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Corso di formazione “ Percorsi di libertà “. Come contrastare la violenza sulle donne
Fiabe e romanzi per costruire efficaci strategie educative – 13 novembre 2013
Anna Pagano
Comincio con un aneddoto che Anna Maria Piussi mette in esergo ad un suo saggio ne Il pensiero
della differenza sessuale: -Signora maestra come si forma il femminile? – Partendo dal maschile:
alla “o”finale si sostituisce semplicemente una “a”. – Signora maestra, e il maschile come si forma?
- Il maschile non si forma, esiste.
Credo che questa sia la finalità del nostro corso e di noi insegnanti: guidare le alunne a riconoscersi
come soggetto e guidare gli alunni a riconoscersi come uno dei due soggetti esistenti.
Le fiabe sono uno strumento particolarmente versatile per il nostro obiettivo, intanto perché sono
gradevoli all’ascolto e questo è sempre un requisito positivo, sono adatte a decostruire stereotipi e
valori del patriarcato ed a mostrare, soprattutto quelle che nascono dal mito, elementi indispensabili
per la crescita libera delle ragazze, come il legame con la madre e con il luogo delle origini.
Le fiabe che ho scelto le ho riprese da Le fiabe del focolare, dei fratelli Grimm e, soprattutto, da le
Fiabe italiane, di Calvino. Rileggendole, in vista del nostro lavoro, ho evidenziato alcune differenze
significative fra le due raccolte e gli autori stessi: i Grimm le trascrivono utilizzando le varie
versioni orali, senza darne conto, e mettendole nella forma che sembra a loro più congeniale, con un
intento politico: ricostruire “ un’antica religione della razza per far rinascere una coscienza
germanica dopo Napoleone” (Calvino, Fiabe italiane ). Le loro fiabe sono affollate di eroi,
scontri,crudeltà,sangue: grondano virilità.
Calvino attinge per la Sicilia da Fiabe, novelle e racconti popolari siciliani, di Giuseppe Pitrè che,
ricordiamolo, riporta un gran numero di fiabe che gli raccontava la sua nutrice, Agatuzza Messia,”
cucitrice di coltroni d’inverno al Borgo, nel largo Celso n.8”, verso la quale Pitrè riconosce il suo
grande debito e che Calvino indica come protagonista della raccolta, aggiungendo che “ha la
narrazione piena di colori, di natura, di oggetti, sollecita al meraviglioso… pronta sempre a far
muovere personaggi femminili attivi, intraprendenti, coraggiosi, che paiono in aperto contrasto con
l’idea passiva e chiusa della donna che si pensa tradizionale della Sicilia”.
Se leggiamo, per es., la fiaba di Cenerentola dei Grimm ( toglietevi dalla mente la versione di
Disney )e Grattula Beddattula, la versione di Cenerentola raccontata da Agatuzza Messia, potremo
subito verificare quello che dicevo prima. Ne indico brevemente le principali caratteristiche.
La Cenerentola dei Grimm si apre con la descrizione della morte della madre che, prima di chiudere
gli occhi, raccomanda alla bambina di essere “docile e buona” e lei va ogni giorno a piangere sulla
sua tomba ed “ è sempre docile e buona “. Poi arrivano matrigna e sorellastre che la trasformano in
serva. La bimba, al padre che glielo chiede, risponde che vuole in regalo “ il primo rametto che vi
urta il cappello”, senza esprimere nessuna preferenza. Arriva il bando per il ballo a palazzo e – salto
le cattiverie della matrigna e delle sorelle e le magie per l’abbigliamento – per tre sere di seguito
Cenerentola, ballando con il principe, non apre bocca. Voglio ricordare cosa succede quando le
sorelle provano la scarpetta: alla maggiore non entra l’alluce e allora la madre le porge un grosso
coltello e glielo fa tagliare, “ perché tanto quando sarà regina non dovrà camminare più a piedi”.
