionali davano diretto accesso alla Città Imperiale,
separata da un alto muro dall’altra, la Città Esterna. All’interno della Città
Imperiale, dove si suppone fossero ospitati gli edifici amministrativi della
capitale, leggermente spostata verso nord, una terza cinta muraria limitava
l’area del Palazzo Imperiale.
Figura 2: Shangdu, Capitale Suprema di Kubilai Khan, il Palazzo (Harada, ora in Steinhardt 1990). Dinastia Yuan
Il Palazzo imperiale di Shangdu presentava evidenti influenze di tradizione
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cinese che non possono non essere attribuite a Liu Bingzhong. Era dominato dal padiglione Da’an Ge appoggiato sul muro settentrionale: a forma
di U rovesciata e mirante il Sud era di fatto la riproposizione del leggendario padiglione Hanyuan del Palazzo Daming, sede imperiale della gloriosa
dinastia dei Tang.33 Non meno sorprendente è il ricomparire nella cinta
del Palazzo Imperiale di Shangdu di edifici che erano appartenuti alla città
di Bianling / Kaifeng. In un affascinante gioco di spostamenti ad alto
valore simbolico gli stessi edifici – dunque – erano stati prima utilizzati a
Kaifeng dai Song settentrionali, quindi portati a Zhongdu dai Jin, riportati
sempre dai Jin a Kaifeng e finalmente avevano raggiunto in Mongolia Interna la capitale Shangdu! Né meno impressionante è il ricomparire del
numero 8+1 di cui già si è trattato a proposito dell’architettura Liao e della
pagoda in epoca Liao. Liu Bingzhong avrebbe ordinato la costruzione degli otto templi più grandi della città agli otto angoli. Questi erano
(…) i quattro punti cardinali e i quattro angoli posti a metà tra di
loro (gli angoli reali della città). Le stesse otto posizioni corrispondevano alle otto divinità di alcuni mandala di Buddhismo Tantrico
in uso presso i Liao e i Jin, talvolta rappresentate sulle otto facciate
delle loro pagode in mattoni. … per Liu Bingzhong il numero otto
aveva un secondo rapporto nominale con gli otto fondamentali
simboli del Libro dei Mutamenti (Yijing)34. I monasteri Huayan e
Qianyuan, siti nel quadrante nord-orientale e nord-occidentale, erano associati rispettivamente con i simboli “gen” e “qian”, e di
conseguenza la pianta simbolica della città rimandava nelle sue radici al testo classico cinese della dinastia dei Zhou.35
Shangdu si presenta a noi come una raffinata interpretazione urbanistica
che da continuità alla tradizione cinese della Capitale Ideale come era venuta formandosi fin dall’antichità, con l’integrazione di elementi propri
della tradizione Liao e Jin. Ma, se ne converrà, desta interrogativi in qualche modo inquietanti quell’immensa area che la Steinhardt definisce Città
Esterna. Ammesso che lo spostamento della capitale a Dadu abbia davvero
portato al parziale abbandono di Shangdu, restano domande cui non si
riesce, oggi, a rispondere. La Steinhardt propone che, poiché la descrizione
di Marco non può in alcun modo essere fantasiosa, la Città Esterna fosse
stata trasformata in riserva di caccia del Khubilai Khan, per il suo diletto
nei tre mesi di permanenza estiva. Ma mentre è accettabile l’idea che i padiglioni che Marco descrive fossero in realtà strutture mobili tipiche dei
mongoli (yurte o ger), la questione della Città Esterna non pare risolta fino
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in fondo. Chi doveva abitarvi? È la traccia di una divisione della società in
due tronchi, quello mongolo (Città Imperiale … o Interna?) e quello cinese (Città Esterna)? Tale sarebbe certamente stata la soluzione in epoca
Liao e Jin. Fu adottata anche in epoca Mongola?
Nuove perplessità vengono sollevate dal dare per assunto che Khubilai
Khan avesse abbandonato Shangdu, sicché una sua parte fosse stata trasformata in Parco. Marco ci dice di Shangdu che «…sappiate che tre mesi
dell’anno istae in questo palagio lo Gran Cane, cioè giugno e luglio e agosto…» ma
dirà anche, più avanti, che non si fermava più tempo nella nuova capitale,
in Dadu: «Sappiate di vero senza mentire, che’l gran signore dimora nella città del
Catai tre mesi dell’anno, cioè dicembre, gennaio e febbraio…»36. L’ipotesi che Shangdu fosse stata parzialmente abbandonata perché utilizzata solo tre mesi
all’anno, lungi dal risolvere il problema lo estende a Dadu. Eppure sappiamo per certo che Dadu non fu abbandonata in quegli anni. Dove viveva allora il Khubilai Khan gli altri mesi dell’anno37? Le vicende storiche di
Khubilai Khan confermano inoltre che fino al 1279 l’imperatore ebbe serissimi problemi con aree di ribellione interne alla Mongolia38. Ancora,
vediamo Shangdu ritornare innumerevoli volte nella storia mongola dei
Mongoli come sede di ribellione, incoronazioni (1333, Toghōn Temür),
amministrazione: in una parola come principale città non cinese
dell’impero Yuan.39 Il suo declino inizierà solo con le distruzioni seguite
alla rivolta dei Berretti Rossi (1368).40 Tuttavia proprio l’accanimento con
cui gli eserciti Ming la raggiunsero, conquistarono e la distrussero definitivamente tra il 1369 ed il 1370 conferma che ancora in quegli anni Shangdu
era importante città mongola, sede del khan mongolo.41 Parlare di abbandono parziale nella seconda metà del XIII secolo non pare, dunque, opportuno. Con la nomina di Pechino a Grande capitale (Dadu) si può parlare di abbandono di Shangdu solo in quanto sede di governo cinese. Restò
in vita, a tutti gli effetti, come capitale mongola. Se non c’è abbandono, se
dunque Shangdu era ancora capitale (mongola) quanto lo era Dadu (cinese) allora dovremo concludere: a) che la riserva di caccia che Marco vide
faceva parte della concezione originaria della città o b) che la popolazione
che qui doveva risiedere era stata trasferita altrove.
Tuttavia molti elementi lasciano credere che l’indicazione di Marco Polo
sulla presenza trimestrale di Khubilai Khan nell’una o nell’altra città indichi, piuttosto, una rotazione nell’utilizzo delle capitali. Shangdu sarebbe
così la capitale da cui Khubilai Khan amministrava e reggeva i propri possedimenti in Mongolia, quella da cui manteneva il controllo politico e cul12
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turale su un mondo che sempre più, negli anni, avvertì gli stava sfuggendo42. Dadu fu la città da cui resse la Cina. Il Parco di Caccia che Marco
vide potrebbe così essere la continuazione di una lunga tradizione della
caccia celeste, attestata nella cultura turco-mongola delle pianure della
Mongolia fin da epoca antichissima.43 Il suo valore rituale era assimilabile
al Taimiao (Tempio degli Antenati Imperiali) e del Shejitan (Altare della
Terra e del Grano) edificati in Dadu. Nessuna concessione speciale alla
Cina, nessun omaggio particolare alla cultura cinese. Se dobbiamo infatti
mettere insieme quanto fin qui detto è giocoforza concludere che Khubilai
Khan ebbe due capitali, non una. Che il suo impero anche a livello di città
principale, ripresentò la stessa spaccatura della società civile.
Khubilai attuò una duplice politica a seconda che lo si considerasse
– o si considerasse – grande khan ed erede di Gengis Khan o figlio
del cielo e successore delle diciannove dinastie cinesi. Dal punto di
vista mongolo, egli consolidò il principio (se non la realtà)
dell’unità morale dell’impero gengiskhanide […] Mentre nella restante Asia Khubilai fu erede di Gengis, in Cina egli ambì ad essere
il continuatore leale delle diciannove dinastie. 44
Nessun ideale universale, dunque, non qui. Nessun processo di accentuata
sinizzazione, non da queste prove. Ma una ben precisa e circostanziata
divisione di ruoli: Shangdu da una parte, Dadu dall’altra. La prima fu capitale mongola, con gli importantissimi elementi cinesi che abbiamo ricordato. La seconda fu capitale cinese: con quali elementi mongoli?
Costruendo la Città Nuova: Dadu
Oggetto di studi contrastanti, di dibattiti infiniti, la fondazione e costruzione di Dadu nel sito dove oggi sorge Pechino ha, probabilmente, raggiunto un turning point con la pubblicazione di un saggio che risolve molti
interrogativi e offre una soluzione convincente alla maggior parte delle
questioni sollevate dalla ricerca45.
Si è già avuto modo di ricordare come la decisione di costruire una nuova
capitale in prossimità del luogo dove era sorta Zhongdu dei Jin rifletta il
progressivo coinvolgimento del Khubilai Khan nelle vicende della Cina.
La prima data importante fu il
Kubilai Khan, formalmente incaricato dell’amministrazione della Cina settentrionale (1251), dopo la campagna dello Yunnan (1252) prese la decisione di spostare la capitale nella nuova città di Kaiping, posta ai confini
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Stefano Cammelli,- STORIA DI PECHINO E DI COME DIVENNE CAPITALE DELLA CINA
della Cina ma ancora in territorio mongolo. Nel 1263, divenuto Gran
Khan dei Mongoli, decise di promuovere la costruzione di una nuova città
nei pressi di Zhongdu, e rinominò Kaiping “Shangdu” (Capitale Suprema).
L’uso di una tale denominazione deve essere considerato con attenzione:
indica l’adozione di un sistema plurimo – forse binario - di capitali. Denominando Kaiping “Suprema Capitale” (Shang du) Kubilai Khan rese esplicito che la città che sarebbe stata fondata in Cina sarebbe stata capitale
regionale di un parte dell’impero, né tale strategia venne mai più modificata. Dadu restò Grande Capitale rispetto a Shangdu Suprema Capitale. In una
cultura come quella cinese dove le parole e le denominazioni hanno un
così alto valore simbolico e formale, ignorare una decisione di tale rilevanza pare avventato.
I primi lavori di Khubilai Khan in area di Pechino riguardarono il restauro
della splendida isola di Qionghua innalzata dai Jin e vennero realizzati tra il
1262 e il 1264. Nel 1267 iniziarono i lavori più importanti: venne innalzata
la cinta muraria della Città Imperiale in modo da inglobare parte del Taiyei
zhi nello stesso recinto. Sebbene parte delle costruzioni Jin fossero inseriti
nel progetto approvato da Khubilai Khan la città mongola sorgeva in una
nuova area, più a nord e a oriente rispetto a quella occupata da Zhongdu
Jin. Nel 1271 28,000 uomini provenienti da Zhongdu, Zhending, Shuntian, Hejian e Pinghuan vennero incaricati di lavori per la costruzione della
città imperiale. Nel 1276, quando i lavori giunsero al sostanziale completamento della pianta della città l’intera regione a nord di Zhongdu era stata
completamente trasformata. Era nata una città del perimetro di 28 chilometri, all’interno delle quale sorgeva una città amministrativa (la Città Imperiale) che custodiva la sede del comando, il Palazzo Imperiale.46
14
Stefano Cammelli,- STORIA DI PECHINO E DI COME DIVENNE CAPITALE DELLA CINA
Figura 3: Dadu (la città nuova) e Zhongdu (la città vecchia). Beijing in epoca Yuan, sec XIII
– XIV d.C. In tratteggiato il perimetro di Beijing in epoca Ming e Qing, fino al 1911.
La pianta della città risultava perfettamente centrata grazie a un marcatore,
oggi rintracciato non lontano dalla Torre del Tamburo e a quella della
Campana. Si pensa che il collocamento del centro di questa area rettangolare quasi perfetta (un solo spostamento a sud-ovest rispetto alla linea
ideale per non demolire una pagoda esistente), sia stato l’inizio dei lavori.47
I confini della città erano segnati da un’imponente cinta muraria in terra:
undici porte interrompevano questa recinzione, due a nord, tre rispettivamente a ovest, est, e sud. Ognuna di queste era protetta da un torrione
fortificato con importanti corpi di guardia. La città, come dimostrato dalle
ricerche archeologiche e dalle fonti del tempo, sorgeva a nord-est della
cinta muraria di Zhongdu che dunque restava interamente al di fuori del
tracciato urbano. Il problema venne ampiamente dibattuto nel secolo scorso ed è sempre possibile di aggiustamenti: tuttavia se e in quale misura la
cinta muraria Yuan toccasse a meridione quella della vecchia Zhongdu
non sposta sostanzialmente i termini della scelta. Dadu sorgeva su un’area
complessivamente nuova, inglobando ampi terreni a nord che nemmeno
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Stefano Cammelli,- STORIA DI PECHINO E DI COME DIVENNE CAPITALE DELLA CINA
nella successiva fase Ming e Qing entreranno a far parte del tracciato urbano interno alle mura. L’area era di una grandezza imponente, come
l’altezza delle mura che la proteggevano. Vi entravano a fare parte tutte le
regioni lacustri poste a nord dell’attuale Parco di Beihai.
Lo spazio interno era diviso in modo perfetto da strade che andavano da
una porta all’altra, sicché tutta l’area interna alle mura era divisa in quadranti la cui perfezione doveva misurarsi con l’estrema complessità
dell’area, attraversata da fiumi, riserve d’acqua, canali. Al centro della città,
leggermente spostata a sud-ovest c’era la Città Imperiale (Huangcheng). Era
la sede del Governo e tutta la popolazione non strettamente collegata con
la famiglia imperiale doveva uscirne al tramonto.
Secondo Nancy Steinhardt vi sono prove sufficienti per risolvere l’annosa
questione di chi disegnò la pianta della città. La concezione dello spazio,
l’alternarsi di vuoti e pieni, la triplice organizzazione in Città, Città Imperiale e Palazzo Imperiale, il ritrovamento di indiscutibili testimonianze archeologiche che rimandano a Liu Bingzhong, sono tutte prove che indicano che l’architetto di Shangdu venne coinvolto nella progettazione della
nuova capitale. Ne ispirò il modello e ne tracciò i primi progetti.48 Alla sua
morte, nel 1274, Dadu aveva ormai una precisa e definita personalità urbanistica cinese. Ispirata al modello di città ideale (Wangcheng) che abbiamo
già veduto essersi affermato in epoca antichissima. Proprio la scelta di richiamarsi alla più profonda tradizione letteraria cinese e di abbandonare
ogni forma di compromesso con altre idee di capitale sarebbe alla base del
successo di questo ambizioso progetto. Le guerre e i disordini seguiti alla
caduta della dinastia Yuan non risparmiarono Dadu. Tuttavia per quanto
quasi tutto sia stato distrutto e ricostruito in epoca Ming e successivamente risistemato in epoca Qing, la pianta mostra eloquentemente che Dadu
aveva già una collocazione molto vicina, quasi coincidente, a quella della
odierna Beijing.
