INTERPRETAZIONI DEL `900 18 maggio 2012 - Lezioni sul

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INTERPRETAZIONI DEL `900 18 maggio 2012 - Lezioni sul
INTERPRETAZIONI DEL '900
18 maggio 2012 - Lezioni sul Novecento
Periodizzare perché?
Che senso ha dividere il percorso storico in periodi? Non si tratta forse di
un’operazione arbitraria, una specie di esercizio (o esorcismo) cabalistico?
Il dubbio c’è, tanto più se consideriamo che abbiamo da poco vissuto , con il
2000, il “passaggio del millennio”, con il suo corredo di oroscopi, oscure
profezie e avventi miracolosi, bachi apocalittici e promesse mirabolanti. La
proliferazione dell’espressione “La (scienza, politica, religione, cucina, calcio,
etc) nel terzo millennio”, tuttora piuttosto diffusa, basta a spingerci ad usare il
calendario ebraico o islamico, o a guardare con indulgenza alla profezia
maya. Battute a parte, l’esistenza di diversi modi di contare gli anni è ragione
sufficiente per sottolineare la natura puramente convenzionale delle
periodizzazioni.
E’ altrettanto ovvio che le convenzioni sono il pane quotidiano della vita e del
metodo scientifico, storia ovviamente inclusa: dunque le scansioni
cronologiche (le età, i periodi, i secoli) sono utili accademicamente e
didatticamente.
Ma c’è di più. Certe partizioni sono la forma specifica con cui si può evitare
un racconto storico puramente cronologico ed “evenemenziale”. Come
sottolinea Krysztof Pomian (Pomian 1980), le periodizzazioni “servono a
rendere pensabili i fatti” . Per dividere la storia in periodi si tratta di individuare
le cesure, i mutamenti che rendono i caratteri di un’epoca omogenei tra loro e
distinti da altri. In altri termini, periodizzare significa interpretare. Ovviamente
gli eventi o i processi periodizzanti possono essere di gittata più o meno
larga: se indico il 1945 come inizio dell’età atomica, posso rilevare come la
fissione nucleare produca un mutamento (un “prima” e “dopo”) nell’ambito
della scienza, della politica internazionale, dell’organizzazione militare, della
cultura filosofica e della mentalità diffusa. E’ altrettanto importante notare
come ognuno degli ambiti riportati faccia riferimento a strutture sociali che
hanno “tempi evolutivi” diversi: l’assunto della compresenza di differenti
“durate” è una conquista imprescindibile della scuola delle “Annales” e di
Ferdinand Braudel (Braudel 1949 e 1958).
Dunque periodizzare è porre delle cesure convenzionali al fluire del tempo
storico e implica l’assunzione di schemi interpretativi. A sua volta interpretare
significa “dare senso”, o “fare un bilancio”. Questo è tanto più vero quanto più
ci si avvicina all’età in cui viviamo, e diventa imprescindibile per il ‘900 –
come vedremo in conclusione – laddove ad un'esponenziale aumento delle
fonti disponibili si accompagna il peso enorme della “memoria”.
Periodizzare come?
Oltre che una necessità pratica per una visione non puramente cronachistica
del processo storico, la scansione in periodi dotati di senso ha anche un
riscontro culturale effettivo.
La distinzione mondo antico- mondo moderno ("Siamo nani sulle spalle dei
giganti", afferma Bernardo di Chartres) si affianca alla divisione della "storia
universale" in sei età (che partono da creazione, diluvio, Abramo, Davide,
cattività babilonese, nascita di Cristo) e quattro imperi (assiro-babilonese,
persiano, macedone, romano), secondo un piano provvidenziale che prevede
un inizio e una fine (il ritorno di Cristo), che è ovviamente indicativa di una
cultura (ma il modello ritorna nelle moderne filosofie della storia, cfr. ad
esempio Hegel 1820, pp. 562-568).
E' un tratto altrettanto caratterizzante e noto della cultura del rinascimento,
codificato definitivamente nel '700, l'introduzione di un' età di mezzo tra
antichi e moderni, che acquistano così entrambi un'identità molto più
accentuata e distinta che in precedenza (il Virgilio di Dante non è lo stesso di
Petrarca).
Una significativa aggiunta a questo tripartizione si verifica nel tardo '600,
quando dall'unione dei significato di saeculum (età) e centuria (gruppo di
cento oggetti) si fa strada la catalogazione "per secoli", che appare più
arbitraria di quella per "evi", tanto che lo stesso Hobsbawm afferma
recisamente che "i secoli non esistono" (Età degli estremi 1998, p. 118).