Quando il principe le guarda il piede, vede sgorgare il sangue. La seconda sorella si taglia il
calcagno con il solito spargimento di sangue. Nella scena finale alle due sorelle vengono cavati gli
occhi da due colombe protettrici di Cenerentola. Se Disney avesse rappresentato questa versione
avrebbe fatto concorrenza a Quentin Tarantino.
Ninetta, la protagonista di Grattula Beddattula (Dattero Beldattero) , vive serenamente con il padre
e le sue sorelle ( la scomparsa della madre ci è risparmiata ), chiede con sicurezza al padre, come
regalo, un ramo di datteri in un vaso d’argento. In assenza del padre, Nina, per recuperare un ditale,
si cala in un pozzo, dove trova un paradiso di fiori e frutta. Ricordo soltanto che il pozzo è simbolo
della Dea ctonia , divinità del mondo sotterraneo e che la ricchezza della vegetazione è il segno
della sua potenza fecondatrice; ne parlerò in un'altra fiaba. Più in là nel tempo c’è il bando per il
ballo a palazzo e Nina, nonostante le insistenze del padre e delle sorelle, non vuole andarci. Poi,
però, rimasta sola, chiede al suo ramo di datteri: “ Grattula-Beddattula, sali su e vesti Nina, falla più
bella di com’era prima.” Nina durante il ballo non si vuole far riconoscere dal Reuzzo e c’è fra i due
un arguto duetto:
- Come state, signora?
- Come estate così inverno.
- Come vi chiamate?
- Col mio nome.
- E dove state?
- Nella casa con la porta.
- In che strada?
- Nella vanedda del polverone.
- Signora, voi mi fate morire!
- Fate pure!
Alla fine il Re interviene d’autorità e, svelata l’identità della ragazza, ne chiede la mano al padre.
Niente scarpetta né piedi sanguinanti né occhi strappati. E’ la fiaba di una ragazza che mostra
coraggio e intraprendenza, che sa scegliere con sicurezza quello che le sarà utile per il futuro e
mettere in atto le sue strategie, aiutata da un ramo di dattero magico. Credo che tutto questo c’entri
con quel legame con il luogo dell’origine femminile che è rappresentato dal pozzo e che si ritrova in
tante fiabe mediterranee. Molte sono le protagoniste di fiabe coraggiose e intraprendenti come Nina,
che affrontano situazioni pericolose, che lanciano sfide impossibili, che si mettono per vie
avventurose; sì, alla fine si sposano, ma tenendo in mano il filo del loro destino. Vanno presentate
come modelli positivi, in contrasto con quelle “ docili e buone “ o cattive e malvagie.
Mi piace, a questo punto esplicitare che la mia lettura tiene conto della pratica politica del “partire
da sé” che, come dice Chiara Zamboni ( allegato pag.1), “consiste nel trovare le parole per dire il
reale e per portarlo alla sua verità” e che da decenni mi consente di interpretare la realtà e di
intervenire su di essa in modo libero, autonomo dalle rappresentazioni e dagli schemi della cultura
patriarcale. E’una pratica che ho guadagnato attraverso le letture, le riflessioni, le esperienze
maturate e condivise nel Gruppo di Pedagogia della differenza sessuale dell’UDI di Palermo e che
ho sperimentato con le mie classi insieme ad alcune colleghe.
Comincio da me,dunque, da un mio ricordo: ero bambina, molto piccola e appena mia madre
cominciava a raccontarmi la fiaba di Biancaneve, proprio all’inizio, quando la madre muore,
scoppiavo in un pianto così inconsolabile che la fiaba veniva interrotta.
Decenni dopo, facendo un lavoro sulle fiabe con la classe, capii che avevo avuto ottime ragioni per
piangere.
Cosa rappresenta, infatti, la morte della madre? Il taglio traumatico dell’origine materna, che lascia
la bambina sola nel mondo del padre. Poco dopo entra in scena la matrigna, la donna che vive per
essere la più bella agli occhi del padre, che cerca continua conferma di sé nello sguardo maschile, lo
specchio, che Virginia Woolf invitava a spezzare. La matrigna è la donna che sta a suo agio nel
luogo che il patriarcato le ha destinato, avendone assorbito valori e comportamenti.