Gli archeologi e gli studiosi hanno rimarcato con forza come l’indagine
archeologica abbia confermato, una volta di più, l’importanza testimoniale
di Marco. Una sola incertezza (il numero delle porte di Dadu) non permette di definire Il Milione perfettamente corrispondente a quanto oggi noto.
Ma a parte questo unico ed importante dettaglio la descrizione che Marco
fece della città è perfettamente corrispondente a ciò che le indagini
archeologiche hanno evidenziato sulla Dadu che Khubilai Khan e Liu
Bingzhong edificarono.
Questa città è grande in giro da ventiquattro miglia, cioè sei miglia
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Stefano Cammelli,- STORIA DI PECHINO E DI COME DIVENNE CAPITALE DELLA CINA
per ogni canto: ed è tutta quadra, che non è più dall’uno lato che
dall’altro. Questa città è murata di terra, e sono grosse le mura dieci passi e alte venti; ma non sono così grosse di sopra come di sotto, anzi vengono di sopra assotigliando tanto, che vengono grosse
di sopra tre passi. E sono tutte merlate e bianche; quinvi ha dieci
porte49, e in su ciascuna porta hae un gran palagio, ove istanno gli
uomeni che guardano la terra. E sappiate che le rughe della città
sono sì ritte, che l’una porta vede l’altra; e di tutte quante incontra
così. [Ram. E per tutto, dai lati di ciascuna strada generale, sono
stanze e botteghe di qualunque maniera. E tutti i terreni, sopra li
quali sono fatte le abitazioni per la città, sono quadri e tirati per linea; e in ciascun terreno vi sono spaziosi e gran palagi con sufficienti corti e giardini. E questi tali terreni sono dati a ciascun capo
di casa… E circa ciascun terreno, così quadro, sono belle vie per le
quali si cammina…].
Nella terra ha molti palagi; e nel mezzo n’hae uno, ov’è suso una
campana molto grande, che suona la sera tre volte, che niuno non
puote poi andare per la terra senza grande bisogno, o di femmina
che partorisse o per alcun infermo50.
Dove il progetto di Liu Bingzhong superò ogni precedente esperienza,
toccando vertici davvero straordinari, fu nelle scelte di natura paesaggistica
e nell’adattamento di un modello ideale (Wangcheng) alla particolare conformazione del terreno. Così, nei pressi della attuale Torre della Campana
e del Tamburo, non distante dal centro marcatore della città Yuan, le strade seguirono un tracciato più libero, costeggiando la riserva d’acqua e abbandonando la griglia a linee perpendicolari che uniformava, invece, la
restante parte della città.51 La collocazione della Città Imperiale era a sua
volta una straordinaria eccezione e contribuì in modo determinante al successo dell’immagine di Pechino nei secoli. L’importante riserva d’acqua del
lago Taiyi e l’isola di Qionghua – che avevano già conquistato una notorietà letteraria e cui lo stesso Khubilai Khan era profondamente legato52 vennero inserite all’interno del perimetro della stessa città imperiale. Un
grande lago e una splendida isola divisero così in due metà irregolari la
Città Imperiale. E est, sull’asse sud-nord che tagliava in due perfette metà
Dadu, fu costruito il Palazzo Imperiale (Gongcheng), a ovest, l’area del lago e
l’isola di Qionghua creavano un immenso parco che si estendeva dalle mura del Palazzo Imperiale fino alla cinta muraria della Città Imperiale.
17
Stefano Cammelli,- STORIA DI PECHINO E DI COME DIVENNE CAPITALE DELLA CINA
A
B
C
Figura 4: Dadu, la città nuova. Beijing in epoca Yuan (Wenwu, 1977)
L’insieme era dunque fortemente simmetrico. Il Palazzo Imperiale era costruito sull’asse nord-sud di Dadu. Alle sua sinistra, rispetto alla pianta, si
sviluppava una vastissima aerea che riproponeva, al contempo, le vedute
lacustri della Cina tradizionale e la distesa quasi a perdita d’occhio della
prateria. Un paesaggio che dovette ricordare a Khubilai Khan e alla sua
corte qualcosa della natia Mongolia. Sebbene anche questa grande area
naturale fosse inclusa nei confini della Città Imperiale, si comprende perché i contemporanei e gli studiosi ne parlino come di un insieme ordinato
e ben predisposto, assialmente ordinato. Questa disposizione relativamente simmetrica perse qualcosa del suo ordine negli anni immediatamente
successivi la morte di Khubilai Khan. Oltre il lago, all’angolo nordoccidentale del grande parco, venne innalzato il Palazzo (Gong) Longfu,
residenza della Imperatrice vedova con un annesso giardino che per pianta
e dimensioni era pari al palazzo. 53 Successivamente54 all’angolo nord18
Stefano Cammelli,- STORIA DI PECHINO E DI COME DIVENNE CAPITALE DELLA CINA
occidentale della Città Imperiale vennero costruiti il Palazzo Xingsheng,
anch’esso con un’area di pari ampiezza destinata a giardino.
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1
9
6 5
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2
3
Figura 5: Dadu, Città Imperiale, legenda:1) Giardino Imperiale, 2) Palazzo Imperiale,
3)Viale di accesso alla Città Imperiale e al Palazzo Imperiale, 4) Palazzo Daming, 5) Palazzo Yanchun, 6) Palazzo Yude, 7) Palazzo Longfu, 8) Palazzo Xingsheng, 9) Lago Taiyi
Zhi e Isola di Qionghua. In verde tratteggiato l’asse nord-sud che divide in due metà il Palazzo
Imperiale e il Viale di accesso. vedi Zhu Qiqian, Zhonguo Yingzao Xueshe Huikan,
ora in Nancy S.Steinhardt, Imperiale architecture along the Mongolian road to Dadu, in Ars Orientalis, XVIII, 1988.
Le conseguenze di queste nuove costruzioni sono alla base di veniali errori
interpretativi e di un più grave fraintendimento sull’uso della Città
Imperiale. Da una parte la costruzione di questi edifici creò una sorta di
slittamento verso ovest dell’asse mediano della Città Imperiale, sicché si è
sostenuto che il lago Taiyi Zhi separava in due parti gli edifici della Città
Imperiale. Il che è vero, ma non per i tempi di Khubilai Khan né del suo
architetto Liu Bingzhong, morti rispettivamente nel 1294 e nel 1274. Alla
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Stefano Cammelli,- STORIA DI PECHINO E DI COME DIVENNE CAPITALE DELLA CINA
scomparsa dei due protagonisti della nuova Dadu il lago Taiyi non separava due anime della Città Imperiale. Né risulta sia dimostrato che la costruzione dei Palazzi Longfu e Xingsheng fosse stata prevista dall’architetto o
da Khubilai Khan. La Città Imperiale era dunque, nella sua parte costruita,
limitata esclusivamente al Palazzo Imperiale, sede di Khubilai Khan.
L’asimettrica disposizione della Città Imperiale non può dunque essere
attribuita a Khubilai Khan ma, eventualmente, ai suoi successori.
Ma, certo più grave, è la confusione che ha alimentato una lettura non attenta della pianta della città o, in alternativa, dei lavori della Steinhardt. Se
infatti si deve credere a quanto scoperto ne consegue che, al tempo di
Khubilai Khan, lo spazio della Città Imperiale non poteva avere alcuna
funzione né amministrativa, né di rappresentanza, né di residenza. La Città
Imperiale non poteva, dunque, in alcun modo luogo ospitare i generali e
l’aristocrazia mongola con le loro famiglie – per quanto vicini potessero
essere alla famiglia imperiale – per la semplice ragione che non c’era nessun edificio che potessi accoglierli. Essa era null’altro che un immenso
spazio aperto, segnato da paesaggi che non è difficile immaginare incantevoli, dove Khubilai Khan e i suoi collaboratori potevano, al bisogno, concedersi la gioia di credersi ancora in Mongolia, lontano dall’Urbe e dagli
impellenti, fastidiosi e spesso gravi, negozia. Poiché le indagini portate a
termine in questi anni sono importanti e in qualche modo esaustive ne
consegue che in nessun modo la Città Imperiale può essere definita Amministrativa o Residenziale. Piuttosto era una vasta area a parco, con rare eccezioni, di modestissimo peso.
Il Palazzo Imperiale, erede della grande tradizione cinese del Palazzo, aveva dimensioni imponenti eppure leggermente più ridotte rispetto
all’attuale. A nord, là dove oggi si innalza la cosiddetta Collina di Carbone,
una vasta area quadrata, grande quasi quanto lo stesso Palazzo, era il Giardino Imperiale. Non vi era nessuna collina: il terreno per questa sarebbe
stato portato dopo, in epoca Ming. Circondato da un muro rettangolare
sui cui si aprivano 4 porte poste ai 4 punti cardinali il Palazzo era la residenza stessa di Khubilai Khan. Era dominato da due imponenti padiglioni
e da una terza costruzione più modesta. Un percorso sud-nord conduceva
dalla porta Chongtian all’importante Palazzo Daming la cui costruzione
iniziò solo nel 1273 (novembre) e venne completata nel 1274. A ridosso
del muro occidentale il più piccolo padiglione Yude era già in uso nel
1269. Leggermente più tardi vennero completati i lavori al complesso
Daming e realizzato il terzo insieme di edifici, Yanchun.55
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Stefano Cammelli,- STORIA DI PECHINO E DI COME DIVENNE CAPITALE DELLA CINA
Sebbene il Palazzo di Khubilai Khan fosse di vaste proporzioni ed avesse
un perimetro di circa 3,5 km neanche in questo palazzo si trovano ambienti per la nobiltà mongola. Inoltre si sa per certo che chiunque non appartenesse alla famiglia imperiale doveva lasciare l’area del Palazzo al tramonto.
Non v’è dubbio che questa immensa città quadrata di Dadu con all’interno
un parco recintato di tali notevoli proporzioni (Città Imperiale), a sua volta
custode di un palazzo di tale ampiezza e di tanto rigore formale, sia uno
dei più straordinari capolavori della cultura urbanistica cinese. Giustamente gli storici hanno ricordato come un modello di tale perfezione formale
non potesse appartenere – come si è lungamente creduto – alla tradizione
islamica. Esso era, invece, il conseguente punto terminale di una ricerca
avviata in Cina fin dalla metà del II millennio a.C.
Il progetto di Liu Bingzhong fu così straordinario e perfetto perché non fu
il parto estemporaneo di un architetto geniale, ma si inserì in una tradizione secolare. Liu Bingzhong, fu un grande letterato cinese, ma anche conoscitore attento della tradizione e del linguaggio architettonico della capitale
in Cina. E lo fu in un’epoca, il XIII secolo, di straordinaria sensibilità architettonica ed urbanistica. L’idea, così tanto diffusa in passato, che la città
di Dadu fosse dovuta al contributo geniale di un architetto islamico di
nome Yeheidie’er non è più accettabile né seguita dagli esperti del campo.
È incontestabile l’intervento di maestranze e di esperti provenienti
dall’Asia Centrale; architetti, decoratori e ceramisti persiani e islamici parteciparono sicuramente alla grande impresa. Ma non influirono in modo
significativo sulla pianta, sulla concezione dello spazio e dell’Urbe, che
dunque fu e resta una conquista della cultura architettonica ed urbanistica
cinese.56
Va a merito di Khubilai Khan avere intuito e forse ispirato questo ardito
progetto. L’averlo assecondato con tutta la forza del suo potere e delle sue
finanze. Accettando, e forse chiedendo lui stesso, che la sua capitale in
Cina parlasse un linguaggio tipicamente cinese. Il Gran Cane si sarebbe
accontentato, dicono le cronache del tempo, di modesti interventi. L’erba
del parco della Città Imperiale si diceva che provenisse dalla Mongolia,
così come alcune piante, alberi, e forse lo stesso arredo floreale. Che in
questi vasti spazi naturali il Khubilai Khan facesse talvolta innalzare le ger57
dove lenire la nostalgia per una patria e un modo di vita lontani dal proprio fa parte delle curiosità che definiscono con maggiore precisione la
figura di Khubilai Khan. Ma non ha risvolti di alcun interesse – posto
21
Stefano Cammelli,- STORIA DI PECHINO E DI COME DIVENNE CAPITALE DELLA CINA
quanto fino ad oggi noto – sulla pianta e la concezione dello spazio proprie di Dadu.
Restano tuttavia problemi non risolti, domande importanti cui non è stata
data ancora alcuna risposta. O, più semplicemente, la cui risposta è contenuta nelle cronache del tempo e non ha ricevuto una attenzione adeguata.
Sappiamo dalle descrizioni, e Marco è in tal senso testimonianza fondamentale ma non unica, che immensi ricevimenti si tenevano a corte. Centinaia, forse migliaia di uomini partecipavano a questi eventi politici e
mondani. Ed altre migliaia di soldati, con i relativi ufficiali, presidiavano la
città e la proteggevano. Poiché il tema è importante e coinvolge in modo
diretto la natura stessa di Dadu giova riportare per intero il brano di Marco.
Ora sappiate che’l Gran Cane si fa guardare a dodicimilia uomeni a
cavallo, e chiamansi questi “tan”, cioè a dire “cavalieri fedeli del signore”. E tra questi dodicimilia cavalieri hae quattro capitani, sì
che ciascuno n’ha tremila sotto di sé, de’ quali ne stanno sempre
nel palagio l’una capitaneria, che sono tremila; e guardano tre dì e
tre notti, e mangianvi e dormonvi. Di capo degli tre dì questi se be
vanno, e gli altri vi vengono; e così fanno tutto l’anno. E quando il
Gran Cane vuole fare una grande corte, le tavole istanno in questo
modo. La tavola del Gran Cane è alta più che l’altre, e siede verso
tramontana, e volge il volto verso mezzodie. La sua prima moglie
siede lungo lui dal lato manco; e dal lato ritto, più basso un poco,
seggono gli figliuoli e gli nipoti e suoi parenti che sieno dello imperiale lignaggio, sì che il loro capo viene ai piedi del signore. E poscia seggono gli altri baroni più a basso, e così va delle femmine:
che le figliuole del Gran Cane signore e le nipoti e le parenti seggono più basso dalla sinistra parte; e ancora più basso di loro le
moglie di tutti gli altri baroni; e ciascuno sae il suo luogo ov’egli
dee sedere per l’ordinamento del Grande Cane. Le tavole sono poste per cotal modo che’l Gran Cane puote vedere ogni uomo, e
questi sono grandissima quantitade. (…) E di fuori di questa sala
ne mangia più di quarantamilia; perché vi vengono molti uomini
con molti presenti, gli quali vi vengono di strane contrade con istani presenti. E di tali ve n’hae ch’hanno signoria, e questa cotal
gente viene in questo cotal die, che’l signore fae nozze e tiene corte
a tavola.58
La corte mongola, in questa descrizione, ci offre tutto lo sfarzo e la ricchezza che siamo pronti ad attenderci dal favoloso Oriente. Migliaia di perso-
22
Stefano Cammelli,- STORIA DI PECHINO E DI COME DIVENNE CAPITALE DELLA CINA
ne, di ogni razza a provenienza, presenziano ai ricevimenti, alle feste, alle
sedute. Di fianco ad esse abbiamo un corpo di guardia davvero notevole,
composto da migliaia di uomini di cui solo un quarto, quello di turno, sosta per tre giorni all’interno della Città Imperiale e del Palazzo. Questa
straordinaria quantità di uomini e di nobili non ha un luogo dove vivere.
