Untitled - Barz and Hippo

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Untitled - Barz and Hippo
Il nuovo film dei Dardenne tiene col fiato sospeso davanti al destino di una donna che, a stento ripresasi da una
crisi depressiva, vede sfuggire da un momento all'altro il suo posto di lavoro. Ha due giorni e una notte per
capovolgere questa sentenza, cercando il sostegno dei colleghi. Stretta tra bisogno, senso morale e dignità,
Sandra cerca di riottenere il suo lavoro, ma non vuole ledere i diritti degli altri. Nel dilemma, la giusta via di
Sandra sta nella resistenza, nell'autenticità delle relazioni e nell’energia personale e collettiva che solo questa
autenticità può smuovere.
scheda tecnica
titolo originale:
durata:
nazionalità:
anno:
regia:
sceneggiatura:
fotografia:
montaggio:
scenografia:
distribuzione:
DEUX JOURS, UNE NUIT
95 MINUTI
BELGIO
2014
LUC DARDENNE, JEAN-PIERRE DARDENNE
LUC DARDENNE, JEAN-PIERRE DARDENNE
ALAIN MARCOEN
MARIE-HÉLÈNE DOZO
IGOR GABRIEL
BIM
interpreti:
MARION COTILLARD (Sandra), FABRIZIO RONGIONE (Manu), PILI GROYNE
(Estelle), SIMON CAUDRY (Maxime), CATHERINE SALÉE (Juliette), OLIVIER GOURMET (Jean-Marc), BAPTISTE
SORNIN (Sig. Dumont), CHRISTELLE CORNIL (Anne).
premi e partecipazioni a festival: 2014, BOSTON, BOFCA AWARD, MIGLIOR ATTRICE PROTAGONISTA, MIGLIOR
FILM IN LINGUA STRANIERA, DIECI MIGLIORI FILM DELL'ANNO; NEW YORK, NATIONAL BOARD OF REVIEW OF
MOTION PICTURES, MIGLIORI CINQUE FILM STRANIERI; CANNES FF, NOMINATION PALMA D'ORO; EFA –
EUROPEAN FILM AWARDS, MIGLIORE ATTRICE A MARION COTILLARD; NEW YORK FILM CRITICS CIRCLE AWARDS,
MIGLIOR ATTRICE PROTAGONISTA A MARION COTILLARD.
Jean-Pierre e Luc Dardenne
Nati in Belgio, Jean Pierre nel 1951, Luc nel 1954, i fratelli Dardenne sono molto amati in Francia, ma hanno una
nicchia di grandi estimatori da tutto il mondo. Appassionati descrittori della realtà sociale dei nostri giorni, sono
maestri di verismo, grazie al particolare talento registico e allo stile di ripresa/montaggio che li contraddistingue,
e che ha fatto ormai largamente scuola, prima in Francia e poi nel mondo, non solo per la sua efficacia
cinematografica, ma anche per il valore etico che riesce a trasmettere, con grande asciuttezza e senza moralismi.
La fioritura del loro cinema, nata parallelamente ad altri esperimenti di marca verista e antihollywoodiana come i
primi film Dogma, è strettamente legata a una formazione come documentaristi. Poco prolifici, i Dardenne hanno
però centrato con ogni loro film il loro obiettivo espressivo, incassando tra l’altro una notevole quantità di premi
prestigiosi nei migliori Festival.
Jeanne-Pierre studia Arte Drammatica presso l'I.A.D., Luc filosofia all'Università Cattolica di Lovanio. Insieme,
negli anni Settanta intraprendono la carriera registica e fondano la casa di produzione Dérives, seguita più tardi
dalla Les Films du Fleuve. Dal 1978 girano alcuni documentari: Le chant du rossignol (1978), Lorsque le bateau de
Léon M. descendit la Meuse puor la première fois (1979), Pour que la guerre s'achève, les murs devaient
s'écrouter (1980), R… ne répond plus (1981), Leçons d'une université volante (1982) e Regard Jonathan/Jean
Louvet, son oeuvre (1983).