Mostra sentimenti tipici, previsti per la sua situazione: ha terrore di perdere marito, ruolo sociale,
ricchezze, privilegi, quindi mette in scena competizione, gelosia, odio per la presunta rivale fino ad
organizzarne l’assassinio.
E qual è la sorte di Biancaneve?
Viene abbandonata sola in un bosco, luogo simbolico per eccellenza, che indica un passaggio
esistenziale; qui segna il tempo della crescita, dall’infanzia all’adolescenza. Successivamente arriva
nella casa di sette nani che, in cambio di un rifugio, la mettono a fare i servizi domestici. Un bel
salto di qualità, da principessa a serva! Nella casa dei nani trascorre il periodo di addestramento per
diventare grande. Nell’adolescenza, infatti, le ragazzine dovevano esercitare le doti per diventare
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donne e mogli: ubbidienza, disponibilità, pazienza, comprensione, modestia, umiltà, buon
carattere…e tutto con allegria e preferibilmente con un bell’aspetto.
Passato del tempo, Biancaneve muore, avvelenata dalla mela: la morte rappresenta un altro
passaggio simbolico, dall’adolescenza alla giovinezza. E’ pronta a diventare moglie, infatti viene
riportata in vita dal principe, che la sposerà e le darà il ruolo definitivo previsto per lei.
Anche la Bella addormentata cade in un sonno magico e, poverina, deve aspettare cento anni prima
che arrivi il principe a svegliarla e diventare anch’essa sposa e principessa. Le fiabe sono affollate
di principesse che aspettano il Principe Azzurro e raccontano con elementare chiarezza quale fosse
il ruolo pensato ed organizzato dal patriarcato per le donne.
Ma non tutte le fiabe hanno protagoniste inconsapevoli ed inerti; ce ne sono molte che, pur
nell’inevitabile esito matrimoniale, raccontano percorsi di consapevolezza o addirittura di disperata
resistenza. Sono, non a caso, fiabe che hanno radici nel mito della Dea, tramandato, come altri miti,
nei racconti popolari delle donne.
Una “tra le più suggestive e misteriose”, come la definisce lo stesso Calvino, si intitola Testa di
Bufala (alleg. pag,2). La testa di bufala è un simbolo della Dea, perché il suo profilo configura la
forma dell’utero e le corna le mezze lune della Dea lunare. E’ una divinità ctonia, che ha signoria e
dimora nel mondo sotterraneo; nella fiaba, infatti, un contadino la trova, zappando, sotto terra. Le
affida sua figlia, che va a vivere con lei.
Testa di Bufala fa da madre alla ragazza e lei la chiama mamma; le insegna a prendersi cura della
casa e a cucinare, le fa anche da maestra e le insegna a leggere e a scrivere. Quando la ragazza
cresce, manifesta il desiderio di uscire nel mondo di fuori e la madre, pur se a malincuore,
acconsente e le dona una veste d’argento. Si trova a passare l’inevitabile principe che ovviamente si
innamora e la vuole sposare; lei ridiscende e chiede il permesso alla madre, che glielo concede,
raccomandandole di non essere ingrata, di ricordarsi sempre che tutto quello che ha avuto lo deve a
lei e di non dimenticare niente, perché se no le potrà succedere qualche disgrazia. Lei per la fretta
va via senza nemmeno salutarla e senza ascoltare le sue parole. Tremenda è la punizione della
madre: la ragazza si guarda allo specchio e si ritrova la testa di bufala. Andata via, deve affrontare
difficilissime prove per poter sposare il principe e ogni volta va a chiedere aiuto alla madre che le
fornisce i mezzi per superarle. Finalmente la giovane capisce il suo errore e le chiede perdono.
Ridiventata splendente di bellezza, bacia e saluta ripetutamente la madre, sposa il suo amato, si
siede accanto a lui sul trono e tutto il popolo l’acclama regina.
