RECESSO PER GIUSTA CAUSA NEI CONTRATTI DI LAVORO
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RECESSO PER GIUSTA CAUSA NEI CONTRATTI DI LAVORO
Relazione 27.4.2010 Avv. Francesco Paolo Laudisio RECESSO PER GIUSTA CAUSA NEI CONTRATTI DI LAVORO DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE Introduzione Esamineremo qui il recesso per giusta causa nei contratti di lavoro della Pubblica Amministrazione, alla luce dell’attuale normativa, con particolare attenzione alle novità introdotte dalla riforma Brunetta di cui al Dlgs n.150 del del 27 ottobre 2009, cercando di evidenziare anche gli aspetti peculiari rispetto alla normativa dettata in materia di licenziamenti del comparto privato. QUADRO DI RIFERIMENTO PRIVATISTICO Il nucleo della normativa in tema di licenziamento individuale del dipendente privato è rinvenibile: a) negli artt. 2118 e 2119 del codice civile; b) nell’art. 18 della l. 20 maggio 1970, n. 300 (Statuto dei Lavoratori); e nelle leggi: a) 15 luglio 1966, n. 604 (Norme sui licenziamenti individuali); b) 11 maggio 1990, n. 108 (Disciplina dei licenziamenti individuali); c) 23 luglio 1991, n. 223 (Norme in materia di cassa integrazione, mobilità, trattamenti di disoccupazione, attuazione di direttive della comunità europea, avviamento al lavoro ed altre disposizioni in materia di mercato del lavoro). La risoluzione del rapporto di lavoro deve trovare fondamento, eccetto le residuali ipotesi di cui all’art. 2118 c.c., di cui vedremo in prosieguo, in un motivo socialmente giustificato, dipendente dalla condotta del lavoratore (c.d. licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo) o da ragioni legate all’attività produttiva o all’organizzazione del lavoro (c.d. licenziamento per giustificato motivo oggettivo). Infatti, l’art.1 della L.604/1966 stabilisce che: “..il licenziamento del prestatore di lavoro non può avvenire che per giusta causa ai sensi dell’art. 2119 del Codice civile o per giustificato motivo”. 1 Relazione 27.4.2010 Avv. Francesco Paolo Laudisio Il riferito art. 2119 del c.c. prevede che il licenziamento per giusta causa può essere ingiunto senza preavviso “qualora si verifichi una causa che non consente la prosecuzione, anche provvisoria del rapporto”. L’art. 3 della legge 604 individua due ipotesi di licenziamento per giustificato motivo: a. soggettivo, determinato da “un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore di lavoro”; b. oggettivo motivato da “ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa”. Da questo breve excursus si ricava che il recesso nel rapporto di lavoro, in generale, deve trovare fondamento in previsioni legislative e di cui bisogna tener conto nella motivazione del provvedimento espulsivo. Per giusta causa del licenziamento va intesa, qualsiasi fatto che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria del rapporto che, quindi, abbia compromesso irrimediabilmente gli elementi essenziali del rapporto e la fiducia tra le parti, che devono essere ritenuti necessari per proseguire nel rapporto lavorativo. Tali fatti, alla luce della riferita normativa, possono essere anche esterni alla sfera del contratto (l’arresto del dipendente, una sua condanna penale, ecc.). Il recesso, in questo caso, sarà immediato e “ante tempus” e senza preavviso (recesso ad nutum in senso ampio) ma comunque motivato. Non possono, invece, essere esterni alla sfera del contratto i fatti costitutivi del giustificato motivo. Secondo il disposto dell’art 3 della legge 604/1966, ricorre il giustificato motivo nel caso di: a. un inadempimento grave delle obbligazioni contrattuali, seppure di minore gravità rispetto all’inadempimento previsto per la giusta causa (che così permette anche la continuazione del rapporto durante il periodo di preavviso); b. qualora ricorrano ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa. 2 Relazione 27.4.2010 Avv. Francesco Paolo Laudisio La normativa sul licenziamento distingue, così, tra due tipi di giustificato motivo: a. uno soggettivo inerente