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DOSSIER
Un insider
alla Fiera di Canton
Testo e foto di Emanuele
Confortin
Le dimensioni della struttura lasciano allibiti:
sedici mega padiglioni in cemento, metallo e vetro, ciascuno con due o quattro piani, per un totale di 1.115.000 metri quadrati di area espositiva, l’equivalente di circa 1600 campi da calcio.
Qui trovano spazio 55.620 stand occupati da
20mila aziende più o meno grandi, soprattutto
cinesi, anche se la presenza di venditori stranieri cresce progressivamente, così come il numero dei 165mila visitatori, per un giro di affari miliardario. Il racconto di un insider italiano.
l movimento incessante delle porte automatiche
a vetri regola il flusso dei visitatori che affollano
il lussuoso Garden Hotel, importante punto di riferimento della città di Guangzhou. La sontuosità di questo luogo non può certo lasciare indifferenti. Migliaia di
luci si riflettono sui pavimenti in marmo dell’immensa
lobby, interrotti da un intrico di tappeti rossi che conducono a qualche costosa boutique, o a uno degli affollati
bar in cui si servono vini pregiati e whisky di importazione sulle note di un pianoforte a coda. Gran parte degli
ospiti sono stranieri, giunti in quest’angolo del Sud della Cina per partecipare alla Canton Fair, considerata la
più grande fiera multisettoriale al mondo, che dal 1957 si
svolge in primavera e autunno.
Assisto all’arrivo di uno degli ultimi autobus provenienti dal moderno China Import and Export Fair Complex,
la struttura in cui ha luogo la manifestazione, situata a
sud della città, oltre il ponte sul Fiume Perla, lungo la direttrice per la vicina Hong Kong. Scesi gli scalini del mezzo, i reduci della giornata inaugurale si incamminano all’interno dell’hotel. Molti di loro puntano al bar più vicino, lasciandosi cadere sulle comode poltrone in pelle disposte a semicerchio attorno a una fontana. Di lì a poco,
qualcuno sorseggia avidamente un drink allungato con
poca acqua, qualcun’altro morde l’estremità di un grosso
sigaro alternandolo ad un po’ di vino rosso, utili per ridare vita agli sguardi vuoti, e stemperare i muscoli esausti
dopo una giornata alla rincorsa di nuove opportunità.
Stessa storia ai piani superiori, dove, sulle tavole imbandite dei ristoranti, buyer occidentali e imprenditori cinesi definiscono contratti, parlano di prodotti, siglano accordi, spostando, una mossa dopo l’altra, le invisibili pedine usate nel gioco del business.
Sono atterrato da poco, le dodici ore di volo si fanno sentire, così come il jet lag, ma la voglia di scoprire la Fiera
di Canton continua a prevalere nei miei pensieri. I cancelli del complesso fieristico aprono alle nove del mattino. Migliaia, forse decine di migliaia di veicoli si accodano lungo il viale a quattro corsie che conduce all’ingresso principale, riversando sui marciapiedi in cemento un
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numero indefinibile di persone. Le dimensioni della
struttura lasciano allibiti. Si tratta di sedici mega padiglioni costruiti in cemento, metallo e vetro, ciascuno con
due o quattro piani, per un totale di 1.115.000 metri quadrati di area espositiva, l’equivalente di circa 1600 campi da calcio. Qui trovano spazio 55.620 stand occupati da
20mila aziende più o meno grandi, soprattutto cinesi, anche se la presenza di venditori stranieri cresce progressivamente, così come il numero dei visitatori, giunti in
165mila (-15% rispetto all’edizione di ottobre 2008), originando un giro di affari di 19 miliardi di euro solo per le
esportazioni (-17% sul 2008). Sono questi i dati diffusi
dall’ente fieristico al termine dell’evento, a maggio, seguiti dai commenti ufficiali del governo cinese, consapevole che la fiera di Guangzhou rappresenti il barometro
dell’export made in China.
eguo incuriosito il flusso di gente, inanellando
uno stand dopo l’altro, una fila dopo l’altra, un
padiglione dopo l’altro. Ho stimato che per visitare l’intera esposizione avrò percorso circa venti chilometri al giorno, per tre giorni di seguito. Passo con la velocità del fulmine da un televisore a schermo piatto di ultima generazione ai sigari elettronici con fumo al gusto di
limone, dai water parlanti in madreperla e ricamati d’oro
ai muletti elettrici, arrivando agli attrezzi da giardino e
utensili comuni, gli stessi che tra pochi mesi ritroverò in
bella mostra sugli scaffali dei supermercati. Più che il numero di persone, è incredibile la varietà di lingue, culture e nazionalità mescolate lungo gli immensi corridoi che
permettono di spostarsi tra i padiglioni. Un gruppo di
compratori americani, con tanto di logo Usa ricamato sulla maglietta, sfilano alle spalle di un arabo con la carna-
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La Canton Fair, che dal 1957 si svolge
in primavera e in autunno, è considerata
la più grande fiera multi settoriale del mondo.