Cosa significa questa fiaba? Quali elementi simbolici ci interessa mettere in evidenza?
L’argomento della fiaba è il rapporto madre-figlia. Testa di Bufala guida la crescita della ragazza, le
insegna a saper prendersi cura di se stessa e organizzare la sua vita materiale, le fornisce le strutture
simboliche, la lettura e la scrittura, per poter accedere alla conoscenza e crescere intellettualmente e
spiritualmente; la mette, insomma, in grado di avere consapevolezza di sé e del mondo.
La giovane, appena esce nel mondo e conosce il principe, rappresentante di una società ordinata
dall’autorità maschile, dimentica il legame con la madre, abbandona il luogo dell’origine. La madre
la punisce severamente. Quando viene sottoposta alle dure prove del mondo organizzato a misura
d’uomo, torna dalla madre, che non le nega mai il suo amorevole aiuto, ma che ancora non la
perdona. Lo farà solo quando la giovane donna avrà compreso che il legame con la madre le è
indispensabile per affrontare la vita in un mondo diverso da quello materno. A questo punto,
radicata nella sua origine, consapevole di sé, potrà scegliere di sposare il suo amato e di condurre
una vita insieme.
Testa di Bufala è imperniata sul mito, ce ne sono altre che ne utilizzano solo alcuni elementi,
talvolta in modo esplicito. La figlia del Sole (v. Fiabe italiane) si rifà al mito di Danae ed è una
fiaba godibilissima, perché mette in scena i poteri della figlia del Sole, che sono dirompenti nella
solita struttura della ragazza che sposa il principe e utilizzati nella quotidianità della vita domestica.
La ragazza va ad aprire agli ambasciatori del re senza testa, perché l’ha dimenticata sulla toletta,
passeggia sulle ragnatele, si infila nel forno acceso per ritirare la torta, mette le dita nell’olio
bollente e le dita si trasformano in pesci perfettamente fritti. La fiaba finisce, tristemente, così:
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“ Il figlio del re sposò la figlia del Sole che da quel giorno diventò una donna come tutte le altre e
non fece più cose strane. “
La figlia del Sole, come la più celebre Sirenetta, nel mondo maschile perde le doti del suo mondo
d’origine.
L’ultima fiaba derivante dal mito, cui voglio accennare, è La ragazza colomba (v. Fiabe italiane).
Il protagonista vuole prendere moglie e, su suggerimento di un mago, si reca presso una fonte, dove
si posano dodici colombe, le quali, deposte la loro vesti di colomba, si trasformano in bellissime
ragazze che si mettono a giocare. Il giovane afferra una veste e la nasconde nella giubba, undici
ragazze indossano i loro vestiti e volano via, la dodicesima non trova la veste e, continuando a
dirgli:- Dammi la veste, dammi la veste -, è costretta a seguirlo a casa, dove viene affidata alla
madre del ragazzo, con l’ ordine di non ridarle assolutamente il vestito. Rimaste sole, la giovane
comincia a ripetere ossessivamente: - Dammi la veste, dammi la veste – fino a quando la madre
gliela ridà. Ritornata colomba, vola via. Dopo un po’ si ripete la scena alla fonte e questa volta,
quando la giovane rivuole il suo vestito, lui prestamente lo brucia. A quel punto lei, spodestata del
suo potere, è costretta a sposarlo.
Voglio sottolineare un aspetto che assume un significato particolare per la comprensione del
simbolico. Questa fiaba, trascritta da Pitrè e raccontata da una donna di cui non viene ricordato il
nome, nella versione orale aveva come titolo Dammi lu velu. Ricordiamoci cos’era u velu quando
anche le donne siciliane si velavano: un fazzoletto che si metteva obbligatoriamente sulla testa per
entrare in chiesa, un nero velo che copriva il capo e, a volte, anche il viso delle vedove, ma u velu
per antonomasia era ed ancora oggi è il velo che copre il viso della sposa e che il marito alza dopo il
“sì”: indica, infatti, in senso metaforico l’imene. La fiaba dà la rappresentazione di uno stupro
reale: la ragazza viene privata con violenza definitiva del suo velu, che con tanta determinazione
aveva difeso e che la madre aveva aiutato a preservare, ed è costretta alle nozze.