alla persona del lavoratore; b. l’altro oggettivo inerente alle esigenze dell’impresa. Sulla nozione di giusta causa e di giustificato motivo la giurisprudenza e i contratti collettivi si sono spesso cimentati nella loro tipizzazione. Tale tipizzazione, così come è stato più volte ribadito dalla Cassazione, non costituisce un vincolo per il Giudice. Bisogna poi fare riferimento all’art 2 della L.604/66, come modificata dalla L 108/90, avente ad oggetto la procedura di intimazione del licenziamento. Tale norma stabilisce che il licenziamento deve essere intimato in forma scritta, non essendo necessaria la contestuale formulazione delle motivazioni, eccettuata l’ipotesi di licenziamento disciplinare che deve essere sempre preceduto dalla contestazione dell’addebito (le motivazioni possono essere richieste dal lavoratore entro 15 giorni dall’intimazione del licenziamento). Sono pochissimi i casi in cui la normativa sul licenziamento ha mantenuto il regime di c.d. libera recedibilità (i casi, cioè, in cui il datore è libero di licenziare). Il recesso ad nutum, strictu sensu così come meglio conosciuto il licenziamento che permette al datore di recedere senza motivazione è limitato: 1) ai dirigenti (che ex art 10, c.1°, L.604/66 e la L.190/85 non sono menzionati tra i prestatori di lavoro cui la normativa è applicabile) salvo non sia diversamente previsto nei contratti collettivi e individuali; 2) ai lavoratori con contratto a termine (art.1, L.604/66); 3) agli atleti professionisti (ex art 4 L.23.3.1981, n. 11); 4) agli addetti ai servizi domestici (art 4.c.1, L.108/90); 5) ai lavoratori ultrasessantenni in possesso dei requisiti pensionistici (ex art.6, D.L.791/81, conv. in L.5/82); 6) ai lavoratori licenziati per riduzione del personale ai sensi dell’art.11 c.2 L.604/66; 3 Relazione 27.4.2010 Avv. Francesco Paolo Laudisio 7) ai lavoratori assunti in prova a meno che l’assunzione non sia divenuta definitiva ovvero che non siano decorsi i sei mesi (art.10, L.604/66); 8) al coniuge e ai parenti entro il secondo grado del datore di lavoro ai sensi dell’art 18 dello Statuto dei lavoratori. PUBBLICO IMPIEGO Passiamo ora all’analisi della normativa dettata in tema di pubblico impiego. Dalla lettura del Testo unico in materia di pubblico impiego (d.lgs. n.165 del 2001 e succ. mod. ed integr.), non si evince una disciplina unitaria del licenziamento del pubblico dipendente, infatti, nessuno degli articoli del Testo Unico contiene una regolamentazione precisa del recesso. In realtà, l’art. 2, comma 2 del detto decreto, prevede che:“i rapporti di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche sono disciplinati dalle disposizioni del capo I, titolo II, del libro V del codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa”. Al recesso, esercitato dalla pubblica amministrazione nei confronti del dipendente, sono state estese, quindi, a seguito della intervenuta privatizzazione del settore, le norme dettate per il rapporto di lavoro privato. Ad una prima lettura potrebbe sembrare che l’operazione di riconduzione dell’impiego pubblico nell’ambito della disciplina privatistica sia stata integrale, dovendosi ritenere applicabili tutte le principali norme della disciplina del recesso ivi dettate. In realtà, l’esame delle singole ipotesi di risoluzione dimostrerà come esistano profondissime differenze tra il licenziamento del dipendente privato e quello di un dipendente pubblico. La verifica di tali differenze è possibile mediante l’esame delle fattispecie di: a) licenziamento per giustificato motivo oggettivo b) licenziamento per giusta causa (disciplinare) c) licenziamento ad nutum 4 Relazione 27.4.2010 Avv. Francesco Paolo Laudisio a) Licenziamento giustificato motivo oggettivo Iniziando dal licenziamento per giustificato motivo oggettivo, si osserva che l’art.33 del Testo Unico del P.I. (Dlgs. n. 165/01) dispone che, quando le pubbliche amministrazioni rilevino “eccedenze di personale”, riguardanti almeno 10 dipendenti, anche in caso di dichiarazioni