Start-up non è sinonimo di sviluppo e per

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Start-up non è sinonimo di sviluppo e per innovare non
bastano le leggi
Author : Riccardo Emmolo
Categories : Ricerca e innovazione
Date : lug 10, 2014
Quando si affrontano i temi dello sviluppo economico e dell’innovazione c'è un termine che
crea eco più di tutti gli altri: il termine è start-up; una parola che si è introiettata nelle nostre
conoscenze individuali con il significato di “nuova impresa”, o “impresa innovativa”,
o “azienda giovane e tecnologica” e così via.
Qualunque sia l’accezione che si voglia adottare il termine start-up sembra comunque
univocamente associato all’idea di modello virtuoso, di formula incerta ma desiderabile al fine
di un successo commerciale e, in senso più generale, di uno sviluppo economico e produttivo.
Le ragioni di una simile fiducia nella parola – attenzione, non nel modello - start-up sono
senz’altro riconducibili alle suggestioni provenienti dalle dirompenti epopee di piccole imprese
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nate nel “box sotto casa”, per lo più statunitensi, tecnologicamente innovative, che in breve
tempo hanno scalato indici azionari, creato nuovi mercati, o, più modestamente, innovato servizi
e prodotti attraverso formule radicalmente nuove. E’ forse dunque da queste suggestioni che in
Europa, e dunque anche nel nostro Paese, ci si è cominciato, negli ultimi anni, a domandare
come “addomesticare” il fenomeno start-up per poter raccogliere e moltiplicare con profitto i
risultati di questa tendenza produttiva che evoca implicitamente la svolta nel cruciale passaggio
dalla ‘Società della Produzione’ alla ‘Società della Conoscenza’ (ovvero la chiave di volta
del programma Horizon2020).
Start-up in Italia
Durante la legislatura del Governo Monti, sulla questione start-up, sembrò avviarsi una decisa
accelerazione attraverso la conversione in legge con modifiche del D.L. del 18 ottobre 2012
n.179 (“Ulteriori misure urgenti per la crescita del Paese”) effettuata mediante la L. del 17
dicembre 2012 n. 221, con particolare riferimento alla sezione IX (“Misure per la nascita e lo
sviluppo di imprese innovative”). Tuttavia, dopo due anni la legge è stata recepita al livello
ministeriale attraverso il D.M. del 30 gennaio 2014, cofirmato da MEF e MISE. Nel decreto, in
buona sostanza, vengono definiti alcuni requisiti minimi per discriminare ciò che è start-up da
ciò che non lo è, nonché le relative misure in materia di agevolazione fiscale e le condizioni di
acceso ai benefici previsti. Dall’iniziativa legislativa è dunque emersa l’esigenza pratica di
istituire presso le Camere di Commercio il Registro delle Imprese Innovative, nel quale
troviamo attualmente iscritte 2221 start-up (in cui sono confluite come da decreto - D.L. 18
ottobre 2012 – aziende con non più di 48 mesi di attività alle spalle). L’istituzione di un
registro in effetti sembra il naturale corollario della logica legislativa espressa nei decreti
succitati, ma la realtà è che, indagando alle radici del fenomeno start-up - come abbiamo fatto
sommariamente in questo articolo - ci si accorge di quanto tutta la vicenda abbia qualcosa di
paradossale.