Eppure, con l'ovvia avvertenza che il secolo non va inteso in senso stretto (e
già Voltaire parla del "secolo di Luigi XIV"), anche questa partizione esprime
sia il senso di attesa che si vive all'avvicinarsi alla fatidica cifra tonda, sia al
tempo corrispondente più o meno, al passaggio sulla terra di tre generazioni
“compresenti” (su tutto ciò cfr. Guarracino 1997).
La partizione per secoli, non intesi in senso strettamente numerico (19012000), ha avuto una grande diffusione nella storiografia. Se si esce poi dal
campo della storia universale e delle grandi sintesi, i punti di riferimento
temporali si moltiplicano e si sovrappongono, e si tratta semmai di valutare la
possibilità di convergenza attorno a specifiche date periodizzanti di forme
temporali diverse (eventi, processi, ecc.) proprie di strutture diverse; non solo,
come è scontato, la storia politica e la storia economica hanno indicatori di
tempo diversi (è convenzionale ma corretto far iniziare la rivoluzione francese
nel 1789, è del tutto improprio far iniziare la rivoluzione industriale con un
anno preciso, magari quello della flying shuttle o della macchina a vapore); la
differenza vale per i punti di vista differenti con cui la storia è stata vista,
specialmente da quando (giustappunto nel ‘900) la “rivoluzione delle fonti” ha
aperto scenari di indagine sterminati. La storia della scienza è databile
attraverso le singole invenzioni come se fossero le battaglie della storia
militare o le legislature? Non parliamo poi della storia delle idee, delle culture
e delle mentalità, ambiti nei quali si verifica spesso e volentieri quella
“contrazione” o “dilatazione” temporale di solito esclusa dalla storiografia, e
anch’essa così affine al paesaggio novecentesco (Bergson, Freud, Joyce).
Dunque, si intendono e si usano periodizzazioni “a geometria variabile”,
suscettibili in ogni momento di integrazioni, senza ipostatizzazioni.
Dall'età contemporanea al '900
La tripartizione classica antico-medievale-moderna, che gode nell'800 di una
consacrazione accademica, risulta sempre meno fungibile man mano che ci
si inoltra nel XX secolo, specialmente dopo la seconda guerra mondiale.
Dalla storia moderna si comincia a separare la “storia contemporanea”, che,
pur immediatamente caratterizzata da diverse ipotesi di “data di avvio”, ha
come tratto caratterizzante l’idea di una “accelerazione del ritmo di
cambiamento”. Nella prima edizione della sua Guida alla storia
contemporanea (Barraclough 1964), Barraclough definisce la storia
contemporanea come l’età in cui “prendono forma visibile i problemi che sono
attuali nel mondo di oggi”: su questa base fa iniziare l’età contemporanea con
il bipolarismo, la possibilità della guerra termonucleare, la decolonizzazione,
in sostanza dal 1945. La maggior parte delle designazioni, però, tende a
inserire nella storia contemporanea parte o tutto del secolo XIX, oltre che il
XX (Flores, Gallerano 1995, divisa nelle macrosezioni dell’Ottocento e del
Novecento).
Tra queste ipotesi c’è chi privilegia la forma nazione e la stabilità della politica
internazionale, facendo iniziare l’età contemporanea nel 1815 e chi preferisce
il binomio rivoluzioni politiche-rivoluzione industriale. E’ il caso della trilogia di
Hobsbawm (Hobsbawm 1963, 1972, 1987), che designa un “lungo
Ottocento” (1789-1914), premessa del “secolo breve”. Altre ipotesi di
impostazione economico-sociale individuano non nelle origini ma nella
diffusione generalizzata dell’industrializzazione l’avvio del mondo
contemporaneo, datandone di conseguenza l’inizio alla seconda rivoluzione
industriale, verso l’ultimo quarto dell'800. L’avvicinamento al ‘900 che qui si
nota è compiuto sulla base di una mondializzazione dei fenomeni storici che
sempre più viene considerato un tratto distintivo dell’ultimo secolo. In questo
senso, altre cronologie spostano al 1917 o al 1929 (o al 1945, come appunto
Barraclough) l’inizio dell’età contemporanea.
Se la pratica accademica tendono a comprendere nell'età contemporanea gli
ultimi due secoli, la differenza fra gli stessi è sempre più marcata, fino a
produrre un'ulteriore specializzazione tra ottocentisti e novecentisti. Del resto,
già tra le due guerre, molto prima della scansione adottata da Hobsbawm, la
cesura rappresentata dal conflitto era evidente. Ne danno testimonianza tre
grandi interventi di diversa impostazione usciti in quegli anni. Il classico della
storiografia liberale (Croce 1932) di Benedetto Croce esce nel 1932:
all'Ottocento visto unitariamente come avanzata della "religione della libertà"
si contrappone la crisi morale di fine secolo, sfociata nella grande guerra e in
regimi che proprio perché non in grado di sostituire la religione della libertà,
sono destinati ad ruolo parentetico. Nelle Conseguenze economiche della
pace (Keynes 1919), John M. Keynes, reduce dall'esperienza della
conferenza di Versailles, classifica il XIX secolo sotto la categoria "psicoeconomica" del risparmio, dell'astinenza dal consumo, una condizione
irripetibile. Per Karl Polany (Polany 1944) la crisi del '29 e la seconda guerra
mondiale svelano il carattere eccezionale e innaturale della sottomissione
della società al mercato dell'800.
