analisi e materiali critici sui film del Cineforum 2011.2012

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analisi e materiali critici sui film del Cineforum 2011.2012
Liceo Classico “Francesco Scaduto”
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Analisi e materiali critici sui film della rassegna cinematografica 2011/2012
A cura del prof. Domenico Aiello
I perché di una rassegna
Migrazioni e pregiudizi
Into Paradiso,
Terraferma,
Le donne del sesto piano,
Il mio nome è Khan,
PaolaRandi
Emanuele Crialese,
Philippe Le Guay,
Karan Johar,
La memoria della Shoah :vittime e complici
Vento di primavera,
Rose Bosch,
Le guerre dimenticate: il Libano
La donna che canta,
Denis Villeneuve,
Italia 2011-,
Commedia,
Italia 2011
Drammatico,
Francia 2011, Commedia,
India 2010,
Drammatico,
Francia 2011, drammatico,
Canada,
104 minuti
104 minuti
106 minuti
165 minuti
115 minuti
drammatico 2011
Introduzione
Quest’anno il tema dominante della rassegna è la migrazione intesa come movimento di popoli e persone nello spazio
geografico e non solo: interessanti a questo proposito i quattro film del ciclo anche se pure il film La donna che canta racconta
di un viaggio dal Canada al Libano alla ricerca di capire la propria storia personale e quella collettiva. Piuttosto inedito il punto
di vista offerto dal film Vento di primavera che affronta il tragico problema della collaborazione del governo filonazista francese
che collaborò attivamente alla eliminazione fisica degli ebrei francesi.
Spunti per la discussione
Il mio nome è Khan
Anno
2010
Titolo Originale
My Name Is Khan
Altri titoli
Khan
Durata
165
Origine
INDIA
Colore
C
Genere
DRAMMATICO
Specifiche
tecniche
35 MM, CINEMASCOPE
Produzione
HIROO YASH JOHAR, GAURI KHAN PER DHARMA PRODUCTIONS, IN
COLLABORAZIONE CON RED CHILLIES ENTERTAINMENT PRODUCTION MUMBAI
Distribuzione
20TH CENTURY FOX ITALIA
Data uscita
26-11-2010
Regia
Karan Johar
Attori
Shahrukh Khan
Christopher B.
(Shah Rukh Khan) Rizwan Khan
Duncan Barack Obama
Kajol
Mandira
Steffany Huckaby
Kathy Baker
Carlo Marino
Vaughn
Douglas Tait
Sniper
Tanay Hemant Chheda (Tanay Chheda) Rizwan Khan da bambino
Harmony Blossom
Karma
Shane Harper
Tim
Sheetal Menon
Radha
Jennifer Echols
Mamma Jenny
Soggetto
Karan Johar
Sceneggiatura
Karan Johar
Shibani Bathija
Niranjan Iyengar
(dialoghi)
Fotografia
Ravi K. Chandran
Musiche
Shankar Mahadevan
(Shankar Ehsaan Loy)
Loy Mendonsa
(Shankar Ehsaan Loy)
Ehsaan Noorani
(Shankar Ehsaan Loy)
Montaggio
Deepa Bhatia
Scenografia
Sharmishta Roy
Costumi
Manish Malhotra
Shiraz Siddique
Effetti
John C. Hartigan
Trama Rizvah Khan è un indiano di religione musulmana. E' un uomo onesto ed è affetto da una
leggera forma di sindrome di Asperberger. Vive insieme alla sua famiglia negli Stati Uniti dove ha
sposato Mandira, una splendida mamma single alla ricerca spasmodica di successo e riflettori puntati
su di sé. L'attacco alle torri gemelle dell'11 settembre 2001, però, smembra la sua famiglia. Per
riunirla, a Khan non resta che un viaggio attraverso l'America, i suoi paesaggi così diversi e le sue
nuove paure di paese traumatizzato.
Critica "Molti festivalieri avevano occupato i posti più laterali della sala, quelli della grande fuga.
Temevano che i 60 minuti di 'My Name is Khan' dell'indiano Karan Johar, fossero eccessivi. Invece,
davanti a questo bel film, non si è mosso nessuno. Il protagonista è Shah Rukh Khan (nella foto), la
più grande star di Bollywood, una di quelle che in patria non può mettere il naso fuori di casa ma che
in un aeroporto Usa viene arrestato (è accaduto lo scorso 14 agosto) perché sospettato di terrorismo.
Un episodio che ha scatenato l'ira degli indiani spingendoli a bruciare bandiere americane e che rende
ancora più attuale ciò di cui il film tratta." (Alessandra De Luca, 'Avvenire', 13 febbraio 2010)
"L'America vista da Bollywood. Un 'Forrest Gump' in salsa tandoori. Due superstar indiane per sfidare il
cinema Usa in casa. 'My Name is Khan' si presta allo slogan ma è anzitutto una fiaba, sfarzosa e
gentile che chiede (e ottiene) lo sguardo ingenuo di una volta. Il soggetto sbandiera temi pesanti come
il razzismo, l'intolleranza dell'America post-11 settembre (ma anche l'odio fra indù e musulmani), la
forza dell'amore e della volontà. Sullo schermo però scintillano il sorriso della luminosa Kajol, la
simpatia di Shah Rukh Khan e un gusto così sfacciato per la coreografia che perfino un taglio di capelli
diventa una scena d'amore, cioè una scena da musical. Il resto lo fanno la passione impossibile ma
molto fotogenica fra l'indiano musulmano affetto da autismo e la bella compatriota indù emigrata come
lui in California. E naturalmente le mille battaglie combattute dall'ingenuo ma tenace e intelligentissimo
Khan. Contro le proprie fobie, contro i pregiudizi, contro il razzismo spicciolo e meno spicciolo, contro i
terroristi islamici annidati nel cuore dell'America (che esistono, ci mancherebbe). Gli spettatori del
genere 'a-me-non-la-si-fa' alzeranno il sopracciglio. I cinici lo prenderanno come un anti-'Borat'. Gli
altri si sentiranno liberi di divertirsi, e parecchio." (Fabio Ferzetti, 'l Messaggero', 26 novembre 2010)
"Film da vedere, a condizione di sospendere l'incredulità e lasciare a casa lo snobismo: 'Il mio nome è
Khan' è pura Bollywood, l'industria indiana che sforna un migliaio di film all'anno, e da quelle parti non
c'è limite alla fantasia. (...) Film fluviale, coloratissimo, esagerato: una risposta indiana a 'Forrest
Gump', con la stessa aspirazione di usare l'handicap come metafora della condizione umana. In più, è
una lettera dell'India all'America, invitandola a mettere da parte il pregiudizio. Film, a suo modo,
epocale" (Alberto Crespi, 'L'Unità', 26 novembre 2010)
" 'My Name is Khan', presentato fuori concorso alla scorsa Berlinale, è una bandiera dispiegata al vento
contro lo scontro di civiltà, che parla l'esperanto del cinema e modula allegramente i generi, passa
dalla commedia al melò, trasmuta Bollywood in un kolossal on the road, coniuga Bombay con San
Francisco, prende la superstar indiana, Shah Rukh Khan, e la fa interagire con il Dustin Homan di 'Rain
Man' e con il Tom Hanks di 'Forrest Gump'. Disintegra la segregazione identitaria tra hindu e
musulmani in una potente ondata emozionale attraverso le avventure di Rizvan Khan, affetto dalla
sindrome di Asperger, forma lieve di autismo. (...) Il film cambia, si ferma, riparte, potrebbe andare
avanti all'infinito, telenovela poetico-politica spudorata e pop. Non consente distanze, nella purezza del
'matto' trascende ogni resistenza emotiva. Solo un visionario può raccontare la pace e la guerra.
All'improvviso da racconto immaginario si fa documentario, e sancisce la fine del dopo nine-eleven.
Liberatoria prima opera dedicata a Barack Houssein Obama, nato alle Hawaii, venuto dal Kenia,
cresciuto in Indonesia, e mai più fermato alla frontiera. Il presidente (Cristopher B. Duncan),
convocherà l'assurdo e adorabile maratoneta dell'impossibile, e in un duetto demenziale lo eleggerà a
modello internazionale. 'Yes I Khan'." (Mariuccia Ciotta, 'Il Manifesto', 26 novembre 2010)
"Ancora l'onda del 'delitto globale', l'11 settembre nella vita di Khan, indiano con lieve autismo
emigrato in Usa dove compone una famiglia (moglie bellissima, esalta il tragico...) e affronta tutto.
Quasi, perché nel segno della differenza che lo distingue, l'America delle Torri non trova posto per un
innocente sospettabile. Umiliazione e ingiustizia, matrimonio a pezzi, una coerente certezza di
integrità, spingono l'eroe a cercare il Presidente, in un melò indiano che si apre al dramma
costituzionale in Occidente: la libertà, il diritto, il rispetto della diversità. Ricordando la purezza
dignitosa di 'Forrest Gump', al tutore massimo delle regole vorrebbe dire: 'Mi chiamo Khan, ma non
sono un terrorista'. Troppo delicato e attuale il tema per non farsi prendere. Regia non banale." (Silvio
Danese, 'Nazione, Carlino, Giorno', 26 novembre 2010 )
"Bollywood tra melodramma e storia partorisce qualcosa di simile a Forrest Gump, almeno perché il
protagonista, Rizvan Khan, è affetto da lieve autismo. (...) Troppa carne al fuoco però di discreta
qualità." (Cinzia Romani, 'Il Giornale', 26 novembre 2010)
"Debutto ufficiale sui nostri schermi del genere Bollywood, che fa vendere in patria tre miliardi e mezzo
di biglietti l'anno, tradizione popolare, festosa e fastosa del cinema indiano già apparsa in 'Lagaan' e
'Matrimoni e pregiudizi' corretto da Jane Austen. Il film di Karan Johar, figlio d'arte riverito al
botteghino, rivela tutta la forza di commovente divertimento, formula narrativa, melodramma pop
applicato a pubblico e privato, alla sfera politica come al razzismo post 11 settembre, non solo
americano, verso i musulmani. (...) Nel film c'è di tutto e di più, talvolta di troppo, ma la folata
emotiva che suscita è sincera pure se organizzata con stile teatrale che si appresta ora a catturare
anime belle e cuori semplici occidentali con la consueta partner Kajol, bellissima diva asiatica. Tutto col
nobile scopo di raccontare l'ingiusto isolamento musulmano, completo di orgogli e pregiudizi ¿ tanto
che lo stesso divo nel 2009 fu arrestato 'per caso' all'aeroporto di Newark ¿ riuscendo infine ad essere
una storia che coinvolge a ogni latitudine parlando con calcolata ingenuità dell'umanità tutta, pur
osservandola con gli occhi di un uomo così felicemente particolare e così infelicemente felice."
