Preparazione - Terre di Marca Obertenga

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Preparazione - Terre di Marca Obertenga
CARTAPAGLIA
Le storie-ricette
raccontate da
Fabrizio Rebollini
Uno Chef che sa filtrare le sue ricette
attraverso la tela dei suoi ricordi,
del territorio in cui abita
della qualità dei prodotti utilizzati.
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Indice
Latte brusco...................................................................................................................3
Agnolottia “culo nudo” ..........................................................................................5
Crocchette cremose di stoccafisso .......................................................................7
I bomboloni della nonna ......................................................................................9
Trote in carpione .................................................................................................... 11
Zuppa di verza al Montebore ……………………………………………………....13
Gnocchi di Polenta con fonduta di Montebore ………………………….. 15
Crostatina di “masin” e porri ……………………………………………………….. 17
Frittata all’erba di San Pietro e punte di ortiche ……………………… 19
Peperoni ripieni di tonno ……………………………………………………………... 21
Risotto con pasta di salame …………………………………………………………… 23
Ravioli di patate quarantine ripieni di pesto di montèbore ….. 25
Consumato di fagiolane della Val Borbera ………………………………… 28
Ravioli di patate ripieni di Mollana …………………………………………. 30
Torta di mele Carla della Val Borbera …………………………………….…. 32
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Latte brusco
Il latte brusco è un piatto tipico dell'entroterra ligure dal quale il nostro
territorio è ampiamente influenzato. D‟altra parte, siamo attraversati
da alcune delle antiche vie del sale e noi, da sempre, qui in mezzo, a
sfamare un po‟ tutti e apprendere qualcosa di nuovo dai forestieri. Così
avveniva anche in passato: pochi soldi per una minestra o, più spesso,
cambio merce con gli anciuiè che andavano e venivano a bordo dei
loro carri carichi di ceste, sacchi, casse e profumi.
Il latte brusco è una ricetta molto semplice che una volta si preparava
utilizzando le materie povere che i nostri vecchi avevano sempre in
cucina. La particolarità della ricetta, nella versione di casa nostra, è
l'utilizzo dei funghi secchi che un tempo era molto più diffuso che
adesso, d‟altra parte i funghi ci crescevano anche sotto il letto. Questi
venivano usati per dare più sapore al tutto e sono proprio i funghi
secchi l‟ingrediente che diversifica la nostra versione dalla ricetta ligure
dove il loro utilizzo non è previsto.
Il vero problema, ora come allora, è di non scottarsi, ma dopo le prime
ustioni imparerete come fare.
Ingredienti
1 litro di latte
9 cucchiai di farina
2 manciate di porcini secchi
1 cipolla di media grandezza
Aglio e prezzemolo tritati, a proprio gusto
4 uova per il preparato
1 uovo e pangrattato per l’impanatura
Preparazione
In un tegame, fate bollire mezzo litro di latte. Stemperate la farina
nell'altro mezzo litro, aggiungete i porcini precedentemente ammollati,
tritati e soffritti con la cipolla, l‟aglio e il prezzemolo. Unite il latte
bollente alla metà fredda e lasciate bollire quasi a fare una polenta.
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Aggiungete le uova uno alla volta e mettete nuovamente sul fuoco a
rapprendere. Lasciate raffreddare, tagliate il composto rassodato a
cubetti, impanate e friggete in olio extravergine d‟oliva.
Servite subito, appena fritti.
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Agnolotti
a “culo nudo”
Accendete il fuoco nella fornacella di pietra, fate bollire secchi e secchi
d‟acqua di pozzo o di ruscello nel calderone di rame, aggiungete la
cenere della legna bruciata nel focolare e ….. Non esageriamo, questo
era il modo un cui le nostre nonne facevano il bucato e si
preoccupavano dell‟igiene della biancheria di casa, non pretendo tanto,
ma non sognatevi di utilizzare tovaglioli lavati con moderni detersivi
profumati del tipo “due fustini in cambio di uno” per servire il piatto di
cui vi sto fornendo la ricetta che risulterebbe irrimediabilmente
compromesso.
Ma perché agnolotti a “culo nudo” ? Perché hanno il fondo in bella
vista, senza condimento, e si può apprezzarne pienamente il gusto.
Pero, chiunque interrogherete vi darà una propria personale
interpretazione e forse è giusto così, prendetele tutte per buone e fate
finta di niente. Personalmente credo che all‟origine di questa
definizione vi siano, però, anche le difficili condizioni di vita delle
popolazioni locali che magari, nei giorni di festa ma non tutti, potevano
permettersi il ripieno degli agnolotti, ma non sempre potevano
permettersi anche il sugo di condimento. Però, può darsi che stia
esagerando o forse no.
Ci tengo, infine, a precisare che non è mia intenzione creare dispute
con località limitrofe, giustamente orgogliose della “vera” ricetta
tradizionale. Vi racconto solamente di come li preparo io, scavando nei
miei ricordi d‟infanzia e seguendo i suggerimenti materni a loro volta
tramandati dalla nonna.
Ingredienti
Per la pasta:
500 g di farina bianca
12 tuorli d’uovo
3 uova intere
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Per il ripieno:
500 g di carne di manzo
200 g salsiccia di maiale
3 uova intere
una manciata di parmigiano
1 gambo di sedano
1 carota
1 cipolla
Due mazzetti di borragine
Un bicchiere di buon vino rosso
Preparazione
In una casseruola, fate stufare il manzo con sedano, carota, cipolla,
quindi bagnate con il vino rosso e continuate la cottura con del brodo.
Nel frattempo, lessate la borraggine e tostate in padella la salsiccia
sbriciolata. A cottura ultimata, unite il tutto, regolate di sale e
macinate il composto per preparare il ripieno che lascerete riposare in
una ciotola.
Confezionate la pasta fresca tirando una sfoglia molto sottile (qualcuno
dice come un velo di sposa) e preparate gli agnolotti che, una volta
lessati in acqua salata, servirete adagiati su un tovagliolo di cotone
(possibilmente bianco e senza profumo di detersivo) e conditi solo con
poco parmigiano per poter meglio apprezzare la bontà del ripieno.
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Crocchette cremose
di stoccafisso
Quello del capitano Querini, veneziano, era stato un viaggio
particolarmente “sfigato”. Aveva perso la nave con il suo prezioso
carico, guarda caso il 17 dicembre, una delle due scialuppe carica di
uomini del suo equipaggio era affondata e lui stesso era riuscito, per
miracolo, a sbarcare su un‟isola disabitata dove faceva un freddo boia.
Per l‟Epifania, alcuni pescatori di passaggio l‟avevano casualmente
salvato e portato nella loro vicina isola. Anche lì ghiaccio e, per di più.
una puzza tremenda.