Interessati alla divulgazione degli orrori del nazismo, ne fanno anche il tema del loro primo lungometraggio di
fiction, Falsch (1987), storia di una famiglia ebrea che viene massacrata dai nazisti. Nel 1997 vincono un
European Award con il documentario Gigi, Monica… et Bianca (1997): tre anni di lavorazione per seguire due
adolescenti che vivono e si amano nei quartieri poveri di Bucarest, girato naturalmente con la camera a spalla,
entrando a poco a poco in un contatto al tempo stesso intimo e rispettoso. Lo stesso anno vincono anche
l'America's National Society of Film Critics per il film La Promesse, che li rende noti al pubblico cinefilo
internazionale.
Nel 1999 a Cannes arrivano la Palma d'Oro e il Premio ecumenico della Giuria assegnati a Rosetta (1999). Buon
successo ha anche Il figlio ((Le Fils, 2002), menzione speciale della giuria ecumenica e premio per la migliore
interpretazione maschile (Olivier Gourmet), mentre una seconda Palma d'Oro arriva per L'enfant (2005), storia di
due giovani ragazzi che, divenuti genitori, vendono il bambino.
Ancora un premio arriva da Cannes (2008) per Il matrimonio di Lorna (Le Silence de Lorna), miglior
sceneggiatura: nel film la camera a mano sembra acquietarsi in uno stile più classico e disteso, complice l'uso di
una 35 mm, meno maneggevole. Anche con Il ragazzo con la bici gli angoli più ruvidi del cinema-verità dei
Dardenne appaiono smussati a favore di un’inedita luce estiva che avvolge il film (Le gamin au vélo, 2011) con un
filo di ottimismo. Anche questo lavoro riscuote premi importanti tra cui l Grand Prix della Giuria a Cannes e l’EFA
Awards per la miglior sceneggiatura.
La parola ai protagonisti
Intervista ai Dardenne e a Marion Cotillard
Si nota una certa differenza nei vostri due ultimi film rispetto a quelli precedenti. Per esempio la musica, o la
scelta di assumere nel film un'attrice come Marion Cotillard. Cosa è cambiato nel vostro cinema?
Luc: Per quanto riguarda la musica, in Due giorni, una notte abbiamo deciso volutamente di non metterla
[com’era del resto caratteristica dei primi film dei Dardenne, ndr]. Mentre ne Il ragazzo con la bicicletta la musica
era fondamentale per il film. Ma non so dire se siamo cambiati o se il nostro cinema è cambiato. Quando
realizziamo un film, non abbiamo la sensazione di star cambiando, anzi... Ci sembra di rimanere sempre gli stessi.
Questa volta abbiamo avuto il desiderio di far entrare Marion nella nostra famiglia, semplicemente.
Come nel Ragazzo con la bicicletta avete scelto l’estate: siete diventati più solari?
Jean-Pierre: Abbiamo scelto l'estate perché volevamo che Marion mostrasse il suo fisico. Il suo personaggio
all'inizio del film è appena uscito da una brutta depressione, e noi volevamo che lei non si nascondesse dietro
abiti pesanti, ma che avesse il coraggio di mostrarsi, per far capire a tutti che era guarita. Inoltre, avevamo
bisogno di una stagione adatta che ci permettesse di fare delle riprese all'aperto.
La condizione sociale è spesso al centro dei vostri film. Vi siete iispirati a fatti reali? Com'è nato tutto?
Luc: Tutto è nato quando abbiamo letto una notizia, circa 10 anni fa, su un lavoratore che era stato licenziato con
il consenso di tutti i suoi colleghi. Ci siamo informati, poi, e abbiamo scoperto che manifestazioni di questo
genere accadono molto più spesso di quanto crediamo. Questo ci ha spinto a fare qualcosa, a raccontare un tema
così attuale, a denunciare questa triste mancanza di solidarietà tra i lavoratori.
I personaggi all'interno del film non prendono nemmeno in considerazione l'idea di fare sciopero, perché?
Jean-Pierre: Abbiamo volutamente scelto una piccola azienza in modo che i dipendenti non fossero abbastanza
numerosi per avere un sindacato. Non volevamo raccontare la lotta di classe, altrimenti sarebbe uscito fuori
tutt'altro film. Volevamo raccontare la storia di una donna che lotta, con se stessa e con gli altri. Una donna che
ricomincerà ad avere fiducia in se stessa solo nel momento in cui i suoi colleghi mostreranno solidarietà nei suoi
confronti. E' facile essere solidali quando si sta bene. Noi volevamo mostrare che la solidarietà esiste anche
quando si è in una situazione di precarietà e di incertezza economica.