Pur nella loro diversità, queste letture hanno in comune l'idea di progresso e
l'affermazione della nazione, condivise dalla maggior parte dei
contemporanei. Molto più divaricate sono le immagini e le interpretazioni del
'900.
Le percezioni del '900
Venendo finalmente all'oggetto specifico di questa trattazione e al contesto
degli argomenti trattati in questo pomeriggio, è veramente difficile rispondere
alla domanda "cosa è stato il Novecento", per cui non esiste una definizione
univoca tipo "il secolo dei Lumi". Scipione Guarracino (Guarracino 1997) ha
mostrato come nel corso del suo sviluppo il '900 ha mutato più volte la
propria autorappresentazione. La grande guerra, che sembra rappresentare
all'inizio il compimento del secolo delle nazionalità, sprigiona poi il suo
potenziale di rottura, fino a divenire un vero e proprio compendio di un secolo
di guerre ideologiche e ideologie armate: non a caso le viene attribuito il
carattere di matrice del secolo dalla maggior parte delle correnti
interpretative. Negli anni trenta sembra diventare centrale la sfida che
fascismo e comunismo lanciano alla coppia democrazia-capitalismo
(soprattutto dopo la grande depressione). La sfida a tre, che vede più o meno
durature alleanze asimmetriche, muta radicalmente con la seconda guerra
mondiale, eliminando in maniera definitiva il fascismo, e sprigionando due
altri terribili tratti del secolo: il genocidio e la bomba atomica. Ne emerge la
successiva autopercezione del secolo, l'età del bipolarismo e della guerra
fredda sul filo dell'equilibrio del terrore. Il 1945 assume un valore di svolta
anche per altri motivi, come l'inabissamento del nazionalismo, così
importante nei cento anni precedenti. Tuttavia, negli anni '60, mentre la
"coesistenza pacifica" sembra normalizzare il conflitto bipolare, emerge
un'altra centralità, la decolonizzazione e la rivoluzione del "terzo mondo". E'
un'immagine forte ma di breve durata, che si sbriciola ancor prima che il
crollo dell'URSS chiuda inaspettatamente il sipario sul mondo post 1945,
mostrando da un lato una specie di movimento ciclico, col ritorno ai
nazionalismi di inizio secolo, dall'altro nuovi e ambigui segni, quali la
globalizzazione che promette di universalizzare la "vittoria del mercato", ma si
infrange presto sugli scogli dei fondamentalismi etnici e religiosi e della crisi
internazionale (ma è un altro secolo, anzi un altro millennio).
E' interessante anche, in tema di percezioni, confrontare le previsioni del
futuro che caratterizzano i due ultimi passaggi di secolo (per quanto segue
cfr. Salvati 2001, e Adrian Lyttelton, "Il secolo che nasce": profezie e
previsioni del Novecento, in Novecento 2008, pp. 59-70). Alla speranza del
meglio si sostituisce il timore del peggio; all'eccesso di volontà, che vuole
imporre l'utopia come salto "a dispetto degli uomini", e massifica ideologia e
violenza, si sostituisce il pessimismo e la sfiducia nella storia. Al centro di
questo discorso c'è la cruciale, terribile identificazione del secolo con
Auschwitz, esito dell'ideologia della volontà, modernità realizzata. Un
discorso da riprendere nelle conclusioni.
Le interpretazioni del '900: secolo corto o secolo lungo? Hobsbawm e gli altri
Alle divaricazioni delle immagini percepite del novecento fa da riscontro un
grande numero di ipotesi interpretative e di date periodizzanti. E' possibile
però raggruppare le ipotesi generali attorno al criterio della durata, breve o
lunga, del secolo, ovvero, meglio ripeterlo ancora una volta, dei periodi a cui
alcuni processi principali forniscono tratti relativamente omogenei.
Non c'è alcun dubbio che l'interpretazione del '900 proposta da Eric J.