Noi non sappiamo dove dormissero i cortigiani, né in quali palazzi vivesse
la nobiltà mongola. Né dove si potesse esprimere in tutta la sua ricchezza
il lusso di un popolo che aveva vinto una guerra e conquistato un impero
di tali dimensioni. Su tutto questo le fonti sono completamente mute. Naturalmente l’ipotesi più credibile è che vivessero in Dadu, in prossimità
con la Città Imperiale, in ragione del rango e della ricchezza. Ma questo
non risolve i nostri problemi, li sposta. L’ipotesi che nella splendida Dadu
che si sviluppava fuori dal muro della Città Imperiale convivessero l’uno di
fianco all’altro nobili mongoli, nobiltà della corte Sung inviata in esilio a
Dadu dopo la conquista di Hangzhou, commercianti occidentali, popolino, soldati e prostitute non è credibile. Per quanto vasta potesse essere la
nuova capitale riesce arduo credere che in una società di tale stratificazione
e di tali barriere etniche venisse consentito al cinese di vivere di fianco al
mongolo, al povero e al mendicante di fianco al ricco aristocratico. Fino a
nuove prove la pianta di Dadu non è la pianta della Capitale, ma di una
parte di essa. Quella di governo e di rappresentanza, sicuramente. E di
coloro che vivevano in Dadu. Ma chi viveva in Dadu? E coloro cui non
era concesso di vivere in Dadu dove stavano? C’era un’altra città?
C’è ma non se ne parla: la città dimenticata
Già si è visto come, per secoli, la futura città di Pechino si fosse sviluppata
fuori del tracciato della Dadu Yuan. Per quanto possano esserne incerti o
confusi i confini sappiamo che una città di nome Youzhou esisteva in epoca Tang, che su di essa era stata fondata Yanjing dai Liao e che questa
aveva costituito – a sua volta - il primo nucleo urbano della Zhongdu dei
Jin. Sappiamo anche della tragica fine della città imperiale di Zhongdu: già
si è trattato nei precedenti capitoli dell’eroica resistenza dei suoi abitanti e
della sua guarnigione. Dell’incendio che appiccato ai padiglioni consumò
per alcuni mesi la splendida, ormai leggendaria, città dei Jin. Ma la città? la
sua cinta muraria? Era anch’essa andata distrutta? La ricerca ci ha detto
cosa fu del Palazzo o della città imperiale, ma non ha toccato la città vera e
propria, quella dove abitavano decine di migliaia di abitanti. Le piante di
23
Stefano Cammelli,- STORIA DI PECHINO E DI COME DIVENNE CAPITALE DELLA CINA
Dadu che gli studi ci offrono sono tutte emblematiche e perfette, ma finiscono là dove comincia la nostra domanda. Oltre il fiume che lambiva il
lato meridionale delle mura Yuan non sappiamo ancora cosa c’era e quale
ampiezza avesse. È ancora Marco a fornirci le prime, inquietanti, risposte.
[Ram. Fuori della città per ciascuna porta sono grandissimi borghi,
ovvero contrade, di modo che’l borgo di ciascuna porta si tocca
con li borghi delle porte dell’uno e l’altro lato: e durano per lunghezza tre e quattro miglia, a tal che sono più quelli che abitano né
borghi che quelli che abitano nella città. E in ciascun borgo, overo
contrada, forse per un miglio lontano dalla città, sono molti fondachi e belli, ne’ quali alloggiano i mercanti che vengono di qualunque luogo e a ciascun sorte di gente è diputato un fondaco…]59.
Di quale città parla? La versione di Ramusio colloca questa descrizione
oltre la descrizione di Dadu, fuori dalle porte per proteggere le quali vi
sono posti di guardia di mille uomini. Un simile imponente schieramento
di uomini autorizzerebbe a credere si stia trattando della Città Imperiale.
Tuttavia, poco prima, la città protetta da una simile forza militare appare
con evidenza essere la stessa Dadu60. Non ci sono dubbi: la capitale mongola prosegue in ogni direzione oltre le mura, con una vasta area costruita.
Potrebbe trattarsi della nuova città, riunitasi intorno all’eccezionale numero di lavoratori di cui il Khubilai Khan ebbe bisogno per costruire Dadu.
È vero che Marco giunse a Dadu solo pochi anni dopo l’inizio dei lavori di
costruzione, ma un decennio in Cina è sufficiente per creare realtà completamente nuove, impensate. L’apertura di un cantiere di quella rilevanza era,
di per sé stesso, un pretesto formidabile per spostarsi e assieparsi, in attesa
di lavoro, all’esterno della nuova città che nasceva.
Dobbiamo a Marco Polo, agli storici cinesi, e a un russo che alla fine del
XIX secolo sostò in Pechino, alcune rivelazioni che modificano il quadro
in modo significativo e gettano una luce nuova, di estremo interesse, sulla
seconda natura della città di Dadu.61
Tutte le fonti confermano che il gran numero di lavoratori che furono
coinvolti nella costruzione della Dadu mongola non avevano dovuto fare
grande strada: la regione era intensamente abitata e la città di Zhongdu,
per quanto orfana del palazzo imperiale, era ancora vasta, in piedi, e densamente abitata. Secondo lo storico persiano Rashid-eddin, contemporaneo di Marco Polo:
Poiché la città di Tchoung dou [Zhongdu] era stata distrutta da
Gengis Khan, Kubilai volle restaurarla; poi pensò meglio, per la
24
Stefano Cammelli,- STORIA DI PECHINO E DI COME DIVENNE CAPITALE DELLA CINA
gloria del suo nome, fondare una nuova città presso l’antica, e la
nominò Dai Du; le due città sono contigue.62.
Una considerazione di pari importanza la si trova in Odorico da Pordenone63, il cui diario di viaggio in Oriente non è senza problemi interpretativi,
ma di cui si sa con certezza che sostò tre anni in Dadu agli inizi del 1300.
Dalle sue parole si deduce non solo che le città erano due ma addirittura
che quella antica aveva il nome di Cambalech e che la nuova città costruita
dai Mongoli di chiamava Taido. L’ipotesi, affascinante e inquietante, potrebbe rimettere in discussione lo stesso nome attribuito da Marco alla
capitale di Khubilai Khan. Per Odorico la denominazione Città del Khan
precede la fondazione di Dadu, e potrebbe quindi essere il nome che gli
abitanti davano alla città di Zhongdu nel lasso di tempo che passa tra
l’arrivo del Khubilai Khan e la decisione di fondare una nuova capitale.
Sappiamo che la popolazione non poteva contare su una maggioranza di
popolazione cinese: turchi, tanguti, mongoli, mancesi erano gli abitanti più
numerosi. Sicché potrebbe davvero essere che la seconda città di cui le
fonti ci parlano avesse al tempo stesso due nomi: Khānbalik per i non cinesi e Zhongdu per gli altri.64
Fonti leggermente più tarde sembrano confermare l’esistenza di questa
seconda città. Tuttavia nessuna pesa maggiormente di quella che compare
nei Rishia grazie a fonti dell’inizio della dinastia Ming. Da esse emerge con
chiarezza che l’imperatore Hongwu dei Ming (1368-1398) – l’uomo che
sconfisse e respinse dalla Cina i Mongoli - «diede ordine di misurare la Nancheng [città meridionale]. Si calcolò che avesse un perimetro di 53.280 piedi Chinesi
(circa 30 li). Nan-cheng nel tempo dei Mongoli era il nome dell’antica città dei Jin, le
mura delle quali possono ancora essere osservate.»65. Più avanti si legge
(…) al tempo degli Yuan le mura esistevano ancora e l’antica città
dei Jin era comunemente chiamata Nan-cheng [città meridionale],
mentre la capitale Mongola era chiamata città settentrionale.
Quando sotto il regno di Kia-tsin [Xianzong, 1464-1487] venne
costruita la Wai-lo cheng (che gli europei chiamano Città cinese) le
antiche tracce scomparvero ed è tuttora impossibile riconoscerle.66
L’esistenza di Nancheng, una città che non compare mai in nessuna pianta
della Pechino del tempo pare davvero essere reale. Le fonti, anche quando
parzialmente contraddittorie o imprecise o riferite in modo indiretto
confermano l’esistenza di una grande città chiamata ora Città Vecchia, ora
città Meridionale.
25
Stefano Cammelli,- STORIA DI PECHINO E DI COME DIVENNE CAPITALE DELLA CINA
Incerto se restaurarla o costruirne una completamente nuova Khubilai
Khan sembrò propendere inizialmente (1260-1262) per il restauro, come
se la nuova capitale potesse veramente sorgere sulle rovine della vecchia
Zhongdu. Poi qualcosa gli fece cambiare idea: nel 1265 viene istituito
l’Ufficio per l’Edificazione del Palazzo, all’inizio del 1266 viene deciso di
costruire una nuova capitale. Sebbene non si sia in presenza di alcuna prova certa questo cambiamento di atteggiamento di Khubilai Khan richiama
quell’altro, datato anch’esso 1262, che segna la fine della pur parziale condivisione del potere con i cinesi dopo la rivolta Li T’an. Khubilai Khan
non si fida più? Intende dividere i Mongoli dai cinesi riprendendo la ben
nota tradizione Qidan dei Liao? Anche su questo Marco ha
un’informazione:
Della città grande di Camblau. Dacché v’ho contati de’ palagi, sì vi
conterò della grande città di Camblau ove sono questi palagi, e perché fu fatta, e com’egli vero che appresso a questa città n’avea
un’altra grande e bella, e avea nome Garibalu, che vale a dire in nostra lingua “la città del Signore”. E ‘l Gran Cane trovando per astrolomia che questa città di sovea ribellare, e dare gran briga, allo
imperio, e però il Gran Cane fece fare questa città presso a quella,
che non c’è in mezzo se none un fiume; [Ram. ‘E tutti li cataini,
cioè quelli che avevano origine dalla provincia del Cataio, li fece il
Gran Cane uscir dalla vecchia città e venir ad abitar nella nova. E
quelli di che egli non si dubitava che avessero ad essere ribelli lasciò nella vecchia, perché la nuova non era capace di tanta gente
quanta abitava nella vecchia, la qual era molto grande.] e fece cavare la gente di quella città e mettere in quell’altra, la quale è chiamata
Camblau.67
La divisione della popolazione in due città diverse (Dadu e Nancheng) non
sembra né casuale né arbitraria. Separate da un fiume e da un brevissimo
tratto di terra le due città ospitano due popolazioni che nutrono sentimenti
contrapposti nei confronti del Khubilai Khan: da una parte la popolazione
di cui si fida mentre dell’altra quella da cui teme possa sorgere una rivolta,
gran briga. Significativamente la fonte citata ricorda che tra coloro che vennero trasferiti in massa vi erano i cataini, antica denominazione – sovente
confusa con tutta la Cina – delle regioni settentrionali della Cina, quelle
che un tempo avevano fatto parte dell’Impero Liao.
Non solo nomi, anche eventi successivi confermeranno l’attendibilità della
fonte Polo/Ramusio. Nell’aprile del 1282, quando la costruzione della Cit-
26
Stefano Cammelli,- STORIA DI PECHINO E DI COME DIVENNE CAPITALE DELLA CINA
tà Imperiale interna a Dadu ha ormai raggiunto uno stato molto avanzato
dei lavori, e Khubilai Khan era in Shangdu (ma non doveva restarvi solo
giugno, luglio e agosto?) una congiura preparata (dalla popolazione?) e da
funzionari cinesi porta all’assassinio dell’uomo che occupava la più alta
carica finanziaria dello Stato, il musulmano ministro delle Finanze Ahmad.
Trascinato a palazzo con uno stratagemma il ministro venne decapitato dai
congiurati che vennero immediatamente passati per le armi dalle sopraggiunte guardie. Curiosamente il ministro non abitava in Dadu, ma nella
città vecchia68. Ma le sorprese non sono finite perché al ritorno di Khubilai
Khan, effettuate le necessarie indagini, l’imperatore credette alla tesi dei
cospiratori e:
[Ram.«… fece condurre nella nuova città tutto il tesoro che Achmach aveva ragunato nella città vecchia, e quello ripose con il
suo tesoro e fu trovato ch’era infinito; e volse che fosse cavato di
sepoltura il corpo di Achmach e posto nella strada, acciò che fosse
stracciato da’ cani…]69
L’interesse degli storici ha indugiato sulle cause della congiura,
sull’esercizio vessatorio del potere da parte di Ahmad, sul suo circondarsi
di fedeli secondo la tradizione propria del Visir centroasiatico e persiano.
Qui merita piuttosto ricordare questo particolare, tutt’altro che fantasioso,
che ritorna più volte nel racconto. Il non-mongolo Ahmad, nonostante
l’alta carica che ricopre, non risiede in Dadu, ma in Nancheng, nella città
vecchia. Qui accumula la fortuna che si ritiene abbia messo insieme rubando al popolo e a Khubilai Khan. Da qui, dalla Città Vecchia, Khubilai
Khan fa prelevare il tesoro e lo fa portare nella Città Nuova, dove c’è il suo
tesoro, quello imperiale.
Se nemmeno il plenipotenziario alle finanze del governo mongolo risiedeva in Dadu, chi vi risiedeva? Chi erano gli uomini di fiducia che avevano
avuto l’onore di essere trasferiti in Dadu, la nuova capitale? Chi coloro di
cui si temeva gran briga? Siamo in presenza di qualcosa di più di un sospetto.
Il Khan dei Khan, il principe dei principi, il potentissimo Khubilai Khan
volle costruire una capitale per le sue terre cinesi. In questa città si ispirò ai
modelli letterari e canonici della tradizione cinese, edificò templi di culto
cinese e accettò di parlare il linguaggio proprio del potere imperiale cinese.