C'è una scena molto intensa: quella in cui Sandra esce dal ristorante e si nasconde per piangere. E' una scena
anche particolare perché Marion dà le spalle alla telecamera per tutto il tempo. Com'è nata?
Luc: Non è stata una scena semplice. L'abbiamo dovuta girare molte volte. Alla fine abbiamo posizionato la
telecamera dietro Marion e ci siamo resi conto che in quel punto era perfetta. Non bisogna entrare troppo nei
dettagli con la telecamera, altrimenti si rischia di perdere dei sentimenti importanti in una scena.
Qual è il messaggio che volevate trasmettere attraverso questo film?
Jean-Pierre: Volevamo comunicare attraverso la trasformazione di Sandra, con la speranza che anche lo
spettatore in qualche modo riesca a cambiare. Questo film è un elogio alla vulnerabilità e alla sensibilità.
Marion, come si è avvicinata a Sandra e al suo mondo, così lontani da lei?
Marion Cotillard: Considero Sandra un’eroina. Sono affascinata da chi in qualche modo è un sopravvissuto, da chi
combatte per cavarsela e ce la fa nonostante circostanze avverse. Nel mese di prove ho ricreato la vita di questa
donna. Avevo bisogno di nutrirmi di lei, di sapere: perché era depressa, come questo influenzava i rapporti con il
marito, i figli, gli amici. È il mio metodo: esploro il ruolo, indago... Se trovo la chiave, la fisicità e il modo di
muovermi, parlare, respirare vengono naturalmente. Ma prima ho usato a fondo la mia immaginazione.
Anche i suoi momenti bui?
MC: No, non lo faccio mai. Se ho bisogno di usare la mia vita vuol dire che non trovo quanto serve in quella del
personaggio, e non va bene. E poi, se per raggiungere un certo livello emotivo mi servo di esperienze che mi
hanno turbato, come faccio a sapere se, riaperta quella porta, riuscirò a chiuderla di nuovo? Non voglio
risvegliare qualcosa di doloroso. Impazzirei.
È difficile per lei chiudere una porta?
MC: Tempo fa ho scoperto in me stessa la capacità di sbarazzarmi di sensazioni che mi impedivano di essere
felice, di evolvere. Il mio sogno è raggiungere la semplicità: sono complicata e quindi sarà lunga, ma fare l’attrice
porta domande e qualche volta, se sei fortunato, risposte: che mi aiutano a liberarmi della mia complessità.
Sandra soffre anche di depressione.
MC: In passato mi sono interrogata a lungo sul mio posto nel mondo. Sulla mia utilità. E quando ho letto la
sceneggiatura di Due giorni, una notte ho ritrovato le stesse domande. Sandra si sente senza valore, in una scena
arriva persino a dire: «Io non sono niente». Un senso di inutilità radicato in lei e nei tanti che non sanno come
confrontarsi con il lavoro o con la sua mancanza. Qualche mese prima delle riprese mi avevano colpita alcuni
articoli su persone che si sono uccise per questo. Credo sia il modo in cui la nostra società è strutturata a
spingerci a decisioni così estreme: il nostro valore dipende da quanto siamo produttivi. Non c’è l’essere umano al
centro.
Ha parlato con persone che hanno perso il posto?
MC: Non ho avuto bisogno di incontrarne perché ne ho già attorno a me, anche nella mia famiglia.
Si è chiesta come si sarebbe comportata nei panni dei colleghi di Sandra?
MC: Sì, e non ho una risposta. D’altra parte il film non oppone buoni e cattivi. Sandra capisce i colleghi che non
rinunciano ai soldi: sa che ne hanno bisogno e che anche lei, al loro posto, sarebbe indecisa. Dire sì o no dipende
anche dalle relazioni: quanto siamo disposti a essere solidali con chi non conosciamo?
Lei quanto lo è?
MC: Nel film tutti sono in qualche modo responsabili. Ed è così anche nella realtà. Fa parte della mia educazione,
sentirmi responsabile di quello che faccio e anche di ciò che non mi tocca direttamente. Dei miei consumi, per
esempio, di quali ingiustizie può causare un oggetto che a noi porta gioia sì e no per un’ora.
Ci sono cose che si rifiuta di comprare?
MC: Sì. Sto molto attenta. Cerco di mangiare biologico, o prodotti locali. Di sapere dove e come sono prodotti i
vestiti che indosso.