Certo che faceva freddo! Si trovava oltre il circolo polare artico, alle
isole Lofoten e precisamente a Røst. Per la puzza, invece, era tutta
un‟altra storia: l‟intera isola era invasa da pesci messi a seccare all‟aria
aperta su appositi tralicci quando non, addirittura, inchiodati alle pareti
esterne delle abitazioni di legno. Tuttavia, quando i pochi reduci di
quell‟avventura tornarono a casa scrissero: “Abbiamo vissuto nel primo
cerchio del Paradiso, lontani dalla confusione e dall’obbrobrio dei
costumi italiani” (pensa te che novità n.d.r.). Più che della tragedia
erano, forse, memori della tradizione delle donne di quei posti che
avevano l‟abitudine di fare il bagno caldo nude, anche all‟aperto, ed
erano solite dormire con gli stranieri, quando i loro mariti erano in
mare, praticamente sempre.
Ma che c‟entra tutto questo con la nostra storia-ricetta? Quel pesce era
il merluzzo e l‟anno il 1432. Fu così che noi, popoli del sud,
imparammo a conoscere lo “stoccafisso”. I baschi, invece, che
conservavano il merluzzo sotto sale, lo chiamavano “bacalao”, da cui
baccalà, e da allora, come vedremo, iniziarono confusione e dispute.
Lo stoccafisso invase il mondo e tutti sembravano contenti. Noi italiani,
invece, come di solito, cominciammo a sofisticare: In Veneto e in
Calabria lo volevano magro e sottile, dalle altre parti la richiesta era di
esemplari grandi e più polposi, i Liguri lo volevano più grasso, i Veneti,
tra l‟altro, cucinavano lo stoccafisso ma, per semplificare la vita, lo
chiamavano - e lo chiamano tutt‟oggi - baccalà. I poveri norvegesi, che
fino allora avevano mangiato solo del pesce secco, cominciarono ad
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andare in paranoia e dovettero inventarsi una nuova professione,
quella del Vrakeren che ancora oggi valuta, distingue e classifica ogni
singolo stoccafisso. Come ebbe a dire qualche anno fa il Borgomastro
di Røst: “Per noi lo stoccafisso era ed è un pesce, per voi è cultura”.
D‟altra parte, circa l‟80% della produzione è destinata al mercato
italiano.
E cosa c‟entriamo noi delle Terre di Marca Obertenga con lo
stoccafisso? Vi ricordate delle rotte delle vie del sale , sulle quali ci
troviamo, e degli anciuiè che le percorrevano? Cosa credete che
portassero, tra le varie merci, nei loro misteriosi e affascinanti carri?
Ingredienti
150 g di stoccafisso bollito e frullato
500 g di latte
500 g di panna
90 g di farina
150 g di burro
5 patate medie
una manciata di prezzemolo tritato e uno spicchio di aglio
Preparazione
In una casseruola, fate fondere il burro, aggiungete la farina, quindi il
latte e la panna bollenti, in sostanza preparate una besciamella.
Lessate le patate, passatele e mescolatele alla besciamella. Aggiungete
anche lo stoccafisso (bollito e frullato), l‟aglio e il prezzemolo tritati,
aggiustate di sale e pepe.
Lasciate riposare il composto, quindi formate delle crocchette del
diametro di circa 2 cm. Passatele nella farina, impanatele e, dopo
averle fatte riposare in frigo per una quindicina di minuti, friggetele in
abbondante olio extravergine d‟oliva e servitele calde.
Qualcuno dirà che questa ricetta non ha molto a che fare con la
tradizione. Non è del tutto vero e poi le cocchette a me piacciono
moltissimo sin da quando ero bambino.
P.S. Per l’ammollatura dello stoccafisso, seguite le indicazioni che vi
saranno date dal rivenditore, in quanto variano a seconda delle
caratteristiche del prodotto e della lavorazione preliminare a cui è stato
sottoposto.
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I bomboloni della
nonna
Giuseppe e Andrea me lo avevano già detto che questo non doveva
essere un ricettario ma, piuttosto, un quaderno d'appunti attraverso il
quale parlare con semplicità del nostro territorio. Però, mi sono detto,
adesso arriva il Natale e bisogna pensare a qualche piatto classico
della tradizione. In fin dei conti, anche se dalle nostre parti non si
navigava nell‟oro, le festività erano sempre onorate dalle nostre donne
con piatti ricchi e succulenti. Mi sono messo a pensare e i ricordi erano
tanti. Profumi e visioni che, francamente non so dirvi se sarei oggi in
grado di riprodurre. Sarà stata la sapienza dei nostri vecchi, la loro
innata sensibilità al dosaggio degli aromi, la qualità e il sapore delle
materie prime o forse più semplicemente l‟eccezionalità della
preparazione di pietanze che certamente non erano di tutti i giorni,
però i “ricordi” mi sono sembrati di colpo “irriproducibili”. Ma come
fare, allora, a raccontare quelle sensazioni che mi farebbe piacere
trasferire a chi legge queste poche righe e magari intende cimentarsi
nella preparazione delle ricette che vi propongo?
Mi sono rivoltato nel letto per un‟intera notte e all‟alba mi sono
ricordato di un “profumino” che nei giorni di festa non mancava mai in
casa di mia nonna. Mi sono alzato, sono andato in cucina e ho
cominciato ad armeggiare. Mia sorella Serena è apparsa poco dopo
sulla porta della cucina per capire cosa stesse accadendo e mi ha
rudemente apostrofato: “ma ti sembra questa l‟ora di fare tutto questo
casino?”; le parole esatte non posso ripeterle, ma il concetto era
abbastanza chiaro. “Sì”, ho risposto brusco, continuando a trafficare
mentre le raccontavo di cosa mi era venuta voglia. E‟ rimasta, per un
attimo, perplessa, si è stropicciata gli occhi, poi mi ha guardato quasi
con tenerezza (almeno così mi è sembrato) e ha cominciato a darmi
una mano. Anche per lei quel profumo che nei giorni di festa invadeva
la nostra casa ancora prima che noi bambini ci alzassimo è ancora oggi
un ricordo indimenticabile. Poco dopo ci contendevamo, come dei
bambini, il prodotto di questa occasionale collaborazione mattutina
mentre fuori dalla finestra un cielo terso e un sole appena sorto
facevano risplendere un fantasticopaesaggio innevato. Non avevamo
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preparato un elaborato piatto da pranzo di Natale, ma che buoni i
bomboloni della nonna!
Ingredienti:
500 g di farina
500 g di patate
50 g di zucchero
50 g di burro
50 g di lievito di birra
scorza di limone e di arancia (non trattate)
3 o 4 uova, a seconda delle patate
Preparazione:
Lessate le patate, schiacciatele e impastatele con il burro, lo zucchero,
il lievito di birra, la farina e le scorze grattugiate. Aggiungete le uova
e, dopo avere impastato bene il tutto, mettete a lievitare.
Confezionate i bomboloni a forma di ciambella così sarà più facile
regolarvi sulla cottura, quindi fateli ancora lievitare.