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gione olivastra e il caratteristico turbante in testa. Spetta
a una delle sue tre mogli, tutte a viso coperto e in abiti neri, trascinare il trolley in cui raccogliere depliant e materiale informativo. Tantissimi gli uomini d’affari africani,
dalla pelle scura come l’ebano, molti anche i mediorientali, per i quali completo a righe, camicia e cravatta stretta al collo sembrano un dovere morale, anche se fuori siamo sopra i venticinque gradi e di chilometri ne devono
fare pure loro. Incrocio molti compratori indiani, pachistani, iraniani, giapponesi, coreani, thailandesi, indonesiani, poi brasiliani, messicani, colombiani, per arrivare
agli europei, tutti alla ricerca di nuove opportunità di affari, molti animati dalla speranza di rialzare la testa dopo le batoste degli ultimi mesi.
Ci sono pure gli italiani, come la vivace Natalia, siculonorvegese, giunta alla sua 14esima Canton Fair. La incon-
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tro all’aeroporto di Francoforte, in coda per l’imbarco.
«Qualche anno fa questa fiera era nella norma, sicuramente interessante ma lontana anni luce da come appare ora», spiega con un pizzico di amarezza, quasi parlasse di un acciacco stagionale. «Prima è raddoppiata, poi
triplicata, arrivando all’esagerazione del giorno d’oggi».
Natalia racconta di un’esistenza sospesa tra il lavoro nell’azienda di famiglia, in Norvegia, e l’amata Sicilia, dove
torna a vivere per sette giorni, dopo sette giorni di lavoro. «Mio padre è siciliano, sposato con una norvegese.
L’azienda è in Norvegia, ma io amo l’Italia e la Sicilia, per
questo ho dovuto trovare un compromesso alternando
una settimana in ufficio e una a casa».
La Canton Fair ospita 20mila aziende soprattutto cinesi,
anche se la presenza degli operatori stranieri sta crescendo.
ra le file del padiglione 2, nel labirinto degli
stand, incontro Daniele, giovane imprenditore
della provincia di Venezia, dedito al commercio
di macchinari per la lavorazione dei metalli e del legno.
Si aggira attento osservando torni, fresatrici, sollevatori
e seghe circolari, alla ricerca di nuovi fornitori dai quali
spuntare prezzi migliori, «necessari per tenere il passo
della concorrenza sempre più agguerrita». Assisto a una
performance seguendolo in uno stand piuttosto angusto:
quattro metri per quattro, in cui trovano posto un paio di
torni, un trapano a colonna e un Cnn (macchina a controllo numerico), tutti rigorosamente in funzione, così come
altri cento, mille macchinari più o meno simili e altrettanto rumorosi, che fanno da sottofondo al business che
si sta compiendo. Daniele si avvicina, con lo sguardo prima e il corpo poi. Davanti a lui un quarantenne cinese con
T
il volto di un ragazzino gli spalanca un ampio sorriso. Mai
sapremo il suo vero nome, ma si presenta come Justin, allungando un biglietto da visita, che da queste parti rappresenta carta d’identità ed essenza dell’individuo. Riceve quello dell’imprenditore veneziano afferrandolo delicatamente con entrambe le mani, premurandosi di leggere riga per riga quanto riportato sotto il logo aziendale.
Neanche il tempo di una stretta di mano, e i due già si mettono a discutere in inglese di parti tecniche, prestazioni,
voltaggio, giri motore, certificazioni e ovviamente prezzi. In Cina, malgrado la crisi del dollaro, si ragiona ancora con la moneta americana, così Daniele appunta con attenzione sul catalogo le quotazioni ricevute, alternando
segni di approvazione a lievi smorfie, previsti dal tacito
protocollo della contrattazione. Il rito si consuma in pochi minuti, con naturalezza; poi l’acquirente italiano si
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congeda, proseguendo alla volta di un altro stand. Le ore
passano, la stanchezza inizia a farsi sentire, e alle sei del
pomeriggio mi accodo al pellegrinaggio verso il centro
città. Non riesco a trovare l’autobus navetta organizzato
dall’hotel, quindi prendo un taxi, attendendo diligentemente il mio turno, assieme a centinaia di altri visitatori
impazienti di lasciarsi andare sui sedili posteriori oltre il
pannello in plexiglas che separa dal guidatore.