Secondo lei abbiamo il potere di cambiare le cose?
MC: Insieme, sì. O almeno di mettere un dubbio nella testa della gente. Un seme che cresce.
Recensioni
Mattia Carzaniga. Il Sole 24 ore.com
Sandra (…) è una nuova povera e come tale s'avvia nel mondo: canottiera fluo genere H&M, zeppe da mercato,
tuppo in testa. È appena stata licenziata da una generica fabbrichetta della provincia belga, può essere
reintegrata solo se i colleghi rinunciano a 1.000 euro l'anno per – di fatto – pagarle il posto. Ha un solo weekend
per convincerli, uno a uno, tipo La parola ai giurati. Da che ho visto a Cannes il bellissimo Due giorni, una notte
dei fratelli Dardenne (esce il 16 novembre) penso e ripeto e scrivo una cosa sola: quei 1.000 euro sono gli 80 di
Renzi. Sono il segno del bisogno immediato, il lavoro è guerra sociale senza quartiere, ora o mai più. Da maggio a
oggi ne abbiamo visti molti altri, di film. Ricordo qui il blockbuster estivo “Sindacati 4 - L'era dell'estinzione”,
starring Camusso e la transformer Madia, superato negli incassi quest'autunno dal cinecomic “I guardiani
dell'Articolo 18”. Film che ci siamo fatti da soli: il cinema italiano, nel frattempo, dormiva sulle sudate carte del
favoloso Leopardi versione Teatro Valle okkupato. È la combo che ci trasciniamo da anni: «[Il cinema italiano] si è
ristretto. L'appartamentino, gli amici, il quotidiano, i sentimenti privati». Non lo dice il primo che passa per
strada. Lo sostiene un regista come Ettore Scola, uno che, quando metteva in primo piano i sentimenti privati
(semplificando, e di molto), faceva comunque Una giornata particolare. Chiedi ora: film italiani che parlano di
lavoro. Vi risponderanno: La classe operaia va in paradiso. È del '71, i precari di oggi non sapevano ancora che lo
sarebbero diventati, fondamentalmente perché non erano nati. L'ultimo che c'ha provato è stato Ivano De
Matteo con Gli equilibristi, uscito due anni fa. Valerio Mastandrea perdeva il posto. Due scene dopo (massimo
tre) lo si vedeva in fila alla mensa dei poveri. Senza spiegazioni psicologiche e sociali, o anche solo narrative. Il
film dobbiamo continuare a farcelo da soli. I nostri sceneggiatori, anche quando hanno le migliori intenzioni, non
ci riescono. O fanno andare in giro i nuovi poveri con l'eskimo firmato, mica in canottiera fluo.
FilmTV.it
I fratelli Dardenne non ci mettono molto, almeno in questo caso, a buttare lo spettatore nel mezzo delle cose.
All'inizio del film non siamo all'inizio della vicenda, siamo già in medias res. Molti fatti sono già accaduti e solo
l'odissea fisica della protagonista deve ancora cominciare. Sandra ha avuto un esaurimento nervoso - o una
depressione, come si dice oggi - e il suo datore di lavoro, visto che la produzione è continuata anche senza di lei,
ha deciso di liberarsene. È presumibile che, di fronte alla opposizione degli operai, il «padrone» abbia dovuto
indire un referendum, mettendo i dipendenti di fronte all'alternativa di salvare il posto di lavoro di Sandra o il
loro bonus da mille euro.
Ho letto che qualcuno ha criticato la situazione di partenza messa in piedi dai Dardenne, perché i lavoratori non
lottano e piegano la testa di fronte al diktat del loro datore di lavoro. Di conseguenza, si è argomentato, tutto
quello che segue questa premessa sbagliata non può reggere ed è quindi scarsamente credibile. Ma la lotta
sindacale, in quell'azienda c'è già stata e i lavoratori l'hanno persa. Questa è la situazione di partenza, che vale
non soltanto per la piccola impresa belga descritta nel film, ma anche nella nostra attuale, brutta, società. La
carne se la sono spolpata altri, mentre ai lavoratori non resta che scannarsi l'un l'altro per i pochi ossi rimasti. È di
questa guerra tra poveri che parla Due giorni, una notte, che in Italia dovrebbe far riflettere chi plaude al governo
(o chi, sul fronte sindacale, non si oppone a dovere) per l'abolizione dell'art. 18 dello Statuto dei lavoratori.