Friggeteli in abbondante olio caldo (circa 160/180°) e, quando saranno
dorati, scolateli per bene utilizzando della carta assorbente o della
“cartapaglia”, fino a eliminare ogni eccesso di olio. Attenzione e farli
friggere lentamente in modo che cuociano bene anche all‟interno.
A fine cottura passateli nello zucchero e serviteli.
Non esagerate nel loro consumo come sono solito fare io.
Raccomandazione
E‟ importante che facciate molto attenzione alla lievitazione. Inoltre,
tenete presente che per friggere i bomboloni ci vuole molto olio
(meglio se utilizzate una friggitrice elettrica) e con questa dose ne
vengono fuori parecchi. Vi consiglio anche di provare la ricetta prima di
utilizzarla “ufficialmente” così da capire bene i tempi e le temperature
di lievitazione e di cottura.
Variante salata
A volte, ne faccio anche una versione salata, a forma di piccole palline,
che riempio con pezzetti di buon formaggio di alpeggio non molto
stagionato. Ovviamente non utilizzo lo zucchero né per la preparazione
né dopo la frittura. Prima di servirli li avvolgo, però, in una fetta di
pancetta che grazie al caldo si scioglie e rende il tutto irresistibile.
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Trote in carpione
Nella vicina Liguria per fare il pesce in carpione utilizzano, ovviamente,
il pesce di mare. Noi, che il mare non ce l‟abbiamo, ci siamo dovuti
adattare, ce l‟abbiamo messa tutta e siamo riusciti a inventare un
nostro carpione che non ha nulla da invidiare a quello di pesce marino.
Ma “carpione” altro non è che il nome di un pesce d‟acqua dolce (della
famiglia dei salmonidi) che si trova quasi esclusivamente nel lago di
Garda. Noi, però, che non abbiamo neanche il lago, ma siamo
attraversati dal Borbera e dalle sue splendide acque cristalline,
utilizziamo la Trota Fario che nulla ha da invidiare al Carpione (inteso
come pesce) e la prepariamo in “carpione” (intesa come ricetta). Tutto
chiaro? Allora andiamo avanti.
Le trote le pescavano gli uomini, praticamente sotto casa, anche se, a
dire il vero, il compito non era del tutto facile. In compenso, però, non
era neanche faticoso. Si trattava di sapere aspettare e di cercare di
essere un po‟ più furbi del pesce. Le Trote Fario sono, infatti, pesci
furbi e molto sospettosi che ricercano le zone riparate dal sole e sono
in grado di mimetizzarsi col fondo. Ma quando si era capito il
meccanismo e si erano imparate le zone migliori di pesca, non si
faceva certo una gran fatica.
A casa, alle donne competeva la pulitura dei pesci, la cottura e infine la
loro conservazione. D‟altra parte se i loro uomini erano stati furbi,
almeno più delle trote, avevano certamente portato a casa tanto pesce
e non si poteva morire d‟indigestione né, tanto meno, intossicati dal
pesce marcio. Poiché una volta era difficile conservare i cibi
(figuriamoci il pesce) si trattava di capire come fare. Ed ecco venire in
soccorso il “carpione” (intesa come ricetta): con la frittura si evitava
che il pesce andasse a male mentre con l‟aceto si favoriva la
conservazione.
Non so se avete capito, ma la ricetta che vi descriverò è quella della
trota in carpione!
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Ingredienti
4 trote, possibilmente Fario
2 cipolle
2 spicchi d'aglio
farina
un quarto di litro di acqua
un quarto di litro di aceto di vino rosso
olio extravergine d’oliva
salvia
lauro
sale
Preparazione
Fate bollire l'acqua e l'aceto, con la cipolla tagliata a spicchi, l'aglio, la
salvia e il lauro, per circa 10 minuti. Prima della bollitura ricordatevi di
aggiungere un pizzico di sale grosso.
A parte preparate le trote. Dopo averle pulite, lavate e asciugate
passatele nella farina bianca e friggetele nell‟olio. Una volta scolate
nella cartapaglia lasciatele raffreddare, quindi mettetele in una terrina
a bagno del composto ottenuto dalla bollitura dell'acqua e dell'aceto,
con tutti gli aromi.
Lasciatele riposare per mezza giornata ed ecco che sono pronte per
essere gustate.
Il gusto è stupefacente. L‟importante è avere buone trote e un ottimo
aceto.
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Zuppa di verza
al Montebore
Una volta, dalle nostre parti non c‟era molto da scialare e i nostri
vecchi non erano molto inclini all‟ottimismo e, quindi, allo spreco. Si
cucinava quel che c‟era!
Anche quando la materia prima non
mancava, la “parsimonia” era di rigore: “c’è poco da sfogliar verze “
era il motto che nelle varie forme dialettali, così simili ma anche così
diverse da una valle all‟atra, si sarebbe potuto scolpire sopra ogni
focolare della nostra zona.
Eppure, in inverno, di verze ce n‟erano in abbondanza negli orti di
tutte le case. E allora, perché prendersela con le verze? Perché le
verze, se non lo sapete, sono una verdura infida e traditrice! Ma
come, direte voi, la verza che è così buona sia cruda sia cotta sia
conservata e per di più fa anche bene? Certo, è infida perché con tutte
quelle foglie pressate l‟una sull‟altra, mentre la si sfoglia, dà la
sensazione di non finire mai e potrebbe indurre allo spreco! Togli una
foglia, poi ne togli un‟altra e un‟altra ancora e poi, d‟un tratto, ti ritrovi
con un torsolo in mano.
E allora, dai a inventarsi ricette che consentivano di sfruttare fino
all‟ultima foglia: zuppe più o meno ricche, involtini di varia foggia per
riciclare gli avanzi subdolamente impacchettati, oppure altre soluzioni,
più o meno povere, come quella che vi racconterò oggi.
Ingredienti
1 verza di medie dimensioni
400 g di montebore non troppo stagionato
1 cipolla
pane raffermo
25 g di burro
sale, pepe e noce moscata
brodo di manzo
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Preparazione
Prendete una verza, togliete le foglie più coriacee, le coste più grosse,
il torsolo e, dopo averla lavata,
affettatela grossolanamente e
brasatela aggiungendo un po‟ di brodo, fino a quando non sarà
diventata tenera. Nel frattempo fate appassire la cipolla, tagliata molto
finemente, in poco burro, unite la verza e fate insaporire per circa
cinque minuti.
Imburrate una pirofila da forno, quindi disponete uno strato di pane
raffermo tostato (possibilmente integrale), uno di verza ricoprite con
delle fette di montebore non troppo stagionato. Spolverate con noce
moscata grattugiata, regolate di sale e di pepe e terminare con un
ultimo strato di pane e qualche noce di burro.
Ricoprite con il brodo (possibilmente di manzo) e cuocete in forno a
180° per circa 30 minuti. Servite ben caldo.