(Maurizio Porro, 'Il Corriere della Sera', 26 novembre 2010)
"'Rain Man', 'Forrest Gump': vi sono piaciuti? Allora, anche il kolossal indiano 'II mio nome è Khan'
potrebbe. Potrebbe, perché è la versione 2.0: la diversa abilità non è solo davanti alla macchina da
presa, ma dietro. Almeno, questo è il sospetto: Khan sarebbe affetto da sindrome di Asperger, ma per
come si muove da ritardato e agisce da mentecatto il burattinaio con l'occhio in camera deve stare
decisamente peggio. (...) 'Il mio nome è Khan e non sono un terrorista': (...) sullo schermo, è il
ritornello della malafede, il mantra delle buone intenzioni (apologo di tolleranza, multiculturalismo,
etc.) ridotto a vagito stilistico e fracasso paternalistico. Il mio nome è... mai più." (Federico Pontiggia,
'Il Fatto Quotidiano', 26 novembre 2010)
Note - LA DICHIARAZIONE "MI CHIAMO KHAN E NON SONO UN TERRORISTA" E' LA STESSA CON CUI
L'ATTORE SHAHRUKH KHAN HA RISPOSTO NEL 2009 ALL'INTERROGATORIO A CUI E' STATO
SOTTOPOSTO ALL'AEROPORTO DI NEWARK, APPARENTEMENTE A CAUSA DELLA MATRICE
MUSULMANA DEL SUO NOME.
- FUORI CONCORSO AL 60. FESTIVAL DI BERLINO (2010).
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Sinossi:
Una storia sospesa tra realtà e mito, raccontata con il linguaggio lieve e potente delle fiabe. Non un film sull'immigrazione, ma su di noi. Su chi
cerca la propria Terraferma.
Due donne, un'isolana e una straniera: l'una sconvolge la vita dell'altra. Eppure hanno uno stesso sogno, un futuro diverso per i loro figli, la loro
Terraferma.
Terraferma è l'approdo a cui mira chi naviga, ma è anche un'isola saldamente ancorata a tradizioni ferme nel tempo.
È con l'immobilità di questo tempo che la famiglia Pucillo deve confrontarsi.
Ernesto ha 70 anni, vorrebbe fermare il tempo e non vorrebbe rottamare il suo peschereccio.
Suo nipote Filippo ne ha 20, ha perso suo padre in mare ed è sospeso tra il tempo di suo nonno Ernesto e il tempo di suo zio Nino, che ha
smesso di pescare pesci per catturare turisti.
Sua madre Giulietta, giovane vedova, sente che il tempo immutabile di quest'isola li ha resi tutti stranieri e che non potrà mai esserci un futuro
né per lei, né per suo figlio Filippo.
Per vivere bisogna trovare il coraggio di andare.
Un giorno il mare sospinge nelle loro vite altri viaggiatori, tra cui Sara e suo figlio. Ernesto li accoglie: è l'antica legge del mare. Ma la nuova
legge dell'uomo non lo permette e la vita della famiglia Pucillo è destinata ad essere sconvolta e a dover scegliere una nuova rotta.
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Genere:drammatico
Regia:Emanuele Crialese
Titolo Originale:Terraferma
Distribuzione:01 Distribution
Produzione:Riccardo Tozzi, Giovanni Stabilini, Marco Chimenz
Data di uscita al cinema:7 settembre 2011
Durata:88’
Sceneggiatura:Emanuele Crialese e Vittorio Moroni
Direttore della Fotografia:Fabio Cianchetti
Montaggio:Simona Paggi
Scenografia:Paolo Bonfini
Costumi:Eva Coen
Attori:Filippo Pucillo, Donatella Finocchiaro, Mimmo Cuticchio, Giuseppe Fiorello
Destinatari:Scuole Secondarie di II grado
Approfondimenti:
NOTE DI REGIA
Tornare sull'isola di Respiro nell'estate del 2009...
Ho trovato un luogo molto diverso da come lo ricordavo durante le riprese di Respiro... il mio scoglio sperduto in mezzo al mare è adesso terra
di frontiera. Relitti di barche mezze affondate, in attesa di essere cancellate dal mare, motovedette con cannoni e mitragliatrici, confusione e
disperazione. Rimango sull'isola ad aspettare...
Dopo 21 giorni alla deriva, approda a Lampedusa un barcone carico di più di settanta persone. Sepolte dai cadaveri dei compagni di viaggio,
soltanto cinque sono sopravvissute. Tra questi c'è un'unica donna: Timnit T.
Vado a cercarla. La trovo sorridente, dice di essere nata una seconda volta.
Sono anni ormai che osservo le immagini di questi barconi che approdano sulle nostre coste, che ascolto i racconti dei sopravvissuti, di coloro
che sono riusciti a "rimanere a galla".
La stampa parla di "esodo", "tsunami umano", "clandestinità", "immigrazione".
Guardando Timnit mi sembrano parole vuote. Lei non porta quei nomi. Non corrisponde a quelle parole. Timnit ha lo sguardo di chi ha rischiato
la vita per cambiare la sua storia, ha attraversato il mare, un'altra odissea, un altro viaggio verso l'evoluzione. Finché ci sarà vita sulla terra gli
uomini partiranno per migliorare loro stessi.
Il movimento è azione e l'azione è conoscenza.
Come si può negare ad un uomo il diritto di andare, di cercare, di conoscere e quindi di evolversi?
Come raccontare una storia ed uscire da parole come "clandestino" o " emigrato" o "extracomunitario"?
Una mattina mi sveglio pensando ad una frase: "c'era una volta"...
Comincio a scrivere come se mi rivolgessi ad un bambino, come se potessi raggiungere il bambino che è dentro di me. Ho cercato un
linguaggio libero da pregiudizi e da paure.
Provo un senso di ribellione all'idea di essere trattato come un bambino disubbidiente a cui si dice ancora " attento all'uomo nero che ti mangia
tutto intero"... questa è la cantilena che ascoltiamo da anni, questo lo strumento usato per renderci più docili, più fragili, più bisognosi di
protezione.
Ritorno da Timnit e le domando di imbarcarsi con me, su una barca immaginaria, quella della rappresentazione. Le propongo di reinterpretare
alcuni momenti della sua storia vera con l'intesa e l'intento di poter cambiare, di poterla riscrivere, ricreare. Le propongo l'incontro con un'altra
donna, un'isolana, con la stessa voglia di andare, di ricostruire altrove, per migliorare se stessa per aiutare suo figlio a crescere senza paura.
Emanuele Crialese
Carta d'Identità di un film: Terraferma di Elena Mascioli
Titolo
La scelta di una sola parola per un titolo corrisponde normalmente all'intento di suggerire, di evocare, senza troppe spiegazioni e fronzoli, il
nucleo centrale del film. Cosa evoca, di per sé, la parola terraferma? E cosa rappresenta nel contesto del film la terraferma? È una sola ? Chi la
cerca, e perché?
Protagonisti e affini
Chi sono i veri protagonisti del film? I migranti o coloro che si trovano a dover fare una scelta di fronte al loro arrivo, cioè i pescatori, gli abitanti
dell'isola, Filippo, Enzo, Giulietta, Nino? Su cosa è puntato l'obiettivo del regista?
Uno dei grandi protagonisti del film, sia visivamente che concettualmente, è il mare, che nella sua grandezza riesce ad accogliere in sé, anche
nello stesso piccolo tratto attorno ad un'isola, i tanti e diversi tipi di umanità che decidono di attraversarlo, con motivazioni diverse. Il mare che
dà da vivere ai pescatori, ma che è anche causa di morte, il mare dei turisti, e di coloro che lo solcano alla ricerca delle terraferma. Scegliete
uno dei protagonisti del film e raccontate la sua storia attraverso il rapporto che vive con il mare.
Ambientazione
Nel film il luogo in cui ci si trova non viene mai menzionato nello specifico, ma si parla genericamente dell'Isola. Il regista ha affermato che, pur
essendo facile fare collegamenti ed identificarla con Lampedusa, perché spesso presente nelle recenti cronache giornalistiche, ha scelto
deliberatamente di chiamarla Isola, perché non voleva raccontare uno specifico caso, ma una storia che accade a Lampedusa, a Linosa, e in
qualsiasi altro posto, qualsiasi isola, dove arrivi qualcuno che cerca disperatamente la terraferma. Cosa significa vivere su un' Isola, quale la
particolarità di vivere in un luogo che è separato dal mare da tutto il resto?
Un luogo vive anche della rappresentazione che di esso abbiamo e che viene dal punto di osservazione in cui ci poniamo. Provate a descrivere
le tre diverse Isole presenti nel film attraverso le sequenze più significative: l'Isola di chi la abita, l'Isola del turista che vi sbarca, l'Isola dei
migranti che la vedono dai barconi.
Segni particolari
Dichiarazione del regista (come da nota di regia): "Come raccontare una storia ed uscire da parole come "clandestino" o " emigrato" o
"extracomunitario"? Una mattina mi sveglio pensando ad una frase: "c'era una volta"... Comincio a scrivere come se mi rivolgessi ad un
bambino, come se potessi raggiungere il bambino che è dentro di me. Ho cercato un linguaggio libero da pregiudizi e da paure."
È riuscito il regista nel suo intento di raccontare una storia in maniera semplice, immaginando di avere come interlocutore un bambino? Qual è il
senso di questa scelta stilistica, secondo voi, e soprattutto l'effetto che ha prodotto in voi, come spettatori? Quali le immagini, le sequenze, che
meglio rappresentano la scelta stilistica del regista?
L'angolo della critica
Scrivete la recensione del film, cercando di convincere lo spettatore a vedere il film, se vi e' piaciuto, o dissuadendolo, ma esponendo le ragioni
nell'uno e nell'altro caso.
Oltre lo schermo di Elena Mascioli
Timnit è il nome di colei che impersona Sara nel film, la donna incinta che viene salvata sul peschereccio di famiglia dei Puccillo. E Timnit ha
vissuto davvero l'esperienza di essere una dei pochi sopravvissuti al naufragio di un gommone al largo delle coste di Lampedusa, raccontando
al regista di essere nata, in quel momento, una seconda volta. Una nuova nascita che nel film viene evocata attraverso il parto della bambina
che porterà il nome di colei che l'ha aiutata a nascere, Giulietta. E che viene ringraziata da Sara, mentre guarda diritto in camera, e in un
sussurro, in un primo piano molto intenso, pronuncia le parole "Sei benedetta".