Come capita spesso nel cinema dei due fratelli del cinema belga (ma pochi autori attuali sono più universali di
loro), da una situazione di vita vissuta può nascere una tensione da film thriller, così come possono confondersi il
Bene e il Male, da una premessa negativa può nascere una conseguenza positiva (e viceversa), nel buio si
intravede sempre un po' di luce, anche se la luce non è mai radiosa come prevedono le fiabe.
«Abbiamo combattuto bene, sono felice» è la battuta di dialogo che sintetizza il senso di Due giorni, una notte,
perché se nei libri di Kerouac e di Chatwin ciò che conta è il viaggio in sé più che la meta stessa del viaggio, in
questo film la lotta per il posto di lavoro e per la propria dignità assume un valore in sé, perfino al di là del
conseguimento effettivo del risultato.
Di questa lotta sono protagonisti personaggi impersonati da due ottimi attori, come Marion Cotillard (...) e
Fabrizio Rongione. La prima recita ingobbita e curva, come sotto il peso di una situazione psicologicamente e
fisicamente insostenibile, esprimendo il proprio disagio e la propria prostrazione psicofisica anche con le
imperfezioni della pelle. Il coprotagonista svolge alla perfezione il ruolo di spalla - in tutti i sensi - fungendo da
discreto e baricentrico pilastro per la moglie, nel suo viaggio al termine della notte
Valerio Caprara. Il Mattino
In «Due giorni, una notte» gli austeri fratelli belgi Dardenne (...) pedinano la protagonista, sorprendentemente
affidata all'impeccabile interpretazione della diva più pagata di Francia, Marion Cotillard, nella via crucis che dura
il tempo del titolo e la vede dibattersi in una dolorosa guerra tra poveri raccogliendo casa per casa fervidi slanci e
bruschi dinieghi. La traiettoria del loro doppio eppure coeso obiettivo risponde come d'abitudine a una decisa
presa di posizione politica, ma stavolta, facendo prevalere toni di fluidità descrittiva, compassione psicologica e
condivisione umana nella trama improntata a un sobrio naturalismo, evitano che la rabbia o la protesta si
sovrappongano alla logica, ai tempi, alle giunture della messinscena. Il capitalismo, insomma, come certamente
noteranno gli spettatori versati alla caccia al messaggio, vi è messo sotto accusa per un caso d'estemporanea
grettezza, oltre che per le ferite sociali inferte dalle disfunzioni della precarietà e non solo perché nel reparto del
cinema impegnato deve considerarsi sempre e comunque «selvaggio». L'aspetto più coinvolgente, inoltre, sta nel
fatto che finalmente i Dardenne concedano agli spettatori una trama e che la loro cinepresa limiti al massimo
l'abituale marchio di fabbrica dei movimenti vorticanti e sfidanti. Al netto di qualche residuo sospetto
d'insincerità, il meglio di «Due giorni, una notte» deve individuarsi nella lotta contro la depressione della
protagonista, una lotta sempre incerta dal prologo casalingo sino al finale chapliniano su una metaforica strada
aperta, che forse riuscirà, peraltro, a farle scoprire cosa voglia dire la dignità umana, come ci si debba opporre
all'ingiustizia e come la sua limpida resistenza possa incidere un segno positivo sulla pelle degli altri, compresi
quelli che le hanno girato le spalle.