Alcuni nasi raffinati potranno anche contorcersi ma, cosa volete, noi
siamo gente rude e ci piacciono i profumi veri.
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Gnocchi di polenta
con fonduta di
Montebore
Quando nella sua serra-laboratorio fai da te vide spuntare delle
minuscole foglioline, probabilmente a Biagio vennero gli occhi lucidi.
Qualche mese prima, in giro come al solito per valli e cascinali delle
nostre Terre, aveva trovato per caso, presso un contadino della Valle
Ossona, due vecchie pannocchie annerite dal fumo di un camino. Le
aveva accudite per mesi come si può fare con un neonato e, da
appassionato genetista autodidatta, qual era, era riuscito a far
germogliare ben 5 piantine. Era l‟anno 1981 e Biagio Pelletta aveva
salvato dall‟oblio l‟Ottofile tortonese!
Perché Ottofile? Ma perché sulle lunghe e puntute pannocchie erano
allineate, come tanti soldatini, solo otto file di semi belli e lustri di
colore leggermente diverso a seconda delle zone di produzione.
In zona, praticamente tutte le famiglie contadine lo avevano
coltivavano per decenni, d‟altra parte la polenta, come si usava dire,
era il “pane dei poveri” e serviva a risolvere molte situazioni di difficile
esistenza anche se, a volte, con qualche rischio di malattie come la
pellagra se non c‟era null‟altro da mangiare insieme alla polenta. Tra
gli anni ‟50 e gli anni‟60 però i contadini avevano man mano preferito
seminare altre qualità di mais molto più produttive (fino a 5 volte di
più) e l‟Ottofile era arrivato, di fatto, a scomparire.
Poco alla volta, però, grazie alla cocciutaggine del nostro Biagio, alcuni
contadini più lungimiranti ripresero a coltivarlo, non senza qualche
esitazione, perché se le cose si fanno bisogna farle bene. Intanto
bisogna coltivarlo lontano dagli altri mais per evitare impollinazioni che
ne comprometterebbero la purezza, manco a dirlo senza concimi
chimici e possibilmente in rotazione triennale. E poi, se si vogliono
fare le cose al meglio, va macinato a “pietra naturale”. E non dite che
è roba da maniaci, la macinazione a “pietra naturale” avviene molto
lentamente e non riscalda la farina che riuscirà così a conservare i
sapori e i profumi d‟una volta quando la utilizzeremo per fare una
buona polenta. E non date retta a quelli che vi dicono che quello della
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polenta è un sapore “neutro”, lo possono dire solo se non hanno mai
conosciuto la polenta fatta con la farina del nostro Ottofile, “palestra di
fantasia” delle nostre nonne.
Ma perché vi ho raccontato tutta questa storia? Ovvio, per introdurvi
alla mia nuova storia-ricetta che si basa sulla semplicità. Ma proprio
perché è estremamente semplice non può che fondarsi sull‟assoluta
qualità dei prodotti utilizzati: il nostro mais Ottofile e il nostro
imperdibile Montebore.
Ingredienti
1 kg di polenta Ottofile (già cotta)
200 g di farina (per l’impasto)
500 g di panna
60 g di burro
50 g di farina (per la fonduta)
400 g di montebore non troppo stagionato
Preparazione
Impastate la polenta con la farina e confezionate gli gnocchi secondo
tradizione.
Preparate quindi la fonduta facendo bollire la panna e unendola al
burro e alla farina già mescolati a caldo. Aggiungete il Montebore
tagliato a cubetti e fatelo fondere bene fino ad ottenere una salsa liscia
e vellutata.
Lessate gli gnocchi facendoli bollire per qualche minuto in acqua salata
e saltateli dentro la fonduta.
Potete servirli così oppure gratinati in forno a media temperatura fino a
che prendono un po‟ di colore.
Questa è la mia idea di polenta e formaggio.
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Crostatina di
“masin” e porri
Pochi chilometri tra boschi, torrenti incontaminati, tanti tornanti e
finalmente si arriva al mare. Hilario, che abitava nel nostro Paese da
quasi un anno, mi parlava in buon italiano alternato a frasi in una
lingua assolutamente incomprensibile che ascoltavo per la prima volta
in vita mia e aveva i lucciconi agli occhi. Ci eravamo conosciuti il
giorno prima durante una delle manifestazioni enogastronomiche alle
quali mi capita di partecipare e subito era nata una reciproca simpatia.
Dopo cena, con quello che avevamo mangiato e bevuto, i rispettivi
riflessi non erano al massimo. Eravamo a quel livello in cui si comincia
con le nostalgie. Hilario, non chiedetemi il cognome assolutamente
impossibile da pronunciare, mi stava raccontando del suo territorio,
che somigliava tanto al mio, e delle sue nostalgie che sarebbero state
anche le mie ma che, francamente, non potevo provare perché mi ero
allontanato da casa solo da due giorni e vi sarei tornato all‟indomani.
Veniva da un villaggio sperduto tra le montagne dei Paesi Baschi e,
anche lui, sceso dai bricchi (o come diavolo si chiamano da quelle
parti) arrivava facilmente al mare, anche lui aveva il suo golfo: il Golfo
di Biscaglia. Mi parlò delle stagioni e della primavera, quella che
quest‟anno, da noi, ha fatto una gran fatica ad arrivare, della
stagionalità della sua cucina e dei piatti prelibati che preparava con i
“perretxikos” che, in questa stagione, raccoglieva appena fuori dalla
porta di casa. I “perretxikos” ? All‟inizio non capii cosa fossero, poi me
li descrisse, mi raccontò di come li cucinava, pensai alla stagione e non
ebbi più dubbi. Si trattava dei funghi di San Giorgio, quelli che dalle
nostre parti sono noti anche con il nome di “masin” e che si trovano
proprio adesso sotto biancospini e prugnoli selvatici, tant‟è che, ad
esempio, in Toscana li chiamano proprio “prugnoli”. Come si suol dire:
“tutto il mondo è paese” . Mi raccontò che dalle sue parti li cucinavano
quasi sempre con le uova strapazzate e qualche volta in zuppa. Io,
invece, gli descrissi la ricetta che vi racconto qui di seguito e che,
francamente, mi sembra anche più interessante. Ecco, so quello che
farò domattina all‟alba e quale sarà uno degli antipasti che servirò ai
miei clienti.
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Ingredienti e preparazione
Per la pasta brisè
250 g di farina
150 g di burro chiarificato,
Sale.
Setacciate la farina e versatela sulla spianatoia a fontana, aggiungete
nell'incavo il burro a pezzetti, il sale ed impastate velocemente,
formando delle briciole con le punte delle dita. Unite un cucchiaio di
acqua molto fredda, quindi continuate a lavorare fino ad ottenere un
impasto omogeneo che terrete in frigo a riposare, avvolto nella
pellicola da cucina, per un'oretta.