Ma scottato dalla rivolta del 1262, da una profonda e non comune conoscenza della Cina, dalle lamentele che giungevano dai principi mongoli,
ispirato alla sua personale e ripetuta condotta di Principe Mongolo che
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Stefano Cammelli,- STORIA DI PECHINO E DI COME DIVENNE CAPITALE DELLA CINA
non abbandona le tradizioni di un tempo 70 , si mosse con prudenza,
navigando – come si suol dire – a vista. Evitando i proclami che tanto
spesso nella storia creano nemici e fanno vacillare gli alleati. Tenne in piedi, in primo luogo, un sistema binario di capitali: una mongola e una
cinese. Dalla prima amministrò e seguì con ben nota attenzione le vicende
dell’Asia centrale, della Mongolia e della Manciuria. Dalla seconda amministrò la Cina. Dividendosi tra l’una e l’altra non lasciò mai che i Mongoli
avessero la certezza di una completa sinizzazione della dinastia. O che i
Cinesi avessero un’ulteriore, inutile prova del loro stato di vinti. Alimentò
l’ideologia di Principe mongolo per i mongoli, cinese per i cinesi. Il rito del
cavallo, le caccie regali, il rito del kumis e la frequentazione assidua degli
sciamani dovevano tranquillizzare i Mongoli. Gli altari alla terra e agli antenati, la capitale disegnata come Wangcheng, la frequentazione dei letterati,
era invece rivolta ai cinesi. Fu l’interprete silenzioso e straordinario della
grande eredità Liao e Jin: un khan dell’Asia Centrale non può amministrare
la Mongolia sinizzandosi e non può reggere la Cina restando mongolo.
Ma l’eredità Liao non si fermò alla sostanziale – e mai annunciata apertamente - organizzazione di due sistemi di governo retti da due diverse capitali. Si estese alla capitale stessa della Cina dove fece la sua ricomparsa
l’antica divisione tra i Mongoli e gli altri.
Khubilai Khan volle che la nuova capitale sorgesse di fianco e non sopra la
vecchia Zhongdu. Fece suo quindi l’orientamento Liao di dividere i Mongoli e coloro che ne avevano condiviso la storia fin dai primi passi (Qidan
e Jurchen) dalla restante popolazione. O, forse, tale divisione fu ancora più
drastica: non solo i padiglioni del Palazzo, o la Città Imperiale, ma l’intera
città di Dadu venne assegnata alla nobiltà mongola, alle sue famiglie e agli
ufficiali e ai reperti fedeli dell’esercito. Per i non mongoli, fossero cinesi o
provenissero da altre regioni dell’impero incluso quelle islamiche o dalle
più lontane contrade dell’Occidente, Dadu era preclusa come residenza.
V’era, per loro, Nancheng, ovvero la Città vecchia, ovvero la Città Meridionale. In altre parole la nobile e antica Zhongdu.
Le testimonianze qui riportate, nella loro apparente confusione ed approssimazione, concordano nel farci ritenere che Dadu non fosse – non al
tempo di Khubilai Khan - la città cosmopolita e aperta che per tanto tempo si è creduto. Ma, piuttosto, ripresentasse la rigida spaccatura tra universo mongolo e altri, una conquista culturale che i popoli nomadi avevano
già sperimentato con successo in epoca Liao. Che Dadu sia stata costruita
ispirandosi al modello di città ideale cinese, come negarlo? Come tacere sul
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Stefano Cammelli,- STORIA DI PECHINO E DI COME DIVENNE CAPITALE DELLA CINA
potere di questa straordinaria immagine architettonica e urbanistica? Essa
appartenne alla cultura cinese, nonostante fosse stata voluta e finanziata da
un imperatore mongolo. Ma parimenti non si potrà negare che manca alla
storia della capitali cinesi l’idea di concentrare la popolazione non cinese in
una seconda, diversa città. Le grandi capitali della Cina non avevano una
simile organizzazione: non l’aveva Chang-an né Heian (Kyoto), che di
Chang-an fu la replica più perfetta oggi disponibile. Il modello venne elaborato dalla cultura dei popoli nomadi o semi-nomadi che conquistarono
la Cina. Appartiene al mondo delle praterie dell’Asia centrale e mongole. A
popoli che dovettero escogitare un modo per proteggere sé stessi e la propria identità dalla invadente e straordinaria influenza cinese. Raggiunse la
sua prima e compiuta formalizzazione grazie al popolo dei Qidan e alla
loro dinastia dei Liao. Né la cosa sorprende quando si consideri con quale
rispetto e quale importanza i Mongoli trattarono i Qidan fin dal primo
contatto con la Cina.
Ne consegue che la validità di tutte le piante fino ad oggi pubblicate su
Dadu non può essere contestata. Esse ci descrivono e tracciano per noi i
perimetri della città capitale del Khubilai Khan, Dadu. Ma, al tempo stesso, è forse tempo di recuperare alla pianta di Pechino del tempo quella
della vicina città, la meridionale Nan-cheng di cui i viaggiatori del tempo
parlano ma che aleggia - come un’ombra - intorno a Dadu. Emerge, si può
dire, da tutte le testimonianze. Ma è stata accolta da un silenzio spesso
incomprensibile. Come se non si volesse turbare il sogno di una città aperta, cosmopolita, in qualche modo universale che è alla base del sogno occidentale della Cina in epoca Yuan.
Khubilai Khan non fu meno cosmopolita per questo. Non fu meno attento ad ascoltare i propri consiglieri cinesi. Inoltre, e probabilmente, i confini
tra le due città (ad eccezione della notte dove – lo abbiamo visto – vigeva
il coprifuoco) non erano così rigidi. Si poteva passare da Nancheng a Dadu senza problemi, forse semplicemente varcando i posti di guardia. Proprio la mobilità della popolazione e questo suo invadere aree con una relativa libertà deve avere alimentato l’impressione che Dadu fosse quello che
non era: una città aperta a tutti.
Khubilai Khan mantenne il potere a lungo: seppe farlo in un mondo difficile e spietato. Fu circondato da nemici mortali sia dentro la sua città che
fuori. Tra la propria gente come fra i cinesi. Sapeva di essere odiato e di
quale scarsa popolarità godesse il suo regno. Fu, semplicemente, un imperatore attento anche alla propria debolezza. La popolarità dei Mongoli in
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Stefano Cammelli,- STORIA DI PECHINO E DI COME DIVENNE CAPITALE DELLA CINA
Cina gli era ben nota. L’idea di costruire la sede del governo in mezzo a
tanto odio e impopolarità senza le necessarie cautele gli deve essere sembrato, semplicemente, poco saggio.
Khubilai Khan, Manjusri e il Lamaismo Tibetano
Tra le aperture concesse alla cultura e alla tradizione cinese dal Khubilai
Khan è costume ricordare la costruzione nella città di Dadu del Tempio
del Suolo e del Grano (cfr Figura 20, punto A) e il Tempio degli Antenati
(cfr Figura 20, punto C). Si tratta di costruzioni importanti, innalzate a
ovest e a est della città, in prossimità della cinta muraria. La letteratura sulla Cina Yuan e Dadu del Khubilai Khan ha giustamente sottolineato come
la costruzione di questi templi sia stato un omaggio importante di Khubilai
Khan alla Cina ed ai suoi consiglieri. Comunque si voglia vedere la Dadu
del tempo (mongola, come nostra opinione, o aperta, come sostenuto fino
ad oggi) non vi è alcun dubbio che nessuna capitale avrebbe potuto aspirare ad essere riconoscibile dai cinesi senza il fondamentale riconoscimento
al culto degli Avi e alla funzione di primo tra gli uomini che lavorano la terra
dell’imperatore. Sebbene il culto degli antenati non facesse parte della cultura mongola se non come recente acquisizione, il Khubilai Khan volle
che il tempio fosse collocato in posizione importante. Costruito
all’ingresso della città, immediatamente a ridosso della porta più meridionale di quelle orientali occupava un’area molto vasta, solo leggermente
superiore, comunque, a quella dell’opposto e importante Altare del Suolo e
del Grano.
Tuttavia lo skyline della città, una volta varcate le mura, era dominato da un
terzo tempio, il Monastero della Pace e della Longevità dell’imperatore
(Dasheng Shouwan’ansi) oggi conosciuto come Miaoying o più comunemente
Pagoda Bianca71.
La storia del monastero è abbastanza conosciuta è può essere così sintetizzata. Secondo le cronache sarebbe stato innalzato in epoca Liao per conservare le reliquie dello stesso Sakyamuni, oltre a scritture ed altri oggetti
di culto72. Nel 1271, in una data che segue la decisione di costruire Dadu e
che precede la conclusione dei lavori più importanti (data che si può collocare intorno al 1276), l’imperatore Khubilai Khan affidò all’architetto nepalese Anika la ristrutturazione del monastero. Sempre ad Anika sono attualmente attribuiti alcuni edifici religiosi di epoca yuan anche al Wutaishan (monte sacro a Wenshu, Manjusri) e in Tibet. Costruito in assai più
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Stefano Cammelli,- STORIA DI PECHINO E DI COME DIVENNE CAPITALE DELLA CINA
vaste proporzioni il Dasheng Shouwan’ansi tuttora uno degli edifici più alti
della Pechino antica, ma lo fu certamente, e decisamente, in epoca Yuan,
quando solo la pagoda del Tianningsi poteva essere comparata per dimensioni. La sua favolosa ricchezza ricordava più un tabernacolo o un reliquiario che non un vero e proprio edificio.
Costruito … nel 1084 per ospitare le reliquie del Buddha, venne
sfarzosamente arricchito da Khubilai Khan nel 1271 come tempio
lamaista tibetano dedicato al Bodhisattva Manjusri, o “Buddha della Saggezza”. Balaustre di marmo vennero aggiunte alle scalinate.
Più di 500 libbre d’oro e oltre 200 libbre di mercurio vennero utilizzati per dorarlo. Il pinnacolo, alto 270 piedi, era decorato con rilievi finemente lavorati in bronzo, il corpo della pagoda era decorato in diaspro e circondato da collane di perle.73
Nel 1291 il monastero sarebbe stato distrutto da un incendio. Si sa che
venne ricostruito più grande e imponente in epoca Ming (1457) e rinominato allora Miaoying. Ci sono di quel tempo numerose descrizioni del
Miaoying, entrato a far parte del circuito turistico della città che veniva percorso dai letterati che si recavano per sostenere l’esame di ammissione alla
carica di funzionari. Tuttavia la fortuna del monastero in epoca più tarda
non riguarda questa sezione.74
È indubbio che la costruzione del Dasheng Shou’ansi introdusse per la
prima volta in Dadu, e nella stessa Pechino, elementi tibetani fino a quel
giorno estranei alla storia della città. Khubilai Khan iniziò dunque una tradizione che sarebbe stata poi ribadita in epoca Ming e che negli anni
dell’ultima dinastia (i Qing) venne potenziata ed estesa a tutta la città modificandone in modo decisivo l’aspetto. Alla fine del XIII secolo Dadu
acquistò una componente religiosa e monumentale non solo assente fino a
quel momento, ma estranea alla cultura cinese e alla cultura delle città (capitali o meno) della Cina. Non poteva essere casuale, ammesso che si possa credere che ci fosse qualcosa di casuale nel come veniva innalzata una
città come Dadu. Né è giusto interpretarla come l’ennesima apertura di
Khubilai Khan verso le culture degli altri popoli. Equiparare il Dasheng
Shou’ansi alle altre costruzioni religiose consentite da Khubilai Khan e
inserirla in una più generale tolleranza religiosa tipica dei Mongoli, lungi
dall’essere solo un’inesattezza contribuisce a confondere il quadro del periodo mongolo. Ed alimenta un’immagine del Khubilai Khan e della sua
capitale non veritiera o approssimativa. Sicché richiamare le cause che portarono alla costruzione del Dasheng Shou’ansi significa toccare un nodo
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Stefano Cammelli,- STORIA DI PECHINO E DI COME DIVENNE CAPITALE DELLA CINA
vitale della Dadu del tempo e della politica di Khubilai Khan nei confronti
della Cina e della popolazione Han.
Fin dai primi anni di frequentazione della Cina Khubilai Khan era stato
posto di fronte al forte contrasto tra taoisti e buddhisti, impegnati in una
irrisolvibile disputa su chi fosse venuto prima tra Buddha e Lao tzu. Già
nel 125875 aveva presenziato a una grande assemblea in cui trecento buddhisti, duecento taoisti e duecento letterati confuciani avevano affrontato i
principali motivi di controversia tra le loro dottrine. Nel dibattito i Taoisti
avevano cercato di dimostrare che Lao Tzu aveva abbandonato la Cina e,
recatosi in occidente, era diventato un Buddha. I testi su cui basavano le
loro argomentazioni76 vennero contestati con successo da un giovane
monaco tibetano, Phags-pa, che sostenne si trattasse di testi molto più
tardi. Prova decisiva sarebbe stato il silenzio su queste opere nel lavoro dal
grande e preciso storico cinese Sima Qian (II sec. ac.) autore dell’opera
Shih chi. In nessun caso, venne sostenuto, opere di questa importanza sarebbero state dimenticate: se Sima Qian non ne aveva parlato era dunque
perché furono scritte dopo la sua morte. Dunque molti secoli dopo la vita
del Buddha. La contesa teorica era il riflesso di una aumentata tensione tra
le due comunità: negli anni di vuoto di potere templi taoisti o buddhisti
erano stati assaliti e incendiati dai rivali dell’opposta fazione.
Sebbene dalla contesa uscissero vincitori i buddisti, Khubilai Khan evitò di
alimentare una persecuzione anti-taoista: il suo obbiettivo, reso evidente
dalla fondazione di Dadu, fu l’accettazione del nuovo potere mongolo non
da una fazione, ma da tutta la collettività cinese, indipendentemente dal
suo orientamento religioso. Gli anni che seguirono furono scanditi da questo approccio, probabilmente una delle pagine più note e studiate di tutta
la storia mongola. Così, per non ricordare che gli episodi più importanti, la
fondazione di Dadu venne seguita immediatamente dalla costruzione del
Tempio degli Antenati (T’aimiao, 1271), dall’adozione di un nome dinastico
(Yuan) tratto da I Ching, dall’adozione di un rituale di corte confuciano e,
ancora, dalla traduzione in mongolo delle principali opere di tradizione
confuciana. Una uguale attenzione venne prestata alla componente islamica dell’impero, come già è stato ricordato, il cui compito politico doveva
essere quello di bilanciare lo strapotere dei letterati cinesi e confuciani.
Venne concesso ai musulmani di organizzarsi in comunità relativamente
autonome rispetto al governo centrale, sotto la responsabilità di sceicchi
(shaikh al-Islam) e qadi. Vennero autorizzati ad avere i propri luoghi di culto
in quartieri e aree commerciali (bazar) tipicamente islamici.77
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Stefano Cammelli,- STORIA DI PECHINO E DI COME DIVENNE CAPITALE DELLA CINA
Eppure nessuna religione poté contare su un appoggio così deciso come il
lamaismo tibetano impersonato dal suo leader più importante, il già ricordato Phagspa (1235-1280)78. Più giovane di venti anni di Khubilai Khan
egli aveva frequentato fin da ragazzo la corte mongola, di cui conosceva
dunque usanze e linguaggio. Col tempo la sua presenza portò il Lamaismo
tibetano a soppiantare l’influenza della potente scuola chan che Khubilai
Khan aveva conosciuto da giovane nel monaco Haiyun. Può darsi, naturalmente, che tale preferenza si accordasse a un maggiore interesse personale, o fosse specchio della sostanziale popolarità della dottrina tibetana
presso i Mongoli. È certo che Khubilai Khan vi venne consacrato nel
1253, molti anni prima del suo reale coinvolgimento nelle vicende cinesi.