Il regista ha voluto fortemente che il personaggio di Sara non fosse interpretato da un'attrice, ma fosse una vera testimone di ciò che ormai
quotidianamente avviene al largo delle nostre isole nel Mediterraneo. E questo perché voleva raccontare una storia, e non parlare di un tema,
cioè quello delle migrazioni. L'attenzione è dunque puntata sugli uomini. Chi sono quegli uomini e quelle donne che arrivano sui gommoni al
largo di Lampedusa? Vi siete fatti un'idea dei paesi da cui vengono e dei motivi per cui affrontano un viaggio disperato come quello su un
gommone? E chi sono e come vivono quegli uomini e quelle donne che abitano nelle terre di frontiera che sono ormai le isole degli sbarchi?
Il viaggio come percorso di evoluzione. Crialese afferma: " Sara ha lo sguardo di chi ha rischiato la vita per cambiare la sua storia, ha
attraversato il mare, un'altra odissea, un altro viaggio verso l'evoluzione. Finché ci sarà vita sulla terra gli uomini partiranno per migliorare loro
stessi. Il movimento è azione e l'azione è conoscenza. Come si può negare ad un uomo il diritto di andare, di cercare, di conoscere e quindi di
evolversi?"
Commentate questa affermazione del regista.
Ai drammi che i migranti portano con sé come bagaglio si aggiungono quelli dovuti alla frattura esistente tra le parole e i fatti, le leggi e le
persone, tra le esigenze ed i diritti di chi arriva e quelli di chi c'è già, entrambi sacrosanti e da tutelare. Un conflitto che nel film viene
esemplificato come scontro tra la legislazione e un sistema di valori non scritti, come la legge del mare, o tra le diverse disperazioni di chi
sbarca e chi con la barca vorrebbe continuare a vivere, pescando pesce o turisti.
Qual è la legge del mare? E sapreste dire con precisione quale la legge italiana sull'argomento? Come sono "classificati" i migranti che arrivano
sui gommoni? Il film è stato realizzato con il Patrocinio dell' Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR). Sapete cosa
significa e come si ottiene lo status di rifugiato? Qual è la differenza tra un "clandestino" ed un "rifugiato"?
Al regista è stato contestato di essere stato ambiguo sul discorso dei salvataggi in mare e di aver lasciato intendere che sia vietato dalla legge
italiana salvare uomini in mare: trovate sia una obiezione fondata? Cosa dice la legge in merito e cosa accade nella realtà delle cose? Qual è il
motivo, il reato che viene contestato e per cui il peschereccio viene sequestrato alla famiglia Pucillo, nel film?
Quella delle migrazioni, degli sbarchi sulle nostre isole, dei centri di permanenza temporanea, è diventata ormai un'emergenza, che riempie a
giorni alterni le pagine delle cronache giornalistiche, ma che ultimamente ha anche occupato un posto preponderante sugli schermi dei cinema,
ad esempio nelle tante declinazioni di storie di migranti che hanno caratterizzato la 68ma Mostra del cinema di Venezia (e dove anche il film
Terraferma era presente, in concorso)
È importante, secondo voi, che la riflessione su questi temi prenda tanto posto sui giornali, nei libri, al cinema, e nell'arte in genere? Avete una
vostra opinione sull'argomento "migrazioni", e se si, in quale modo e attraverso quali canali vi siete formati un'opinione? Cosa significano per voi
le parole "clandestino", "immigrato", "extracomunitario" da cui il regista ha tentato di uscire nel suo intento di raccontare le persone?
Il film gioca spesso sulle contrapposizioni tra i diversi personaggi di fronte ad analoghe situazioni, il nonno e Filippo, Sara e Giulietta, Filippo e lo
zio Nino, la legge del mare e l'autorità. Sono incontri e scontri di persone che hanno scelto una strada, che hanno i loro valori a guidarli, come il
nonno, e di altre che invece sono ancora alla ricerca di uno sbocco, di uno spiraglio, di una terraferma a cui aggrapparsi per affermare la
possibilità di vivere anziché sopravvivere. E che di fronte alla tragedia di altri uomini disperati scelgono di chiudere gli occhi, di ballare e tuffarsi
nello stesso mare da un altro tipo di barcone, o di oscillare tra la paura ed il desiderio di aiutare chi è in difficoltà, spingendosi in mare con la
barca, alla ricerca di una rotta, una rotta morale, che sembra non esserci più e che lascia dunque aperto il finale del film e della storia, in balia
delle onde.
Il regista ha affermato che lo sbandamento, la confusione, la mancanza di una rotta morale, sono anche causati dall'assenza di unasocietà, di
una comunità che circondi e sostenga l'individuo e non lo faccia sentire solo di fronte alla scelta della propria rotta di fronte a simili drammi.
Sentite di avere attorno a voi una comunità che vi sostiene e vi guida nel vostro percorso di formazione,di studenti, di ragazzi e ragazze,
soprattutto a confronto con le grandi questioni che il nostro tempo porta sulla ribalta delle vostre giornate, o il vostro approccio è, giocoforza, di
tipo individualistico? Provate a scrivere il vostro finale del film.
•
Spunti di Riflessione:
di Claudia Tiano
1.
2.
Che cosa rappresenta la "Terraferma" per ognuno dei componenti della famiglia Pucillo?
"L'antica legge del mare" è incarnata nel personaggio di Ernesto, mentre il Comandante della finanza, interpretato da Claudio
3.
Santamaria, rappresenta lo Stato. Qual è la causa dello scontro dei due personaggi? E in che modo le due visioni sono antitetiche?
Il film mostra due tipologie diverse di sbarco di stranieri sull'isola. Quali sono i diversi atteggiamenti degli abitanti dell'isola nei
4.
confronti dello straniero come turista e dello straniero come immigrato?
Durante tutta la storia, il mare si presenta come il protagonista principale. Scegli tre immagini, dove il mare incarna un
5.
significato particolare, e spiegane il significato rappresentato.
Quali sono le caratteristiche principali del personaggio di Ernesto?
6.
7.
8.
Descrivi le due figure femminili principali, Giulietta e Sara, la donna clandestina che Giulia ospita in casa.
Descrivi i tratti principali del carattere di Filippo, e prova a confrontarlo con il nonno e con la mamma.
Prova a confrontare l'atteggiamento di Filippo, in barca con il nonno, quando salva i clandestini e quando invece si ritrova, in
barca, con la turista.
9.
10.
E' corretto dire che Filippo non ha ancora superato la morte del padre?
Fate una ricerca e provate ad indicare le maggiori problematiche, legate all'immigrazione clandestine nel nostro Paese
11.
Filippo ha un rapporto speciale e molto ben delineato coi componenti della sua famiglia, descrivetene le principali
caratteristiche.
12.
13.
Dove è stato girato il film? Effettuate una ricerca in merito.
Qual è il punto di vista, rispetto all'arrivo, degli immigrati, dei tre ragazzi, ospitati in casa di Giulietta?
14.
Nino vive il presente, Giulietta spera nel futuro mentre Ernesto è ancora legato al passato. Qual è il "tempo" di Filippo?
15.
16.
17.
Quali sono i sentimenti comuni che legano Giulietta e Sara?
Durante la fuga in barca con la turista, Filippo ha un atteggiamento diverso verso i clandestini; sareste in grado di evidenziare
il perché del cambiamento del ragazzo?
Il conflitto tra tradizione e modernità: scegliete un'immagine del film per descrivere questa contrapposizione.
18.
Tutti i personaggi principali si ritrovano a dover prendere decisioni: siete in grado di dire quali effettivamente siano le
motivazioni per ognuno di loro?
19.
Il personaggio di Ernesto è interpretato da Mimmo Cuticchio, una figura particolare nel mondo dello spettacolo per la sua
multiforme attività ma, soprattutto, per aver tenuta viva una forma di teatro che si perde nella notte dei tempi. Informatevi, perché Cuticchio
appartiene alla storia dello spettacolo tutto
La donna che canta
•
Sinossi:
Quando il notaio Lebel, legge a Jeanne e Simon Marwan il testamento della loro madre Nawal, i gemelli restano scioccati
nel vedersi porgere due buste, una destinata ad un padre che credevano morto e l'altra ad un fratello di cui ignoravano
l’esistenza. Jeanne vede in questo lascito enigmatico, la chiave del silenzio di Nawal, chiusa in un mutismo inesplicabile
durante le ultime settimane precedenti la sua morte.
Decide di partire subito per il Medio Oriente per riesumare il passato di questa famiglia di cui non sa quasi nulla. Simon,
per quanto lo riguarda, non ha bisogno dei capricci postumi di quella madre che è sempre stata lontana e avara di
affetto ma il suo amore per la sorella lo spingerà presto a unirsi a Jeanne per setacciare insieme la terra dei loro antenati
sulle tracce di una Nawal ben lontana dalla madre che conoscevano.
Spalleggiati dal notaio Lebel, i gemelli risalgono il filo della storia di colei che ha dato loro la vita, scoprendo un destino
tragico marchiato a fuoco dalla guerra e dall'odio e il coraggio di una donna eccezionale.
Adattamento dell’opera di successo di Wajdi Mouawad, “La Donna che canta (Incendies)” è una travolgente ricerca
iniziatica che coniuga l'orrore della guerra al singolare, rivelando con forza una poesia d’eredità indelebile del ciclo della
violenza e la potenza inaudita della resistenza.
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Genere:drammatico
Regia:Denis Villeneuve
Titolo Originale:Incendies
Distribuzione:Lucky Red
Produzione:Luc Dèry e Kim McCraw
Data di uscita al cinema:21 gennaio 2011
Durata:130 min
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Sceneggiatura:Denis Villeneuve
Direttore della Fotografia:Andrè Turpin
Montaggio:Monique Dartonne
Scenografia:
Costumi:Sophie Lefebvre
Attori:Nawal Marwan, Jeanne Marwan, Simon Marwan, Notaire Jean Lebel
Destinatari:Scuole Secondarie di II grado
Approfondimenti:
LA PICCOLA STORIA DI UN’OPERA TEATRALE…
“La Donna che canta (Incendies)” è stata interpretata per la prima volta in Francia il 14 marzo 2003, presso l’Hexagone Scène Nationale de
Meylan, e in Quebec il 23 maggio 2003 al Théâtre de Quat'sous durante la decima edizione del Festival del Théâtre des Amériques, per la regia
di Wajdi Mouawad. Cast: Annick Bergeron (Nawal a 40 e 45 anni), Bernier Eric (Nihad), Gérald Gagnon (Ducharme Antoine) Andrée Lachapelle
(Nawal a 60 e 65 anni), Marie-Claude Langlois (Sawda), Isabelle Leblanc (Jeanne), Reda Guerenik (Simon), Isabelle Roy (Nawal da 14 a 19
anni), Richard Thériault (Hermila Lebel). Dopo la prima rappresentazione l’opera è stata rappresentata in Canada, Francia, Germania, Svizzera,
Belgio, Spagna, Finlandia, Stati Uniti, Australia e Italia.