Stendete bene la pasta fredda su una teglia rotonda da 20/22 cm,
bucherellatela, quindi copritela con carta forno e versatevi fagioli
secchi oppure gli appositi pesetti per la cottura a secco. Infornate a
180° per circa 12 minuti. Togliete ora pesi e carta e riponete
nuovamente in forno a completare la cottura per altri 5/7 minuti. Fate
raffreddare.
Per la farcia
300 g di porri mondati
300 g di funghi “masin” trifolati
70 g circa di burro chiarificato
4 tuorli d'uovo
300 ml di panna fresca liquida
Una grattatina di noce moscata, sale e pepe.
Fate sciogliere il burro in una pentola capiente, quindi aggiungete i
porri, qualche cucchiaio di acqua, un pizzico di sale e fate cuocere a
fiamma media, coperto, fin quando i porri risulteranno morbidi ed
omogenei (circa mezz'ora). Togliete il coperchio e lasciate raffreddare .
Amalgamate poi in una ciotola i tuorli con la panna, salate e pepate,
lavorate energicamente il tutto.
Con delicatezza, versate a questo punto i porri , i funghi masin ed il
composto di panna e tuorli nella base di brisè già fredda. Distribuite i
porri e i funghi uniformemente all'interno.
Cuocete nel forno già caldo a 200° per circa trenta minuti, o fino a
quando il ripieno non risulterà solido.
Servite la crostata calda.
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Frittata all'erba di
San Pietro e punte
di ortiche
Nicholas Culpeper. Non mi dite che sapete chi sia o che ne avete già
sentito parlare perché non ci credo e mi arrabbio, a meno che non
siate un erborista o giù di lì. Io l‟ho scoperto per caso qualche sera fa
a casa di un amico, sfogliando un antico libro scritto in inglese. Non
conosco questa lingua e quindi guardavo le figure. Disegni bellissimi
e accuratissimi, più realistici delle foto, attraevano la mia attenzione.
Ad un tratto l‟immagine di un‟erba fiorita mi colpì: ma questa io la
conosco! Il mio amico ,incuriosito, guardò il libro e mi disse un nome
latino - come mi precisò dopo - che non avevo mai sentito. Eppure ero
sicuro di averla riconosciuta! Chiesi di tradurmi cosa c‟era scritto e il
mio stupore crebbe a dismisura. State a sentire cosa scriveva questo
Culpeper:
«La pianta è sotto il dominio di Giove. La balsamita comune, favorisce
l’aumento di urina, addolcisce l’umore, seda la tosse e il catarro,
attenua ciò che è grave, taglia ciò che è duro, purifica ciò che è fallace,
impedisce la putrefazione, ed è utile in tutti i tipi di febbri a secco. E'
astringente per lo stomaco, e fortifica fegato e altri visceri; assunta in
siero di latte, opera in modo più efficace. Assunta a digiuno al mattino,
allevia i dolori cronici alla testa, attenua il freddo ed i reumatismi da
esso causati, favorisce la digestione, fornisce un valido aiuto a coloro
che sono caduti in una disposizione costante di male del corpo,
chiamata cachessia, soprattutto in inizio della malattia. È un ottimo
rimedio per il fegato debole e freddo. Il seme viene dato ai bambini
per combattere i vermi, e così avviene anche per l'infuso di fiori al vino
bianco, somministrato in circa 60 grammi per volta. E 'una pianta che
permette la fabbricazione di pomate eccellenti per curare le ulcere di
vecchia data, e se viene bollito con olio d'oliva, insieme a lingua di
vipera, e dopo viene filtrato, con l’aggiunta di un po' di cera, resina e
trementina, per renderla densa come richiesto, può essere utilizzata in
una vasta gamma di applicazioni, apportando benefici duraturi nel
tempo».
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Chiesi al mio amico se quella pianta miracolosa pagasse anche i debiti
e facesse innamorare le principesse ma non mi diede risposta e, per di
più, non mi seppe dire come si chiamasse comunemente. Io, invece,
lo sapevo! Non solo, ma sapevo anche dove si trova, quello che ci
faceva mia nonna e tutte le massaie di campagna, e ne sentivo il
profumo anche se non c‟era. E poi, l‟ho utilizzata tante volte in cucina
e non per fare tutte le cose terribili che diceva quel signor Culpeper (a
pensarci bene, che razza di cognome aveva!). Il problema era trovare
il nome italiano giusto, visto che ognuno la chiama a modo suo.
Tanacetum balsamita no, quello è latino. E allora? Menta romana,
erba della Madonna, erba di Santa Maria, menta greca, fritola, erba
buona, erba amara, …… noi la chiamiamo erba di San Pietro.
Mentre io ho perso tempo a raccontarvi questa storia, mia sorella
Serena ha già preparato il piatto che ancora vi debbo descrivere e se
non mi sbrigo lo fa tutto fuori. . Fortuna che la ricetta è semplicissima!
Ingredienti
6 uova grandi
una quarantina di tenere foglie di erba di San Pietro
una manciata di punte di ortiche tenere
3 cucchiai di parmigiano reggiano grattugiato
sale, pepe, profumo di noce moscata
un cucchiaio d'olio
Preparazione
Lavate e asciugate le foglie di erba di San Pietro e le ortiche. Togliete
all‟ erba di San Pietro il gambo e la costola centrale. Battete un po' le
uova, conditele con sale, pepe, la noce moscata e il parmigiano
grattugiato. Aggiungete le foglie tritare grossolanamente insieme alle
punte di ortiche, date ancora una mescolata e cuocete in padella
antiaderente ben calda e unta con un goccio di olio extravergine
d'oliva.
Il risultato sarà esaltante quanto semplice è la ricetta.
Aspettami sorellina!
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Peperoni ripieni
di tonno
Tutte le volte che debbo inviare una ricetta a quelli delle Terre di Marca
Obertenga mi faccio prendere dall‟ansia. Ormai un anno fa, quando ci
siamo incontrati la prima volta, mi avevano spiegato che non erano
interessati a fare uno dei tanti ricettari, ma volevano che raccontassi
delle ricette “tradizionali” del Territorio in cui vivo e in cui, da
generazioni, la mia famiglia si occupa di ristorazione.
L‟ansia di cui parlo non deriva tanto dal dovere scrivere una storiaricetta (in questo loro mi danno sempre una mano) ma dal dover
trovare una ricetta “tradizionale”. All‟inizio, tutto facile, qualche ricordo
e via, ma poi le cose si sono sempre più complicate: cos‟è una ricetta
“tradizionale” e quando una ricetta diventa “tradizionale”?
Mi dicono che quelli che parlano di cibo e di cucina, magari senza mai
avere cucinato in vita loro, sono capaci di scrivere interi libri per
spiegartelo. Una volta ho letto un articolo nel quale si diceva
letteralmente che un prodotto enogastronomico, una festa, un vestito
tipico, diventano tradizionali quando vengono collocati al di fuori del
tempo, o meglio, in un “tempo mitico” completamente a-storico,
slegato dallo scorrere effettivo degli anni. Non ci ho capito molto e mi
gira ancora la testa al solo pensarci !