Tuttavia se anche il rapporto si sviluppò su basi di indubbia simpatia personale e si giovò di una maggiore predisposizione di Khubilai Khan verso
il Lamaismo Tibetano, tacerne le profonde ragioni politiche e militari è
inopportuno. Phagspa apparteneva a una famiglia importante in Tibet: era
nipote di uno dei principali esponenti religiosi della scuola Saskya, il gruppo al potere in Tibet che negli anni della occupazione del paese aveva
conquistato il rispetto dei generali mongoli compiendo il primo passo per
l’introduzione del lamaismo tibetano in Mongolia. La presenza di Phagspa
alla corte mongola e la stessa consacrazione del Khubilai Khan nel 1253
sono una eloquente testimonianza di questo prestigio acquisito in campo
religioso e culturale. Ma sarebbe grave dimenticare che il Tibet era, in quegli anni, un regime molto vicino alla teocrazia, e gli abati Saskya ne erano
gruppo dirigente. La collaborazione tra mongoli e tibetani si reggeva
sull’alleanza tra i due gruppo dominanti, sicché l’esercito mongolo poteva
risparmiarsi un’occupazione militare vera e propria del Tibet. Uno dei significati profondi di questa alleanza emerse con evidenza dalle vicende del
1267. In quell’anno sorse in Tibet una vasta ribellione contro i monaci
Saskya, per debellare la quale dovette intervenire Khubilai Khan con i suoi
eserciti. Restaurato il potere di Phagspa e dei Saskya, nel 1268 Khubilai
Khan diede al lama il titolo di Ufficiale pacificatore del Tibet e lo incaricò di
preservare l’ordine del paese.79
Il ringraziamento di Phagspa non si fece attendere ed esercitò anche nei
secoli successivi una importanza decisiva a) sui rapporti tra Tibet e Cina b)
sulla città di Pechino c) sul ruolo dell’imperatore d) sulla sua legittimità a
comandare il paese.
In qualità di consigliere e amico di Khubilai Khan, Phagspa contribuì a
dettare le sfere e le regole dei rapporti tra società civile e religiosa, definite
33
Stefano Cammelli,- STORIA DI PECHINO E DI COME DIVENNE CAPITALE DELLA CINA
di pari importanza e rette da uguali. La società civile – fu detto - era retta
dalla manifestazione di un Bodhisattva, ovvero da un uomo che in qualità
di imperatore dell’Universo (Cakravartin) garantiva l’ordine cosmico80. Il
suo nome venne individuato nella più antica tradizione buddhista cinese.
In essa si raccontava di un vecchio cinese (Vilamakirthi) che sentendosi in
punto di morte manda a chiamare il Buddha e lo prega di illustrargli la
nuova dottrina. A incontrare il vecchio letterato cinese non andò il Buddha in persona, ma un suo fedele che non ebbe paura di misurarsi in una
contesa letteraria e filosofica di tale spessore. Manjusri (in cinese Wenshu),
circondato da una assemblea commossa di Buddha del passato, del presente e del futuro, si presentò a Vilamakirthi e riuscì a convincerlo della bontà
della nuova dottrina. La conversione del vecchio malato venne seguita
dalla conversione di tutto il paese e, soprattutto, della classe dei letterati. Il
mito, uno dei più affascinanti del Buddhismo in Cina, rende Manjusri protettore della Cina, colui sotto la cui protezione deve essere posta ogni nuova impresa di carattere intellettuale. La sua sede, il luogo dove venne detto
che era nato, fu individuata sul monte Wutai (Wutaishan), nello Shanxi, a
metà strada tra Pechino e il confine della Mongolia. E lì venne venerato fin
da età antica.81
Phagspa, con un’intuizione politica straordinaria e gravida di conseguenze,
assimilò Khubilai Khan a Manjusri, in quanto protettore della Cina. Se i
lama erano in qualche modo una manifestazione del Buddha storico e delle sue mille vite nel mondo, l’imperatore veniva così con l’essere il bodhisattva, il protettore. Il Dio della Misercordia che amministrava e reggeva il
paese per il bene della collettività.
Su questo tema sono state fatti studi importanti, che sarebbe velleitario
cercare di riassumere in queste pagine. Giova qui ricordare che per la prima volta nella storia cinese all’idea di mandato celeste viene ad affiancarsi una
nuova interpretazione del potere imperiale. Essa non è in contraddizione
con l’antica tradizione, ma la integra ponendo il clero tibetano in posizione
dominante, in quanto esso – come clero più organizzato e prestigioso della
popolazione dell’impero Yuan – finisce con l’essere il garante del mandato
celeste. Seppure nominalmente, il potere imperiale riconobbe un potere di
pari importanza e da esso ricavò ciò di cui un conquistatore straniero aveva un disperato bisogno: la legittimità a comandare. Ma, ancora, per la
prima volta nella storia della Cina la legittimità al comando veniva affidata
a una personalità religiosa che non apparteneva alla famiglia imperiale ma,
addirittura, straniera. Tibetana.
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Stefano Cammelli,- STORIA DI PECHINO E DI COME DIVENNE CAPITALE DELLA CINA
Così mentre gli eserciti mongoli confermavano il potere di Phagspa e del
suo clero, l’imperatore usurpatore, l’occupante straniero riceveva per la
prima volta un’investitura che lo autorizzava al comando, alla guerra e
all’amministrazione. Grazie ad essa i mongoli non erano più occupanti
abusivi di un popolo sottomesso, ma piuttosto benevoli protettori. E
l’imperatore non comandava perché i suoi eserciti erano più forti, ma perché questo era il suo compito storico sulla terra, come bodhisattva.
Non sorprende più che un edificio tibetano di tale ampiezza sia stato costruito in posizione dominante all’interno della cinta muraria di Dadu. Il
Dasheng Shou’ansi diventò il simbolo stesso di questa alleanza, innalzato
nel luogo – Dadu – dove era stata stretta e confermata. Non sorprende
che alla sua costruzione abbia personalmente soprinteso Khubilai Khan:
lungi dall’essere l’ennesimo riconoscimento a una delle tante religioni
dell’impero, il Dasheng Shou’ansi era invece legato allo stesso mandato
celeste, alla nomina a Bodhisattva. All’identificazione dell’imperatore Khubilai Khan come reincarnazione in terra di Manjusri-Wenshu. L’idea,
nuova in questa formula e straordinaria, acquistò una funzionalità e una
credibilità che avrebbe superato le fragili vicende della dinastia Yuan. Il
potere di questo simbolo venne confermato dalla dinastia Ming e più ancora da quella mancese (dunque straniera) dei Qing. Ma, si ricorderà, esso
non poggiava solamente sugli interessi mongoli in Cina. In virtù di questo
accordo l’imperatore cinese era autorizzato ad estendere la sua benevole
protezione su tutto il Tibet. Questi non entrava a fare parte della storia
imperiale cinese come terra di conquista, ma piuttosto come luogo di
investitura.82 La rinuncia al Tibet e al patto stretto tra Phagspa e Khubilai
Khan finiva contemporaneamente col coinvolgere la legittimazione al comando dell’imperatore davanti alla stessa popolazione cinese.
Non sappiamo se davvero, come dicono le cronache del tempo, il rapporto tra Khubilai Khan e Phagspa sia stato fraterno, amichevole e ispirato a
un reciproco, profondo rispetto. La tarda leggenda, cui si affideranno khan
mongoli e imperatori mancesi, parla di un ultimo addio, in prossimità della
morte, tra i due grandi protagonisti della loro epoca. Sapevano che non si
sarebbero rivisti, l’incontro fu segnato dalla tristezza di una partenza senza
ritorno. Allora Phagspa avrebbe offerto a Khubilai otto sciarpe, sette nere
e una bianca. Quella nere stavano a significare che per altre sette reincarnazioni non si sarebbero più incontrati. «Quella bianca che ti ho offerto sta a
significare che quando i tempi verranno e ci incontreremo ancora tu porterai il nome Oro
(Altan) ed io quello Acqua (Dalai)»83.
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Stefano Cammelli,- STORIA DI PECHINO E DI COME DIVENNE CAPITALE DELLA CINA
Una preveggenza romantica e forse anche reale, tuttavia sospetta: ancora
una volta il passato fu utilizzato per legittimare il presente. La promessa di
questa reincarnazione divenne un formidabile strumento politico in mano
a Losang Gyatso, il quinto Dalai Lama, in epoca ormai Qing (XVII secolo).
Nulla impedisce di credere a un rapporto personalmente forte ed emotivamente coinvolgente tra i due grandi. Si sa però, con certezza, che da
questo rapporto, nato in Mongolia e celebratosi in Dadu, il potere civile in
Cina acquistò nuove valenze, ma anche nuove terre. Entrambe strettamente correlate. Sicché rinunciare a uno solo degli elementi del patto coincise
con la messa in discussione della stessa legittimità del potere in Cina.
Sostenere che un rapporto di questa complessità si inserisca in una più
generale apertura di Khubilai Khan verso le altre culture e religioni solo
leggermente venata di un personale predispozione imperiale, corre il rischio di tacere la natura terrena e politica dell’accordo84.
Il carattere strategico di una collaborazione di tale natura fu chiaro a tutti
gli imperatori successivi. Rivisse nella fortuna monumentale del Wutaishan, da allora divenuto luogo di culto imperiale per eccellenza. Conobbe
nuovo respiro e ampiamento nell’epoca della fraterna ma anche strumentale collaborazione tra il Dalai Lama – il Grande Quinto - e gli imperatori
mancesi. E ha trovato una conferma in epoca contemporanea
nell’ostinazione cinese verso il Tibet e nella difesa dei monumenti tibetani
che in Pechino, in piena Rivoluzione Culturale, è stata compiuta in prima
persona da ministri del peso e del prestigio di Zhou Enlai.
Dadu e Khubilai Khan parlarono, in quegli anni, linguaggi poliedrici. Si
rivolsero a realtà diverse, comunicarono con una molteplicità di popoli, di
esperienze culturali e religiose. Che quasi tutto sia andato perduto tranne il
valore simbolico e politico dell’alleanza col Tibet è la conferma che Khubilai Khan non fu né indifferente osservatore né agnostico testimone di molte, diverse fedi. La scelta compiuta dall’imperatore mongolo fu ispirata da
preoccupazioni dinastiche molto precise, fu la risposta ideologica e spirituale a un generalizzato odio verso l’occupazione mongola che le parole di
Marco hanno così opportunamente ricordato. E che alcuni decenni dopo
la morte del grande principe avrebbe travolto, fino alla distruzione finale,
la dinastia Yuan.
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Stefano Cammelli,- STORIA DI PECHINO E DI COME DIVENNE CAPITALE DELLA CINA
1
Per i numerosi studi dedicati all’argomento prima della metà degli anni Settanta, si veda
l’articolo bibliografico di T. T. Allsen, The Mongols in East Asia, Twelfth-Fourteenth Centuries:
A Preliminary Bibliography of books and Articles in Western Languages (Sung Studies Research
Aids no. 1), Sung Studies Newsletter, Philadelphia 1976. Per il periodo fino al 1990, si può
consultare D. M. Farquhar, The Government of China under Mongolian Rule: A Reference Guide,
Steiner, Stuttgart 1990. Tra gli studi più recenti, si vedano i capitoli sugli Yuan in Twitchett
e Franke, op.cit.: T. Allsen, “The Rise of the Mongolian Empire and Mongolian Rule in
North China”, pp. 321-413; M. Rossabi, “The Reign of Khubilai Khan”, pp. 414-489;
Hsiao Ch’i-ch’ing, “Mid-Yüan Politics”, pp. 490-560; J. Dardess, “Shun-ti and the End of
the Yüan Role in China”, pp. 561-586; E. Endicott-West, “The Yüan Government and
Society”, pp. 587-615; F.W. Mote, “Chinese Society under Mongol Rule”, pp. 616-664. Si
veda anche Mote, op.cit. (1999), pp. 403-516.
2
«Allorché quel terribile flagello della collera divina minacciava i popoli, fu da molti affermato con certezza che la madre del re di Francia, la regina Bianca, disse: “Dove sei,
figlio mio, re Luigi?” Lui, accorrendo, le domandò: “Cosa c’è, madre?” Traendo dal petto
profondi respiri, essa scoppiò in lacrime e, benché fosse donna, valutando quei pericoli
imminenti in modo che non era certo quello di una donna, disse: “Che dobbiamo fare,
figlio carissimo, di fronte a un così lugubre avvenimento, la cui tremenda notizia ha varcato i nostri confini?” A queste parole il re, con il pianto nella voce, ma per ispirazione divina, rispose: “Coraggio madre, prepariamoci all’appello della consolazione celeste. Delle due
l’una. Se giungeranno fino a noi, o li ricacceremo nelle dimore tartare [infernali]da dove
sono usciti, cioè in quello che chiamiamo il Tartaro, o saranno loro che ci faranno salire
tutti al Cielo.», si veda Matteo Paris, Cronica malora, IV, pp.111-12, citazione tratta da
Jacques Le Goff, San Luigi, Einaudi, Torino, 1996, pag. 18.
3
«Alcuni cristiani d’Occidente sperarono anche che, convertiti o no, i mongoli potessero
diventare degli alleati contro i musulmani di Siria e d’Egitto, che potevano essere assaliti
alle spalle. I Mongoli avevano infatti conquistato Damasco nel 1260, ma vi furono scacciati
quasi subito dai mamelucchi egiziani. … gli ottimisti – e san Luigi diventò uno di loro –
pensarono di inviare dei messaggeri ai principi mongoli nella speranza di convertirli al
cristianesimo e di farne degli alleati contro i musulmani.» si veda J.Le Goff, op.cit. (1996),
pag.19
4
Su questo affascinante aspetto del contatto fra Europa e Asia orientale, si veda I. de
Rachewiltz, Papal Envoys to the Great Khans, Stanford University Press, Stanford 1971; J.
Richard, La papauté et les missions d’Orient au Moyen Age (XIIIe-Xve siècles), Roma 1977.