Due sono gli elementi del mito nella fiaba ed entrambi si riferiscono alla Dea: la fonte e gli uccelli.
L’acqua era simbolo di fecondità e gli uccelli, con i loro voli fra terra e cielo, rappresentavano lo
spirito della Dea che pervadeva e unificava i mondi:
spesso i suoi luoghi di culto erano ubicati su monti e promontori scoscesi, dove nidificano gli
uccelli e l’acqua piovana si riunisce in rivoli.
Risulta interessante la presentazione alle nostre classi di quest’ultimo punto perché viviamo ai piedi
di Monte Pellegrino, che è stato e continua ad essere la Montagna Sacra per le e gli abitanti del
territorio e presenta le caratteristiche del mito alle quali accennavo: è un monte scosceso sul mare,
pieno di caverne in cui nidificano gli uccelli e si infiltra l’acqua; da millenni è sede della divinità
femminile, vi è, infatti, la grotta di Santa Rosalia, dentro la quale è stata individuata un’edicola con
tracce di simboli della Dea cartaginese Tanit; ai suoi piedi una sorgente di acqua dalle proprietà
taumaturgiche sgorgava nella borgata dell’Acquasanta e ricordiamoci anche del nome dell’altra
borgata alle falde, Vergine Maria.
Siamo ben protette!
Voglio riportare lo sguardo su una figura chiave dell’universo simbolico delle fiabe: il Principe
Azzurro. Che una ragazza fin dall’infanzia dovesse nutrire il desiderio di incontrarlo e coronare il
Sogno d’Amore glielo insegnavano le fiabe e, man mano che cresceva, le riviste, i libri e tante altre
fonti. A me lo insegnò mia nonna, che era lettrice di Grand Hotel, per chi non la conoscesse era una
rivista che pubblicava a puntate fotoromanzi d’amore, che lei giudicava sconvenienti per me e
nascondeva e che io, ovviamente, leggevo di nascosto col fiato in gola, per apprendere che per
coronare il Sogno d’Amore dovevo superare ostacoli e traversie di ogni genere, subire umiliazione e
disperazione per poi, nell’ultimo fotogramma, ricevere finalmente l’agognato bacio d’amore dal
mio principe.
La mia educazione sentimentale, ma non solo, fu completata dalla intera collezione, che mi regalò
mia zia, dei romanzi di Delly, scrittrice per signorine, che raccontavano le stesse cose di Grand
Hotel, però con pretese letterarie e con il bacio nell’ultimo rigo, dopo duecento pagine.
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Ho dovuto impiegare decenni in esperienze, studi, riflessioni ed incontrare il femminismo per
riuscire a liberarmi di alcuni miei fantasmi, compreso quello del Principe Azzurro.
Cosa rappresenta questa figura? E’ colui che trasformerà la giovane in moglie, che la consegnerà al
destino segnato per lei. Colonizza i cuori delle ragazze con il Sogno d’Amore, l’unico ed eterno,
facendosi vagheggiare fin dall’adolescenza. Si rende indispensabile e, a volte, la giovane per
raggiungerlo deve sottoporsi a prove tremende, come consumare sette paia di scarpe o perdere la
bellissima coda di sirena. Tutte lo desiderano, come scopo principale della vita adulta vogliono fare
un matrimonio da favola, come si dice ancora oggi. Oggi, quanto meno, se il primo non va, si
possono trovare altri Principi Azzurri e tentare altre nozze più o meno da favola. Il Sogno d’Amore,
inoltre, era un dispositivo per costringere con norme rigidissime a conservare la verginità per
l’unico Amato previsto; la ragazza sognava, stava in letargo fino a quando Lui non la sceglieva e la
baciava. Il bacio era anch’esso simbolo di passaggio esistenziale: con esso lo sposo la iniziava alla
sessualità, quella di lui naturalmente, e la consegnava al suo ruolo definitivo di moglie.
