Orientamento scolastico, Francesco Fadigati

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Orientamento scolastico, Francesco Fadigati
Buona sera, sono Francesco Fadigati, insegno lettere in una scuola secondaria di primo grado della bassa Bergamasca, a Calcinate. Preparando l’intervento per questa serata devo dire di essermi sentito interpellato dai contenuti del vostro corso di aggiornamento, in particolare dalle righe di prefazione con cui Rosario Mazzeo introduce il libro dei Talenti. Pensiero, ascolto, compito, tempo e corpo, i talenti di cui ogni uomo, come i servitori della parabola del Vangelo, viene dotato, che si riassumono in quello che Mazzeo chiama “il talento dei talenti: l’essere uomo, soggetto e destino di ogni talento”. Mi ha colpito la sfida: è possibile una scuola dei talenti, in cui l’essere uomo dell’insegnante accompagna, nota, cura e accresce il talento dei ragazzi? Il mio intervento pertanto non è finalizzato una esposizione teorica né una sistematizzazione in categorie, bensì vorrebbe raccogliere la sfida di questa domanda, offrendo molti esempi tratti dalla mia esperienza in classe: esempi in cui ho visto, direi ho assistito con sorpresa all’emergere del talento dei ragazzi, del loro essere in tutto lo splendore di pensiero, di capacità di ascolto e di ricezione della realtà, di capacità di scoprirsi in un compito imparando un rapporto col tempo e con la concretezza della propria persona e del proprio contesto. Non ho quindi la pretesa di ridefinire l’argomento, né di fornire un modello, ma vorrei contribuire al vostro dibattito con i miei tentativi, nella speranza di imparare, di correggere insieme a voi il mio pormi in classe a partire da lunedì mattina. 1
I) PRIMA PARTE: ESEMPI NELLE MATERIE DEL FIORIRE DEI TALENTI Dirò innanzitutto che il mio insegnare, il mio pormi in classe come uomo, il mio essere vivo lì davanti ai ragazzi dipende dall’essere vivificato e risvegliato continuamente da maestri che mi provocano a vivere secondo la mia statura e le mie esigenze di uomo. L’avere dei maestri mi sta educando ad esempio a concepire l’ora di lezione come un momento in cui la conoscenza può accadere per me e per i ragazzi, in cui perciò tutto ciò che succede ha valore e può essere spiraglio per crescere. Entro subito in merito agli esempi, per mostrarvi come sia prezioso avervi detto subito questa cosa che sintetizzerei così: se mi accade di generare è perché sono generato, se posso aiutare a far crescere il talento dei miei ragazzi è perché continuo a ricevere uno sguardo di stima che accresce il mio talento umano. È questo talento che esige che io non escluda dal mio insegnare il mio bisogno di soddisfazione e di conoscenza. Allora fin dai primissimi anni di insegnamento mi accorgevo che mi era difficile insegnare e comunicare una materia come geografia. A) Geografia Vedevo altresì che il primo motivo per cui mi era così difficile insegnarla non era tanto in un pregiudizio dei ragazzi, quanto in un mio problema nel conoscere questa materia: per come me la avevano insegnata io la geografia non riuscivo a vederla, a toccarla concretamente: si riduceva ad una enumerazione di dati, ad una serie di problemi che in fondo sentivo astratti, estranei e poco utili, ma sostanzialmente il mio giudizio era che non mi faceva conoscere nulla di nuovo, non mi faceva incontrare alcunché, a differenza dell’italiano o della storia, dove l’impatto con uomini e fatti mi sembrava evidente. Da questo mio bisogno di comprendere, di conoscere in modo soddisfacente e non ridotto, è nato un lavoro che ha cambiato moltissimo il mio modo insegnare. Insieme ad alcuni miei colleghi abbiamo provato ad approcciare la geografia secondo la sua natura: la geografia è lo studio di ciò che c’è intorno a noi, nella sua relazione col territorio e con l’uomo. Ecco perché il nostro lavoro ha cominciato a proporre ai ragazzi l’incontro con ciò che c’è, con il territorio, che è il primo dato che si studia di un paese. PRIMO ESEMPIO: LA SPAGNA ‐ In classe ho iniziato a fare una cosa banale: ho iniziato a proiettare le carte fisiche e satellitari della Spagna e a ragionare insieme a loro sul territorio: a notare ad esempio che il centro del paese è dominato da un altopiano delimitato da alte catene montuose e che le precipitazioni