5
La leggenda giunse in Europa almeno settanta anni prima delle scorrerie di Gengis
Khan. Il Prete Gianni, citato come “Iohannes Presbiter” nelle cronache di Ottone di Freisingen, è stato spesso identificato con un discendente della dinastia Qidan dei Liao, capo
della nuova dinastia dei Qarakhitai, posta in Asia Centrale, il quale sconfisse nel 1141 presso Samarcanda i Turchi Selgiuchidi. Nel secolo successivo, tale appellativo fu forse usato
dai viaggiatori occidentali (come Marco Polo) per indicare il khan dei Keraiti, Toghrul,
prima alleato, poi nemico di Gengis Khan, alla fine da questi ucciso. È più che probabile
che la leggenda e il simbolo del Prete Gianni siano nate in ambienti nestoriani: la Chiesa
nestoriana, diffusa in Asia orientale sin dal settimo secolo, aveva fatto proseliti in particolare presso le numerose tribù nomadi dell’Asia Centrale, non ancora islamizzate. Su questo
complesso argomento, si veda I. de Rachewiltz, Prester John and Europe’s Discovery of East
Asia, Canberra 1972; C. F. Beckingham e B. Hamilton (a cura di), Prester John, the Mongols
37
Stefano Cammelli,- STORIA DI PECHINO E DI COME DIVENNE CAPITALE DELLA CINA
and the Ten Lost Tribes, Variorum, Aldershot 1996; P. G. Borbone, Storia di Mar Yahballaha e
di Rabban Sauma. Un orientale in Occidente ai tempi di Marco Polo, Silvio Zamorani Editore,
Torino 2000.
6
Il tema di Gengis Khan come punizione divina per i peccati commessi dall’umanità è il
primo a sorgere. Col tempo finirà con l’estendersi alle azioni compiute dagli eserciti mongoli anche dopo la sua morte. «Questa città (Baghdad) era stata fondata seicentosessantacinque anni prima e durante tutto il tempo del suo imperio, come un’insaziabile sanguisuga, aveva inghiottito il mondo intero. Essa rese allora, di un colpo, tutto ciò che aveva
preso. Fu punita per il sangue che aveva versato, per il male che aveva fatto: la misura delle
sue nequizie era colma. La tirannia dei musulmani era durata 647 anni.» Kirakos, armeno,
citato in Bussagli, op.cit., 1970, p.247. Sul tema dei Mongoli come punizione divina si veda
anche Jacques Le Goff, San Luigi, Einaudi, Torino, 1996.
7
Si veda P. Pelliot, “Les Mongols et la papauté”, Revue de l’Orient Chrétien XXIV (1924),
pp. 225-262; XXVIII (1931-1932), pp. 6-12.
8
Si veda l’articolo di H. Franke, “Could the Mongol Emperors Read and Write Chinese
?”, Asia Major III (1952), pp. 28-41.
9
« Quando l’angelo ebbe impartito i comandamenti, nominò il loro capo Gayan ed essi lo
chiamarono Giankiz Gayan o Giankiz Khan. L’angelo li condusse ad estendere il loro
dominio su contrade e provincie e intanto si moltiplicarono senza limite, a orde innumerevoli. Questo accadde! E si compì ciò che Dio aveva minacciato parlando per bocca del
Profeta: “Nabucodonosor è una coppa d’oro nella mia mano e chiunque io voglia farò
bere da essa.”. Così questo popolo selvaggio e bestiale non solamente tenne la coppa ma
ne versò il fondo amaro su di noi, e sui nostri molti e vari peccati che continuamente provocano la collera del Creatore, Dio nostro, ed i nostri mali. Il Signore nella sua ira li risvegliò come castigo per noi, perché noi non abbiamo ubbidito ai suoi comandamenti.», si
veda Gregorio di Akanch, Storia del popolo degli Arcieri, XII secolo, cit. tratta da Bussagli
Mario, Culture e civiltà dell’Asia centrale, Torino 1970, capitoli VIII e IX.
10
La biografia forse più affascinante su Gengis Khan è opera di Ata-Malik al-Juvaini,
Gengis Khan, Mondadori, Milano 1991 (Prima ed. 1962, ed. originale: The History of the World
Conqueror, 2 voll., trad. di J. A. Boyle, Harvard University Press, Cambridge 1958). Si veda
anche la traduzione dell’unica opera storica composta dai Mongoli, sopravvissuta in una
tracrizione cinese: I. de Rachewiltz (a cura di), “The Secret History of the Mongols”, Papers
on Far Eastern History IV (1971), pp. 115-163; V (1972), pp. 149-175; X (1974), pp. pp. 5582; XIII (1976), pp. 41-75; XVI (1977), pp. 27-65; XVIII (1978), pp. 43-80; XXI (1980),
pp. 17-57; XXIII (1981), pp. 111-146; XXVI (1982), pp. 39-84; XXX (1984), pp. pp. 81160; XXXI (1985), pp. 21-93. Tra gli studi a lui dedicati, si veda H. D. Martin, The Rise of
Chingis Khan and his Conquest of North China, Octagon, New York 1971 (Prima ed. 1950); P.
Pelliot e L. Hambis (a cura di), Histoire des campagnes de Gengis Khan, Cheng-wou Ts’in-Tcheng
Lou, Brill, Leiden 1951; I. de Rachewiltz, “Some Remarks on the Ideological Foundations
of Chinggis Khan’s Empire”, Papers on Far Eastern History VII (1973), pp. 21-36; P. Ratchnevsky, Genghis Khan: His Life and Legacy, Blackwell, Oxford 1991 (Prima ed.: Cinggis-khan:
Sein Leben und Wirken, F. Steiner, Wiesbaden 1983). Si veda infine le storie dinastiche Yuanshi, Zhonghua shuju, Beijing 1976, pp. 1-28.
11
Sul lungo regno di Khubilay, si veda ibid., pp. 57-380. Si veda anche H. Franke, From
Tribal Chieftain to Universal Emperor and God: The Legitimation of the Yüan Dynasty, Verlag der
Bayerischen Akademie der Wissenschaften, Munich 1978.; M. Rossabi, Khubilai Khan: His
38
Stefano Cammelli,- STORIA DI PECHINO E DI COME DIVENNE CAPITALE DELLA CINA
Life and Times, University of California Press, Berkeley-Los Angeles 1988; id., op.cit. (1994);
Mote, op.cit. (1999), pp. 444-469.
12
René Grousset, op.cit. (1970), pag. 296
13
Sulla politica di Khubilay in ambito economico e di politica estera, si veda M. Rossabi,
op.cit. (1994), pp. 429-453.
14
« Le esecuzioni collettive … furono lo strumento con cui i nomadi si rapportarono alle
popolazioni sedentarie che non si sottomettevano con bastante rapidità, o contro di quelle
che si ribellavano dopo essersi sottomesse. D’altro canto questo mondo nomade faticò a
capire la natura di un’economia agricola o urbana. Dopo avere conquistato l’Iran orientale
ed il nord della Cina trovò che fosse naturale ridurre queste terre a steppe demolendo le
città e distruggendo i campi.» si veda René Grousset, The Empire of steppes, 1970, pag. 248249
15
Si dovrebbe piuttosto dire sintetici…Nel corso delle dinastie Song e poi Yuan si afferma
una interpretazione dottrinale, per la quale i “Tre Insegnamenti” (sanjiao: Confucianesimo,
Taoismo, Buddhismo) non erano che interpretazioni differenti di un’unica verità profonda.
Si veda Ren Jiyu (a cura di), Zhongguo daojiao shi (Storia del Taoismo cinese), Shanghai renmin chubanshe, Shanghai 1990, pp. 527-533.
16
Sugli anni che precedono l’ascesa al trono di Khubilai, si veda M.Rossabi, op.cit. (1994),
pp. 414-417; Mote, op.cit. (1999), pp. 445-447.
17
«La rivolta di Li T’an fu un momento decisivo nella storia del regno di Khibilai, e rese
Khibilai sempre più sospettoso nei confronti dei cinesi. Una ribellione in un’importante
area economica, guidata da un importante capo cinese con il nascosto appoggio di fedeli
ufficiali cinesi di corte del più alto livello molto certamente impressionò Khubilai. Da questo momento egli esitò istintivamente ad affidarsi esclusivamente ai cinesi nella gestione
della Cina e cercò piuttosto l’assistenza di consiglieri non cinesi.» si veda M.Rossabi, op.cit.
(1994), p.426
18
Sulla divisione etnica nella Cina Yuan, si veda Yip Hon-ming, “The Class System of
Yüan Society: A Critique of Meng Siming’s Yüandai shehui jieji zhidu”, Journal of Asian Culture
IV (1980), pp. 82-106; Gernet, op.cit., pp. 347-348; Dardess, op.cit., pp. 569-570. Si veda
anche D. M. Farquhar, “Structure and Function in the Yüan Imperial Government”, in J.
D. Langlois (a cura di), China under Mongol Rule, Princeton University Press, Princeton 1981,
pp. 25-55.
19
Mote, op.cit. (1999), pp. 490 e sgg..
20
Gli esami di Stato saranno riaperti, su pressione dei consiglieri cinesi, solo
dall’imperatore Renzong (1312-1320), quando ormai le sorti della dinastia erano in declino
e la credibilità Yuan versava in condizioni irrimediabilmente critiche. Anche così, comunque, i posti offerti ai vincitori degli esami furono una quantità irrisoria rispetto al passato.
È singolare infine che proprio in questi anni l’interpretazione della dottrina confuciana da
parte del grande Zhu Xi (1130-1200), in passato osteggiata dal potere ufficiale, divenne
espressione dell’ortodossia. Si veda Chan Wing-tsit, “Chu Hsi and Yüan NeoConfucianism”, in Chan Hok-lam e W. T. de Bary (a cura di), Yüan Thought: Chinese Thought
and Religion under the Mongols, Columbia University Press, New York 1982. Sulla trasformazione in atto nella Cina del tardo periodo Yuan, si veda J. W. Dardess, Conquerors and
Confucians: Aspects of Political Change in Late Yüan China, Columbia University Press, New
York 1973.
21
Mote, op.cit. (1999), p. 479: “La Segreteria agli Affari Militari era un ufficio estrema39
Stefano Cammelli,- STORIA DI PECHINO E DI COME DIVENNE CAPITALE DELLA CINA
mente ampio e complesso. I suoi capi erano ufficialmente di un grado inferiore ai capi del
Segretariato Centrale, un riconoscimento formale al principio cinese della subordinazione
dei militari ai civili. In realtà era essenzialmente un ufficio mongolo, altamente segreto,
isolato dal governo ordinario civile e spesso considerato dai cinesi più vicino al trono che
non ogni altra sezione civile”
22
«Su ordine di Khubilai, nel 1269, Phagspa elaborò [per i mongoli] una nuova scrittura,
chiamata dürbäljin, o quadrata, ispirata all’alfabeto tibetano. Tralasciando che la parte avuta
da Phagspa in questa realizzazione sarebbe stata – secondo Pelliot – sovrastimata, in ogni
caso la scrittura quadrata ebbe un successo solo provvisorio, dal momento che i mongoli
continuarono a usare i caratteri tratti dall’alfabeto uiguro (differenziandosene solo nello
stile della scrittura e nell’uso di caratteri più angolati) che divenne la loro scrittura nazionale.» si veda René Grousset, The Empire of the steppes, State Un. of New Jersey, 1970, pag.298
23
Su questo tema si vedano le osservazioni nette di M. Rossabi, op.cit. (1994), pp. 465 e
sgg.. Sulla figura di Phagspa, si veda L. Petech, “P’ags-pa (1235-1280)”, in I. de Rachewiltz
et alii (a cura di), In the Service of the Khan: Eminent Personalities of the Early Mongol-Yuan Period
(1200-1300), Harassowitz, Wiesbaden 1993, pp. 646-654.
24
Al riguardo si veda A. Waley, The Travels of an Alchemist: The Journey of the Taoist Ch’angch’un from China to the Hindukush at the Summons of Chingiz Khan, Routledge & Sons, London
1931.
25
Si pensi - ad esempio - all’episodio che precede la conquista di Lin’an (l’attuale Hangzhou), capitale dei Song meridionali, quando il generale mongolo Bayan sterminò la guarnigione militare e la popolazione civile di Changzhou, che aveva osato resistergli. Il messaggio era rivolto alla capitale: che nessuno osasse accennare una analoga resistenza. Nel
gennaio 1276, preso atto del rifiuto dei Mongoli di accettare un tributo, l’imperatrice reggente riconobbe Khubilai come imperatore e pose ufficialmente fine alla dinastia Song. Si
veda M. Rossabi, op.cit. (1994), pp. 429 e sgg.
26
Marco Polo, Il Milione, introduzione e note di M. Ciccuto, Milano 1981, p. 221, citazione dell’opera poliana contenuta in G. Ramusio, Navigazioni et viaggi, Venezia 1559.
27
Sulla Dadu Yuan, si veda N. S. Steinhardt, “The Plan of Khubilai Khan’s Imperial
City”, Artibus Asiae XLIV (1983), pp. 137-158; id., op.cit. (1990), pp. 154-160; Zhou Weiquan, op.cit., pp. 112-116; Yuan Dadu kaogu dui (Squadra archeologica della Dadu Yuan),
“Yuan Dadu de kancha he fajue” (Prospezioni e ritrovamenti della Dadu degli Yuan), Kaogu 1972, n. 1, pp. 19-28; Zhang Ning, “Ji Yuan Dadu chutu wenwu” (Note sui reperti venuti alla luce della Dadu degli Yuan), Kaogu 1972, n. 6, pp. 25-34; Zhang Jingming, “The
Layout of the Mongol Capitals in China: Khanbalik and Xanadu”, China Archeology and Art
Digest IV/2-3 (2001), pp. 21-32 (Ed. originale in Nei Menggu wenwu kaogu 1999, n. 2, pp. 4449); Yu Xixian, “The Layout of Yuan Dynasty Dadu and the Numerology of the Eight
Trigrams”, in ibid., pp. 33-44 (Ed. originale in Gugong bowuguan yuekan 1999, n. 2, pp. 17-25).
Secondo lo Yuanshi, op.cit. p. 1347, nel settimo anno di regno Zhiyuan (1270) la popolazione ammontava a poco più di quattrocentomila anime: la cifra può lasciare perplessi, se si
considera solo la nuova cinta urbana, da pochi anni in via di costruzione.
28
L’errore è più frequente di quanto non si creda. Tuttavia non è parso opportuno, in
questa sede, elencare i testi anche recenti che riportano questo grave errore. Si tratta per lo
più di pubblicazioni a uso turistico, probabilmente use a riutilizzare e incollare sommariamente brani - scritti non si sa più da chi e quando – che servono da accompagnamento a
una ricca e spesso splendida documentazione fotografica.
40
Stefano Cammelli,- STORIA DI PECHINO E DI COME DIVENNE CAPITALE DELLA CINA
29
Marco Polo, Il Milione, op. cit. pp. 191-192. Si tratta della riproposizione della versione
italiana, basata sul manoscritto detto comunemente “Ottimo”, depositato presso la Biblioteca Nazionale di Firenze.
