Guerra e diritti umani: un

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Lunedì 19 Febbraio 2007 di Luca Baccelli
Nei due articoli precedenti, La guerra giusta agli indios e Un altro approccio ai diritti
ho trattato il problema del rapporto fra diritti umani e guerra senza riservare una
particolare attenzione alla sua dimensione più propriamente giuridica. Tuttavia in molti
autori fondamentali, e per una lunga fase storica, la discussione sulla legittimità della
guerra, sulla possibilità di limitarla e sulle ‘vie della pace’ è stata in primo luogo una
discussione giuridica.
Si è anzi affermato una sorta di ‘primato del giuridico’ che ha accomunato pensatori fra loro
differenti come Kant, Schmitt e Kelsen, a partire dal “silete teologi in munere alieno” di Alberico
Gentili. Al contrario, oggi teorici della guerra giusta come Walzer e Ignatieff – ma anche John
Rawls [Rawls 1999] – mostrano disinteresse, se non ostilità, verso il diritto internazionale e le
procedure giuridiche in generale.
Anche il paradigma del pacifismo giuridico è caratterizzato da ambivalenze e produce i suoi
‘danni collaterali’. Emerge una sopravvalutazione ottimistica delle potenzialità del diritto per
mantenere la pace, una sorta di complesso giuridico di superiorità che accomuna autori così
diversi come Kelsen e Schmitt e induce la sottovalutazione dei complessi fattori economici,
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tecnologici, culturali, sociali, antropologici alla radice delle guerre. Peraltro, le istituzioni
sovranazionali hanno dato prove assai deludenti [Zolo 1995], e le esperienze di giustizia penale
internazionale, da Norimberga ai tribunali speciali per la ex-Jugoslavia e il Ruanda istituiti negli
anni novanta, tendono a configurare una ‘giustizia dei vincitori’ [Zolo 2006]. E ci sarebbe poi da
chiedersi se anche ipotetiche istituzioni che soddisfacessero le condizioni ideali immaginate da
Kant e da Kelsen – una repubblica federale mondiale – non produrrebbero una concentrazione
della forza militare tale da configurare un potere assoluto, non controllabile né bilanciabile.
C’è un passaggio della General Theory kelseniana particolarmente indicativo delle aporie del
pacifismo giuridico. Secondo Kelsen perché il diritto internazionale sia diritto vero e proprio
occorre che le norme giuridiche internazionali siano vere norme giuridiche e dunque prevedano
una sanzione coercitiva per l’illecito. Qui Kelsen è costretto dalla logica della sua teoria a
riproporre la dottrina della guerra giusta: la guerra è proibita in linea di principio dal diritto
internazionale generale. Essa è permessa soltanto come reazione ad un atto antigiuridico, ad
un illecito, e soltanto quando sia diretta contro lo Stato responsabile di questo illecito. […] è
questa la teoria del bellum iustum [Kelsen 1945, p. 336].
Questa impostazione ha lasciato il segno. Si pensi al dibattito intorno alla Guerra del Golfo del
1991. L’intervento militare autorizzato dal Consiglio di sicurezza che tuttavia ha prodotto una
serie di gravi conseguenze delle quali l’attentato alle Torri Gemelle è l’immagine paradigmatica,
venne salutato con entusiasmo come l’affermazione del diritto internazionale. E d’altra parte
questa impostazione non ha impedito a molti sostenitori di Desert Storm di approvare anche
l’intervento della Nato del 1999, che il diritto internazionale violava [Cassese 1999]. Ma tutto
questo non significa che si possa fare a meno con facilità del diritto. Il diritto non può essere che
uno degli strumenti per limitare, contenere, superare la guerra, ma è uno strumento
indispensabile, e soprattutto è molto pericoloso farne ameno. Da questo punto di vista credo
che sia molto interessante la parabola della teoria dei diritti di Jürgen Habermas, soprattutto nel
suo ultimo tratto.