WAJDI MOUAWAD Autore dell’opera teatrale Incendies Scrittore, regista, attore, direttore artistico
Rivelazione del teatro contemporaneo di questi ultimi dieci anni, Wajdi Mouawad è un artista completo che unisce la scrittura e la regia
all'interpretazione. Nato in Libano nel 1968, Mouawad è costretto ad abbandonare la sua terra natale all'età di otto anni a causa della guerra
civile. Iniziò un periodo di esilio con la sua famiglia che lo portò dapprima in Francia.
Dalla Francia, emigrò nuovamente e nel 1983 si stabilì definitivamente a Montreal. Qui ha terminato gli studi e si è diplomato in interpretazione
all’École nationale de théâtre Alla fine della scuola, ha recitato, ha scritto e messo in scena diversi spettacoli con il Théâtre Ô Parleur,
compagnia da lui fondata con Isabelle Leblanc. Nel 1990 e 1991, firma già tre opere.
La sua carriera di regista prende il via più o meno nello stesso periodo. In seguito, la sua carriera di regista gli dà modo di esplorare universi
tanto ricchi quanto eterocliti. Nel 1997, compie una svolta importante montando la sua opera Littoral (idea originale in collaborazione con
Isabelle Leblanc), esperienza che ripete con Rêves, e poi con Incendies e Forêts. Dal 2000 al 2004 assume la direzione artistica del Théâtre de
Quat’Sous di Montreal. E nel 2005, fonda due compagnie teatrali che si corrispondono da una parte all’altra dell'Atlantico: Abé carré cé carré
(che co-dirige con Emmanuel Schwartz), a Montreal, e Au carré de l’hypoténuse, a Parigi. Nel 2007 diviene direttore artistico del teatro francese
al National Arts Centre di Ottawa e, in parallelo, lavorando in stretta collaborazione con il Théâtre d'Aujourd'hui a Montreal.
Nel 2009, la sua associazione con il Festival d'Avignone consacra questo artista che, da oltre venti anni, mette in scena senza fanfare né
fragore un’opera la cui potenza drammatica s’impone oggi evidente. Questo stesso anno, questo ufficiale dell'Ordine del Canada e Cavaliere
dell'Ordine delle Arti e delle lettere si è visto conferire da l’Académie française, il Grand Prix du théâtre per il complesso della sua opera
drammatica.
DENIS VILLENEUVE Regista e sceneggiatore
Ritenuto uno dei registi più talentuosi della sua generazione, Denis Villeneuve ha rapidamente raggiunto l’attenzione di pubblico e critica per
film memorabili dalle immagini notevoli e dal sapore inedito. Il suo primo lungometraggio, Un 32 août sur Terre, nel 1998 viene presentato in più
di trentacinque festival internazionali, facendo in particolare parte delle selezioni ufficiali di festival come Cannes (una speciale attenzione),
Telluride e Toronto, oltre a rappresentare il Canada nella corsa agli Oscar nel 1999. Nel 2000, il suo secondo film, Maelström, è selezionato da
una quarantina di festival (tra cui Sundance e Toronto) e fa razzia di oltre 25 premi in tutto il mondo, tra cui il Premio Internazionale della Critica
(FIPRESCI) al Festival di Berlino 2001 e quello della SACD per la miglior sceneggiatura, nove premi Jutra e cinque premi Genie tra cui quello di
Miglior Film e Migliore Regia. È ancora lui a rappresentare il Canada per la corsa agli Oscar nel 2000. Nel 2008, il suo cortometraggio Next
Floor è stato insignito del Canal + come miglior cortometraggio alla settimana della Critica a Cannes, oltre ad essere presentata in oltre 60
festival in tutto il mondo, dove il film vince una dozzina di premi.
Nel 2009, il suo terzo lungometraggio, Polytechnique, vince gli spot pubblicitari. Dopo una prima mondiale al Quinzaine des Réalisateurs di
Cannes, il film è presentato in vari festival, tra cui Helsinki, Namur, Londra, Taipei e Gijon. Sulla base del successo di critica e pubblico, a
Polytechnique è stato recentemente assegnato il premio come il Miglior Film Canadese del 2009 da parte dell'Associazione dei critici
cinematografici di Toronto. Il suo quarto lungometraggio, “La Donna che canta (Incendies)”, un adattamento della commedia di Wajdi Mouawad,
è una co-produzione Canada-Francia girato in Quebec e in Giordania.
•
Spunti di Riflessione:
di Federica Pacifici
1.
Si può dire che ci siano due macro ambientazioni del film. Quali sono? È corretto dire che il punto di
partenza di questa “storia” sia il Canada? Secondo voi, qual è l’inizio della storia? La prima scena del film è,
in questo senso, di grande aiuto. Cosa rappresenta? Riflettete e date la vostra risposta.
2. Il regista Denis Villeneuve rende indefinibile il contesto mediorientale, non nominando mai chiaramente il
Paese in cui si svolge l’azione e utilizzando nomi di fantasia per le località attraversate da Nawal e dai suoi
figli, come se avesse l’esigenza di parlare della Guerra in generale e non di una guerra particolare. Secondo
voi perché?
3. “Voglio insegnare al mio nemico quello che la vita mi ha insegnato.” Quando Nawal pronuncia queste
parole, sta raccontando la sua storia a un giovane soldato. Cosa le era successo poco prima? Qual è il
significato di questa frase?
4. Un po’ di storia. Chi sono i cristiani maroniti e chi i falangisti? Documentatevi e commentate. La questione
Mediorientale: effettuate ricerche in merito Vi vengono in mente altri film che raccontano chiaramente di
questa guerra? Te ne suggerisco uno, ”Valzer con Bashir” di Ari Folman. Adesso documentati e crea una
filmografia da proporre in classe.
5. “1 più 1 non sempre è uguale a 2”. Il fascino razionale della matematica pura si oppone per natura al caos
familiare che il testamento di Nawal porta nella vita dei suoi figli. Come reagiscono Jeanne e Simon al
testamento della madre?
6. I gemelli non iniziano insieme questo viaggio. Jeanne sente per prima l’esigenza di partire mentre Simon la
raggiungerà più tardi e solo dopo una esplicita richiesta di aiuto. Perché hanno una reazione così diversa di
fronte alla richiesta di Nawal? Com’è possibile che “1 + 1” possa essere uguale a 1? Dopo aver visto il film
rispondete a questa domanda.
7. Il film deriva dalla omonima pièce teatrale del regista libanese Wajdi Mouawad. L’origine teatrale si avverte
nel progressivo inserimento di eventi drammatici e nei numerosi colpi di scena che rendono la struttura del
film simile a quella della tragedia greca. Siete d’accordo? Commentate. Quali sono le caratteristiche della
tragedia? Per rispondere aiutatevi recuperando le Unità aristoteliche, ovvero quella di tempo, di luogo e di
azione. Cosa sono e a cosa sono servite nella storia della narrazione tragica di origine e di derivazione
peloponnesiaca? Le Unità aristoteliche, di cui parliamo nella domanda precedente, sono riconoscibili anche
nel linguaggio cinematografico? Quali sono secondo voi le differenze tra cinema e teatro? Quando si
rappresenta un’opera teatrale o quando si costruisce un film? Quando un film si definisce “teatrale”, cosa si
intende secondo voi? Pensate ai film che conoscete che possano definirsi tali. Secondo voi La donna che
canta è un film teatrale?
8. Il regista mette in scena due personaggi dalla stessa incognita – credevano morto il padre e non sapevano
di avere un terzo fratello - e ne segue la soluzione del problema e la rivelazione dell'enigma, aprendo uno
squarcio storico sul sanguinoso percorso di costruzione dell’identità di un paese in guerra. Così facendo il
film fornisce materiale per un’analisi meno didascalica e più emotiva dei conflitti e delle contraddizioni del
Medio Oriente.
9. Quale significato avete letto nel film? Cosa voleva raccontare il regista con questa storia?
10. La guerra che ha stravolto la vita di Nawal e che Jeanne e Simon scopriranno, tassello dopo tassello, è
anche la storia della Guerra raccontata da una donna. Ci sono differenze nell’esperienza della Guerra vissuta
da un uomo, da una donna o da un bambino? Se ce ne sono potete elencarle?
11. Il progressivo inserimento, nella narrazione, di colpi di scena dai risvolti inimmaginabili risponde a una
funzione simbolica o metaforica? Se sì, in che modo?
12. La nonna di Nawal è un personaggio duro e commovente al contempo. Aiuterà la nipote a mettere al
mondo il suo primo figlio ma lei, in cambio, dovrà lasciare quella terra di odio, trasferirsi altrove e studiare.
La cultura è veramente un’arma che si oppone all’odio e alla rabbia? Quali sono gli aspetti su cui una società
dovrebbe costruirsi per perpetrare il sogno della pace e del rispetto tra esseri umani? 13. “Le idee
sopravvivono se c’è qualcuno a difenderle” Questo dice la giovane Nawal, studentessa, che crede nella pace
in un paese dilaniato dalla guerra civile. Pensate sia vero quello che dice? Secondo voi, quanto sono
importanti le idee? Idee o ideali? Rispondete a questa domanda.
14. “Niente è più bello che stare assieme. E interrompere il filo della rabbia”. Alla fine del film i gemelli
riusciranno nel compito affidatogli dalla madre. Consegneranno le lettere ai due destinatari. Cosa vuol dire
“interrompere la catena della rabbia”?
Vento di Primavera
Su Domenica 23 gennaio del Sole 24 ore Anna Foa in un bellissimo articoloragionava sull' "ipertrofia della memoria" in relazione
al moltiplicarsi degli eventi per il 27 gennaio, Giorno della Memoria, in cui si rende onore alle vittime del Nazifascismo e della
Shoah. Foa parlava di «necessità di un ripensamento o meglio di un approfondimento, non certo sulla necessità o meno di
ricordare, ma sul senso da dare a questa memoria…». Una risposta adeguata la dà il film di Rose Bosh, "Vento di Primavera", da
oggi nelle sale italiane.