Hobsbawm nel libro Il secolo breve (Hobsbawm 1994), uscito sei anni prima
dell'effettiva fine del secolo, possieda una forza attrattiva enorme, rispetto alla
quale si sono orientate le altre. Per questo è comodo (ma anche corretto)
prendere il via da questa prospettiva. L'"età degli estremi" (titolo originale
dell'opera) designa un secolo breve che si apre con il vulcano della prima
guerra mondiale e si conclude col crollo del muro di Berlino e lo scioglimento
dell'URSS: dunque 1914-1989/91, logica continuazione del "lungo Ottocento"
ipotizzato da Hobsbawm nella trilogia citata (1789-1914). In questo arco
temporale si articolano le tre età: della catastrofe (la "guerra dei trentun anni")
1914-1945, dell'oro 1945-1973; della frana 1973-1991. Hobsabwm la
definisce una struttura "a sandwich", anche se le due fette di pane non hanno
la stessa sostanza e sapore. Lo schema è semplice, apparentemente rigido,
stereotipato; in realtà Hobsbawm lo riempie con un racconto ricco di
chiaroscuri (G. Procacci, Introduzione, in L'età degli estremi 1998, pp. 1324), capace di tenere in equilibrio gli aspetti ideologico-politici e quelli
economico-sociali, l'importanza cruciale di scienza e tecnica, il ruolo
dell'evoluzione artistico-culturale. Al centro della scena c'è la vicenda del
socialismo: figlio del terremoto iniziale, porta con sé nel suo crollo il secolo su
cui ha inciso a fondo. E' un "secolo sovietico" quello di Hobsbawm, ma ciò
non implica un protagonismo continuo dell'URSS; piuttosto misura l'influenza
della "patria del socialismo" sull'evoluzione globale del pianeta, effetti visibili
anche quando il blocco socialista si chiude in se stesso. E' facile capire cosa
ciò significhi nell'età della catastrofe: Hobsbawm resta fedele all'idea del ruolo
imprescindibile dell'Urss e dell'antifascismo (forse il contributo meno
dubitabile che il comunismo ha dato alla storia mondiale) nella sconfitta del
fascismo. Ma l'esistenza del blocco socialista, la sua realtà e soprattutto il
suo mito (cfr. M. Lewin, L'Unione sovietica e il mondo: l'influenza
internazionale della Russia fra mito e realtà, in L'età degli estremi 2008, pp.
59-71), hanno un'influenza apprezzabile anche nell'età dell'oro, quei "gloriosi
trent'anni" in cui ad uno sviluppo economico senza precedenti si accompagna
una ancor più inedita crescita del benessere e dei diritti sociali. Il welfare è
dunque anche frutto della vicinanza sovietica e della paura della rivoluzione
socialista, anche quando lo sviluppo economico sovietico, che comunque è
abbastanza marcato in buona parte del trentennio in questione, mostra la
corda, e la differenza in termini di consumi e libertà si fa abissale. L'età
dell'oro è anche quella in cui al confronto fra il primo e il secondo mondo si
affianca l'emergere del terzo, al cui "risveglio" non è affatto estraneo il
messaggio della rivoluzione sovietica. L'età della frana, che data dalla crisi
petrolifera del 1973, ha anch'essa andamenti paralleli fra i tre mondi,a
dimostrazione delle dimensioni planetarie raggiunte dalla storia. Mentre la
"frana" in occidente ha il volto della crisi e della ristrutturazione degli assetti
politici e sociali, nel mondo socialista il blocco del modello di sviluppo
estensivo e l'incapacità di riforme politiche vere precipita la stagnazione verso
il crollo. La fine del socialismo reale è la fine del secolo perché i suoi effetti
hanno evidenti riflessi sia sul primo che sul terzo mondo.
Che il 1914 sia una data chiave è opinione diffusa. Per Arno Mayer (Mayer
1982), con essa si apre la "guerra dei trent'anni del Novecento". Non si tratta
però dell'avvio di un'epoca nuova, ma della violenta conclusione del potere
dell'ancien regime nelle società europee, tutt'altro che esaurito nell'ottocento:
coerente con la sua contestazione del "trionfo della borghesia", lo storico
americano vede tra le cause della grande guerra la resistenza allo
spodestamento da parte delle vecchie classi dirigenti, che sono liquidate solo
in Russia, e patrocinano attivamente i fascismi e quindi le premesse della
seconda guerra mondiale.
Il quadro tracciato da Hobsbawm sembra a prima vista far parte di quella
interpretazione dell'età contemporanea che annette il peso maggiore ai
caratteri ideologici. La prima guerra mondiale è l'esordio di un connubio
guerra-ideologia che, incarnata dalla coppia fascismo-comunismo segna il
secolo della violenza e dei totalitarismi.
Le interpretazioni che sposano questa visione, quelle cosiddette revisioniste,
hanno come capostipite Ernst Nolte (Nolte 1988). La sua cronologia del
secolo è 1917-1989: il lieve spostamento in avanti della data iniziale focalizza
il confronto chiave della "guerra civile europea" nella lotta tra bolscevismo e
nazismo, dando al primo e all'URSS il ruolo di "causa prima", al secondo
quello di "reazione", fino a spingere lo storico tedesco ad una sorta di
giustificazionismo che annovera anche il razzismo e l'antisemitismo tra gli
effetti della paura del bolscevismo, e fa del nazismo una specie di "baluardo"
dell'occidente rispetto alla "barbarie asiatica".