Allora ho deciso di dare una definizione che non vuole togliere niente a
nessuno ma che vuole essere una risposta a me stesso, a quelli di
Terre di Marca Obertenga e a tutti coloro che non hanno voglia di
arrovellarsi troppo il cervello. Per me, un piatto (nel senso di una
ricetta) è “tradizionale” quando lo ricordiamo e lo viviamo come tale,
quando ad esso sono legati i nostri ricordi dell‟infanzia e magari quelli
dei nostri genitori e dei nostri nonni, quando ne ricordiamo i profumi,
quando è realizzato con i prodotti del territorio che siamo sempre stati
abituati a vedere circolare in casa. E si badi bene, non deve trattarsi
necessariamente di ingredienti che vengono prodotti nello specifico
Territorio, ma di ingredienti che “tradizionalmente” venivano e
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vengono tutt‟oggi usati in quel Territorio. Ad esempio, noi in Piemonte
le acciughe non le peschiamo (questo è sicuro) però nessuno oserà
dire che la “bagna caoda” non è un piatto ”tradizionale”. E non
peschiamo neanche il tonno, figuriamoci poi in scatola e sott‟olio,
quindi non oserete sostenere che la ricetta che vi sto per dare non sia
“tradizionale”. Io, specie in questa stagione, la ricordo da sempre a
casa mia preparata da mia madre e anche da mia nonna, magari con
qualche piccola variante, quindi per me è “tradizionale” a prescindere,
come diceva Totò.
Ingredienti
2 peperoni rossi
150 g di pane raffermo ammollato nel latte
350 g di tonno sott'olio
1 manciata di capperi
3-4 filetti di acciughe all'olio d'oliva
2 cucchiai di parmigiano
una manciata prezzemolo
pepe nero, olio e sale q.b.
Preparazione
Fate arrostire i peperoni per 25 minuti in forno a 170°, mondateli e
privateli dei semi.
Frullate il pane, il tonno sottolio, i capperi, l'acciuga, il parmigiano, il
prezzemolo con un filo di olio extravergine e aggiustate il composto di
sale e pepe a vostro piacimento.
Riempite i peperoni dando loro la forma di cannelloni, lasciateli
riposare e serviteli freddi.
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Risotto con
pasta di salame
D‟estate, quando dopo mezzanotte, rassettata la cucina, mamma
Marisa
mi
vede
tirare
fuori
dal
garage
il
mio
fido
“apepiaggiodacombattimento” assume un‟area preoccupata e comincia
a borbottare come la classica pentola di fagioli. Certo, andare a
quell‟ora di notte per bricchi e valli dopo una giornata di lavoro non è
proprio il massimo ma è più forte di me, ci sono delle sagre paesane,
dalle nostre parti, alle quali non riesco proprio a rinunciare.
Pochi giorni fa, ad esempio, c‟è stata La festa del Salame Nobile del
Giarolo a San Sebastiano Curone, era la decima edizione e non potevo
certo mancare. E poi, mi aveva telefonato Andrea, quello delle Terre di
Marca Obertenga che ormai da molti anni cura con successo
l‟organizzazione della festa nei minimi dettagli: “che fai, vieni ?” .....
come dirgli di no! L‟apparente semplicità della domanda nascondeva,
però, un messaggio in codice. L‟invito alla festa del salame aveva un
significato preciso che ben conoscevamo entrambi: "vieni e chiudi la
serata alla tua maniera?". Decido su due piedi di affrontare i brontolii
di mia madre e rispondo di sì. Per non complicarmi troppo la vita,
questa volta, poterò con me anche mia sorella Serena che risulta più
affidabile di me agli occhi di mia madre e, detto tra di noi, in caso di
necessità, provvederà al rientro.
Ma perché non andare in macchina? Ogni cosa ha un suo perché! Non
debbo caricare molto, sul mio “apepiaggiodacombattimento” c‟è già
tutto quello che serve in simili frangenti e quello che non c‟è lo
troveremo sicuramente sul posto. Vuoi che alla festa del salame non
abbiano qualche chilo di pasta di salame per qualche disperato
nottambulo?
All‟una di notte, nella piazza del Comune di San Sebastiano Curone, di
disperati nottambuli ce n‟era più di qualcuno e la pasta di salame per
un classico risottino non mancava. Mi organizzo e comincio a cucinare
in modo un po‟ particolare: riso, cipolla, pasta di salame, vino per il
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risotto, ….. vino per me …… ma non preoccupatevi, Serena è una
sicurezza e, in caso di necessità, sarà in grado di riportarmi a casa,
con buona pace di mia madre.
D‟altra parte sul manifesto della festa c‟era scritto a chiare lettere: ”Il
Salame Nobile del Giarolo incontrerà i vini della Marca Obertenga”.
Potevo mancare l‟appuntamento con il rischio che si offendessero
entrambi?
E la ricetta ? Beh, questa volta non ve la do!
Perché una cosa è fare un risotto a casa propria o in un ristorante,
altra cosa è farne in gran quantità in una piazza obertenga, all‟una di
notte di una calda estate. Vi racconterò solamente quello che ho fatto,
per quanto riesca a ricordarmi.
Non avevo abbastanza brodo e in piazza non avrei avuto il modo di
tostare e sfumare il riso, quindi ero arrivato con un‟abbondante
quantità di riso già sfumato alla barbera. Anche la cipolla del soffritto
era già stata stufata con barbera e brodo, lasciata ridurre e frullata.
Indovinate, invece, il trattamento per la pasta di salame, anch‟essa
sfumata alla barbera.
Con il riso e la cipolla, già parzialmente preparati, ho iniziato la cottura
del risotto, dopo circa 10 minuti ho aggiunto la pasta di salame, fatto
cuocere per altri 5 minuti, mantecato con del burro freddo e tanto
parmigiano.
E voilà !
Signori della Corte, questo è quel che ricordo, per il resto ci ha pensato
Serena.
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Ravioli di patate
quarantine
ripieni di pesto al
montébore stagionato.
Prima o poi anche le popolazioni europee ci sarebbero arrivate
egualmente ma, considerati i ritmi e le diffidenze della cultura
contadina, può anche darsi che oggi non avrei potuto darvi questa
ricetta. D‟altra parte, come dare loro torto quando i trattati scientifici
dell‟epoca definivano questa pianta come cibo "capace di provocare
effetti allucinogeni e di dare alle streghe il potere di volare"? Però,
come dicono i nostri vecchi, non tutti i mali vengono per nuocere e fu
così che, intorno alla metà del 1700, un farmacista dell‟esercito
francese, prigioniero dei prussiani, scoprì le qualità nutritive di questa
pianta che i comandanti prussiani utilizzavano forzatamente per
sfamare il proprio esercito.