l secondo giorno riprende da dove avevo lasciato,
all’ingresso del padiglione 12, dedicato all’illuminazione e all’elettronica. C’è gente ovunque, molta più di ieri, per cui la mobilità è limitata, anche a causa
della stanchezza che allo ugualmente riprende dallo stesso punto. Ho le gambe indolenzite, le luci colorate usate
dagli espositori per attirare l’attenzione sulla propria merce mi fanno girare la testa, per cui cerco di muovermi con
ordine, seguendo il sistema di codifica adottato dall’organizzazione. Prima viene il padiglione, poi il piano, poi la
fila (in lettere), poi il numero dello stand. Noto un gruppo
di buyer giapponesi pronti ad entrare in azione. Il capo impartisce le ultime direttive e a coppie si disperdono nella
mischia, mossi da uno scopo preciso e armati di una strategia per raggiungerlo. La mia è data dal caso, dalla curiosità e talvolta dal flusso della gente, come accade nella fila in cui espongono i produttori di telefonini cinesi, dove
scorgo una ressa di individui ammassati attorno a un mi-
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nuscolo stand di nove metri quadri. «Questi cinesi vendono telefonini di marca a 10 e 15 dollari – sussurra un austriaco sulla cinquantina – e gli iPod a 100 dollari». Mi butto nel mucchio pur non avendo intenzione di acquistare,
e cinque minuti più tardi riesco a crearmi un varco nella
muraglia umana, arrivando davanti a un tavolo carico di
scatole contenenti telefoni e palmari di ogni genere, pronti per essere venduti. La gente prova, clicca e rigira gli articoli prima di sfilare una banconota da 10 dollari o 100
rnb di tasca. Tra i più gettonati ci sono Motorola e Nokia,
si tratta di imitazioni ovviamente, ma nessuno sembra turbato all’idea di fomentare il mercato dei falsi, così il business procede, con intensità crescente man mano che il numero delle persone aumenta. Tra gli spettatori divertiti c’è
pure un poliziotto fasciato nella sua uniforme, ignaro del
fatto che smerciare telefonini contraffatti sia un reato, anche in Cina. Proseguo verso il padiglione seguente, incrociando una coppia di giovani messicani, Moises ed Erika
arrivati due giorni prima da Guadalajara. Lui ha 26 anni,
lei 24 e sono alla ricerca di prodotti di elettronica a marchio cinese, in particolare mp3 ed mp4 da importare in
Messico, dove gestiscono un negozio su eBay, affiancato
da un piccolo punto vendita in centro città, che funge anche da magazzino. «È la prima volta che veniamo in Cina
– spiegano entusiasti – e crediamo di poter fare buoni affari con le aziende locali. Hanno prezzi imbattibili, grazie
ai quali vorremmo liberarci della concorrenza».
a terza giornata di fiera inizia sotto la pioggia, scagliata vigorosamente dalle nubi gonfie adagiate
sui grattacieli più alti. Tutto avviene a rilento, a
partire dal traffico oggi particolarmente intenso, diretto
oltre il fiume, quasi attratto da un magnete nascosto sotto il cappotto metallico che ricopre il complesso fieristico. Le soste dell’autobus si fanno sempre più lunghe, anche l’attesa ai semafori sembra durare il doppio, così
scambio due parole con Nagan e Kamalesh, manager indiani operanti nei settori dei polimeri e delle risorse agricole. Sono originari di Mumbai, ma vivono e lavorano da
dieci anni in Uganda, assieme alle famiglie che raggiungeranno domani, dopo una sosta a Dubai. «Speravamo di
trovare qualcosa di più interessante alla fiera», si lamentano dopo avermi allungato i biglietti da visita. «Inoltre i
cinesi parlano male l’inglese, come facciamo noi a capire se ci stanno giocando?» Resto con loro per pochi minuti ancora, giusto il tempo di ritornare sul marciapiede
e infilare l’ingresso, poi mi allontano mescolandomi alla
folla. Devo ancora visitare i padiglioni 15 e 16, quelli costruiti più di recente e collegati alla struttura principale
attraverso un lungo tunnel sospeso sopra la strada, aperto su entrambi i lati e non più corto di cinquecento metri.
Ieri lo avevo percorso passeggiando sui tappeti mobili in
funzione nel centro, oggi però preferisco mettermi in co-
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Alcuni dei 55.620 stand della Fiera.
da, e servirmi dei trenini elettrici gratuiti che fanno spola incessantemente da una parte all’altra. Mentre trovo riposo sul sedile imbottito ho il tempo di interrogarmi sul
“fenomeno” della globalizzazione, la cui essenza forse è
concentrata qui, a Guangzhou, tra i padiglioni della fiera
più grande al mondo. Non riesco a darmi una risposta, e
non può nemmeno Angel, un anziano venditore di Shanghai dal nome impronunciabile, con il quale mi metto a
parlare seduto al suo stand, tappezzato da una selva di
cacciaviti, brugole, martelli, chiavi inglesi e altre diavolerie per il bricolage. Evidentemente in Cina il termine
inglese global deve ancora arrivare, a differenza della parola crisis, tirata in ballo più volte in pochi minuti, come
fosse un virus in grado di ridurre gli ordini, abbassare i
prezzi e intaccare i profitti. Salutandomi mi porge un depliant stampato a colori su carta lucida. Sulla prima pagina fissa con due graffette la sua business card, chiedendomi di portarlo in Italia e di farlo vedere a dei compratori, in cambio di una parte per i contratti che andranno
a buon fine. Le sue parole mi lasciano perplesso, forse la
grande Cina è davvero alla frutta, magari il “supermercato” del pianeta ha le ore contate. Svelo l’angoscia che mi
prende a un giovane incontrato al bagno. «Ma quale crisi! Guarda un po’ qua fuori, ti sembra tiri aria di crisi da
queste parti?» È un manager iraniano dalla folta barba, si
lavava i piedi al rubinetto dopo essersi tolto le scarpe per
la preghiera del mezzogiorno.
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