Più articolata, ma nella stessa matrice, è la descrizione di François Furet
(Furet 1995). Il secolo è quello del confronto tra totalitarismi e democrazie
liberali. L'antifascismo comunista maschera questo confronto fino al 1945.
Una volta sconfitto il fascismo, però, l'assimilazione tra i totalitarismi assume
una evidenza incontrovertibile.
Queste impostazioni, che allargano la categoria di totalitarismo oltre
l'originaria definizione di Hannah Arendt (Arendt 1951), compiono una
forzatura monocasuale che sfocia in preconfezionate filosofie della storia.
Uno schematismo ideologico, con cui poco l'articolazione e la complessità
della proposta di Hobsbawm ha ben poco a che fare.
La proposta del secolo breve è messa in discussione soprattutto dal punto di
vista della storia economica e sociale, che si impernia su cicli più lunghi.
Charles S. Maier (Secolo corto o epoca lunga? L'unità storica dell'età
industriale e le trasformazioni della territorialità, in Novecento 2008, pp. 2958) giudica l'attribuzione al '900 di "età della violenza" come
un'ipostatizzazione di natura antropologica, che annulla la possibilità dello
storico di compiere distinzioni. Il punto di rottura, l'elemento periodizzante
della storia contemporanea è l'organizzazione spaziale, cioè il rapporto tra
l'umanità e il territorio, mediato dalle tecnologie, dalle forme di governo, dalle
relazioni sociali. In questo senso il periodo da prendere in considerazione
inizia nel 1850-60 e si conclude nel 1960-80, e si può definire "ascesa e
caduta della territorialità". Esso si caratterizza per un'organizzazione spaziale
dai confini netti imperniata sullo stato-nazione, per un'amministrazione
centralizzata (resa possibile dall'industrializzazione, che rende controllabili
spazi più ampi), per l'integrazione della classi medie nella gestione del potere
politico ed amministrativo. I conflitti tra stati, imperi ed ideologie, comprese le
guerre mondiali, non sono che scosse di assestamento degli assetti sopra
descritti. L'avvio del processo a metà Ottocento coincide sostanzialmente
con l'industrializzazione del continente europeo e degli Stati uniti.
L'esaurimento di questo modello, a partire dagli anni '70, è in qualche modo
assimilabile alla cosiddetta terza rivoluzione industriale. L'organizzazione
territoriale muta in tutte le sue componenti: multinazionali e mercati finanziari
globali separano gli spazi delle decisioni dagli spazi dell'identità, le tecnologie
informatiche rendono prioritaria la merce "informazione", l'organizzazione
sociale muta dal criterio gerarchico piramidale a quello centro-periferia. Si
passa dallo spazio delimitato dai confini a quello solcato dalle reti. Il modello,
suggestivo ma un po' astratto, reimmette il Novecento nella più lunga età
contemporanea.
L'ipotesi del "secolo lungo" è anche nell'opera di Giovanni Arrighi (Arrighi
1996), praticamente coeva a quella di Hobasbawm. Il criterio orientativo è la
definizione braudeliana di capitalismo (sintesi di mercato-finanza e potere
statale), che descrive la storia moderna e contemporanea come una
successione di cicli di accumulazione dell'economia-mondo capitalistica, i
"secoli lunghi" appunto, ciascuno caratterizzato da un'entità politica guida (in
progressivo aumento di dimensioni), e diviso in tre fasi: prevalenza del
capitale finanziario, sviluppo produttivo-commerciale, nuovo predominio
finanziario. In tal modo ciascun "terzo periodo" coincide col primo del "secolo"
successivo. Ne risultano quattro epoche: il Cinquecento dell'egemonia delle
città stato italiane e in particolare dei banchieri genovesi (1450-1640); il
Seicento olandese (1660-1780); il Settecento inglese (1740-1930)
dell'imperialismo del libero scambio.
Il Novecento, che si apre con la crisi 1873-1896, è caratterizzato
dall'egemonia degli USA, fondata sul ridimensionamento tanto degli stati
nazionali quanto del libero scambio, e sulla comparsa, accanto agli "spazi di
luoghi" (le economie nazionali), di "spazi di flussi" (le imprese multinazionali).
Il secolo americano è entrato nella "terza fase" con la crisi degli anni 1970-80,
fase ancora in divenire, ma dalla quale è possibile ipotizzare o la
precipitazione in un caos sistemico o, secondo le ipotesi più recenti dello
stesso autore (cfr. Arrighi 2008), un'egemonia cinese con caratteristiche
nuove, meno centrata sul dominio militare.