Start-up negli Stati Uniti (e non solo)
Come già accennato nei dibattiti intorno al fenomeno start-up sembra ormai quasi un riflesso
incondizionato rivolgere l'attenzione a quanto accade (o è già accaduto) negli Stati Uniti. Ma
una lecita composizione di osservazioni - come quella qui presentata - non va affatto confusa
con la tentazione di voler impalcare i termini di un paragone, o confronto, tra realtà
dimensionalmente e qualitativamente molto diverse tra loro. A tal proposito vale la pena però
ricordare che il termine start-up, nel linguaggio economico-aziendale anglosassone, sta ad
indicare una “fase” del percorso evolutivo di un'azienda. Nello specifico la fase di start-up è
collocata immediatamente dopo quella di ‘seed’ (fase in cui si svolgono i primi approcci di
ricerca e/o sviluppo di prototipo) e appena prima della fase di ‘first stage’ (ovvero la fase di
prima commercializzazione dei prodotti in cui non sono ancora attesi profitti). Le tre fasi prese
insieme compongono lo stadio iniziale definito ‘Early Stage’, stadio in cui il modello di business
è radicalmente imperniato su meccanismi e modelli di finanziamento. Fasi ben presenti anche
nel nostro linguaggio economico-aziendale ma che non trovano facili esemplificazioni nei fatti. E
qui sembra sorgere un paradosso. Mentre in Italia l’attenzione mediatica e legislativa si
verticalizza sulle presunte o presagibili virtù produttivo-taumaturgiche del modello start-up,
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nessuno sembra accorgersi che l'assunzione di questo modello implica l'adozione di una
dinamica produttivo-finanziaria che si sostiene principalmente grazie all'intervento di
alcuni attori fondamentali: società di Venture Capital e Business Angel. Anche in Italia vi sono
società ed individui disposti ad investire su una “avventura aziendale” ma con una presenza
più rarefatta e con capitali decisamente più esigui rispetto ai loro “gemelli” statunitensi. Quindi
siamo ben lontani dalla possibilità riscontrata che una start-up possa ricevere un’iniezione
finanziaria media di 40 mln di € circa prima di essere venduta; per inciso lo scorso anno il
mercato italiano del Venture Capital ammontava complessivamente a 130 mln, una cifra 5 volte
inferiore rispetto alla media degli altri stati europei.
Innovazione e Conoscenza
Sebbene il contesto della Private Equity sia fondamentale per lo sviluppo di aziende
tecnologicamente avanzate ed innovative, non si può certo trascurare che il principale humus
per la realizzazione di una start-up sia, di fatto, un prodotto ancor più raro ed intangibile del
denaro: la conoscenza. Nel nostro Paese è ormai assodata l’inadeguatezza del nostro sistema
di valorizzazione dei sistemi di conoscenza. Scarsi investimenti in R&S (1,26% del Pil, una delle
peggiori performance al livello europeo), fenomeni diffusi e continuativi di ‘brain draining’ (o
fuga dei cervelli), scarsa intensità brevettuale, sono solo alcune elencabili sintomatologie dello
stato della ricerca in Italia, che, in sporadici casi più legati all'iniziativa individuale che al
sistema, riesce ancora a sorprendere per vivacità ed inventiva. Il riferimento alla valorizzazione
dei nostri sistemi di conoscenza va letto alla luce di un confronto in prospettiva “storica” rispetto
al contesto statunitense: il fenomeno “Silicon Valley Start Ups” affonda le sue radici negli
sviluppi generatisi grazie agli indiretti ed ingenti contributi governativi che per decenni hanno
sostenuto (al fianco dell’altrettanto ingenti risorse private) le incertezze dell’essenziale ricerca
di base. Basti pensare che la creazione di Internet prese le sue mosse dal più misconosciuto
progetto ARPANET , un progetto militare della DARPA (Dipartimento della difesa degli Stati
Uniti) pensato per scopi di difesa militari. I risultati di quei “vecchi investimenti pubblici” sono
sotto gli occhi di tutti.
Un modello in evoluzione
Non è un caso infatti che ad oggi il dibattito nel mondo delle start-up d’oltreoceano ruoti attorno
alla preoccupazione che la “macchina delle idee” sia sul punto di incepparsi, forse proprio a
causa di un'eccessiva sopravvalutazione di quel mondo di start-up giovani, precoci e venate di
dilettantismo oramai ammassate su quell’orlo di mercato che intende la “tecnologia come
servizio”. Il momento per gli Stati Uniti sembra essere quello giusto per cominciare a rinvestire
sul versante meno affascinante e notiziabile della ricerca: la ricerca di base. Anche il presidente
Obama ha dato segni di questo convincimento quando lo scorso aprile, in occasione di un
incontro con i più importanti scienziati del Paese, ha svelato la volontà da parte del governo
americano, di investire 100 mln di dollari nel 2014 nell’ambizioso Brain Project (in risposta al
programma Human Brain Project lanciato in Europa), aggiungendo: “Non possiamo rischiare
di perdere quest’opportunità mentre il resto del mondo è in corsa […] Non voglio che la
prossime grandi scoperte in grado di creare nuovi mercati del lavoro avvengano in China, India
o Germania. Io voglio che avvengano qui.” La temperie negli Stati Uniti, dunque, sembra
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suggerire la necessità di un cambio dell’assetto produttivo/tecnologico maggiormente vocato
alla realizzazione di “tecnologie per favorire la tecnologia”. Come ampiamente espresso
nell’articolo di Yiren Wu, A tale of two valleys, nel mondo delle start-up americano ci si sta
interrogando sulla reale portata tecnologica di tante “attraenti” giovani start-up, che drenano
risorse umane e finanziarie a scapito di meno seducenti realtà imprenditoriali, tecnologicamente
avanzate, il cui lavoro è forse meno veicolabile verso i mercati di massa (ad esempio le aziende
impegnate nella R&S di semiconduttori, datastorage, sistemistica per il networking, ecc.) ma i
cui contributi produttivi sono radicalmente più essenziali per tutti i nuovi mercati tecnologici.