oceaniche saranno ostacolate dalle lunghe distanze e dalle barriere naturali per raggiungere il centro del paese. Questo significa che il centro del paese sarà piuttosto arido e questo già diventa una finestra sull’economia. Insieme ai ragazzi era il guadagnare il legame tra un fenomeno e l’altro e accorgerci che al centro della Spagna non si potrà certo applicare l’agricoltura intensiva come nella pianura dell’Andalusia, affacciata sul golfo di Cadice e bagnata dalle acque del Guadalquivir: lì certo posso coltivare ortaggi, frutta e verdura o le mandorle; ma nel centro l’agricoltura migliore è estensiva di prodotti poco irrigui, come frumento. 2
Questa relazione scoperta con loro, che potenziava l’osservazione e valorizzava in tutti i ragazzi gli strumenti che ciascuno ha per notare e per capire, si è vista quando, proiettando ad un certo punto la bandiera della Spagna i ragazzi hanno iniziato ad osservare con la stessa attenzione con cui avevano letto il territorio. Hanno notato una cosa che nemmeno io avevo mai osservato. La presenza di due colonne, con scritto PLUS ULTRA, una grande corona sopra un gagliardetto decorato da quattro stemmi. Alla loro osservazione, che restituiva significato ad un simbolo cristallizzato, sono rimasto colpitissimo: la scritta PLUS ULTRA stravolgeva l’antico limite imposto dalle colonne d’Ercole NON PLUS ULTRA, limite che gli Spagnoli, con il loro spirito di iniziativa e la loro vocazione alle esplorazioni, hanno saputo superare. Le corone poi sono quelle di Castiglia e Aragona, che si sono unificate nel matrimonio del 1492 fra Isabella e Ferdinando. I ragazzi erano pieni di entusiasmo come me per quella scoperta vissuta insieme. Nessuna lezione sulla storia della Spagna avrebbe fatto guadagnare ai ragazzi l’idea del nobile passato e dello spirito spagnolo così come quella scoperta vissuta insieme. Non la perderanno più. SECONDO ESEMPIO L’AUSTRIA ‐ Così quando ho iniziato il lavoro sull’Austria, appena ho proiettato la carta fisica, un mio alunno, che era stato particolarmente attento durante le prime lezioni, notando la predominanza di territorio montuoso, con vette molto elevate, ha subito esclamato: “Professore, in Austria devono esserci molte centrali idroelettriche, vista la presenza di fiumi e di montagne elevate. Il libro poi ci confermava nella sezione dell’economia, che tradizionalmente viene affrontata successivamente al territorio, quel che lui aveva già intuito osservando: “abbonda l’energia idroelettrica, che copre quasi il 70 % del fabbisogno di elettricità del paese”. TERZO ESEMPIO: LA PESCA E IL MERCATO DI TOKYO ‐ La cosa riguarda evidentemente anche il modo in cui spiego oggi, anche se è ancora diverso da quei primi anni in cui mi accorgevo che dare spazio innanzitutto all’impatto col reale, con gli oggetti della geografia è ciò che è in grado di destare l’interesse in me e in loro. Non sono i mezzi che uso, è una precedenza dell’impatto con la realtà, con la diversità della realtà colta nel suo esserci che suscita il mio interesse. Ma i primi tentativi sono nati davvero dal bisogno mio che nomi e dati che il libro forniva mi fossero presenti. Così una volta che dovevo preparare la lezione sull’economia del Giappone, che avrei letto sul libro insieme a loro, mi imbatto in queste tre considerazioni: “le flottiglie d’alto mare sono accompagnate da navi officina dotate delle più moderne attrezzature per il surgelamento, la conservazione e l’inscatolamento del pesce”. “Il paese è accusato di non osservare la moratoria sulla caccia alle balene, praticata sui suoi pescherecci” “Nel quartiere Tsukij vi è il maggiore mercato di pesce del mondo: ogni giorno vi giunge il pesce catturato dai pescherecci giapponesi, che operano in tutti i mari del mondo.” Queste frasi potrebbero scorrere così, essere accettate senza problemi da me e dai ragazzi. Ma mi sono chiesto: cosa significa ciò che ho letto? E mi è venuta una voglia matta di andare a capire, a vedere. Mi è bastato trovare tre immagini, perché quelle che erano frasi diventassero realtà agli occhi miei e dei ragazzi. Tanto che quando in classe ho accompagnato la lettura del paragrafo con queste tre diapositive, proprio quelli per cui normalmente la lettura è lo scorrere su parole vuote si sono accesi: i praticoni della classe, quelli per cui il concetto è vuoto, ma al realtà è piena, si sono scaldati per capire come facessero a circondare con le reti i branchi di tonni, o a catturare una bestia mastodontica come la balena, o 3