di eccedenza distinte nell'arco di un anno, devono avviare la procedura di informazione delle organizzazioni sindacali e, su richiesta di queste ultime, di consultazione che ricalca quella prevista nel settore privato (prevista dalla legge 223/91). All’esito di tale procedura, l’amministrazione “… colloca in disponibilità il personale che non sia possibile impiegare diversamente nell'ambito della medesima amministrazione e che non possa essere ricollocato presso altre amministrazioni, ovvero che non abbia preso servizio presso la diversa amministrazione che, secondo gli accordi intervenuti ai sensi dei commi precedenti, ne avrebbe consentito la ricollocazione” Decorsi inutilmente i 24 mesi “il rapporto si intende definitivamente risolto a tale data”. La dottrina ha evidenziato che si tratta di un’ipotesi risoluzione automatica del rapporto e non di licenziamento, dato che non è necessario un atto di recesso e non è dovuto il preavviso. Qui bisogna evidenziare come il collocamento in disponibilità sia previsto dagli artt.33 e 34 del T.U. non solo quale esito della procedura di informazione e consultazione sindacale, che deve essere seguita in ipotesi di eccedenze superiori alle 10 unità nell’arco dell’anno, ma anche in caso di eccedenze inferiori alle 10 unità (art. 33, comma 2 ultima parte, del T.U.). Vale a dire che nel P.I. non è ipotizzabile la distinzione propria del settore privato tra licenziamento collettivo e licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo, data dalla dimensione, collettiva o individuale, del recesso dell’imprenditore. 5 Relazione 27.4.2010 Avv. Francesco Paolo Laudisio Nella disciplina del rapporto di pubblico impiego, invece, in ogni caso in cui si presenti la necessità di ridurre l’organico (anche di una sola unità) per ragioni legate agli interessi della P.A., quest’ultima deve necessariamente procedere al collocamento in disponibilità. Se ne deve dedurre che nel pubblico impiego non esiste il licenziamento per giustificato motivo oggettivo per ragioni inerenti l’attività produttiva e l’organizzazione del lavoro. Residuano, nel Pubblico, solamente le ipotesi di giustificato motivo oggettivo per circostanze riferibili al lavoratore (sopravvenuta inidoneità fisica, perdita dei requisiti amministrativi necessari per lo svolgimento delle mansioni, detenzione, ecc.). b) Il licenziamento per giusta causa: Licenziamento disciplinare IL lavoratore incorre nella responsabilità disciplinare quando viola gli obblighi contrattuali fissati nel contratto collettivo e/o nel contratto individuale di lavoro, ed oggi, a seguito del recente intervento legislativo, anche per avere violato i precetti previsti dalle nuove disposizioni contenute nella riforma Brunetta (Dlgs. n.150 del 27 ottobre 2009). Il potere del datore di lavoro di irrogare sanzioni disciplinari è fissato nell’art. 2106 c.c. La riforma Brunetta è andata a modificare l’art. 55 del T.U.P.I. (Dlgs n. 165/2001) ed ha introdotto nel T.U. gli artt. da 55-bis a 55-septies1,2: La prima novità della riforma consiste nel fatto che la contrattazione non è più l’unica fonte di riferimento per la responsabilità disciplinare, dato che il testo novellato dell’art.55 prevede che la tipologia delle infrazioni e delle relative sanzioni 1 Tali disposizioni – per espressa volontà legislativa – sono da considerarsi norme imperative, ai sensi degli artt. 1339 e 1419, co. 2, c.c., e si applicano ai rapporti di lavoro di cui all’art. 2, co. 2, alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche di cui all’art. 1, co. 2. 