Il farmacista, tornato in patria, aveva creduto di avere vita facile ma,
invece, dovette attendere fino al 1771, prima che la Facoltà di
Medicina di Parigi definisse la patata non pericolosa ma anzi sana e di
grande utilità sociale. Da allora, grazie al farmacista AntoineAugustinParmentier le streghe non volarono più e chi voleva avere le
allucinazioni dovette cambiare pianta.
Ma non finì qui, perché dopo la carestia del 1785, Luigi XVI ordinò ai
nobili di obbligare i propri contadini a coltivare il tubero. I contadini,
che continuavano a essere diffidenti, lo fecero poco e di mala voglia e,
allora, pensa cosa s‟inventarono il Parmentier e il Re: fecero coltivare
patate nei giardini di Champ de Mars e le fecero guardare a vista dai
soldati armati posti a protezione di una pianta “riservata al Re”. I
contadini abboccarono, rubarono la pianta e la diffusione della patata
fu assicurata. Qualche anno dopo tagliarono la testa al Re e a qualche
altro migliaio di nobili e non, ma sembra che questo non avesse
niente a che fare con le ”allucinazioni” da patata.
Con il nuovo secolo cominciarono a sbizzarrirsi i cuochi, che già allora
avevano il vizio di scrivere libri di ricette, ed ecco che la patata da
umile tubero divenne oggetto di raffinate prelibatezze: in polenta, in
crema, in polpette, in bignè, arrostite, ripiene al burro e ,udite … udite,
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anche "patate in gnocchi": ”cotte che saranno al forno le patate, la loro
più pulita sostanza si pesta con una quarta parte di gialli d'uova duri,
altrettanta di grasso di vitello e anche di ricotta. Si unisce e si lega
dopo con qualche uovo sbattuto, si condisce di spezie e si divide in
tanti bocconi lunghi e grossi come un mezzo dito, i quali infarinati si
mettono nel fuoco bollente, e bolliti per poco si servono nel piatto
incaciati e conditi con sugo di carne”. Certamente, però, questa ricetta,
presentata nel 1801 da Vincenzo Corrado ne "Il Cuoco Galante",
risentiva dei postumi delle recenti carestie.
Ora veniamo a noi che, delle oltre 3000 varietà di patate esistenti al
mondo, preferiamo la Patata Quarantina che condividiamo volentieri
con i nostri cugini liguri. Cosa vi presento oggi?
Ingredienti
Per l’impasto:
1 kg di patate quarantine lessate
250 g di farina
3
tuorli d’uovo
50 g di parmigiano
noce moscata
sale
Per il ripieno:
300 g di ricotta
2 mazzi di basilico
60 g di pinoli
50 g di montébore secco grattugiato
2 dl
di olio di oliva
Preparazione
Dopo averle lessate e sbucciate, passate le patate e quindi aggiungete
i rossi d‟uovo. Insaporite con il sale, la noce moscata e il parmigiano.
Impastate il tutto con la farina e lasciate risposare.
A parte, preparate il pesto con tutti gli ingredienti triturati elencati per
il ripieno e mescolatelo con la ricotta fino ad ottenere un composto
omogeneo.
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Tirate l‟impasto di patate con il mattarello dandogli uno spessore
medio. Disponete sull‟impasto piccoli mucchietti di ripieno di ricotta
lavorata con il pesto e coprite con un altro strato di pasta, quindi
formate i ravioli tagliandoli in modo da dare loro forma quadrata e
cuoceteli
Cuocete i ravioli in abbondante acqua salata.
Io li condisco con burro fuso e scaglie di montébore.
Serena ….. d‟accordo, ne ho mangiati tanti …. ma smettila di VOLARE!
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Consumato di
fagiolane della
Val Borbera
Il percorso di evasione dalla maniera vasariana ………… prime scene di
genere dell'arte italiana ……. superare certe estremizzazioni del
manierismo tardo-cinquecentesco ……. Confesso che mi stavo
annoiando terribilmente anche perché non capivo niente di quanto
un’avvenente guida turistica ci stava raccontando da una buona
mezz’ora.
Ero a Roma dal giorno prima, insieme ad alcuni miei colleghi chef, per
un‟esibizione e, invece di andarmene a spasso per i fatti miei, mi ero
lasciato coinvolgere nella visita di quello che mi dicono essere uno dei
più belli e sfarzosi palazzi privati romani: palazzo Colonna.
Marmi, mobili preziosi , affreschi e tappeti dappertutto e tanti quadri
da perderci la testa. La nostra guida parlava e parlava, raccontandoci
tutto di tutto. Confesso che mi stavo annoiando, mentre nella mia
testa mettevo a confronto tanta esibizione di ricchezza con lo stile di
vita proprio delle genti delle nostre valli. Le ultime parole pronunciate
dalla nostra guida, mentre indicava un piccolo dipinto, mi risvegliarono
di colpo: … il mangiafagioli , dipinto da Annibale Carracci nel 1584 …..
Che c‟entravano i fagioli con tutta quella ricchezza? Mi hanno sempre
detto che i fagioli sono la “carne dei poveri”, vuoi vedere che si
vogliono fregare anche quelli!
Guardai con attenzione e mi sentii di colpo come a casa. Non mancava
niente su quella tavola apparecchiata, poveri oggetti e cibi della
mensa contadina: una brocca, un bicchiere, un coltello, un piatto con
dei funghi, un mazzetto di porri, una micca. Ma al centro di tutto c‟era
una scodella di fagioli e un uomo dall‟aspetto umile colto nell'attimo in
cui ne portava alla bocca una cucchiaiata; lo sguardo fisso e vorace e
la bocca spalancata. La mano sinistra stringeva un pezzo della micca
…. per aiutare a tirar su l‟intingolo, dice la distinta signora in tailleur
grigio che ci fa da guida. Io, però, so che, in quei tempi di fame nera,
quella mano stringeva la micca per difenderla dagli altri commensali
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più o meno affamati che, se appena ti distraevi per un istante, erano
pronti a portartela via.
Ma sì, in fondo, questa visita mi è anche piaciuta e poi mi ha fatto
venire voglia di una zuppa di fagiolane, come siamo abituati a farla in
Val Borbera anzi, siccome anche noi siamo diventati raffinati, vi
proporrò addirittura un consumato di fagiolane, ovviamente alla nostra
maniera.
Ingredienti
Mezzo chilo di fagiolane secche ammollate una notte in acqua tiepida
1 carota
1 spicchio d’aglio
1 cipolla bianca
1 foglia di alloro
sedano
pepe
sale
olio extravergine d'oliva
2 l di acqua circa
Preparazione
In una pentola mettete a rosolare per qualche minuto con dell‟olio la
cipolla affettata, el‟aglio. Aggiungete l‟acqua fredda, i fagioli, la carota,
il sedano e l‟alloro.
Mescolate fino portare ad ebollizione, quindi abbassate la fiamma e
lasciate cuocere per almeno un paio d‟ore. Il tempo di cottura può
variare, quindi il mio consiglio è di assaggiare i fagioli durante le fasi di
cottura.