Il film di Bosh, che racconta la deportazione degli ebrei del quartiere parigino di Montmatre, avvenuta nell'estate del '42, ha avuto
un successo incredibile in Francia. Tre milioni sono stati gli ingressi, cifre a cui ambiscono oltralpe solo commedie
particolarmente riuscite. «I fatti raccontati in questo film sono realmente accaduti, anche i più efferati e inverosimili» recita
all'incirca una scritta prima che la storia abbia il suo inizio. La verità è che "Vento di primavera" con un abile regia mostra la
Shoah sotto il metro di altezza, con gli occhi cioè dei bambini che l'hanno vissuta. La regista non eccede in nulla, perché i fatti
sono già crudi, per cui non c'è necessità di ricorrere all'esagerazione, né indugiare nella ferocia. Bosh semplicemente sceglie la
strada dei sentimenti dei bambini, che, agendo d'istinto, non sanno spiegarsi il perché di tanta insensatezza. E con loro nemmeno
il pubblico, che si immedesima perfettamente nello stupore infantile. Prima di venire rastrellati nei poveri condomini in cui vivono,
due dei protagonisti, Jo Weismann (Hugo Leverdez), biondissimo e bellissimo decenne scherza con l'amico fraterno Simon
Zygler (Oliver Cyvier) sul mito dell'aspetto ebraico, naso adunco e viso pallido, dimostrando entrambi di negare con il proprio
aspetto le assurde teorie fisiognomiche hitleriane. Quando vengono ammassati in 10mila nel velodromo d'inverno, senza acqua,
senza latrine funzionanti e con pochissimo cibo, la loro reazione è quella di correre e giocare nello scivolo di legno dove corrono
le biciclette, facendo imbestialire le guardie con scherzi continui. Lì operano il medico ebreo David Sheinbaum (un magnifico
Jean Reno) e la crocerossina, cristiana Anette, la Mélanie Laurent di "Bastardi senza Gloria e di "Il concerto". Anette è l'esempio
che non tutti i francesi erano conniventi con il programma di sterminio nazista, molti avevano reagito aiutandoli, molti agivano
sotto costrizione, pochi, pochissimi erano contenti.
La fine dei bambini ebrei la conosciamo dai libri di storia, ma forse per pudore non eravamo entrati nei loro sentimenti non ci
eravamo forse immaginati cosa volle dire per quei piccoli essere separati dai propri genitori, e salire ingenuamente sui vagoni
piombati. Sotto il nazifascismo poco si sapeva, oggi si sa tutto, ma è tutto lontano. Per rendere più vicina quella incredibile
tragedia basterebbe ricordare che genocidi si sono compiuti e si compiono anche al giorno d'oggi e più vicino a casa nostra di
quanto crediamo. Basterebbe leggere alcuni libri di storia recentissima, ad esempio Jose Pirjavec "Le guerre Jugoslave. 19911999" (Einaudi 2006), la cui prima edizione aveva in copertina uno dei tanti prigionieri dei campi di concentramento, vittime di una
pulizia etnica, avvenuta dieci anni fa. E Belgrado dista da Trieste tre ore di macchina. Daniele Scaglione ha da poco pubblicato
con Infinito "Randa. Istruzioni per un genocidio". Honoré Gatera, ha 30 anni scarsi, è il capo delle guide del Kigali Memorial
Center ed è uno dei sopravvissuti al massacro tra gli Hutu e Tutsi, avvenuto in Randa nel'94, dove in poco più di tre mesi fu
trucidato un milione di persone. Gatera gira il mondo per testimoniare ciò che ha visto.
L'orrore cambia colore ma non forme di esercizio. Perché la Shoah non si ripeta più, forse sarebbe utile raccontare ai bambini
anche quello che è successo a persone che hanno l'età dei loro cugini più grandi.
Vento di primavera
Anno
2010
Titolo Originale
La rafle
Durata
125
Origine
FRANCIA
Colore
C
Genere
DRAMMATICO, GUERRA, STORICO
Produzione
LÉGENDE FILMS, GAUMONT, LÉGENDE DES SIÈCLES, TF1 FILMS PRODUCTION,
FRANCE 3 CINÉMA, SMTS, KS2 CINÉMA, ALVA FILMS, EOS ENTERTAINMENT,
EUROFILM BIS
Distribuzione
VIDEA-CDE (2011)
Data uscita
27-01-2011
Regia
Roselyne Bosch
(Rose Bosch)
Attori
Jean Reno
Dott. David Sheinbaum
Mélanie Laurent
Annette Monod
Gad Elmaleh
Schmuel Weismann
Raphaëlle Agogué
Sura Weismann
Sylvie Testud
Bella Zygler
Anne Brochet
Dina Traube
Thierry Frémont
Capitano Pierret
Catherine Allégret
Portinaia 'Tati'
Isabelle Gélinas
Hélène Timonier
Hugo Leverdez
Jo Weismann
Mathieu Di Concerto Noè Zygler
Romain Di Concerto
Noè Zygler
Oliver Cywie
Simon Zygler
Rebecca Marder
Rachel Weismann
Sceneggiatura
Roselyne Bosch
(Rose Bosch)
Fotografia
David Ungaro
Musiche
Christian Henson
Montaggio
Yann Malcor
Scenografia
Olivier Raoux
Arredamento
Cécile Vatelot
Costumi
Pierre-Jean Larroque
Effetti
Thomas Duval
Trama Francia, luglio 1942. L'11enne Joseph vive insieme alla sua famiglia nella Parigi occupata dai Nazisti
e, insieme ad altre migliaia di ebrei, ha trovato riparo nel quartiere di Montmartre, dove spera di
riuscire a sopravvivere. Tuttavia, una mattina, tutti gli ebrei vengono rastrellati e ammassati al
Vélodrome D'Hiver e da lì condotti al campo di concentramento di Beaune-La-Rolande. In quel momento
si compiranno i destini di tutti: vittime e carnefici.
Critica "Un paradosso che sarebbe quasi comico se non fosse tragico. Molti film che sbandierano il tema
della memoria sono totalmente, imperdonabilmente privi di memoria. Prendiamo il sontuoso 'Vento di
primavera' (in originale 'La rafie', 'La retata'; sorvoliamo sull'assurdo titolo italiano). (...) Tristemente
nota ad ogni francese, la retata del Vel'd'Hiv non era mai stata oggetto di un film, sbandierano gli
autori. Ed eccoci serviti. In due ore scarse, tutto quello che non avremmo mai voluto vedere sul tema,
con un'estetica leccata da fiction tv che cozza penosamente contro il soggetto e i problemi di
rappresentazione che pone. È mai possibile, oggi, affrontare un film sulla Shoah accontentandosi di una
autorevole consulenza storica, senza porsi il minimo problema estetico? Come se le immagini fossero
tutte uguali, mentre da più di 60 anni sopravvissuti, storici, scrittori, registi, si interrogano su come
raccontare la Shoah. Altro che omaggio. Questo, malgrado le buone intenzioni, è un oltraggio alla
Memoria." (Fabio Ferzetti, 'Il Messaggero', 28 gennaio 2011)
"Piacerà a coloro che non hanno smesso di appassionarsi alle storie sull'Olocausto. Per 'La rafie' del Vel
d'Hiv' la Francia ha messo insieme una big production (grandi mezzi, un cast ricco di bei nomi)."
(Giorgio Carbone, 'Libero', 28 gennaio 2011)
"Si straparla di diritti dell'uomo, ma solo i cittadini hanno diritti. Lo ricorda "Il vento di primavera' (In
originale 'La rafie', ovvero 'La retata') di Roselyn Bosch. (...) Senza l'efficacia allusiva di 'Mr. Klein' di
Losey e dell' 'Ultimo métro' di Truffaut o il respiro storico di 'Laissez-passer' di Tavernier, 'Il vento di
primavera' ha dalla sua solo la dimensione del film tv, tempestato ora di didascalie ora di ridondanti
vocativi per far capire allo spettatore chi ha davanti. Il pathos è affidato alle vicende dei singoli qualsiasi
e dei loro bambini, uno dei quali (Hugo Leverdez) è preso come simbolo di una generazione sterminata.
Mélanie è l'infermiera che assiste la massa di deportati nella prima tappa del loro tragitto verso la
morte. Ma, appunto, la rappresentazione di morti veri meriterebbe qualcuno più abile di Roselyn Bosch."