2 Come è noto, La riforma Brunetta appare a prima vista ispirata al principio della prevalenza della legge sulla fonte collettiva infatti in base all’art. 2, co. 2, del Dlgs n.165/2001 novellato dall’art. 1 della legge n. 15/2009, si prevede che:“Eventuali disposizioni di legge, regolamento o statuto, che introducano discipline dei rapporti di lavoro la cui applicabilità sia limitata ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche, o a categorie di essi, possono essere derogate da successivi contratti o accordi collettivi e, per la parte derogata, non sono ulteriormente applicabili, solo qualora ciò sia espressamente previsto dalla legge”.All’art. 54 del decreto Brunetta, in cui, modificando l’art. 40 del Dlgs n. 165/2001, tra l’altro si prevede espressamente che:“Nelle materie relative alle sanzioni disciplinari […] la contrattazione collettiva è consentita negli esclusivi limiti previsti dalle norme di legge”. 6 Relazione 27.4.2010 Avv. Francesco Paolo Laudisio sia stabilita dai contratti collettivi, fatte salve le previsioni del decreto delegato, che ha introdotto una nuova tipologia di illeciti e di sanzioni. Quindi, ora, il codice disciplinare è definito anche dalla normativa del nuovo Testo Unico del Pubblico Impiego. Inoltre, dalla riforma Brunetta, viene previsto l’ampliamento dei poteri del dirigente che può, quale responsabile della struttura, irrogare direttamente le sanzioni meno gravi. Per le sanzioni più gravi e in tutti i casi in cui il responsabile della struttura sia privo della qualifica dirigenziale la competenza spetta all’Ufficio della disciplina. Sono ampliate le ipotesi di condotta illecita che comportano l’irrogazione della sanzione del licenziamento per giusta causa che si applica, oltre che nel caso in cui ricorrano gli estremi dell’art.2119 cc e nelle ulteriori ipotesi previste dal contratto collettivo, anche nei seguenti casi previsti dall’art. 55 quater del T.U. a) falsa attestazione della presenza in servizio, mediante l’alterazione dei sistemi di rilevamento della presenza o con altre modalità fraudolente, ovvero giustificazione dell’assenza dal servizio mediante una certificazione medica falsa o che attesta falsamente uno stato di malattia; b) assenza priva di valida giustificazione per un numero di giorni, anche non continuativi, superiore a tre nell’arco di un biennio o comunque per più di sette giorni nel corso degli ultimi dieci anni ovvero mancata ripresa del servizio, in caso di assenza ingiustificata, entro il termine fissato dall’amministrazione; c) ingiustificato rifiuto del trasferimento disposto dall’amministrazione per motivate esigenze di servizio; d) falsità documentali o dichiarative commesse ai fini o in occasione dell’instaurazione del rapporto di lavoro ovvero di progressioni di carriera; e) reiterazione nell’ambiente di lavoro di gravi condotte aggressive o moleste o minacciose o ingiuriose o comunque lesive dell’onore e della dignità personale altrui; 7 Relazione 27.4.2010 Avv. Francesco Paolo Laudisio f) condanna penale definitiva, in relazione alla quale è prevista l’interdizione perpetua dai pubblici uffici ovvero l’estinzione, comunque denominata, del rapporto di lavoro”. Altra ipotesi di licenziamento disciplinare introdotta dalla riforma Brunetta è quella dovuta ad una valutazione di “insufficiente rendimento” della prestazione lavorativa per reiterata violazione dei propri obblighi lavorativi, fissati da diposizioni legislative o regolamentari, dal contratto collettivo o individuale, da tutti quegli atti e provvedimenti emanati dalla P.A. di appartenenza o dai codici di comportamento. Infine, viene introdotta dalla riforma Brunetta, all’art.55-septies del T.U.P.I., una ulteriore ipotesi di licenziamento disciplinare, connessa alla materia delle assenze dal servizio ed avente ad oggetto la condotta tenuta dai medici certificanti. Tale diposizione stabilisce che, in tutti i casi di assenza per malattia, la certificazione medica deve essere inviata all’INPS telematicamente dal medico o dalla struttura sanitaria che la rilascia, secondo quanto previsto per la trasmissione dei certificati medici nel settore privato. L’inosservanza della norma costituisce una nuova forma di violazione disciplinare che, se reiterata, determina la sanzione del licenziamento e, per i medici in rapporto convenzionale con le ASL, della risoluzione dal rapporto convenzionale. Si deve concludere che, a seguito della riforma Brunetta, nel rapporto di impiego