Habermas è un erede a pieno titolo del giusrazionalismo moderno e la teoria dei diritti
fondamentali di Faktizität und Geltung coniuga universalismo dei titolari e universalismo dei
fondamenti [Habermas 1992]. Nei primi anni novanta Habermas ha condiviso con altri
intellettuali la speranza che Desert Storm rappresentasse un embrione di Weltinnenpolitik, un
rilancio, dopo la Guerra fredda, dei principi del diritto internazionale. Negli anni successivi,
quando il dibattito sugli ‘interventi umanitari’ si sviluppava verso la legittimazione di azioni non
autorizzate dalle Nazioni Unite, Habermas ha ribadito che i diritti umani, che pure “possono
essere fondati soltanto da una prospettiva morale” [Habermas 1996, p. 204], non si identificano
con norme morali: “una moralizzazione immediata del diritto e della politica” [ivi, p. 212]
condurrebbe ad un Menschenrechtfundamentalismus. È proprio per questo, secondo
Habermas, che va ripreso e radicalizzato il progetto kantiano di un ordinamento ‘cosmopolitico’
che superi, a livello globale, lo stato di natura e configuri una condizione di giuridicità [ivi,
p.206]. Questo non ha impedito che nel 1999 Habermas si sia schierato a favore dell’intervento
in Jugoslavia, in quanto giustificato da ‘buone motivazioni etiche’, e cioè la tutela dei diritti
umani dei kosovari [Habermas 1999, p. 85]. Ma la distinzione fra diritto e morale ritorna in primo
piano nella coerente campagna intellettuale contro l’occupazione angloamericana dell’Iraq.
Habermas afferma che “è esattamente il nucleo universalistico della democrazia e dei diritti
umani che proibisce la loro imposizione unilaterale col ferro e col fuoco” [Habermas 2004, p. 15]
e aggiorna il suo cosmopolitismo: non propone più un modello analogo a quello della kantiana
repubblica mondiale [ivi, p. 110], ma piuttosto un’articolazione pluralistica, su diversi livelli, delle
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istituzioni globali, internazionali e regionali: una “politica interna mondiale senza governo del
mondo”. Di grande rilievo teorico è soprattutto l’argomento principale contro la pretesa
anglomericana di esportare la democrazia. Oggi Habermas afferma che “I ‘valori’ – anche quelli
che possono contare sul riconoscimento universale – non sono sospesi nel vuoto, bensì
acquistano carattere vincolante solo nelle pratiche e negli ordinamenti normativi di determinate
forme culturali di vita” [ivi, p. 15]. È l’irriducibile pluralità delle interpretazioni a rendere
necessario il diritto. Una politica che “sostituisce le proprie motivazioni normative alle prescritte
procedure giuridiche” [ivi, p. 94] non solo finisce per imporre “un etnocentrismo allargato a
dimensioni generali”, ma incontra ‘insuperabili difficoltà cognitive’. Di fronte alla pluralità di
interpretazioni dei principi – anche di quelli universali – solo un processo comunicativo che si
svolge all’interno di una cornice giuridica e segue procedure definite può avere successo.
Un governo egemone “non potrà mai essere sicuro di distinguere i propri interessi nazionali da
quegli interessi generalizzabili che potrebbero essere condivisi anche da altre nazioni. Questa
impossibilità è una questione di logica dei discorsi pratici, non di buona volontà” [ivi, p.187].
Solo “procedure giuridiche inclusive, che coinvolgano tutte le parti interessate e le sollecitino ad
assumere le reciproche prospettive” possono costringere la parte più potente a “consentire ad
un decentramento della propria prospettiva d’interpretazione” [ivi, p. 94]. Il diritto, insomma,
sembra doversi fare carico di problemi che appaiono insolubili sul piano epistemologico e
metaetico. Di fronte al pluralismo delle interpretazioni solo le procedure istituzionalizzate
sembrano poter individuare norme comunemente riconosciute, ma non solo. C’è un irriducibile
limite cognitivo che impedisce al portatore di una interpretazione di attribuirle validità universale.
Insomma, di fronte alle novità regressive indotte dalla politica dell’amministrazione Bush,
Habermas è costretto a ridimensionare l’universalismo della sua teoria, come se seguisse la
parabola che va dall’universalismo di Vitoria all’approccio più problematico di Las Casas. Ed è
qui che entra in gioco il diritto. Habermas ribadisce che tutti gli individui umani sono titolari dei
diritti fondamentali. Ma se i diritti umani vengono intesi come assoluti morali, perdendo la loro
valenza di principi giuridici, l’alta tensione della morale non passa attraverso – per unsare una
sua espressione – il ‘trasformatore’ del diritto. Gli effetti dei cortocircuiti che ne conseguono
sono sottogli occhi di tutti.
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