(Maurizio Cabona, 'Il Giornale', 28 gennaio 2011)
"La giornalista-produttrice Rose Bosch colma oggi con 'Vento di primavera' ('La rafie') una lacuna
storica che dovrebbe provocare ancora vergogna e in patria ha interessato 3 milioni di spettatori
indignati. Documentata e discreta, l'autrice racconta nel film il rastrellamento degli ebrei francesi ad
opera dei tedeschi e dei connazionali collaborazionisti del regime di Vichy, addì Parigi, all'alba del 16
luglio '42. (...) E pochissimi i superstiti, come si evince dalla storia raccontata come un thriller di guerra
con attenzione 'truffautiana' alle psicologie violentate dei piccoli. (...) Risultato, un film di non scontato
valore educativo morale, dove i divi entrano nel gruppo e giocano la partita della Storia insieme coi
minorenni. Jean Reno è medico senza frontiere e Mèlanie Laurent, che già combattè i nazi con Tarantino
in 'Bastardi senza gloria', si riserva la zona più sentimentale oliando i meccanismi del cinema della
memoria, che è quasi come una tautologia." (Maurizio Porro, 'Corriere della Sera', 28 gennaio 2011)
"Soffia oggi in sala 'Vento di primavera', in occasione della Giornata della Memoria: diretto dalla
francese Rose Bosch, riporta al cinema la Shoah vista dal basso, con gli occhi di un bambino. Prove
convincenti degli attori, regia illustrativa, non mancano pathos né ombre che si allungano sul nostro
presente: come memento, 'La rafie' (titolo originale) può bastare." (Federico Pontiggia, 'Il Fatto
Quotidiano', 27 gennaio 2011)
"«Chissà se un giorno qualcuno farà un film su quello che ci è accaduto. No, credo che nessuno oserà
mai, perché è disumano». Quindici anni dopo queste affermazioni, ascoltate per caso in un
documentario, qualcuno ha osato: la regista Rose Bosch, che in 'Vento di primavera' ha voluto
raccontare la storia di Joseph Weissman e dei tredicimila ebrei deportati dai nazisti nei campi di
sterminio con la complicità del governo collaborazionista di Vichy. Una pagina in parte rimossa dalla
memoria collettiva della Francia. Un film necessario, dunque, come possono esserlo quelle opere che,
senza veli e ipocrisie, mettono popoli e nazioni a confronto con il proprio passato, per quanto doloroso e
imbarazzante possa essere. I fatti narrati sono tutti veri, come i personaggi. Parigi, estate 1942, la
Francia è sotto l'occupazione tedesca. E per gli ebrei il copione è tragicamente noto. (...) Con sensibilità
e senso di partecipazione - inserendo in controcampo scene delle riunioni del governo di Vichy e di
Hitler e della sua lugubre corte sulla terrazza del Berghof mentre, tra un cocktail e una torta, decidono
la sorte di milioni di persone, e - Bosch segue i destini incrociati di vittime e carnefici da Montmartre al
Vélodrome, da Beaune-La-Rolande fino all'hotel Lutetia, dove furono raccolti i sopravvissuti dopo la
liberazione. E racconta, con qualche libertà sui tempi dell'azione, le storie di quanti orchestrarono e
collaborarono a quell'orrore e ne portano per sempre il marchio d'infamia, la tragedia di coloro che
ebbero fiducia e vennero traditi, le vicende di quelli che si opposero o tentarono di farlo con coraggio e
a rischio della propria incolumità, e l'audacia di quanti riuscirono a fuggire. Come sottolinea la stessa
Rose Bosch - che durante tre anni di ricerche ha dovuto superare non pochi ostacoli, a conferma delle
zone d'ombra che ancora permangono - le sfide erano molteplici: «Come rappresentare una simile
barbarie restando il più possibile vicina al senso di umanità? Come girare frontalmente, senza abbassare
lo sguardo, ma senza rendere la vista delle scene intollerabile? Come mostrare la violenza senza
mascherarla, ma senza nemmeno sublimarla? E come rendere giustizia ai 'Giusti' di Francia, coloro che
hanno aiutato gli ebrei, senza dare l'impressione di voler unicamente fornire ai francesi una coscienza
pulita?». Per affrontarle la regista assume diversi punti di vista. Quello dei bambini prima di tutto,
ingenuo ma acuto. Poi quello dell'infermiera Annette Monod - emblema di quanti cercarono di opporsi a
quella vergogna e riconosciuta da Israele "Giusto tra le nazioni" - che tenta di incidere nella coscienza
dei soldati suoi connazionali chiedendo loro di disobbedire a quegli ordini immorali e disumani. Ma allo
stesso tempo prova anche a mettere lo spettatore al centro dell'azione, affinché anch'egli possa sentirsi,
per quanto possibile, umiliato, ingannato, maltrattato. Quanto ai francesi che non restarono muti
osservatori, oltre che dal personaggio di Annette, la gratitudine passa anche attraverso altre figure
secondarie che compaiono nel film ma che esprimono partecipazione e condivisione del dramma degli
ebrei. Del resto, come si legge prima dei titoli di coda, il mattino della retata ben dodicimila persone
inserite nelle liste di Vichy riuscirono a rendersi irreperibili. In un Paese occupato e con un governo
tanto condiscendente non avrebbero potuto trovare rifugio se non nelle case dei vicini che accettarono
di ospitarli pur consci del pericolo che correvano. Ma è altrettanto vero che dei tredicimila ebrei
prelevati quella mattina di luglio sopravvissero solo in 25, e nessuno dei 4.051 bambini finiti sui treni.
(...) Ma la regista vuole stemperare ancora di più l'angoscia, regalando un finale consolatorio e aperto
alla speranza.(...) E se c'è un'immagine simbolo dell'orrore raccontato da Vento di primavera - film
intenso per quanto didascalico - è sicuramente quella di Nono (...) Nella realtà quel bimbo si chiamava
Jacquod. E non tornò." (Gaetano Vallini ©L'Osservatore Romano - 29 gennaio 2011)
Le donne del 6 piano
Anno
2011
Titolo Originale
Les femmes du 6ème étage
Altri titoli
Service Entrance
Durata
106
Origine
FRANCIA
Colore
C
Genere
COMMEDIA
Specifiche tecniche
35 MM (1:1.85)
Produzione
VENDOME PRODUCTION, FRANCE 2 CINEMA, SND CON LA PARTECIPAZIONE DI
CANAL +, CINECINEMA, FRANCE TELE VISIONS
Distribuzione
ARCHIBALD FILMS
Data uscita
10-06-2011
Regia
Philippe Le Guay
Attori
Fabrice Luchini
Jean-Louis
Sandrine Kiberlain
Suzanne
Natalia Verbeke
Maria
Carmen Maura
Concepción
Lola Dueñas
Carmen
Berta Ojea
Dolores
Nuria Sole
Teresa
Concha Galán
Pilar
Marie-Armelle Deguy
Colette de Bergeret
Muriel Solvay
Nicole de Grandcourt
Audrey Fleurot
Bettina de Brossolette
Annie Mercier
Madame Triboulet
Michèle Gleizer
Germaine
Camille Gigot
Bertrand
Jean-Charles Deval
Olivier
Philippe Duquesne
Gérard
Christine Vézinet
Valentine
Jeupeu
Idraulico
Vincent Nemeth
Signor Armand
Philippe du Janerand
Piquer
Patrick Bonnel
Goimard
Laurent Claret
Blamond
Thierry Nenez
Pescivendolo
José Etchelus
Sacerdote
Jean-Claude Jay
Pelletier
Joan Massotkleiner
Fernando
Ivan Martin Salan
Miguel
Sceneggiatura
Philippe Le Guay
Jérôme Tonnerre
Fotografia
Jean-Claude Larrieu
Musiche
Jorge Arriagada
Montaggio
Monica Coleman
Scenografia
Pierre-François Limbosch
Costumi
Christian Gasc
Trama Parigi, 1962. Jean-Louis e Suzanne Joubert non sono più giovani. Questo agente di cambio
e sua moglie vivono una tranquilla esistenza borghese in un elegante edificio. La loro vita
potrebbe considerarsi monotona, soprattutto da quando i bambini sono stati spediti in
collegio. Le cose, invece, sono più vivaci al sesto piano del loro palazzo, dove vivono alcune
domestiche spagnole: sei donne di età diverse che hanno abbandonato la Spagna franchista
per cercare lavoro in Francia. Jean-Louis si ritrova sempre più attratto dal loro mondo così
diverso dal suo. Il motivo principale del suo coinvolgimento è Maria, la nuova domestica
giovane e volitiva, per la quale quest'uomo, brizzolato sia fuori che dentro, sviluppa
un'innocente passione, che lo spinge a salire al sesto piano con crescente regolarità, anche
per godere di quell'atmosfera vivace e amichevole così piacevole. Ma più impara a conoscere
questo mondo, più gli viene difficile ritornare a casa. Naturalmente, il comportamento di
Jean-Louis desta sospetti e gelosie nella moglie, che alla fine decide di buttarlo fuori di
casa...
Critica "Andante con brio, il film si dirige rapidamente verso i luoghi più comuni della
commedia romantica. (...) Inutile dire che la paella risulterà più buona di un uovo alla coque
cotto per 3 minuti e mezzo esatti." (Mariuccia Ciotta, 'Il Manifesto', 15 febbraio 2011)
"Divertente infine la commedia francese fuori concorso di Philippe Le Guay, 'Les femmes du
6ème étage' ambientato nel 1962 in un elegante edificio parigino. " (Alessandra De Luca,
'Avvenire', 15 febbraio 2011)
"Fabrice Luchini è bravissimo, dovrebbe ogni tanto stare attento ai copioni. "Le signore del
sesto piano" per metà funziona, con qualche risata originale, e per metà gronda buoni
sentimenti." (Mariarosa Mancuso, 'Il Foglio', 17 febbraio 2011)
"Anche qui si strizza l'occhio ai cari vecchi stereotipi Europei, e Jean-Louis, prima ancora
delle avanches sessuali, chiede alla sua cameriera se gli può cucinare una bella paella.
L'uomo è ciò che mangia e ama chi cucina bene?" (Masismo Benvegnù, 'Il Riformista', 17
febbraio 2011)
"Nella Parigi dei Sessanta la felicità parla spagnolo e vive nascosta in mansarda. L'austero
broker Luchini (perfetto) ne è travolto, tanto da lasciarsi cambiar la vita in movida. A spese
(di cari alimenti) di una moglie old style (Kimberlain) incurante delle mutazioni sociopolitiche in corso. Perché soprattutto di questo è metafora il delizioso nuovo film di Le Guay:
una commedia garbata e intelligente, nata dai ricordi del regista allevato da tata iberica. Il
popolo delle migranti da oltrepirenei fu registrato come un fenomeno della Francia agli albori
dei moti sessantottini: un 'ciclone' di domestiche vivaci e coraggiose pronte a sgobbare per
guadagnarsi da vivere. Ma senza perdere un briciolo di dignità. Un dato, questo, che il
protagonista borghese ma illuminato saprà apprezzare e far proprio. Applaudito all'ultima
Berlinale, da gustare e meditare." (Anna Maria Pasetti, 'Il Fatto Quotidiano', 9 giugno 2011)
"Diretto dal regista di 'Il costo della vita', altra commedia che versava tesori di intelligenza in
una forma lieve come l'aria, 'Le donne del sesto piano' trasforma i ricordi dell'infanzia dorata
di Le Guay in un film divertente e spesso toccante che rivisita l'eterno rapporto fra servi e
padroni senza cadere in nessuna delle banalità (o delle volgarità) che si potrebbero temere.