pubblico il licenziamento disciplinare è regolamentato in maniera più dettagliata di quanto avvenga nel settore privato. c) Il licenziamento ad nutum Passiamo ora all’esame delle ipotesi più significative di recesso ad nutum, quelle cioè che prescindono da una giusta causa o giusto motivo, iniziando da quella del lavoratore in prova. Attraverso il rinvio operato dall’art.2, c. 2 del T.U., deve ritenersi applicabile, anche al rapporto di pubblico impiego, l’art.10 della legge 604/66, secondo il quale la normativa in tema di limiti al potere di recesso del datore opera, rispetto ai lavoratori 8 Relazione 27.4.2010 Avv. Francesco Paolo Laudisio assunti in prova, solamente dal momento in cui l’assunzione diviene definitiva o comunque quando sono decorsi sei mesi dall’inizio del rapporto di lavoro. Al riguardo è solo in caso di segnalare come la contrattazione collettiva abbia introdotto un generale obbligo per la pubblica amministrazione recedente, di motivare anche il licenziamento del lavoratore in prova. Si deve escludere, nel P.I., l’applicabilità del comma 2° dell’art.4 della L.108/90 che consente il libero licenziamento del lavoratore ultrasessantenne in possesso dei requisiti pensionistici che non abbia scelto di proseguire il rapporto di lavoro ai sensi dell’art. 6 D.L. 22 dicembre 1981, n. 791 o dell’art. 6 L.29 dicembre 1990, n. 407, combinato con l’art.1, comma 2, Dlgs. 30 dicembre 1992, n. 503. In effetti mantiene piena vigenza l’ordinamento tradizionale del trattamento di quiescenza del personale statale non essendo stata abrogata espressamente la normativa specifica in materia e non ravvisandosi motivi per i quali la stessa debba ritenersi implicitamente venuta meno a seguito della privatizzazione. Tale normativa appare incompatibile con quella richiamata del settore privato e ne consegue che la P.A. non può risolvere ad nutum il rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici sino a quando questi non compiano l’età in cui sono obbligatoriamente collocati in quiescenza. Un discorso più articolato merita il licenziamento dei dirigenti che, nella disciplina privatistica, rientra tra i casi di libera recedibilità (art. 10, L. n. 604/66). In particolare, l’art. 21 del T.U. (Dlgs 165/2001) individua sanzioni diverse a seconda della gravità della responsabilità del dirigente: a. in caso di valutazione negativa dei risultati della gestione o di mancato raggiungimento degli obiettivi è stabilita la revoca dall’incarico e la destinazione ad incarico diverso (comma 1); b. in caso di grave inosservanza delle direttive impartite o di ripetuta valutazione negativa è prevista la possibilità di esclusione dal conferimento di ulteriori incarichi di livello dirigenziale corrispondente a quello revocato per un periodo non inferiore a due anni (comma 2, prima parte); 9 Relazione 27.4.2010 Avv. Francesco Paolo Laudisio c. infine, nei casi di maggiore gravità l’amministrazione può recedere dal rapporto “secondo le disposizioni del codice civile e dei contratti collettivi” (comma 2, seconda parte). Il successivo art.22 del T.U. impone, poi, che i provvedimenti più gravi, quelli contemplati dal comma 2°, possono essere adottati solamente “previo conforme parere di un comitato di garanti” composto da un magistrato della Corte dei Conti, da un dirigente di prima fascia e da un esperto nominato dal Presidente del Consiglio dei Ministri. Ora, la circostanza che la facoltà di recesso sia prevista esclusivamente per i casi di maggiore gravità e la circostanza che la decisione della P.A. di risolvere il rapporto è comunque condizionata dal conforme parere di un organismo terzo, induce a ritenere che la P.A. non abbia una generale facoltà di recesso ad nutum dal rapporto di lavoro con i propri dirigenti. In giurisprudenza varie pronunzie hanno negato l’esistenza, in capo alla P.A., del potere di recedere liberamente dal rapporto con il dirigente. La Corte Costituzionale con la sentenza del 25 luglio 1996, n. 313, aveva escluso che “l’applicabilità al rapporto