A cottura ultimata, aggiustate di sale e pepe e frullate gli ortaggi e i
fagioli con un frullatore a immersione, fino a farne una crema.
Passatela al setaccio per eliminare le bucce, lasciate cuocere ancora un
poco fino a raggiungere la densità voluta e servite.
Con le nostre "fagiolane" è proprio una poesia.
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Ravioli di patate
ripieni di Mollana
Una bella ricetta a base di castagne ….. cibo povero, qui ne abbiamo a
bizzeffe …., ma no, le castagne si trovano dappertutto. Allora una
torta con le mele Carla, ce le abbiamo solo qui …., ma no, se poi fanno
il dolce con qualche mela diversa e meno buona sono capaci di dire
che è tutta colpa mia che non ho dato la ricetta giusta. Insomma, non
so se l‟avete capito, sarà colpa del clima autunnale, sarà colpa delle
piccole scosse di terremoto che da qualche settimana si aggirano in
zona, sarà che ogni tanto ho voglia di riposarmi e non pensare troppo,
ma proprio non mi viene in mente una ricetta da proporvi. Un piccolo
conciliabolo di famiglia non mi stimola a sufficienza, vuoi vedere che
sto andando in letargo come gli orsi ?
Mia sorella Serena sta borbottando qualcosa con fare minaccioso (si fa
per dire): “… e ricordati di andare a prendere la Mollana, è tre giorni
che te ne scordi e ormai siamo senza ….. debbo fare tutto io ….. e poi
…..”. Sarà meglio che vada a prendere la Mollana perché altrimenti
chissà cos‟altro mi faranno fare. Ma certo, la Mollana! Con tutta „sta
storia del Montébore di qui e Montébore di là mi ero quasi dimenticato
di uno degli altri deliziosi formaggi che si producono dalle nostre parti,
indovinate un po‟: la Mollana, non mi dite che non la conoscete! Si
tratta di un formaggio di latte vaccino a pasta molle, di media
stagionatura. Una volta, la forma rotonda di circa una ventina di
centimetri di diametro e alta circa tre, veniva data con le "fresciele" di
legno. La stagionatura minima è di una diecina di giorni, poi va a
seconda dei gusti e dell‟uso che se ne vuole fare. Per la ricetta che vi
darò va bene una forma poco stagionata.
Ingredienti per l’impasto
500 g patate quarantine
150 g farina
Sale, pepe
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Ingredienti per il ripieno
250 g di mollana
Olio extravergine d'oliva
Sale
Ingredienti per il condimento
Una noce di burro
Tartufo bianco
Preparazione
Dopo averle lessate e pelate, schiacciate le patate su un tagliere,
aggiungete la farina , sale e pepe a vostro gusto e impastate. Tirate la
pasta non troppo sottile con il mattarello e, servendovi di un
coppapasta (se non l‟avete va bene anche un bicchiere) tagliate la
sfoglia a dischetti.
Nel frattempo, in una ciotola, avrete ben amalgamato la Mollana con
un po‟ d‟olio e del sale, fino a raggiungere una consistenza cremosa
adatta per il ripieno.
Preparate i ravioli chiudendoli a mezza luna o, se preferite,
sovrapponendo due dischetti di pasta, utilizzando una forchetta ….
pardon …. i rebbi di una forchetta.
Fateli cuocere in acqua per qualche minuto e, dopo averli scolati,
passateli in padella con una noce di burro
Serviteli con delle scaglie di tartufo bianco delle nostre Terre.
In mancanza dei tartufi, ve li consiglio anche adagiati su un letto di
funghi prugnoli, detti anche di San Giorgio, saltati nell'olio con del timo
In assenza dei funghi prugnoli che, come ho già avuto modo di dirvi, si
trovano a primavera, … beh, ma non avete proprio fantasia ? Io vado
in letargo!
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Totra di mele Carla
Della Val Borbera
Continuavo a ruminare. C‟era qualcosa che continuava a passarmi da
una parte all‟altra della bocca e non voleva saperne di diventare un
boccone da mandare giù. Facevo finta di niente ma, non sapevo più
come comportarmi di fronte a quei due amici che stavano felicemente
festeggiando il proprio matrimonio e mi guardavano ansiosi in attesa
degli agognati complimenti. Alla fine cedetti, accostai una mano alla
bocca e sputai nel piatto il boccone. Un volante in bella vista su una
montagnola di pasta di zucchero rosa con riflessi perlacei. Si, un
volante d‟automobile! In miniatura, s‟intende. Ma cosa ci faceva un
volante , sia pure in miniatura, nella mia bocca a un pranzo di
matrimonio?
Eravamo arrivati alla fatidica torta nuziale! I miei amici piccioni (anzi
piccioncini) avevano ceduto alle lusinghe di un “cake artist” che li
aveva convinti a scegliere un‟ardita torta nuziale culminante in
un‟automobile cabriolet di color rosa con a bordo due giovani sposi.
Forse il cake artist non pensava che qualcuno avrebbe osato addentare
la sua opera d‟arte, ma io, che sono un appassionato d‟auto, non
avevo saputo resistere e mi ero appropriato del cofano e del
cruscotto, comprensivo del volante. L‟incauto cake artist, forse per
imperizia, forse per fretta o, forse, perché si usa cosi, aveva
accessoriato l‟auto con alcuni pezzi preconfezionati in plastica, tra cui il
volante. I miei amici mi guardarono un po‟ delusi e mi chiesero di
assaggiarne un altro prezzo: “Grazie, ma i pistoni non mi vanno giù e
le gomme mi risultano proprio indigeste!”. Una risata collettiva ci tolse
tutti dall‟imbarazzo.
Perché vi ho raccontato tutto questo? Ma perché mi piace prendere le
cose “alla larga” e avreste già dovuto capirlo da tempo! Ve l‟ho già
detto che noi valligiani siamo gente semplice che ama le cose semplici.
Ed è a fare le cose semplici che bisogna essere artisti (artist).
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Quando l‟ho raccontata a mia madre si è fatta una gran risata, ha
tirato alcuni ingredienti fuori dalla dispensa e mi ha dato da pulire delle
profumatissime “mele Carla della Valborbera”.
Dai, che ci facciamo una bella torta di mele, gli artisti siamo noi!
Ingredienti
1 kg
80 g
150 g
100 g
50 g
2
½
2
di mele Carla
di farina bianca
di zucchero
di latte
di burro
uova
limone
bustine d lievito in polvere
Preparazione
Sbattete le uova con 100 g di zucchero per circa 15 minuti. Aggiungete
la farina, il latte, la scorza di limone e il lievito, quindi versate il
composto in una teglia di circa 26 cm. Distribuite sopra le mele
affettate, il burro in fiocchetti e spolverizzate con lo zucchero restante.
Fate cuocere in forno per 50 minuti a 170°.
Servite fredda.
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