Cristina Piccino. Il Manifesto
«Io cosa farei al loro posto, e cosa farei al posto di Sandra?». Questa domanda, e il desiderio di farla risuonare
anche nella testa degli spettatori è la scommessa da cui sono partiti i fratelli Dardenne, Jean-Pierre e Luc per il
loro nuovo film, che i registi belgi, già Palma d'oro per 'Rosetta' e 'L'enfant' definiscono come una sorta di favola
moderna meno disperata di altre storie narrate in passato, perché la realtà che ci circonda, dicono, lo è già fin
troppo. (...) Sandra è sullo schermo Marion Cotillard che i Dardenne hanno voluto fortemente, anzi senza la
quale dicono non avrebbero girato il film, e questa è l'altra grande novità per i registi che fin qui non hanno mai
lavorato come una star hollywodiana come lo è lei. Per spogliarla delle sue abitudini attortali l'hanno sottoposta
a molte prove, e a una lunga preparazione che riuscisse a fondarla, occhiaie e senza trucco al loro universo,
permettendole di entrare in sintonia col taglio «vero» dei loro attori - tra cui l'abituale Fabrizio Rongione, e in un
cameo l'amato Olivier Gourmet. Eppure lo stridore resta, e non ci credi mai davvero in lei, nelle sue canottierine,
nella frenesia dei gesti che appare fin troppo sottolineata smorzando la forza del racconto. O almeno
ingabbiandolo, tanto che anche il pedinamento «ravvicinato» della macchina da presa risulta a tratti distante, o
persino programmatico. E' l'Europa che cercano i Dardenne, nelle sue pieghe più sgradevoli di umiliazione
quotidiana, e di assuefazione alla perdita di ogni diritto. Un tempo gli operai al padrone tracotante e al suo
braccio armato li avrebbero messi con le spalle al muro, avrebbero occupato la fabbrica e bloccato tutto finché la
minaccia contro uno di loro non fosse rientrata. Ma adesso non si può, la crisi finanziaria ha azzerato la
resistenza, delocalizzazione, contratti a termine, la minaccia cinese, il posto di lavoro è in pericolo costante, e la
lotta per sopravvivere non permette cedimenti o complicità. Come nel film precedente, Lorna, nel quale la vita
resa forsennata catena di montaggio rendeva la protagonista folle, anche qui Sandra impazzisce per i modi di
produzione diventando il target ideale. Farla fuori è semplice, come con tutti gli anelli deboli, migranti, donne
che il complicato equilibrio familiare rende ancora più attaccabili. Siamo in una specie di Medioevo o in un nuovo
incipit del capitalismo che fagocitando se stesso ha conquistato una nuota forza. II corpo venduto, massacrato
dei lavoratori sotto qualsiasi forma, fabbrica o schiavitù dello sfruttamento clandestino, ultima frontiera diffusa
('Lorna'), messo sotto ricatto di un precariato che lo fa ammalare, che lo consuma coi suoi sentimenti di
incertezza. Neri racconti morali dei Dardenne non c'è però mai una retorica consolatoria, e nemmeno
sentimentalismi moderati; la cifra geometrica della loro narrazione ci porta subito tra le macerie anche morali di
quella che è stata la coscienza di classe, e la sua composizione, nel sentimento perduto di solidarietà tra gli
individui che condividono una condizione. Questi operai sono ostili tra loro, non si conoscono e non sanno nulla
l'uno dell'altro. Sandra si affanna a cercarne in rete o sulle pagine gialle gli indirizzi, ne scopre i dolori, i problemi
anche se piegata dal suo dramma. L' inquadratura non esce mai da qui, dal ritmo di questa ricerca seriale, gesti di
ansia ripetuti all'infinito di un tempo che sembra allungarsi nella sua implosione. Intorno il paesaggio senza
centro, anonimo, delle nuove periferie di cui cogliamo frammenti dal bus che porta la donna da una casa all'altra,
luoghi ben congegnati per non incontrarsi, per produrre solitudine che indebolisce. Sindacati e quant'alto non si
sono nel film, non se ne parla neppure, siamo nel tempo post della politica, ognuno di quei lavoratori è solo.
Solidarietà. Come ritrovarla dunque finito il tempo delle grandi utopie? Resta lo spazio dell'individuo, di un
frammento che può scuotere qualcosa. I Dardenne non giudicano e non fanno vittime, Sandra non lo è e non
sono dei cattivi gli altri. La loro è una visione concretamente utopica, dove la solidarietà non è una dote innata
ma si costruisce, da lì si può ripartire con una diversa forza resistente.
Roberto Nepoti. la Repubblica
Ci hanno appena certificato che i 'padroni' non esistono più; ed ecco venir fuori i fratelli Darenne, così
disinformati sulla novità da mettere al centro del loro nuovo film proprio un padrone e i suoi operai, in una
piccola fabbrica francese con mono di venti impiegati. II soggetto è lineare; però i cineasti belgi (...) lo svolgono
con la tensione di un 'suspenser' - tanto che non è nemmeno il caso di raccontarne tutti gli sviluppi - tenendoti in
allerta su come andrà a finire quasi si trattasse di un film di Hitchcock. (...) Riusciremo, abituati a trepidare per le
sorti di supererai vestiti da clown che si battono contro mostri di effetti speciali, ad appassionarci alla vicenda di
Sandra? C'è da augurarsi di si, perché lei è un'eroina vera. Per Sandra la rinuncia al lavoro rappresenta anche una
perdita d'identità, di dignità; la fa sentire inadeguata, fino a spingerla sulla via della depressione. Nello stesso
tempo, la donna comprende le ragioni dei colleghi, appesi alle sue stesse fragilità, e si sente colpevole di dover
chiedere. Eppure non si arrende, per quante sofferenze le possa costare la lotta. Film dopo film, Jean-Pierre e Luc
Dardenne hanno portato sullo schermo un'epica proletaria (sono rimasti in pochi a farlo: Loach, Guédiguian...)