di lavoro dei pubblici dipendenti delle disposizioni previste dal codice civile comporta non già che la pubblica amministrazione possa liberamente recedere dal rapporto stesso ma semplicemente che la valutazione dell’idoneità professionale del dirigente è affidata a criteri e procedure di carattere oggettivo - assistite da un’ampia pubblicità e dalla garanzia del contraddittorio - a conclusione delle quali soltanto può essere esercitato il recesso”. In questa prospettiva il rinvio alle disposizioni del codice civile, contenuto nella seconda parte del comma 2° dell’art. 21 “l’amministrazione può recedere dal rapporto di lavoro, secondo le disposizioni del codice civile ecc.” deve intendersi nel senso che l’amministrazione non possa esercitare la facoltà di recedere liberamente ex art. 2118, bensì che essa può procedere al licenziamento senza preavviso (art. 10 Relazione 27.4.2010 Avv. Francesco Paolo Laudisio 2119) ovvero con preavviso (art. 2118) a seconda della gravità della condotta del dirigente. Dalle argomentazioni finora svolte discende che, nonostante il comma 2° dell’art.21 del Dlgs. n.165/01 faccia rinvio anche alle disposizioni dei contratti collettivi per il recesso della P.A., sarebbero comunque invalide quelle pattuizioni che prevedessero la facoltà di recedere ad nutum, perché ciò è implicitamente negato alla P.A. dallo stesso art. 21. Conformemente a quanto appena riferito, una parte della dottrina ha sostenuto che per quanto riguarda il rapporto di pubblico impiego non si può parlare di una vera e propria libera recedibilità, in quanto il recesso dell’amministrazione deve sempre essere motivato. Altra parte della dottrina e parte della giurisprudenza amministrativa, ha sostenuto che in capo alla P.A. non sussiste alcun obbligo di motivazione del provvedimento intimato, tranne quello relativo alla forma scritta. Sarebbe quindi sufficiente la “giustificatezza” del recesso! La Corte di Cassazione, ha elaborato il concetto di “giustificatezza” nella sentenza n.27 del 3 gennaio 2005, affermando che la specialità della posizione assunta dal dirigente, nell’ambito dell’organizzazione di lavoro non consente di identificare la nozione di giusta causa o giusto motivo riferibili al licenziamento del lavoratore subordinato, come disciplinate dalla legge, con quella di “giustificatezza”. Pertanto, la Corte afferma che: “condotte non integranti giusta causa o giustificato motivo, con riguardo al rapporto di lavoro in generale, possono determinare il licenziamento del dirigente con conseguente disconoscimento dell’indennità supplementare di cui alla contrattazione collettiva”. In questa sentenza è altresì affermato il principio secondo il quale, affinché il licenziamento del dirigente possa considerarsi “giustificato” è sufficiente che il datore di lavoro abbia agito in buona fede e che il suo comportamento non sia pretestuoso: 11 Relazione 27.4.2010 Avv. Francesco Paolo Laudisio “La giusta causa, valutata in relazione alla sua oggettività e alla sua connotazione soggettiva si estrinseca in concreto in fatti tali da ledere gravemente l’elemento fiduciario, ma in relazione al dirigente si atteggia in modo tale che sono ritenute sufficienti valide ragioni di correttezza e buona fede, sicchè risulta ingiustificato il licenziamento fondato su ragioni meramente pretestuose al limite della discriminazione ovvero irrispettoso delle regole procedimentali a garanzia della correttezza dell’esercizio del diritto”.