(...) Il sapore del film si concentra soprattutto nel chiassoso gruppo di signore nero-vestite
che abitano stanzette anguste senza bagno, le famose 'chambres des bonnes', ma sono una
vera miniera di storie, passioni, buonumore. Impossibile citarle tutte, ricordiamo almeno
Natalia Verbeke e Carmen Maura. Un film da non perdere insomma, malgrado le debolezze
della seconda parte. Sperando che prima o poi qualcuno anche in Italia trovi il coraggio (e il
garbo, l'umorismo, l'acutezza) per raccontare come migliaia di filippine o peruviane hanno
cambiato - o meno, sospettiamo - le nostre classi alte." (Fabio Ferzetti, 'Il Messaggero', 10
giugno 2011)
"Spagnole a Parigi nei Sessanta. Tutte domestiche perché erano, in quegli anni, le filippine di
oggi qui da noi. (...) L'incarico di raccontarci questa favoletta se l'è assunto, scrivendosi
anche il testo, Philippe Le Guay di cui si son già viste anche nelle nostre sale delle commedie
con morale gentile, tipo, fra le più recenti, 'Il costo della vita', interpretata, come il film di
oggi, da Fabrice Luchini, accompagnato, in quella occasione, da Vincent Lindon. Qui si cerca il
più possibile di tenersi in equilibrio fra i sentimenti e certe ironiche notazioni di costume. Si
fa il punto su quella comunità spagnola tutta al femminile divisa tra devote e ribelli (in
Spagna c'è ancora Franco), si tratteggia un po' quel quadretto familiare con l'intenzione di
far sentire quanto il protagonista, pur bravo borghese, ne abbia una certa insofferenza specie
quando comincia a confrontarne la freddezza con il genuino calore che scaturisce dalle
abitanti del sesto piano. Tutto, però, più solo enunciato che non approfondito, con un disegno
dei caratteri che, eccezion fatta per quello del protagonista, non è mai precisato a
sufficienza: con il rischio, in tutti gli altri, di perdersi nel vago. Fabrice Luchini, al centro, non
smentisce la sua fama, affidandosi molto più ai toni sfumati che non a quelli incisi. Come il
suo personaggio chiedeva." (Gian Luigi Rondi, 'Il Tempo Roma', 10 giugno 2011)
"Di famiglia agiata, il regista Le Guay ha avuto modo da bambino di sperimentare l'allegria e
il calore trasmessi dalle immigrate spagnole che, nel periodo a cavallo degli anni 50/'60,
affluirono numerose a Parigi per fare le cameriere. E questa sua memoria infantile a
riverberare una tenera nostalgia sulla commedia, ambientata in un elegante condominio
dove - come di prammatica allora - il personale vive nei locali sotto tetto. (...) Le Guay gioca
di sfumature e contrasto di toni per rispecchiare una contrapposizione di classe destinata a
cadere sotto la mozione dei sentimenti; e nell'indovinato cast spicca Luchini, al solito
fantastico nella sua capacità di far emergere l'umanità e la simpatia in personaggi altrimenti
gelidi e isterizzati." (Alessandra Levantesi Kezich, 'La Stampa', 10 giugno 2011)
"Possiamo garantire ai futuri spettatori che il Fabrice Luchini protagonista di 'Le donne del 6°
piano' gli regalerà una prestazione (nonostante il doppiaggio) impareggiabile, un mix di
espressioni, gesti e movenze dalle sfumature raffinate ed esilaranti, uno di quei ritratti più
veri del vero destinati a restare senza dubbio nel pantheon del cinema europeo. Risulta,
dunque, evidente che il film di Philippe Le Guay vada visto e assaporato a tutti i costi,
battendo in breccia la diffidenza che in Italia si nutre nei confronti della produzione, anche
popolare, made in France. Le ragioni primarie sono almeno tre: da un accattivante excursus
storico il regista sa estrarre i dati significativi, senza ingessarli in freddi report sociologici; la
topografia determina l'evoluzione dei persona, come se dal terreno di una piacevole
commedia dolceamara fossimo risucchiati in una spirale hitchcokiana; l'esercizio del potere
fisico, culturale e psicologico che gli uomini e le donne «resettano» in base a input di classe,
sesso ed età vi è analizzato con una varietà di toni e un'acutezza di riscontri degne di un
trattatello neo-illuminista. (...) Il regista è abile e sottile nell'utilizzare la scoperta di questo
microcosmo femminile come chiave di volta per la progressiva fuoriuscita di Jean-Louis da se
stesso: non è solo questione di sensi (...), bensì del rigetto di un percorso esistenziale
timorato, pedante e castrante in nome della duplice riconquista dell'utopia e dell'allegria."
(Valerio Caprara, 'Il Mattino', 10 giugno 2011)
"Sbaglia chi liquida l'ottimo 'Le donne del 6° piano' come un film sull'eterna divisione tra
classi sociali, dove i borghesi vengono demonizzati ed i poveri osannati. E non è un inno alla
vera ricchezza spirituale che conta più di quella materiale. O meglio, la pellicola diretta da
Philippe Le Guay è anche questo ma non solo. Un racconto molto più complesso, ricco, che
offre allo spettatore diverse chiavi di lettura, ognuna meritevole di un approfondimento. Un
film che parla di solitudine, di amore, di amicizia, di sofferenza, di pregiudizi duri da
abbattere (da entrambe le parti), di comunità che diventano famiglie allargate, di
incomunicabilità. (...) Può apparire una favola (il borghese che si trasferisce sul piano delle
serve) ma ci pensa Le Guay a respingere il pensiero di questa utopia facendo passare per
scandalo, anche tra le domestiche, ciò che è impensabile per il comune sentire. Cast perfetto
(spicca la Maura tra le spagnole) e regia sublime per uno dei più bei film di questo sterile
2011." (Maurizio Acerbi, 'Il Giornale', 10 giugno 2011)
"Piacerà a chi apprezza la commedia francese quando è animata da verve veramente
francese. Luchini è impagabile come borghese piccolo piccolo." (Giorgio Carbone, 'Libero', 10
giugno 2011)
Note - FUORI CONCORSO AL 61. FESTIVAL DI BERLINO (2011).
Intervista
Nonostante sia reduce da un immenso successo di pubblico in Francia, con più di due milioni di presenze in sala,Philippe
Le Guay presenta il suo Le donne del 6° piano alla stampa romana con una modestia e una generosità poco comuni.
Innanzitutto si scusa di non parlare italiano, mentre racconta di aver dovuto imparare lo spagnolo perché due delle “sue
donne”, le interpreti dei personaggi di Dolores e Pilar, non parlavano per nulla il francese (cosa che comunque gli ha
regalato il piacere di poter dare istruzioni alle sue attrici senza che il protagonista, Fabrice Luchini, comprendesse nulla,
mandandolo regolarmente in ansia). Ma chi sono queste donne del sesto piano? Delle chiassose e vivaci domestiche
spagnole che abitano il sottotetto di un immobile borghese al centro di Parigi e cambiano per sempre lavita di un rigido
agente
di
borsa
e
padre
di
famiglia:
uno
straordinario,
comme
d’habitude,Fabrice
Luchini.
Nel
cast,
anche
la
bella Natalia
Verbeke,
nel
ruolo
della
servetta
Maria,
e Carmen
Maura.
Perché
un
regista
francese
decide
di
lavorare
con
un
cast
quasi
tutto
spagnolo?
La motivazione principale che mi ha spinto a fare il film era esattamente quella di lavorare con delle attrici spagnole. Siamo
in Europa, ma giriamo sempre con i nostri attori nazionali. Ho pensato alle attrici dei film di Almodovar, Carlos
Saura, Bunuel, che ho amato tanto, poi mi sono ricordato dell’episodio storico dell’arrivo di un’ondata di governanti
spagnole in Francia negli anni Sessanta e ho desiderato ardentemente fare questo film. Il produttore mi ha sostenuto, sono
andato a Madrid tre settimane per il casting: alla mattina andavo al Prado e al pomeriggio, quando vedevo le attrici per i
provini,
mi
pareva
di
rivedere
i
volti
dei
dipinti
di
Goya
e
Velasquez.
A questo proposito, mi preme specificare che l’immigrazione di cui parlo non è l’immigrazione politica che è seguita alla
guerra civile, ma è l’immigrazione essenzialmente economica che negli anni tra il 1955 e il 1965 ha portato molti abitanti
delle zoni rurali della Spagna a trasferirsi per lavoro in Francia. C’erano anche molti uomini tra loro, ma io mi sono
interessato alle donne. Non invidio i registi che fanno i film di guerra o di azione con attori tutti uomini e troupes di soli
uomini:
dev’essere
una
gran
noia.
Che impressione avete trattenuto, con lo sceneggiatore Jérome Tonnerre, dai colloqui fatti con le vere ex
domestiche
spagnole
che
hanno
lavorato
in
Francia
quarant’anni
fa?
Nei ricordi delle donne che abbiamo intervistato c’era moltissima gioia. Nonostante lavorassero dalle 6 del mattino alle 11
di sera, erano felici di essere lontane dal franchismo e dall’oppressione maschile di padri e mariti. La sera stavano in
compagnia, uscivano, andavano a vedere i match di box. Erano libere. In quell’esperienza c’era un principio di
emancipazione.
Il
progetto
del
film
ha
una
genesi
autobiografica?
In parte. Nasce sicuramente da un ricordo della mia infanzia. Mia mamma ad un certo punto assunse davvero una
domestica spagnola, che si chiamava Lourdes, con la quale io trascorrevo la maggior parte del mio tempo, quando ero
molto piccolo. Al punto che pare parlassi un misto di spagnolo e francese. Se c’è uno psicanalista in sala potrà facilmente
capire che alla base di questo film c’è l’amore deluso che ho provato per quella donna. E poi c’è mio padre che,
come Luchini nel film, faceva l’agente di borsa e veniva da tre generazioni di agenti di borsa, che io ho interrotto facendo
del cinema. Come il personaggio, mio padre aveva un’aria un po’ distante, da sognatore, era un po’ fuori da quel suo
mondo. Purtroppo lui non si è mai trasferito al sesto piano con le domestiche. D’altronde è esattamente per questo che si
fanno
i
film:
per
immaginare
altre
vite,
altre
possibilità,
per
sognare.
Lei
si
sente
più
affine
al
personaggio
di
Luchini
o
dei
suoi
figli?
Spero di non assomigliare troppo a questi ragazzini, a dire la verità. Sono ancora più rigidi di loro padre, più borghesi di lui;
rappresentano
la
legge.
Nella
realtà
accade
spesso,
se
ci
fate
caso.
Anche gli italiani, specie quelli della regione delle Langhe, in passato sono emigrati in Francia. Come gli spagnoli,
avevano
origini
rurali
e
una
forte
fede
cattolica.
Si, sono a conoscenza anche di questa ondata migratoria. Nel mio film non a caso ho scelto Luchini, che è figlio di
immigrati italiani, e Sandrine Kiberlain, che è figlia di immigrati polacchi. Quegli anni testimoniano di una grande possibilità
di integrazione, mentre ora la Francia è più chiusa, le leggi più violente, lo straniero è visto come una minaccia. Con questo
film
volevo
ricordare
il
grande
valore
della
diversità.