Sarà utile suggerire alle ragazze di scegliersi con gli occhi ben aperti l’innamorato e farsi trovare già
sveglie al suo arrivo.
Finite le fiabe, le donne che avevamo lasciato abbracciate al Principe Azzurro, una mattina si
risvegliano e si ritrovano accanto un marito. E qui, per affrontare questa nuova situazione, per
capire i suoi rapporti con la donna che gli sta accanto e, più in generale, la sua posizione nei
confronti del mondo femminile, non abbiamo più le fiabe, ci soccorrono i romanzi.
Ho scelto di proporvi tre scrittrici, tutte e tre di cultura anglosassone, perché prediligo lo sguardo
femminile sul mondo e soprattutto sui rapporti di coppia, filiali, amicali, su quella rete d’amore che
noi donne sappiamo costruire.
Ho messo in carpetta pochissime pagine di libri di queste scrittrici, che ho selezionato per dare
un’idea del tipo di scrittura di ciascuna e per sollecitare la curiosità e il desiderio di leggerli: li
troverete appassionanti, come sanno quelle che li conoscono già.
La prima è Elizabeth Von Arnim , una scrittrice inglese della fine dell’800 e il primo 900, che amo
molto perché indaga prioritariamente l’anima femminile - mette, infatti, quasi sempre in scena
protagoniste -, perchè sa approfondire con sensibilità e perspicacia i rapporti coniugali e famigliari e
perché è maestra di ironia, anche nella descrizione di situazioni drammatiche. Nel suo Vera
racconta minuto per minuto la distruzione che un marito perpetra della giovane moglie. Il titolo si
riferisce al nome della prima moglie che, da morta,è una personaggia chiave. Lucy è una ragazza
che, come Biancaneve, è senza madre e viene cresciuta da un padre che la avviluppa con il suo
amore, le sue esigenze, i suoi interessi di studioso. Nel giorno della morte del padre, straziata dal
dolore, dal vuoto,dalla solitudine e dalle incognite del futuro, è avvicinata da un uomo che ha perso
da poco la moglie. La comune situazione di lutto li avvicina molto rapidamente ed Everard sa
rendersi indispensabile: in due giorni la convince a fidanzarsi. Comincia l’invasione costante del
cuore e della mente di Lucy con carezze, baci e parole d’amore, somministrati con continuità e
profusione (alleg. pag.6). Si sposano subito, nonostante i consigli della zia Dottie, che ha la
funzione di madre, e con il possesso del suo corpo, peraltro ben accetto, la conquista è completa.
Già durante la luna di miele, però, Lucy comincia a nutrire qualche dubbio che poi, costretta ad
abitare nella stessa casa, a dormire nello stesso letto, ad avere sotto gli occhi la stessa finestra da cui
è caduta Vera per un presunto errore, si trasforma in sospetto e paura. Sperimentando il vero
carattere del marito, rozzo,collerico, vendicativo, autoritario fina alla cattiveria, la sua paura
aumenta insieme alla consapevolezza che Vera si è suicidata ( alleg. pag.6 ). Lucy non ha il
coraggio di reagire e parlare al marito perché terrorizzata dalle sue reazioni colleriche e da una
punizione che le ha inflitto, chiudendola fuori dalla porta, sotto la pioggia, e che le ha causato una
malattia. L’unica a capire la situazione e ad intervenire è la zia Dottie, che viene buttata fuori in
malo modo. La scrittrice lascia il finale aperto, e noi speriamo che la piccola Lucy con l’aiuto della
zia trovi il coraggio di andarsene molto lontano.