Rifacendosi alla citata definizione di Barraclough, Leonardo Paggi (Un secolo
spezzato. La politica e le guerre, in Novecento 2008, pp. 84-116) contesta
ad Hobsbawm la forzata comprensione unitaria del novecento. La sua
proposta propende per l'unità del periodo 1870-1945, con l'ultima data
considerata lo spartiacque decisivo, la svolta con cui si apre un'era non
ancora tramontata. Con le due guerre del novecento viene a conclusione il
sistema di relazioni internazionali nato nell'800, e l'egemonia statunitense
prende il posto di quella britannica. I mutamenti che segnano il sorgere del
"secolo americano" investono in primo luogo la concezione e la funzione della
guerra: nella contesa bipolare, con la guerra fredda, al potere dissuasorio
delle armi si accompagna lo strumento del modello di sviluppo; in secondo
luogo l'eccezionale sviluppo postbellico mette in connessione lo sviluppo
dell'industrializzazione con quello del commercio internazionale, ricreando
l'occidente come economia multilaterale aperta, che però non riesce a
divenire globale, concedendo spazio e prestigio all'URSS nel terzo mondo.
Solo dopo la fine dell'Urss il progetto del 1945 acquista una dimensione
globale. Il terzo elemento di trasformazione nel rapporto tra i poteri pubblici e
la vita: la "governamentalizzazione della vita" (Foucalt), che nel trentennio
delle guerre ha portato l'ingegneria biopolitica all'estremo dello sterminio
pianificato, si riorienta verso la generalizzazione dello stato sociale (nel 1942
ci sono sia la conferenza del Wansee che approva la "soluzione finale", sia il
lancio del Piano Beveridge in Gran Bretagna), per poi produrre il
consumismo, ovvero la legittimazione della politica misurata sullo standard of
leaving. Infine, il passaggio dall'identità di classe a quella di consumatori si
collega alla trasformazione dei sistemi di identità politica, con la scomparsa
delle guerra civile ideologica che ha caratterizzato la prima metà del secolo e
la morte della "politica di massa". La fine dell'URSS non può essere indicata
come termine di un'epoca, perche il blocco della sua "spinta propulsiva" è già
in atto da almeno venti anni. D'altronde è illuminante la caduta non cruenta
dell'impero sovietico, che ci dice sia della differenza dell'URSS rispetto ai
totalitarismi "classici", sia di quella, radicale, tra la guerra fredda e le guerre
precedenti. Entrambi questi esiti confermano lo spartiacque rappresentato dal
1945, che designa un secolo spezzato e ancora aperto.
Il secolo di ... strutture e temi
Alle sintesi generali, politico-economiche e socio-economiche, si aggiungono
le periodizzazioni per argomenti più o meno specifici, più o meno riassuntivi.
Se ne possono elencare decine, ciascuna con una propria logica e
importanza. Ne ricordo due, cruciali, dei molti di cui non parleremo: il
novecento del lavoro e il novecento delle donne.
Tra i temi che da tempi più recenti sono stati inseriti nell'ambito della ricerca
storica, occorre citare senz'altro, per il suo carattere di stringente attualità, la
"storia dell'ambiente". Ha notato Piero Bevilacqua (Il secolo planetario. Tempi
e scansioni per una storia dell'ambiente, in Novecento 2008, pp. 117-152)
che i tre livelli principali di interazione uomo-ambiente, l'inquinamento di
acqua terra e aria, l'uso delle risorse, la presa di coscienza dei problemi, si
muovono secondo strutture temporali differenziate, che non sono assimilabili
compiutamente al secolo XX, periodo in cui però le questioni si condensano
assumendo un rilevanza decisiva. Tanto l'inquinamento ambientale che l'uso
di risorse non rinnovabili sono rilevanti già nell'industrializzazione
ottocentesca; nello stesso secolo si conia il termine Oekologie. Ma solo nel
'900 i problemi ambientali e la consapevolezza di massa della loro gravità
raggiungono scala planetaria, fino a promettere, al volgere del secolo, una
gigantesca rivoluzione culturale, che chiude con l'equazione tra progresso e
crescita quantitativa.