piena di pudore e di forza: quella che si ricava, non meno che dalle proprie convinzioni, dallo stile. Anche qui,
come nei precedenti, la figura filmica dominante è la 'semi-soggettiva': quell'inquadratura dove il personaggio,
pur facendone parte, osserva e permette allo spettatore di osservare assieme a lui. Torna il pudore dei gesti, mai
eccessivi o troppo sottolineati (il dramma è nelle cose) (...). Un'ottima scelta Marion mostra di poter essere una
credibilissima musa proletaria, tutta pudore e orgoglio ferito ma senza un attimo di esagerazione o di
esibizionismo del dolore. E se non piangete di lei, di che cosa siete mai soliti piangere?
Alessandra Levantesi Kezich. La Stampa
(...) una pellicola perfettamente calibrata che trova il suo magico centro in una Marion Cotillard di straordinaria
sensibilità e naturalezza nei panni di un'operaia rimasta senza posto dopo una lunga assenza causa depressione.
E' successo che nel referendum proposto dalla direzione agli operai della piccola fabbrica (sedici in tutto) hanno
vinto i voti a favore di un premio di produzione di mille euro contro il licenziamento di lei. Poteva essere l'incipit
di un pamphlet contro la spietatezza del capitalismo postmoderno, e certo il film sottolinea il peccato originale di
chi mette i lavoratori di fronte a un dilemma di tal fatta, ma i Dardenne sono più sottili di così: e, mentre sfidano
noi spettatori a porci il quesito, intrecciano i fili di una commedia umana ricca di sfumature e spessore. Sulla
spinta di una collega amica che è riuscita a ottenere una nuova votazione e di un amorevole marito, Sandra ha
solo due giorni per fare, superando insicurezze e fragilità emotive, la sua campagna elettorale e cambiare il
verdetto. Ed è geniale che si tratti di un weekend perché seguendola nei suoi spostamenti porta a porta i
Dardenne entrano nell'intimità di altre famiglie anche loro alle prese con i problemi sempre più duri del
quotidiano, costruendo un composito affresco che per ambienti, vestiti, dettagli, psicologie, tristezze e allegrie ha
l'inconfondibile sapore della verità. A un certo punto si sfiora la tragedia, ma il film risolve in un finale che, senza
alcuna retorica, celebra la dignità dell'individuo etico, la gratificazione della vittoria interiore e la solidarietà degli
affetti. Grandi Dardenne, grande Cotillard, grande film.
Paolo Mereghetti. Corriere della Sera
Ci sono dei film che riempiono gli occhi, altri che soddisfano la mente. 'Deux jours, une nuit' (Due giorni, una
notte) dei fratelli Dardenne riempie il cuore. Non che non abbia altre qualità, tutt'altro, ma è un film che va
diritto all'emozione, anche se è ben attento a non «ricattare» mai lo spettatore. Piuttosto usa l'empatia con la
protagonista per aprirti gli occhi sull'oggi e sulla realtà. (...) La grandezza dei Dardenne, come sempre autori della
sceneggiatura, è quella di lasciare pochissimo spazio ai «problemi» sindacali per scavare nelle contraddizioni
delle persone: solidarietà contro gratificazione finanziaria, libertà di decisione contro ricatti aziendali (il
capofabbrica è una presenza lontana ma incombente), disponibilità al sacrificio contro egoismo. A reggere tutto il
film, una Cotillard davvero straordinaria, capace di comunicare la tensione che la agita - non vuole «elemosine»,
non vuole ricattare nessuno - grazie a una forza espressiva intensissima, vera e commovente, che la candida a
una Palma che finora le è sempre sfuggita.