30
Su Shangdu, Zhang Jingning, op.cit.; Chen Gaohua e Shi Weimin, Yuan Shangdu, Xinhua shuju, Jilin 1988; Jia Zhoujie, “Yuan Shangdu tiaocha baogao” (Rapporto di ricerca
sulla Shangdu Yuan), Wenwu V (1977), pp. 65-74; Ye Xinmin, “Yuan Shangdu gongdian
louge kao” (Esame sui palazzi, le sale, gli edifici e i padiglioni della Shangdu Yuan), Nei
Menggu daxue xuebao III (1987), pp. 33-40. Il nome fu dato da Khubilai al centro urbano di
Kaipingfu nel quarto anno di regno Zhongtong (1263): si veda Yuanshi, op.cit., p. 92. In ibid.,
p. 3693, è descritto come la stessa Kaipingfu fosse stata edificata attraverso le indicazioni
geomantiche di Liu Bingzhong. Su questa figura, si veda in nota 24.
31
La figura di Liu Bingzhong è fondamentale per la comprensione dell’attività di edificazione delle capitali Yuan. Per le fonti biografiche, si veda Su Tianjue, Guochao mingchen shilue
(Atti sui famosi funzionari dinastici), in Jifu congshu, ed. 1879, juan 7, p. 1 b; Yuanshi, p.
3687-3695; Chan Hok-lam, “Liu Ping-chung (1216-1274): A Buddhist-Taoist Statesman at
the Court of Khubilai Khan”, T’oung Pao LIII/1 (1967), pp. 98-146; id., “Liu Ping-chung
(1216-1274)”, in de Rachewiltz et alii, op.cit., pp. 245-269. Sul ruolo di Liu Bingzhong nella
costruzione di Shangdu, si veda Yuanshi, op.cit., p. 60, p. 1350 e p. 3693. Il piano di costruzione di Dadu è descritto nel fondamentale Xijin zhi, gazzetta locale della capitale: si veda
l’opera di collazione del testo, Xijin zhi jiyi, Beijing guji chubanshe, Beijing 1982, p. 8, p. 33,
p. 213. Si veda anche Yu Xixian, op.cit.
32
Steinhardt, op.cit. (1990), pp. 150-154; Zhang Jingming, op.cit., pp. 22-25.
33
Steinhardt, op.cit. (1990), pp. 150-154. Sul famoso Palazzo Daming dei Tang, si veda le
storie dinastiche Xin Tangshu, op.cit., p. 102 e p. 961. Si veda anche Zhou Weiquan, op.cit.,
pp. 68-70; Steinhardt, op.cit. (1990), pp. 101-102. È da rilevare all’interno di questo complesso la presenza di uno specchio d’acqua, detto Taiye, con al centro un’isoletta chiamata
Penglai, nella tradizione taoista legata al mito degli Immortali.
34
Ritroviamo qui la duplice associazione con il quadrato in nove settori, la prima “mandalica”, la seconda tradizionale, legata agli Otto Trigrammi. Sembra di assistere a una “naturale” confluenza di due combinazioni provenienti da diverse tradizioni. I sovrani Mongoli
furono indubbiamente in rapporti profondi con esponenti del Buddhismo tantrico, in
particolare grazie all’influenza della scuola tibetana Sakya: il già citato Phagspa, “maestro
dell’imperatore” (dishi) Khubilai, era nipote del “gran sapiente” Sakya Panchen (11821251), il quale era già stato in Mongolia nel 1240, e aveva ricevuto nel 1249 dai Mongoli il
dominio sulle province tibetane centrali dello Ü e dello Tsang. Si veda R. Stein, La civiltà
tibetana, Einaudi, Torino 1998 (Prima ed. 1986; Ed. originale: La civilisation tibétaine, Paris
1982), pp. 58-59. Si veda anche L. Petech, “Tibetan Relations with Sung China and with
the Mongols”, in M. Rossabi, op.cit. (1983), pp. 173-203; id., Central Tibet and the Mongols,
Serie Orientale LXV, Roma 1990. Per quanto riguarda l’associazione con gli Otto Trigrammi di fondamentali strutture palaziali di Dadu, essa è espressamente sottolineata in
Xijin zhi jiyi, op.cit., p. 8. Si veda al riguardo Yu Xixian, op.cit.; si veda anche la mappa di
Dadu in Hou Renzhi et alii (a cura di), Beijing lishi ditu ji (Raccolta di mappe storiche di
Pechino), Beijing chubanshe, Beijing 1988, pp. 27-28. Sappiamo dalle storie dinastiche
Yuanshi, op.cit., p. 3688, che Liu Bingzhong, figura legata sia alla tradizione buddhista che
taoista, “era esperto in tutti i campi della conoscenza, con una speciale e profonda comprensione del Libro dei Mutamenti e del [Huangji] jingshi shu del Signor Shao [Yong], insieme a
41
Stefano Cammelli,- STORIA DI PECHINO E DI COME DIVENNE CAPITALE DELLA CINA
una completa conoscenza di astronomia, geomanzia, scienza del calendario […]”. Shao
Yong (1011-1077) fu uno dei più grandi pensatori dei Song settentrionali, considerato (a
torto o a ragione) come uno dei predecessori del Neoconfucianesimo, influenzato soprattutto dal Taoismo: egli fece tornare alla luce tutta la tradizione numerologica dell’antichità
classica, legata ai concetti arcaici di yin e yang, degli Otto Trigrammi, ecc., trasmessi nei
secoli bui attraverso la letteratura esoterica dei cosiddetti “apocrifi”. Su questa letteratura
sommersa, che ebbe però grande influenza, si veda il magistrale studio di A. Seidel, “Imperial Treasures and Taoist Sacraments: Taoist Roots in the Apocrypha”, in M. Strickmann (a
cura di), Tantric and Taoist Studies in Honor of Professor R. A. Stein, vol. 2, Institut Belge des
Hautes Etudes Chinoises, Bruxelles 1983, pp. 291-371. [M.P.]
35
Steinhardt, op.cit. (1990), p. 153.
36
Milione, op.cit., p. 232
37
Steinhardt, op.cit, (1990), cita la tesi di Paul Ratchnevsky secondo cui Khubilay Khan
spendeva in Shangdu non meno di sei mesi all’anno. Morris Rossabi ricorda come il viaggio verso Shangdu avvenisse con ritmi non sostenuti. Il viaggio dell’imperatore Yuan Toghön Temür nel 1347 da Dadu a Shangdu durò 23 giorni. “Di conseguenza l’imperatore
occupava quasi un mese e mezzo all’anno in viaggio, muovendosi con tutta calma alla media di quasi dieci miglia al giorno” (M. Rossabi, op.cit. [1994], p. 562).
38
«Anche ignorando la sfida di Arigh Böke, Khubilai dovette ancora affrontare altri pericoli per la sua autorità. Egli non aveva ricevuto l’investitura da una khuriltai composta dai
principali nobili mongoli e dai khan. La sua elezione aveva avuto luogo a K’ai-ping, non
nel centro tradizionale delle terre mongole. Quando cercò di convocare una seconda khuriltai tre dei principali khan si opposero, portando in scusa differenti problemi interni alle
loro terre. Ciò nondimeno continuarono a onorarlo come Gran Khan, ed ognuno dei
khanati regionali doveva ottenere la sua conferma quando veniva nominato un nuovo
khan. Ma ancora un’aura di illegalità continuò a circondare Khubilai. In realtà molte delle
sue scelte politiche sia interne che esterne potrebbero essere derivate dal desiderio di guadagnarsi il supporto della madre patria che così a lungo gli era stato negato», si veda M.
Rossabi, op. cit., 1988, p.62
39
Sulla permanenza dell’imperatore Shundi a Shangdu, si veda Yuanshi, op.cit., pp. 816817.
40
Su tale rivolta, si veda Mote, op.cit. (1999), pp. 530-560, passim.
41
Si veda le storie dinastiche Mingshi, Zhonghua shuju, Beijing 1978, p. 20, sulla fuga del
sovrano mongolo da Shangdu
42
« Khubilai ebbe bisogno di essere sovrano della Cina così come khan dei mongoli, e
signore delle terre non cinesi sotto il controllo mongolo. Ai cinesi dovette mostrarsi in
qualche modo sinizzato. Ma, al tempo stesso, non poté adottare troppe tradizioni e credenze cinesi nella paura di offendere i tradizionalisti mongoli. Khubilai dovette camminare
su una sottile linea nel suo atteggiamento e avvicinamento alla cultura cinese. Come khan
dei mongoli doveva praticare i riti e impersonare le regole dei suoi antenati nomadi. Come
aspirante al ruolo di sovrano universale non poté limitare sé stesso a un’apertura verso una
solo cultura (come la cinese) all’interno delle sue terre, ma dovette essere ecumenico nella
sua accettazione delle caratteristiche e delle pratiche delle differenti regioni che, in teoria,
controllava.» si veda M. Rossabi, op. cit. 1988, pag. 172
43
La tradizione della caccia imperiale presso le riserve di Stato è peraltro attestata nella
tradizione cinese sin da epoca arcaica (dinastia Shang). Si veda Paolillo, op.cit. (1996), pp.
42
Stefano Cammelli,- STORIA DI PECHINO E DI COME DIVENNE CAPITALE DELLA CINA
20-25 e pp. 31-37.
44
René Grousset, op.cit. 1970, pag.296
45
Steinhardt, op.cit. (1988).
46
Sui lavori di edificazione di Dadu, si veda Steinhardt, op.cit. (1990), pp. 154 e sgg..
47
Che i lavori di edificazione siano partiti da un “centro” simbolico e reale a un tempo è
in perfetto accordo con le considerazioni svolte da Mircea Eliade riguardo al concetto
tradizionale di “spazio sacro”: “Se l’atto della Creazione realizza il passaggio dal non manifestato al manifestato, o in termini cosmologici dal Caos al Cosmo; se la Creazione […] si è
manifestata a partire da un ‘Centro’ […], allora diventa meravigliosamente chiaro per noi il
simbolismo delle città sacre […], le teorie geomantiche che presiedono alla fondazione
delle città, le concezioni che giustificano i riti della loro costruzione” (M. Eliade, Le mythe de
l’eternel retour, Payot, Paris 1949, p. 39). Recenti studi hanno rilevato il centro geomantico
dell’imponente complesso delle tombe Qing, da cui è partita l’immensa opera di landscape
architecture: esso è detto jinjing, “pozzo d’oro”. Si veda Wang Qiheng, Qingdai lingqin digong
jinjing yanjiu (Studio sul Pozzo d’Oro del Palazzo Terreno delle Tombe Imperiali della dinastia Qing), in id., op.cit., pp. 182-197.
48
Sul coinvolgimento di Liu Bingzhong nella progettazione e nell’edificazione di Dadu, si
veda Yuanshi, op.cit., p. 3694; Yu Xixian, op.cit., p. 36, ricorda che Yu Ji (1272-1348) effettuò poi delle integrazioni al progetto. Su questa figura, si veda Yuanshi, op.cit., p. 4174 e
sgg.. Il già citato Xijin zhi jiyi, op.cit., p. 8, rileva: “Il giorno jichou del secondo mese del
quarto anno di regno Zhiyuan (1267), all’angolo nordest di Yanjing cominciò il processo di
selezione del sito, per stabilire lo stato e la sua capitale, che avrebbe servito da fondamento
del mondo […]. Il giorno jiazi del quarto mese dello stesso anno, la costruzione delle mura
che circondavano la città imperiale dove l’imperatore avrebbe risieduto fu completata. La
collocazione degli uffici governativi fu poi fissata, e tale processo ebbe inizio con lo stabilimento del Segretariato a nord del Quartiere del Laghetto della Fenice nella nuova capitale”. Questo testo sembra adombrare l’esistenza di Yanjing, cioè Zhongdu, ancora all’epoca
dell’inizio dei lavori di edificazione di Dadu.
49
Il testo depositato presso la Biblioteca Nazionale di Parigi riporta “Douze”, dodici
porte. Questa versione del Milione è alla base della tradizione curata da A. Moule e P. Pelliot, Marco Polo: The Description of the World, Paris 1938, che ha avuto larga diffusione soprattutto nel mondo anglosassone. Gli scavi condotti in anni recenti da archeologi cinesi hanno portato alla conclusione che sia l’una che l’altra versione sono inesatte. Sono state infatti identificate due porte a nord, tre a est, tre a ovest e tre a mezzogiorno, per un totale di 11
porte, in accordo peraltro con Yuanshi, op.cit., p. 1347. Si è generalmente concluso che
Marco Polo non abbia mai effettuato il giro completo della città, e quindi abbia dato per
scontato che anche sul lato settentrionale le porte fossero tre. Tuttavia proprio
l’affermazione che segue, sulla perfetta linearità delle strade che consentono di vedere da
una porta all’altra rende questa interpretazione meno convincente. Naturalmente il Palazzo
del Gran Cane, attraversato dal viale che divideva in due la città di Dadu, oscurava la visione
di una eventuale terza porta settentrionale. Tuttavia è lecito dubitare che un osservatore
attento come Marco Polo abbia potuto credere che alle spalle del Palazzo si aprisse una
così inusuale porta d’ingresso. Resta da chiedersi se per caso l’undicesima porta, quella
centrale posta a mezzogiorno, non fosse destinata al solo uso imperiale e che di conseguenza restasse chiusa. Si avrebbero così dieci porte aperte per la comune popolazione, e
una, quella centrale, esistente ma non in funzione. Vanno però citate altre importanti con43
Stefano Cammelli,- STORIA DI PECHINO E DI COME DIVENNE CAPITALE DELLA CINA
nessioni, che forniscono una spiegazione simbolica delle undici porte. La fondazione della
città di Dadu attraverso l’ingegno di Liu Bingzhong, e il numero delle sue porte, sono legate da alcune tradizioni popolari alla figura di Nezha, facente parte della letteratura tantrica.
Egli “era una divinità infantile, il terzo figlio di Vaisravana, il guardiano del nord della tradizione buddhista dei quattro ‘Re Celesti’. I sutra buddhisti tantrici dei primi Tang attribuirono a Na-cha un fisico straordinario e poteri divini, la capacità di trasformarsi miracolosamente”: Chan Hok-lam, “A Mongolian Legend of the Building of Peking”, Asia Major
III (1990), p. 64. In ibid., p. 63, è citata una fonte Yuan che recita: “La città di Yan [Pechino] fu progettata da Liu Taibao [Bingzhong]. Ci sono undici porte, per simboleggiare le tre
teste, le sei braccia e i due piedi di Na-cha […]”. Una leggenda posteriore, legata alla designazione di Pechino come capitale da parte dell’imperatore Ming Yongle, parla ancora di
questo personaggio, affermando che la presenza di sole due porte a nord, Anding men e
Desheng men, si spiega con la loro corrispondenza con le due gambe della divinità: ibid., p.