Il '900 è qualificabile anche come secolo della scienza e, anche in questo
ambito occorre tenere conto di scansioni e processi di ricerca che mal si
adattano a cronologie rigide, e che vanno valutate non solo rispetto ai risultati
ma anche all'evoluzione degli strumenti e dei metodi, nonché della relazione
con la società Su questa base Roberto Maiocchi (I tempi della ricerca
scientifica, in Novecento 2008, pp. 203-217) individua una serie di momenti
chiave: il 1900-14 in cui la crisi del positivismo alimenta il dibattito sulle nuove
concezioni della fisica; il 1914-18, con il connubio strettissimo ricerca-statoguerra, accentuato tra le due guerre dal nesso scienza-ideologia; il 1927, che
vede l'enunciazione compiuta della meccanica quantistica, con la rottura
definitiva del legame tra scienza e senso comune; il 1942, con l'avvio del
Progetto Manhattan e dell'era atomica; la rivoluzione della biologia
molecolare con la scoperta nel 1953 della struttura ad elica del DNA; il
processo a Oppenheimer dell'anno successivo; il lancio dello Sputnik nel
1957, simbolo dell'equilibrio del terrore e allo stesso tempo della "coesistenza
pacifica"; le recenti svolte del personal computer e dell'ingegneria genetica.
Visto dal punto di vista delle strutture statali, il Novecento mostra una vistosa
crescita tanto del ruolo decisionale dei governi rispetto ai parlamenti e della
macchina amministrativa rispetto alle istituzioni politiche, quanto l'espansione
delle funzioni di regolazione della società civile attribuite allo stato (cfr.
Saverio Carpinelli, Guido Melis, Lo stato e le istituzioni, in Novecento 2008,
pp. 181-202). Al primo fenomeno contribuiscono l'estensione del suffragio,
l'enorme crescita della funzione legislativa, la tendenza alla centralizzazione
delle decisioni (accentuate dalle guerre), l'avvento dei partiti di massa e la
loro "costituzionalizzazione"; al secondo lo sviluppo del ruolo economico dello
stato, in particolare nella costituzione dello stato sociale universalistico, con
l'espansione della spesa pubblica che ciò comporta.
Cronologie del '900 italiano
Qualche schematica considerazione, prima di concludere, sul Novecento
italiano. L'ipotesi del secolo breve sembra adattarsi quasi letteralmente
all'Italia, sia nei suoi termini che nelle sue scansioni interne. L'età della
catastrofe corrisponde al 1915-1945, l'età dell'oro è il 1945-1973 (con
possibili varianti sulla conclusione), l'età della frana (per l'Italia forse potrebbe
dirsi del declino) può farsi terminare col 1992 (per gli "anni cruciali" del secolo
cfr. Novecento italiano 2008). Se l'entrata in guerra del 1915 coincide con
l'inizio bellico del secolo, merita una spiegazione poco più approfondita la
coincidenza tra il 1991 della fine dell'URSS e il 1992 dell'estinzione del
sistema dei partiti formatosi alla fine della seconda guerra mondiale in Italia: è
chiaro infatti che tanto lo scioglimento del PCI quanto il terremoto causato
dall'inchiesta di mani pulite che travolge la DC, il PSI e gli altri partiti di
governo, sono legati alla fine del socialismo reale. Direttamente e per scelta
soggettiva nel primo caso; indirettamente nel secondo, per il venir meno sul
piano internazionale e nazionale della tolleranza verso la corruzione dovuta
alle necessità dell'anticomunismo, cogente quanto il famoso "fattore K".
L'adattabilità del '900 italiano allo schema del secolo breve è indicativa della
"sovranità limitata" di cui ha goduto l'Italia nel mondo bipolare e, più in
generale (visto che lo schema sembra funzionare prima e addirittura dopo la
contrapposizione tra i blocchi, a Vicenza ne dovremmo sapere qualcosa) la
relativa debolezza del ruolo internazionale dell'Italia.
Restando nell'ambito della storia istituzionale, è possibile anche una
scansione del '900 secondo i regimi politici. L'avvio può collocarsi nel 1896,
nel 1898, nel 1900 o nel 1901 (la fine della depressione economica, i moti di
Milano, l'assassinio di Umberto I, l'inizio del ciclo governativo giolittiano),
comunque il volgere del secolo rappresenta una cesura dell'età liberale,
perché esclude le velleità reazionarie e avvia il decollo industriale. La
seconda fase coincide con il regime fascista (1922-1943/45). La terza fase è
quella repubblicana, che si inaugura con il referendum del 1946 (o con la
promulgazione della costituzione nel 1948), e può considerarsi ancora aperta
dal punto di vista istituzionale, o, su un piano politico più ampio, farsi
terminare nel 1978 (il delitto Moro come "morte della Repubblica", cfr. Crainz
2009) o nel 1992.