Concita De Gregorio. La Repubblica
'Due giorni, una notte', cosi s'intitola il magnifico film dei fratelli Jean-Pierre e Luc Dardenne arrivati dal Belgio a
dire a tutta l'Europa, al mondo intero, che razza di carneficina sia diventato il mondo del lavoro votato, ancor più
in tempo di crisi, al neo-liberismo senza argini, all' ossessione della performance alla concorrenza violenta fra
persone egualmente ricattate, egualmente infine deboli. (...) II meccanismo del film, ipnotico, gioca sulla
ripetizione dello schema incontro/domanda/risposta che ogni volta irrompe in una diversa vita, ogni volta arriva
più fondo. I Dardenne dicono che hanno scelto una donna perché «è la donna oggi ad essere più fragile nel
mondo del lavoro, la prima a uscirne. Dicono che è un film sulla «solidarietà, che è sempre una decisione, un atto
morale, ed è ancora possibile». Sulla fine della politica che media fra gli interessi individuali in nome di quelli
collettivi. È sparita dalla scena: la storia di Sandra non ha colore. E' una faccenda di anime. II lavoro ai tempi del
colera.
Fulvia Caprara. La Stampa
Il punto è la solidarietà, solo da lì può ricominciare il cammino delle vittime della crisi, stritolate non solo dalla
pressione economica, ma anche dalla perdita della dignità e della fiducia in se stesse. I fratelli Dardenne arrivano
al Festival e, come sempre, ipotecano il Palmares con un film asciutto e potente, perfettamente nell'aria del
tempo. Se 'Deux jours, une nuit' non dovesse ottenere il premio più importante della rassegna (gli autori hanno
già vinto due Palme d'oro), di sicuro la protagonista Marion Cotillard, in scena dal primo all'ultimo attimo del
racconto, con il fisico esile e lo sguardo pieno di dolore, entra, con molte chances, nella rosa delle possibili
premiate per la migliore interpretazione. (...) Per Cotillard, lanciatissima nel panorama hollywoodiano dopo
l'Oscar per 'La vie en rose', lavorare con i Dardenne è stato come ricevere un regalo inatteso (...).
Marco Dell'Oro. L'Eco di Bergamo
(...). Il loro nuovo film ha la leggerezza e insieme la forza di una favola, si intitola 'Due giorni, una notte' e avrebbe
buone probabilità di vincere il premio più ambito se non fosse che nessuna giuria avrà mai il coraggio di
assegnare un'altra Palma a chi ne ha già due in bacheca... (...) La struggente bellezza del film sta nel contrasto tra
la fragilità della donna e la difficoltà mostruosa della sua impresa: con un tocco geniale i Dardenne riescono a
dare forma fisica e bellezza plastica a questo contrasto facendo camminare la donna. Sandra cammina, cammina
sempre, cammina per andare a cercare i colleghi ciascuno nella sua casa, cammina per tornare indietro ogni volta
che ha ricevuto, in risposta, una porta sbattuta in faccia. Dopo ogni visita, l'operaia è più curva di spalle. Ogni
visita è una stazione della Via Crucis. Lei è una guerriera, ma gentile, educata, delicata, fragile. Non solo: è anche
unaguerrieracontrovoglia (altra intuizione straordinariadella sceneggiatura). (...). Quello dei Dardenne è un film
di lotta, ma quelle che si vedono sullo schermo non sono scene di lotta di classe. Per il semplice motivo che le
classi, alla fine del Novecento, si sono perse per strada. Eppure questa piccola storia personale diventa un inno
alla solidarietà e, insieme, la polaroid appassionante della società contemporanea, post-ideologica,che ha
registrato (accompagnato? prodotto?) lo sfarinamento di quella che una volta, appunto, si chiamava classe
operaia, annegata nel particolarismo degli interessi individuali (...). I Dardenne non vanno all'attacco del
capitalismo (o almeno non lo fanno lancia in resta come Michael Moore o Ken Loach), ma non per questo la loro
condanna del sistema è meno efficace. Regna incontrastata la Grande Depressione, categoria economica i che
diventa psicologica. (...) Regia invisibile, ma «pesantissima», sia nella scrittura sia nella direzione degli attori. La
recitazione di Marion Cotillard è un ricamo, un pizzo in cui le oscillazioni - quasi impercettibili - tra ottimismo e
pessimismo sono un sismografo dell'anima.