L’altro romanzo di Von Arnim, La moglie del pastore, già nel titolo ci dice il suo argomento. La
struttura è simile a quella di Vera, anche qui c’è una ragazza senza madre, allevata dal padre
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vescovo ad occuparsi in toto della sua esistenza, dall’organizzazione domestica a quella del suo
lavoro e dei suoi rapporti sociali. Durante una breve vacanza Ingeborg conosce un pastore che,
innamoratosi al primo sguardo, si dichiara e davanti alle titubanze di lei organizza a sua insaputa
una cerimonia di fidanzamento, al termine della quale, confusa e frastornata, si ritrova fidanzata e,
poco dopo, sposa. Costretta a sobbarcasi di tutto il lavoro domestico e a sfornare un figlio all’anno,
distrutta da parti che la riducono in fin di vita e dal dolore per la morte di alcuni dei bambini, si
ammala nel corpo e nell’anima. Ripresasi in qualche modo durante una breve vacanza, quando torna
a casa si sottrae, con l’avallo del dottore, ai cosiddetti doveri coniugali. A questo punto c’è
l’inserimento di un personaggio imprevisto, il pittore Ingram, che si incapriccia di Ingeborg e la
convince ad un viaggio a Venezia, dove si rivela egocentrico, cinico, interessato soltanto al
soddisfacimento delle sue voglie, come il più incolto contadino. Ingeborg delusa e impaurita,
incapace di pensare ad una vita diversa, ritorna a casa, dal marito che si ostina ad amare, ma che la
ignora (alleg. pag.8), consegnandosi ad una definitiva solitudine. Non tutte le protagoniste di Von
Arnim sono come queste che vi ho presentato, anzi quasi tutte sono donne forti, intraprendenti,
libere da stereotipi, che sanno compiere scelte coraggiose e convenienti. Lucy e Ingeborg mi sono
servite per evidenziare i ruoli incomparabili di moglie e marito pensati e imposti dal patriarcato, il
cui retaggio continua ancora oggi, in alcune situazioni, a pesare.
L’altra scrittrice, di cui voglio dire qualcosa, è Toni Morrison, afroamericana, una delle più, se non
la più grande fra le scrittrici e gli scrittori statunitensi, meritatamente vincitrice del Nobel nel 1997
come, voglio ricordarlo, la vincitrice di quest’anno, la canadese Alice Munro.
Di Morrison ho scelto Paradiso, che è un libro coinvolgente e potente. Sullo sfondo storico di un
gruppo di famiglie nere che, dopo la fine della schiavitù, sono costrette a peregrinare per tutto il
continente e che, alcune generazioni dopo, fondano un paese di soli neri e nere, di nome Ruby,in
onore alla prima donna che vi muore, si svolge negli anni 70 la tragica vicenda che è al centro del
romanzo. Ad alcune miglia di distanza dal paese, in mezzo alla campagna, sorge il Convento, una
grande villa, un tempo sede di un gruppo di monache, in cui restano solo la madre superiora e
Connie, una delle protagoniste, che tiene in vita la vecchia Madre, come lei stessa la chiama:
mettono in scena un legame madre-figlia significativo e molto coinvolgente, che è il centro
simbolico di tutta la vicenda (alleg. pag.8). Sono soprattutto alcune donne del paese che si recano al
convento e che scambiano con Connie amicizia e cibo e ricevono aiuto nelle difficoltà.
Successivamente, per puro caso, al Convento arrivano in tempi diversi quattro donne, ciascuna in
fuga da dolori e violenze fisiche, emotive e psichiche insopportabili. Dicono di essere di passaggio
e invece, con brevi intervalli, si fermano (alleg. pag.10). In un luogo al riparo dagli occhi maschili,
pur fra tensioni, comportamenti non condivisi, vissuti inesprimibili, incubi spaventosi, riescono, con
l’aiuto di Connie o affidandosi l’una all’altra, a sopravvivere, imparando a convivere con modalità
diverse con il dolore e a ricomporre il proprio io lacerato. Nel paese, intanto, le tensioni dovute a
scontri generazionali, a rancori personali e fra gruppi familiari, a lotte sotterranee di potere, si
cominciano ad indirizzare verso le donne del Convento, additate come colpevoli di disordine
morale, di azioni depravate, di procurati aborti, di comportamenti lesbici, di “non aver bisogno
degli uomini e di non aver bisogno di Dio”, poiché vivono in disparte e non sono assoggettate alle
rigide norme della comunità. Da lì la decisione del gruppo dei notabili di punirle, armi in pugno.
