La ragazza senza nome

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La ragazza senza nome
La ragazza senza nome
Regia e sceneggiatura: Jean-Pierre e Luc Dardenne
Interpreti: Adèle Haenel, Jérémie Renier,
Olivier Gourmet, Fabrizio Rongione, Thomas Doret,
Christelle Cornil
Fotografia: Alain Marcoen
Montaggio: Marie-Hélèn Dozo
Anno: 2016 Paese: Belgio Durata: 113 minuti
L’ultimo film dei fratelli Dardenne, i grandi registi belgi che, raccontando personaggi
e situazioni del loro paese, parlano in realtà dell’Europa tutta così sorda e ottusa,
narra i sensi di colpa di una giovane medico, Jenny (Adèle Haenel, che condivide con
i registi il peso del film), per non aver aperto fuori orario la porta del suo studio a una
ragazza africana che pochi minuti dopo morirà ammazzata da qualcuno o per
incidente.
I riferimenti all’indifferenza che esiste in Europa sono evidenti, ma non insistiti. La
metafora rimane nelle pieghe del racconto così lo spettatore può arrivarci da solo e a
partire da sé a collegare il particolare e il generale. Anche perché l’Europa di sensi di
colpa sembra averne ben pochi, e ciascuno, individuo e paese, gode o soffre del suo
“particulare”, e sceglie soltanto tra l’indifferenza, il rinvio, l’ostilità.
Con ostinata fedeltà a una loro idea di cinema e di morale, i Dardenne raccontano
personaggi che ci sembrano veri, li seguono e li scrutano e ci spingono a farlo anche
a noi, in una rete di piccoli fatti che diventano significativi, depurando la narrazione
dalle sue tentazioni naturaliste (l’ambizione a mostrare “la vita com’è”) e neorealiste
(il “pedinamento del personaggio”). Scelgono da sempre, per aderire alla loro visione
delle cose, una narrazione di tipo documentario, la macchina da presa che sta dietro
all’attore e che lo colloca in situazione, e mostrano il contesto a partire da singoli
incontri, da singole azioni, in ambienti comuni, banali, chiaramente delimitati. Con
uno scopo bensì intimo, etico: farci riflettere sulle nostre, di colpe e di silenzi.
Dall’individuo-attore all’individuo-spettatore, avendo per obiettivo i nostri
sentimenti, la nostra identificazione con la questione e non solo con il
personaggio.div
Il film dei Dardenne era a Cannes, dove ha vinto quello di Ken Loach (Io Daniel
Blake…ndr) e si tratta di due film di pari interesse ma che seguono strade molto
diverse. Nessuno dei due, va detto, è un capolavoro, ma entrambe sono opere
degnissime. Loach sceglie un linguaggio mainstream, “da film” ben fatto, “normale”
(che goda di una sceneggiatura studiatissima e di una regia perfettamente
professionale), sceglie la via della denuncia tramite una comunicazione oggettiva.
Sceglie la via del melodramma sociale che narra storie individuali come storie di ceti
e di classi. Il suo scopo è di denunciare e di convincere, sperando in tal modo di
contribuire a cambiare le cose, stimolare reazioni, propugnare giustizia. Il
coinvolgimento deve crescere con l’indignazione. Conta il sociale, “la cosa
pubblica”, il reale economico-sociale.
Se il limite del film di Loach è l’oratoria, quello della pellicola dei Dardenne è la sua
struttura da poliziesco, non nell’impostazione ma nella forma, cioè un’indagine che
lo fa somigliare a molte delle inchieste che bande di scrittori furbetti di tutto il mondo
ci propongono quotidianamente sui tavoli delle librerie, affascinati dalla morte e dal
crimine, e per niente dall’amor di giustizia. La ragazza senza nome non è il loro film
più puro per questo, anche se è uno dei loro film, per il suo tema, tra i più ambiziosi.
È troppo un “giallo”, ne ha troppo la struttura e i risvolti, i condizionamenti. I
Dardenne hanno anche loro timore di non trovare spettatori e anche loro, come
Loach, temono di non contare se non hanno un pubblico abbastanza vasto a cui
parlare.
Anche se ci sono troppi risvolti e astuzie nella loro narrazione, nel loro giallo morale,
il loro progetto resta tuttavia altissimo e dei più seri che sia possibile trovare nel
cinema del nostro tempo. La loro scelta è di fondo, ed è chiara, vogliono raccontare
esami di coscienza individuali perché credono che è solo a partire da lì che si possano
affrontare quelli collettivi, che solo da lì è possibile ripartire, nella speranza che lo
spettatore metta in discussione le proprie convinzioni, non sentendosi dalla parte del
giusto e degli innocenti, delle vittime, ma vedendosi piuttosto come complice e come
colpevole anche delle ingiustizie sociali che magari lo indignano.
Raccontando esami di coscienza individuali si possono affrontare quelli collettivi.
Il grande tema dei film dei Dardenne e di questo in particolare è il tema della colpa.
Del sentirsi colpevoli, come Jenny, per inadempienza o trascuratezza più ancora che
per indifferenza. Si contribuisce anche in questo modo, indiretto, alla morte di altri. I
due autori esigono che noi spettatori si prenda atto di ciò, ci si renda conto delle
nostre responsabilità. Individuali. Dalla mancata assunzione di responsabilità,
dall’indifferenza e trascuratezza nasce la corresponsabilità nei confronti del male che
altri subiscono. Ed è da questo che può nascere, ma solo nei più sensibili (sempre più
rari) il sentimento della colpa, la consapevolezza che anche noi c’entriamo con quelle
morti. Con spiccata visione religiosa, che potremmo anzi dire cattolica, al tema della
colpa – del superamento della colpa – si unisce quello della confessione, ma se il
rischio del cattolicesimo è stato ed è quello di scaricare le coscienze (di liberare dalle
responsabilità) con l’abuso rituale della confessione, nei laici Dardenne la
confessione è un’assunzione pubblica di responsabilità. È qui la confessione alla
polizia, alla giustizia, alla società. E alla confessione deve seguire l’espiazione, il
cambiamento, altrimenti non vale.
Quel che i Dardenne chiedono è il riconoscimento pubblico delle nostre colpe, la
nostra assunzione di responsabilità, la nostra trasformazione. Si rivolgono
all’individuo per rivolgersi all’Europa, a un’Europa fatta di individui. Lo fanno con il
mezzo del cinema, convinti che questa, come le altre arti, non serva soltanto a
distrarci e non a metterci in crisi, invece che ad affrontare dilemmi eterni ma anche
pressantemente odierni.
Goffredo Fofi - Internazionale