Nel
film
la
visione
proposta
è
piuttosto
utopistica…
Certo: l’utopia che il borghese possa trasferirsi “al sesto piano”. Perché ci fosse del realismo ho voluto un personaggio non
troppo consapevole, non volevo un Che Guevara, ma qualcuno che scoprisse per caso qualcosa che non conosceva e
finisse per farsi contaminare. Il principio di realtà è portato, invece, dai suoi figli e dal personaggio di Carmen Maura, che fa
di tutto per impedire la relazione tra il padrone e la domestica, convinta che ognuno debba restare al suo posto. È una
credenza,
questa,
che
esiste
da
entrambe
le
parti.
Allo stesso modo, ho usato l’incoscienza del personaggio principale per smorzare il clichè del padrone che si innamora
della servetta: Jean-Louis è attratto da Maria ma non ne è pienamente e immediatamente cosciente. Soprattutto, è attratto
dal
gruppo,
dall’insieme
di
quelle
donne,
non
solo
dalla
singola
Maria.
Che
tipo
di
pubblico
ha
decretato
il
dilagante
successo
del
film
in
Francia?
All’inizio il pubblico era decisamente maturo. Un giorno, passando davanti ad una sala dove proiettavano il mio film, mi
sono interessato all’entrata su come andavano le presenze e allora mi hanno pregato di entrare e di dire due parola alla
fine della proiezione. Ho detto: “ma prima dei titoli di coda se ne saranno andati già tutti”. Mi hanno risposto: “non si
preoccupi, sono tutti vecchietti, ora che recuperino le borse e gli ombrelli e si alzino in piedi…. avrà tutto il tempo!” Poi,
però, il pubblico si è man mano variegato; sono andati a vedere il film dei ragazzi che non conoscevano la Francia degli
anni ’60 e non sapevano nemmeno cos’era un “6° piano”. Ma c’è uno spirito di co munità, in questa storia, che è molto
francese
e
rimanda
al
teatro
di
Marivaux
e
Molière
e
al
cinema
di Sacha
Guitry e Jean
Renoir.
Il suo film è tenero con le domestiche spagnole ma molto duro con le signore francesi…
Non con il personaggio della moglie, però. Lei non è come le sue amiche, viene dalla provincia e in Francia questo faceva
moltissima differenza: è una donna più semplice e naturale, non giudica il marito, cerca di capire. E alla fine anche lei
evolve
a
suo
modo,
cambia.
È lecito pensare che il protagonista stia attraversando la cosiddetta crisi di mezza età?
Io ci vedo piuttosto un uomo un po’ addormentato che ad un certo punto si risveglia. Avrei adorato fare il film
conMastroianni, se fosse stato ancora vivo.
Into Paradiso
Anno
2010
Durata
104
Origine
ITALIA
Colore
C
Genere
COMMEDIA
Produzione
FABRIZIO MOSCA PER ACABA PRODUZIONI IN ASSOCIAZIONE CON
CINECITTÀ LUCE
Distribuzione
CINECITTÀ LUCE (2011)
Data uscita
11-02-2011
Regia
Paola Randi
Attori
Gianfelice Imparato
Alfonso D'Onofrio
Saman Anthony
Gayan
Peppe Servillo
Vincenzo Cacace
Eloma Ran Janz
Giacinta
Gianni Ferreri
Colasanti
Shatzi Mosca
Venezia
Soggetto
Paola Randi
Michela Bozzini
Stefano Voltaggio
Sceneggiatura
Antonella Antonia Paolini
Paola Paolini
Luca Infascelli
Chiara Barzini
Pietro Albino Di Pasquale (collaborazione)
Fotografia
Mario Amura
Musiche
Fausto Mesolella
Montaggio
Gianni Vezzosi
Scenografia
Paki Meduri
Costumi
Mariano Tufano
Effetti
Paola Trisoglio
Stefano Marinoni
Paola Randi
Daniele Stirpe Jost
Visualogie
Trama Alfonso, timido e impacciato scienziato napoletano disoccupato, e Gayan, affascinante ex campione di
cricket srilankese che non ha più un soldo e che è giunto a Napoli in cerca del Paradiso, si troveranno loro
malgrado obbligati a convivere in una catapecchia eretta abusivamente sul tetto di un palazzo nel cuore del
quartiere srilankese della città partenopea. La paradossale situazione farà nascere tra i due una speciale
amicizia che li aiuterà a trovare il coraggio di cambiare il loro destino per sempre.
Critica "Ecco rappresentata, fuori di metafora, la condizione della convivenza, lo stare insieme per forza e il
dividere lo stesso spazio da parte di persone di cultura ed estrazione sociale diversa. Passato a Venezia nella
sezione Controcampo, 'Into Paradiso' segna l'esordio al lungometraggio di Paola Randi, regista milanese (e qui
c'è già la prima sorpresa, dato che per una volta lo sguardo su Napoli non è appannaggio esclusivo dei
napoletani) che ha alle spalle esperienze varie ed extra-cinematografiche (...) che le hanno regalato quello
sguardo in più su realtà e modi per raccontarla. Infatti, 'Into paradiso' si segnala non solo per il tema legato
all'integrazione e alla convivenza tra genti diverse, non solo etnie ma anche gruppi sociali, italiani con gli
stranieri e stranieri con gli stranieri, ma soprattutto per quel tono e per quello sguardo originale e obliquo con
cui guarda a queste cose. Una fotografia vistosa, una scenografia che è già personaggio (questa Napoli sopra i
tetti), un gruppo d'attori sorprendente (Peppe Servillo severo e morbido alla stesso tempo, Imparato
maschera comprensiva), musiche originali di Fausto Mesolella, chitarrista degli Avion Travel.." (Dario Zonta,
'L'Unità', 11 febbraio 2011)
"Che cosa ci fanno insieme uno scienziato che ha appena perso il lavoro, un ex-campione di cricket venuto
dallo Sri Lanka a Napoli per fare il badante, un politico colluso e corrotto, più un imprecisato numero di killer
della camorra in cerca di una pistola che scotta? Semplice: danno vita alla commedia più insolita, strampalata
e sofisticata vista da molto tempo in qua nel nostro cinema: 'Into Paradiso' dell'esordiente Paola Randi,
40enne milanese che viene da pittura, teatro e videoarte. Insolita per l'ambientazione (...). Strampalata
perché cala situazioni classiche (...) in mondi di grande esuberanza espressiva (...). Sofisticata perché su
questo impianto non inedito innesta un gusto delle psicologie, dell'ambientazione, dei dettagli, ovvero una
quantità di idee visive e di racconto, forse unica per il nostro cinema. Senza entrare nei dettagli, basti dire che
'Into Paradiso' (...) usa la biologia molecolare e le telenovelas, le regole del cricket e quella della cucina
srilankese, per orchestrare dialoghi e situazioni, con uno sguardo lieve ma non banale su quella convivenza fra
mondi e culture che è uno degli snodi fondamentali della modernità. (...) Ma è un rischio che si corre
volentieri: fare cinema significa anche trovare l'economia giusta, di racconto e di produzione. E 'Into Paradiso',
col suo cast senza stelle e la sua andatura senza inciampi finisce per essere più comico, poetico e inventivo di
film con ben altre strutture e ambizioni alle spalle." (Fabio Ferzetti, 'Il Messaggero', 11 febbraio 2011)
" Ognuno può trovare un suo 'Paradiso', anche se ha contorni davvero poco affascinanti. Quello che
l'esordiente Paola Randi - milanese trapiantata a Roma ma innamorata del sud - va a scovare lì dove proprio
non si pensa, sui tetti malridotti dei quartieri derelitti e di cadente nobiltà dove nasce una amicizia
transculturale tra lo spaesato scienziato italiano Alfonso (...), che è Gianfelice Imparato, e un divo sportivo
asiatico proletarizzato, Gayan (Saman Anthony). (...) La commedia, che non disdegna l'uso dell'animazione
(...), e a volte si inebria di esotico, si avvale di una acida performance di Peppe Servillo e polemizza a distanza
con recenti commedie che avrebbero ridicolizzato gli 'emigranti cingalesi nel mondo' ma soprattutto l'onore
delle autorità di Colombo, non proprio di specchiata moralità (il gioiello di Pasolini, per esempio). Così, tra i
festoni della comunità, isolata nell'ambito del Cavone, una delle zone più popolari e più degradate della
metropoli, e regolamenti di conti camorristici, al limite tra il burlesco e il drammatico, si snoda la caotica
esistenza quotidiana della metropoli multi-culturale dove i ragazzini giocano con bastoni e wicket sotto la
statua di Dante mentre gli immigrati accettano, con serafica quiete orientale, di trasformarsi in badanti delle
signore della Napoli altolocata." (Roberto Silvestri, 'Il Manifesto', 11 febbraio 2011)
"Una città, Napoli, e tre uomini: lo scienziato licenziato e stralunato Gianfelice Imparato, il politico colluso con
la camorra Peppe Servillo e un ex campione di cricket srilankese (il deb Saman Anthony), costretti a convivere
in un attico fatiscente del Cavone per sottrarsi ai sicari. Diretto dall'esordiente milanese Paola Randi, è 'Into
Paradiso', commedia low budget surreale e scanzonata che fotografa un'Italia multietnica, dove precari e
migranti si nutrono della stessa crisi d'identità, ma senza drammatizzare. Ottimi e affiatati gli attori, modeste
le pretese sociologiche, sobriamente fantasioso lo stile, un piccolo film che merita una possibilità, se non altro,
perché crede: nel potere immaginifico del cinema e nell'implosione della camorra." (Federico Pontiggia, 'Il
Fatto Quotidiano', 11 febbraio 2011)
Note - SUONO IN PRESA DIRETTA: DANIELE MARANIELLO.
- REALIZZATO CON IL SOSTEGNO DEL MINISTERO PER I BENI E LE ATTIVITÀ CULTURALI, CON IL
CONTRIBUTO DELLA REGIONE CAMPANIA, ASSESSORATO AL TURISMO E AI BENI CULTURALI CON LA
COLLABORAZIONE DI FILM COMMISSION REGIONE CAMPANIA.
- IN CONCORSO ALLA 67. MOSTRA INTERNAZIONALE D'ARTE CINEMATOGRAFICA DI VENEZIA (2010) NELLA
SEZIONE 'CONTROCAMPO ITALIANO'.
- CANDIDATO AL DAVID DI DONATELLO 2011 PER: MIGLIOR REGISTA ESORDIENTE, MUSICISTA,
SCENOGRAFO ED EFFETTI SPECIALI.
- FABRIZIO MOSCA E' STATO CANDIDATO AL NASTRO D'ARGENTO 2011 COME MIGLIOR PRODUTTORE
(ANCHE PER "UNA VITA TRANQUILLA" DI CLAUDIO CUPELLINI).