Irrompono nel Convento (alleg. pag.10), sparano a tutte, uno degli uomini centra Connie in mezzo
agli occhi, ma alla fine non trovano i corpi delle altre donne e la Cadillac posteggiata lì davanti:
non conoscono la forza delle donne e la loro competenza sulla vita.
Questo libro l’ho scelto perché mi aiuta a proporvi, purtroppo brevemente, un argomento su cui,
invece, sarebbe necessario riflettere: lo sguardo delle donne sul corpo femminile straziato dalla
violenza maschile. Lo sguardo di Morrison non indugia mai sulle scene di violenza sulle donne, la
ricostruzione dei tormenti della loro vita è fatta a tratti, diluita nel racconto generale e le scene più
intollerabili, per es. lo stupro, non sono mai raccontate direttamente, se ne intuisce l’accaduto per
sprazzi, quando un immagine di dolore affiora nella memoria di chi ha subito. Lo sguardo
femminile non scruta, non indaga, non è curioso né morboso. Racconta la violenza senza
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ostentazione, con riserbo, con pudore, con compassione, nel significato etimologico, soffrendo
insieme. Come le donne di Paradiso che “compatiscono”ciascuna il dolore dell’altra, non c’è
bisogno di racconti né di spiegazioni: ciascuna lo riconosce perché lo conosce.
L’ultimo romanzo, cui voglio accennare, è Uccellino del Paradiso, di Joyce Carol Oates, altra
grande scrittrice statunitense.
Ho estrapolato la scena chiave del libro: il brutale assassinio di Zoe, la protagonista, anzi il
ritrovamento del suo cadavere (alleg. pag.11). Oates opera la scelta opposta a quella di Morrison,
mostrando nel dettaglio la scena del massacro, ma lo fa usando un dispositivo particolare: chi può
descrivere un corpo martoriato senza ostentazione né morbosità? E’ il figlio a trovare la madre, è
attraverso i suoi occhi offuscati dal dolore, velati dal pudore, il suo cuore spezzato, il suo amore
sconfinato che noi vediamo la devastazione della violenza. Lo sguardo di chi ama non vede un
cadavere massacrato, vede il corpo amato della persona amata.
Voglio aggiungere soltanto che, nonostante questa scena e l’ambiente misero materialmente e
moralmente, insidioso e violento della vicenda, Zoe è una personaggia solare, con un grande amore
per la vita che, per il tratto che le è concesso,affronta con leggerezza e determinazione, conservando
nelle traversie il suo sogno, che è quello di cantare, e la sua integrità personale.
Bibliografia
Per la bibliografia sul Mito si rimanda a quella di Emi Monteneri.
AnnaMaria Piussi, “Significatività/visibilità del femminile e logos della Pedagogia”, in Diotima, Il
pensiero della differenza sessuale, La Tartaruga, 1987
Anna Maria Piussi, Educare nella differenza, Rosenberg & Sellier, 1989
Chiara Zamboni, “Prefazione” in Diotima, La sapienza del partire da sé, Liguori, 1996
Maria Milagros Garretas Rivera, Nominare il mondo al femminile, Editori Riuniti, 1998
V. J. Propp, Morfologia della fiaba, Einaudi, 1967
Italo Calvino, Fiabe italiane, Mondadori, 1968
Laura Gonzenbach, Fiabe siciliane, Donzelli, 1999
Jacob e Wilhelm Grimm, Le fiabe del focolare, Mondadori, 2005
Elizabeth Von Arnim, Vera, Bollati Boringhieri, 2006
Elizabeth Von Arnim, La moglie del pastore, Bollati Boringhieri, 2003
Toni Morrison, Paradiso, Frassinelli,1993
Joyce Carol Oates, L’uccellino del paradiso, Mondadori, 2011
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