(Vedi anche conforme giurisprudenza sul punto: Cass. civ., Sez. lav. 20 giugno 2003 n. 9896; Cass. civ. Sez. lav., 3 aprile 2002 n. 4729; Cass. civ., Sez.lav., 21 novembre 2007 n. 24246; Cass. civ. Sez. lav., 18 settembre 2007, n.19347). Si devono segnalare, per completezza, alcuni interventi giurisprudenziali che prevedono l’estensione delle regole relative al licenziamento ad nutum solo ad una parte della categoria dirigenziale e precisamente a quella apicale. La Suprema Corte con sentenza del 9 agosto 2004, n.15351, ha stabilito che la il licenziamento ad nutum dei dirigenti è applicabile solo al soggetto in posizione verticistica che, nell’ambito dell’azienda può essere definito un vero e proprio alter ego dell’imprenditore. La giurisprudenza di merito ha allargato al pubblico impiego l’orientamento della Cassazione appena citato, (vedi Tribunale di Venezia del 9 luglio 2003), affermando che solo il rapporto di lavoro del dipendente che svolga mansioni realmente apicali con poteri decisionali e rappresentativi rientra nell’area della libera recedibilità. Le Sezioni unite del 2009 sul licenziamento del dirigente Sulle problematiche delineate, specie in relazione alla libera recidibilità ante tempus da parte della P.A. senza giusta causa dai rapporti di lavoro con il dirigente sono intervenute le “Sezioni Unite”, che, con la recente decisione del 16 febbraio 12 Relazione 27.4.2010 Avv. Francesco Paolo Laudisio 2009, n.36773, hanno affrontato la questione relativa al diritto del dirigente alla riassegnazione dell'incarico revocato prima della scadenza prefissata, in conseguenza della illegittimità del provvedimento presupposto. La Corte di Casssazione ha affermato che la prevista privatizzazione della dirigenza non implica che la pubblica amministrazione abbia la possibilità di recedere liberamente dal rapporto. Ha aggiunto la Corte che la revoca delle funzioni legittimamente conferite ai dirigenti può essere conseguenza solo di una accertata responsabilità dirigenziale, in presenza di determinati presupposti ed all'esito di un procedimento di garanzia puntualmente disciplinato. In detta pronunzia la Corte ha affermato che in questi casi “forme di riparazione economica, quali, ad esempio, il risarcimento del danno o le indennità riconosciute dalla disciplina privatistica in favore del lavoratore ingiustificatamente licenziato, non possono rappresentare, nel settore pubblico, strumenti efficaci di tutela dei diritti lesi da atti illegittimi di rimozione di dirigenti amministrativi...”. Inoltre, con la sentenza n. 3929 del 20 febbraio 2007, la Corte di Cassazione ha affermato che “dichiarato nullo e inefficace il licenziamento di un dirigente comunale per motivi disciplinari inerenti alla responsabilità dirigenziale, il dirigente stesso ha diritto alla reintegrazione nel rapporto di impiego e nel rapporto di incarico, oltre che alle retribuzioni sino all'effettiva reintegrazione”. Ed, allora se ne deve dedurre che la disapplicazione dell’atto presupposto non può limitarsi ad determinare una generica una pretesa risarcitoria ma, privando di effetti l’atto “conosciuto” e disapplicato, determina il ripristino della situazione giuridica compromessa. Ne discende che, in caso di illegittimità, per contrarietà alla legge, del provvedimento disapplicato dal giudice ordinario, non sussistendo la giusta causa per 3 Il casus decisus, riguarda il dirigente amministrativo ed il dirigente dei servizi alla persona presso il Comune di Limbiate i quali avevano lamentato, dinnanzi al Giudice ordinario, sez. lavoro, la illegittimità dei provvedimenti amministrativi presupponente la revoca dei loro incarichi. In particolare: il Comune aveva prima sospeso cautelativamente i due dirigenti e, poi, previa riorganizzazione della dotazione organica, aveva loro revocato gli incarichi, prima del termine naturale di scadenza. I due dirigenti avevano fatto ricorso al locale Tribunale denunciando l’illegittimità, per contrarietà alla legge, del provvedimento di riforma della pianta organica del Comune e, dunque, avevano impugnato gli atti con cui si era proceduto alla soppressione delle posizioni dirigenziali. Il Giudice di primo grado aveva accolto le richieste introduttive del giudizio ma, come aveva poi fatto il giudice d’appello, non aveva “reintegrato” i dirigenti nell’incarico. 13 Relazione 27.4.2010 Avv. Francesco Paolo Laudisio il recesso ante tempus dal contratto, il dirigente avrà diritto alla riassegnazione di tale incarico precedentemente revocato. Paestum 27 aprile 2010. avv. Francesco Paolo Laudisio 14