“Physics isn’t Sexy, but everybody look at the sky”
Nella calzante ironia della battuta del consigliere scientifico alla Casa Bianca William H. Press “La fisica non è attraente, ma tutti guardano al cielo” – si coglie, in maniera sagace,
l’ambiguità dell’atteggiamento - dei decisori pubblici in primis, ma anche di altri soggetti –che
spesso si assume nei confronti degli orientamenti verso le azioni a sostegno della Ricerca.
Negli Stati Uniti a bilanciare almeno in parte le distorsioni dell’apparente “bolla” finanziaria
generatasi attorno al fenomeno start-up, spesso intervengono figure quasi del tutto assenti nel
nostro Paese: i cosiddetti filantropi. Si tratta, per antonomasia, di milionari che, sulla spinta
personale e morale di alcune private - ed anche egoistiche - ambizioni, investono in maniera
spregiudicata autentici patrimoni in settori di ricerca difficilmente considerabili come profit. Un
caso fra tutti è quello i James Simons, milionario e capo di un eminente fondo speculativo
(Hedge Fund) che ha donato circa 1 miliardo di dollari per la ricerca matematica, la ricerca sull’
autismo e la costruzione di un immenso collisore ionico localizzato nei pressi di Long Island. In
un certo senso queste vicende disegnano un quadro contestuale – ovviamente semplificato che definisce i ruoli di chi investe in ricerca 'curiosity driven' (guidata dalla ‘curiosità’, dunque
libera) e chi invece investe nello sviluppo - non nella ricerca - 'profit driven' (ovvero orientata al
profitto). E in un contesto come questo che la parola start-up acquisisce un autentico significato.
L’innovazione sta nelle policy
Nel nostro Paese, al di là di pretestuosi numeri e a dispetto di un contesto non sempre
favorevole, vi è certamente una certa vivacità tecnologica, detentrice potenziale delle nostre
possibilità di sviluppo ma le start-up, oltre alle agevolazioni fiscali (agevolazioni che hanno un
valore molto limitato se si pensa che una start-up, magari, nei primi anni può chiudere più volte
il proprio esercizio in perdita) hanno bisogno di essere affiancate, oltre che dagli incubatori,
anche da un mercato “culturalmente” orientato all’investimento in R&S, non di regole che
tentino di stabilire ciò che è innovazione da ciò che non lo è. Le policy infatti non vanno
costruite con l’implicita velleità di “creare innovazione”; le policy, e le regole che ne sono
espressione, dovrebbero “creare le condizioni” affinché le innovazioni - come è auspicabile che
sia – avvengano per loro conto. Entrando in questo ordine di idee ci si rende conto che i
principali focus delle politiche di sviluppo non dovrebbero essere in definitiva le “presunte” startup, quanto le politiche di trasferimento tecnologico (o meglio di trasformazione della
conoscenza) e di valorizzazione delle infrastrutture di ricerca già esistenti (migliorandone ad
esempio le politiche di accesso da parte di imprese e/o start-up), oppure il miglioramento delle
condizioni di investimento - al di là della sola defiscalizzazione - per chi decide di investire R&S.
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Disegnare il futuro, insomma, non accattare quello di qualcun altro.
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