Dal punto di economico si possono individuare due schemi. Il primo, in due
fasi (Graziani 1998), ha come punto di partenza gli anni '70 dell'800 e come
svolta periodizzante la ricostruzione (1945-51), a muovere dalla quale l'Italia
adotta un modello di sviluppo export-lead, collocandosi stabilmente in una
nuova divisione internazionale del lavoro garantita dall'adesione a
organizzazioni internazionali. Ciò impedisce la riproposizione del modello di
sviluppo tradizionale, basate su protezionismo e bassi salari, e genera il
"doppio salto mortale" dall'assetto agricolo-industriale alla società dei
consumi. Una visione più articolata delle continuità-rotture che costituiscono
la modernizzazione economica italiana, consente di distinguere quattro fasi
(cfr. Ciocca 2007): il decollo (1900-1913), il consolidamento (1922-1938), la
ricostruzione e il boom (1945-1968), il declino (1963-2005).
Proviamo infine a suggerire tre scansioni legate a issues specifici.
Il Novecento delle donne ha una struttura "a sandwich rovesciato"; alla prima
emancipazione forzata dalla guerra, segue la lunga notte del fascismo. Con
la partecipazione alla Resistenza, che anche solo per questo sarebbe da
apprezzare, si apre una lunga marcia di emancipazione e liberazione che
attraversa tutta la storia repubblicana.
Il rapporto città-campagna può illuminare alcuni fenomeni sociali ma anche
politici del '900: vi si possono comprendere le due fasi di "guerra civile"
(1919-1922 e 1943-45). Cruciale è il crollo repentino del mondo rurale negli
anni '50 e '60 incide sui caratteri contraddittori della nostra modernizzazione
(particolarmente significativo a proposito è Crainz 2005).
Infine, il '900 italiano si può misurare sui flussi migratori (cfr. a titolo
riassuntivo Storia emigrazione 2001-2002). Il punto di partenza è
ovviamente l'emigrazione transoceanica italiana tra '800 e '900, seguito tra le
due guerre da un sostanziale blocco. La terza fase, 1948-1975, è quella di
una nuova ondata di emigrazione, con la doppia meta del nord Europa e del
nord Italia, e un ruolo decisivo nel mutamento di volto del paese. La quarta
fase, iniziata negli anni '80 e tuttora in corso, mostra lo strabiliante
rovesciamento con cui un paese di emigranti diventa un paese di immigrati,
con implicazioni talmente ampie da non doversi nemmeno menzionare.
Conclusioni: un secolo dannato?
Periodizzare è interpretare; interpretare è dare un senso, e anche trarre un
bilancio. Che bilancio si può tracciare del secolo scorso, breve o lungo che
sia? Un motivo di complicazione è che la storia del '900 è molto vicina,
presente vitale degli storici che l'hanno narrata. Questo assunto è dichiarato
in tutta la sua problematicità, ma anche con il pragmatismo che lo
contraddistingue, dallo stesso Hobsbawm (Hobsbawm 2002, p. 11). In una
conversazione con Claudio Pavone (Una testimonianza, Conversazione tra
Vittorio Foa e Claudio Pavone, in Novecento 2008, pp. 221-237), Vittorio Foa
affermava la sua stanchezza per la lunghezza del secolo. Il nodo del rapporto
storia-memoria va ben al di là di una delicata questione metodologica,
toccando il punto dolente profondo, l'indicibile del '900, secolo in cui le utopie
astratte prodotte dalle avanguardie si incontrano con l'eruzione della società
di massa, producendo violenze e genocidi, che si riassumono nella
"modernità realizzata" di Auschwitz "fatto sociale totale" (Cfr. Salvati 2001).
Posta la questione in questi termini, non resterebbe che "fuggire" senza
rimpianti dal "secolo delle ideologie", da tenere solo come monito a non
ripetere mai più l'errore di forzare le utopie in schemi astratti, indipendenti dai
fatti e dagli uomini. Ma è altrettanto necessario ricordare, (cfr. C. Pavone,
Prefazione a Novecento 2008, p. XVII), che se il Novecento è stato il periodo
in cui milioni di uomini hanno partecipato alla macchina della violenza
ideologica, altrettanti uomini l'hanno combattuta e talvolta vinta. Solo così si
possono comprendere le contraddizioni tragiche ma anche vitali del secolo di
Hitler e Ghandi, di Stalin e di Gramsci, del fascismo e della resistenza, del
razzismo e della decolonizzazione, della povertà globale e del welfare
universalistico.
Il senso del limite non può significare la rinuncia all'azione collettiva, la
nostalgia del mondo delle élite, l'anomia. Né si può accettare che la "morte
delle ideologie" sia vissuta con un semplice moto di sollievo, senza vedere
che quell'espressione, lo diceva Franco Fortini, nasconde la vittoria di una di
esse (pensiamo a cosa abbia significato il "pensiero unico" nella gravità della
crisi attuale). Inoltre, il crollo dei progetti "alternativi" in qualche modo
razionali e universalistici, non lascia un felice vuoto, ma è riempito da sfide
meno universali, meno razionali e inclusive, ma non meno "feroci". Andiamoci
piano col congedo dal '900.
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