66. La tradizione di costruire una città “sul corpo” di una divinità trova antecedenti, più
che cinesi, tibetani e indiani: per l’India, si veda F. Chenet, “Esprit des lieux”, in J. Servier,
op.cit., pp. 492-498. Ma va ricordato anche che, secondo l’antica tradizione numerologica
cinese, il numero undici costituiva una espressione sublime dell’armonia, essendo la somma dei “numeri centrali” yin (6) e yang (5). Per una fonte Yuan al riguardo, che descrive
Pechino come “centro dell’universo” grazie alle sue undici porte, si veda Yu Xixian, op.cit.,
p. 41. Questo autore collega il numero delle porte alla profonda conoscenza della numerologia posseduta da Liu Bingzhong. Granet, op.cit. (1988), p. 165, ricorda come il numero
11 fosse espressione della congiunzione dei numeri simbolo del Cielo e della Terra: un
giusto attributo per la capitale del regno del Centro.
50
Milione, op cit., p.218
51
È l’attuale Golou Xidajie che costeggia il lago di Houhai.
52
Al di là delle numerose leggende si è visto come molti anni primi della decisione di
costruire Dadu il Khubilai Khan avesse finanziato importanti lavori di restauro dell’isola e
degli edifici di epoca Jin posti in essa (Palazzo Daming Gong).
53
Sul Longfu gong, edificato nel 1294, si veda Zhang Jingming, op.cit., p. 27.
54
Sul Xingsheng gong, completato nel 1308, si veda ibid..
55
Si veda Steinhardt, op.cit. (1990), pp. 154 e sgg..
56
Resta la possibile influenza del tantrismo centroasiatico, espressa dalla tradizione su
Nezha ricordata in nota precedente.
57
Si tratta della vasta tenda in feltro e legno delle pianure della Mongolia, più nota in occidente con il nome di origine russa yurta.
58
Il Milione, op.cit., p. 223-224
59
Milione, ibidem p.219
60
«Nella terra ha molti palagi; e nel mezzo n’hae uno, ov’è suso una campana molto grande, che suona la sera tre volte, che niuno non puote poi andare per la terra senza grande
bisogno, o di femmina che partorisse o per alcun infermo.» ibidem, p.218
61
Emil Bretschneider, “fisico presso l’ambasciata russa di Pechino”, come lui stesso si
definisce, pubblicò nel 1876 un interessante libretto: Archeological and Historical Researches on
Peking and its Environs. L’opera, stampata a Shanghai per l’American Presbiterian Mission, è
stata recentemente ristampata in edizione anastatica da Elibron Classics, s.d., Boston.
L’autore, come racconta piacevolmente nelle pagine introduttive, ha avuto modo di consultare a Pechino antichi testi cinesi, citandoli con precisione archivistica. Tra questi il Rixia
44
Stefano Cammelli,- STORIA DI PECHINO E DI COME DIVENNE CAPITALE DELLA CINA
jiuwen, opera compilata da Zhu Yijun (1629-1709), consistente in una sorta di antologia di
testi di differenti epoche che fanno riferimento alla città di Pechino. L’aggiornamento
dell’opera venne affidato dall’imperatore Qianlong dei Qing a una commissione di letterati
il cui lavoro venne pubblicato con la denominazione di Rixia jiuwen kao (1744, 160 capitoli).
Le informazioni raccolte sulla città del passato e del presente, su strade, templi, parchi e
sobborghi, furono parzialmente citate da Bretschneider.
62
Bretschneider, op, cit., p.13
63
« Quindi uscendo da codesta città e passando per molte città e terre, venni ad una nobile città che è chiamata Cambalech. Questa città è molto antica e vecchia, e trovasi in provincia del Catay, e codesta città presero i Tartari. 26.1 Vicino ad essa, alla distanza di un
miglio, costruirono un’altra città, detta Taido. Questa aveva dodici porte, fra l’una e l’altra
delle quali corrono due miglia abbondanti, onde fra le due città si abita bene e il circuito di
queste due città è maggiore di quaranta miglia.», si veda Odorico da Pordenone, Viaggio del
Beato Odorico da Pordenone, A. van der Wyngaert (a cura di), Sinica Franciscana, I. Itinera et
relationes fratrum minorum saeculi XIII et XIV, Quaracchi, Firenze 1929, p. 471.
64
Il termine “Khānbalik”, “città del khan”, è d’altronde turco, non mongolo: si veda P.
Pelliot, “Màr Ya(h)bhallàha, Rabban Sàumâ et les princes öngüt chrétiens”, in id., Recherches
sur les Chrétiens d’Asie Centrale et d’Extrême-Orient, Imprimerie Nationale, Paris 1973, p. 247:
“Prima di essere la “grande capitale”, o Dadu, di Khubilai, Pechino era stata già quella dei
Jin o Juçen, ed è estremamente possibile che il nome turco di Khan-baliq le sia stato applicato a partire da quel momento, cioè ben prima del 1215”. E in ibid., nota 2: “La posizione
di Yanjing, la Pechino dei Jin, non coincide esattamente con la Dadu che Khubilai fece
costruire tra il 1264 e il 1267, ma i due siti sono così vicini che il nome turco di ‘Città del
khan’ è potuto passare senza sforzo dall’uno all’altro”. Pelliot sembra essere giunto per
deduzione alla stessa realtà descritta da Odorico. Si veda in tal senso anche la fonte citata
in nota 44. Si veda anche le note di G. R. Cardona, op.cit., p. 580: “Xanbaliq era stata capitale dei Jin, fino alla conquista mongola (1215); probabilmente era già nota da almeno un
secolo con questo nome nell’Asia centrale e continuò ad essere chiamata così fino al XVII
secolo dagli scrittori mussulmani”. Le cose sono rese ancor più ambigue dal fatto, registrato in Yuanshi, op.cit., p. 99, che nel primo anno di regno Zhiyuan (1264), Yanjing (cioè, la
vecchia Zhongdu dei Jin) fu rinominata Zhongdu. Nel nono anno Zhiyuan (1272), il nome
Zhongdu fu cambiato in Dadu: ibid., p. 140.
65
Taizu shilu (Registri di Taizu), in Rixia jiuwen, cap. 38, cit. in Bretschneider, op.cit., p. 9.
66
ibidem., p. 10
67
Marco Polo, op.cit., p. 218. Si veda le considerazioni di G. R. Cardona, op.cit., p. 580:
“Poiché era rimasta danneggiata dalla conquista del 1215, i Mongoli decisero di restaurarla,
ma poi nel 1267 si preferì ricostruire una nuova città, a NE col nome di Dadu, dove si
trasferì l’amministrazione nel 1272. È a questo spostamento che allude Marco Polo in 84,3;
solo che egli usa sempre lo stesso nome (Garibalu non può essere che una corruzione di
Cambalu, e lo dimostra la traduzione)”
68
« Versione del Ramusio, in Marco Polo, op.cit., pp. 221-222: “[…] e mandò un suo
nunzio ad Achmach, che abitava nella città vecchia, che da parte di Cingis figliuolo del
Gran Can, il quale or ora era gionto di notte, dovesse di subito venire a lui. Il che inteso
Achmach molto meravigliandosi, andò subitamente, perché molto lo temeva. E, entrando
nella porta della città, incontrò un tartaro nominato Cogitai, il quale era capitano di dodicimila uomini, co’ quali continuamente custodiva la città, qual gli disse: ‘Dove andate così
45
Stefano Cammelli,- STORIA DI PECHINO E DI COME DIVENNE CAPITALE DELLA CINA
tardi ?’. ‘A Cingis, il qual or è venuto’. Disse Cogitai: ‘Com’è possibile che sia venuto così
nascostamente ch’io non l’abbia saputo ?’, e seguitollo con una certa quantità delle sue
genti […]. E subito che Achmach entrò nel palagio, vedendo tante luminarie accese,
s’inginocchiò avanti Vanchu, credendo che’l fosse Cingis, e Chenchu che era ivi apparecchiato con una spada li tagliò il capo […]”. Si veda anche H. Franke, “Ahmed: Ein Beitrag
zur Wirtschaftsgeschichte Chinas unter Qubilai”, Oriens I (1948), pp. 222-236; id., “Ahmad
(?-1282)”, in de Rachewiltz et alii, op.cit., pp. 539 e sgg..
69
ibidem
70
Si veda M. Rossabi, op.cit. (1994), pp. 471-473.
71
Si noti che in numerosi testi – non è necessario entrare in dettaglio – è frequente
l’errore di confondere la pagoda Miaoying (all’interno della città nei pressi della porta Fucheng men) con quella costruita in epoca Qing sull’isola di Qionghua, oggi nel Parco Beihai. Si tratta di due costruzioni entrambe influenzate dallo stile tibetano, ma dalla collocazione e dalla storia profondamente diversa. Sull’erezione della Pagoda Bianca (citata anche
in Yuanshi, op.cit., p. 218), si veda H. Franke, “Consecration of the ‘White Stupa’ in 1279”,
Asia Major VII/2 (1994), pp. 155-184. Sulla leggenda della fondazione del Dasheng shou
wan’an si, in cui la scelta del sito è effettuata dallo stesso Khubilai scagliando delle frecce ai
quattro punti cardinali (un’usanza già registrata in Yuanshi, op.cit., p. 2964, e attribuita a
Gengis Khan), si veda Chan Hok-lam, op.cit. (1990), p. 82, nota 32 e bibliografia collegata.
72
Secondo J.Bredon - op.cit. (1922), pag.198 – il monastero sarebbe stato costruito nel
1084 e sarebbe stato restaurato e trasformato in epoca Yuan da Khubilai (1271). Probabilmente errandosi la Bredon attribuisce la costruzione alla dinastia Jin il cui ingresso in Pechino avviene solo una trentina di anni dopo. Secondo Arlington- Lewisohn (In search of
Old Peking, Pechino, 1935, pag. 207) il monastero sarebbe stato «…innalzato durante il regno
dell’imperatore Liao Shou Lung nell’anno 1092 per commemorare il suo accesso al trono.»
73
J.Bredon, op.cit. (1922), p.198
74
Sul monastero, si veda Naquin, op. cit. (2000), p. 34, p. 73, p. 309, p. 489. Sia Bredon,
op.cit. (1922) che Arlington, op.cit. (1935), sottolineano che in epoca Qing il luogo fu
oggetto di importanti interventi di restauro sia in epoca Kangxi che Qianlong.
75
M. Rossabi, op.cit., p. 420 e seguenti, passim
76
In particolare il Huahu jing (Libro sulla conversione dei barbari), probabilmente del
quinto secolo. Si veda Liu Yi, “Shilun ‘Huahu jing’ chansheng de shidai” (Sulla datazione
del Libro sulla conversione dei barbari), in Chen Guying (a cura di), Daojia wenhua yanjiu
(Studi sulla cultura taoista), XIII, Sanlian shudian, Beijing 1998, pp. 87-109.
77
Su questo complesso tema, si veda Chan Hok-lam e W. T. de Bary (a cura di), Yüan
Thought: Chinese Thought and Religion under the Mongols, Columbia University Press, New York
1982; P. Demiéville, “La situation religieuse en Chine au temps de Marco Polo”, in Oriente
Poliano: Studi e conferenze tenute all’Is.M.E.O. in occasione del VII centenario della nascita di Marco
Polo (1254-1954), Istituto Italiano per il Medio ed Estremo Oriente, Roma 1957, pp. 193236; Kubo Noritada, “Prolegomena on the Study of the Controversies between Buddhists
and Taoists in the Yüan Period”, Memoirs of the ResearchDepartment of the Toyo Bunko XXV
(1967), pp. 39-61.
78
Oltre agli studi già citati in nota 16, si veda H. Franke, “Tibetans in Yüan China”, in J.
D. Langlois, op.cit., pp. 296-328.
79
Stein, op.cit. (1998), p. 59. Lo scontro, guidato da un altro sito monastico, si protrarrà
sino al 1290.
46
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80
« Khubilai Khan ed il suo precettore buddhista tibetano, il lama Sakyapa Phagspa, diedero vita a un nuovo concetto del potere nell’Asia interna – un principio duplice – forte
abbastanza per potere sfidare con successo il sistema cinese confuciano del mandato celeste, culto degli antenati e rettitudine morale. Sul piano simbolico ne sortì una affermazione
di Khubilai come Chakravartin – signore universale in quanto incarnazione di Mahakala, la
divinità fiera e intelligente e nume tutelare dell’ordine Sakya quindi di Phagspa, e, dopo la
sua morte, la sua incarnazione come Manjusri, il Bodhisattva della saggezza,
contestualmente collocato sul Monte Wutai (Wutaishan).» si veda Patricia Berger, “After
Xanadu. The mongol renaissance of the sixteenth to eighteenth centuries”, in Patricia
Berger – Terese Tse Bartholomew, Mongolia. The legacy of Chinggis Khan, Thames and Hud81
son,Su1995,
pag.50
Manjusri
in generale, si veda R. Birnbaum, “Mañjusri” in M. Eliade (a cura di), The
Encyclopedia of Religion, Vol. IX, Macmillan and Free Press, New York 1987, pp. 174-175; L.
G. Heyrman, The Meeting of Vimalakirti and Mañjusri: Chinese Innovation in Buddhist Iconography,
2 voll., Ph. D. dissertation, University of Minnesota, 1994; E. Lamotte, “Mañjusri”,
T'oung Pao XLVIII (1960), pp. 1-96. Sulla connessione fra Manjusri e il Wutai shan, si veda
R. Birnbaum, “Secret Halls of the Mountain Lords: The Caves of Wu-t'ai Shan.”, Cahiers
d'Extrême-Asie V ((1989-90), pp. 115-140.
82
Si potrebbe al riguardo parlare di analogie con il rapporto tra Papato ed impero in epoca medioevale. Tuttavia, una profonda e in qualche modo finale conversione dei Mongoli
al Lamaismo si sarebbe avuta solo nel XVI secolo. Si veda la trattazione generale di Stein,
op.cit. (1998), pp. 57-62. « Nel tredicesimo secolo questo legame [tra buddhismo tibetano e
mongoli] era ancora limitato alle elite dei due gruppi.» si veda M.Rossabi, “Mongolia. From
Chinggis Khan to independence”, in Berger-Bartholomew, op.cit., 1995, pag.33
83
Si veda Berger-Bartholomew, op.cit. (1995), pag.50
84
“Le motivazioni che ispirarono la protezione del Buddhismo Tibetano da parte di
Khubilai non furono esclusivamente religiose. Egli desiderò trarre benefici secolari da questa associazione con il clero buddhista, in particolare l’investitura del suo stato come Gran
Khan e signore di ogni possedimento mongolo. E Phagspa in realtà lo ricompensò nel
tempo identificandolo come monarca universale (Chakravartin) e quindi associandolo con
Manjusri, il Boddhisatva della conoscenza.” Si veda M. Rossabi, op.cit., (1995), pag.33
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