perché il mercato del pesce esponesse i tonni già puliti e congelati. La lezione successiva i volontari sono stati proprio quei ragazzi la cui “intelligenza scolastica” sembra più passiva. QUARTO ESEMPIO: LA TERRA E IL MEDIO ORIENTE ‐ Ma questo mio bisogno di incontrare la realtà, di farmi innanzitutto provocare da essa, dalla sua alterità e complessità insieme ai miei ragazzi mi guida anche oggi, nell’affronto in terza media di argomenti più difficili, come il tema del Medio Oriente e la guerra in Siria. Devo dire che ho iniziato l’anno in una terza di impronta piuttosto femminile, piuttosto uterina come clima. In particolare ci sono un pool di fanciulle “modelle in miniatura” che sono partite mostrando in tutto un’aria di sufficienza e di impermeabilità ostentata, come a dire: guardate che abbiamo ben altro a cui pensare che non le vostre materie. Ci sono i nostri divi del rap, le nostre chat e i nostri social network a costituire il nostro mondo, voi e i vostri insegnamenti siete superflui”. Benissimo, va bene. In ragazze così che ne è dei talenti, del pensiero, dell’ascolto, della capacità di compito? Sono stati annullati dalla realtà virtuale che le mette in vetrina e le fa trepidare per avere centinaia di “mi piace” sulla foto di facebook in costume da bagno? Questa è la sfida. La realtà è in grado di vincere questa sfida? Ho pensato di partire da due cose: l’unicità del pianeta terra nel sistema solare e il presente. ‐ Così, grazie ad un programma di nome Celestia, ho mostrato la terra nel suo moto di rivoluzione intorno al sole. Il programma permette poi di allargare la visuale e iniziare a vedere, lontanissime, le orbite degli altri pianeti, Mercurio, Venere, Marte, distintissimo Giove etc. Poi l’immagine si allontana ancora e il sistema solare diventa un puntino luminoso (il sole), poi questo puntino inizia ad essere visto nell’insieme di altre migliaia di puntini. Mentre così procedevo sentivo che i ragazzi trattenevano il fiato. L’immagine si allontana ancora e si capisce che i puntini formano il braccio –
periferico‐ della Galassia, che inizia a rimpicciolirsi per trovare il posto fra centinaia di galassie. Quando ho guardato in faccia i ragazzi la sensazione di vertigine era chiara nei loro volti. Allora ho chiesto. Ma perché studiamo la terra, se si tratta di un grumo infinitesimale? Nessuna risposta. Non si trattava di una domanda formale, ma è il mio essere uomo (il talento dei talenti) –che, lo ripeto, è continuamente vivificato da maestri che vivono così ogni aspetto della realtà‐ che mi fa porre quella domanda lancinante: chi se ne importa della terra se è un atomo periferico dello spazio? Perché solo sulla terra per ora abbiamo trovato questo: e ho iniziato a mostrare immagini del miracolo inesplicabile di quell’essere chiamato uomo: costruzioni, città meravigliose, monumenti, templi, ma soprattutto, sguardi, abitudini, volti di popoli completamente diversi. Una delle ultime immagini era quella di Felix Baumgartener, un piccolo uomo che salta da 40000 metri, perché l’uomo è l’unica creatura che conosciamo a cui non basta l’universo e se potesse salterebbe dal punto più lontano dello spazio. ‐In questa molteplicità di popoli abbiamo deciso di partire ad affrontare quelli che incidono di più sul nostro presente, nell’attualità. Ho chiesto ai ragazzi qual era il popolo di cui sentivano più parlare nel presente dei telegiornali. E allora, a settembre, hanno risposto la Siria. Per affrontare la Siria, siamo partiti da qualcosa che stava percuotendo le coscienze sulle pagine dei giornali: l’articolo di Domenico Quirico che raccontava la sua prigionia. Il metodo con cui l’ho affrontato era nuovo anche per me. Solitamente io fornisco loro alcune conoscenze di partenza per leggere gli articoli di giornali. Quella volta ho letto il reportage così come era, nudo e crudo, raccogliendo insieme le domande che ciascun paragrafo dell’articolo suscitava. Abbiamo diviso una pagina di quaderno in due colonne: le domande e le intuizioni, iniziando il lavoro insieme. Ma siccome il 4
lavoro è stato ricchissimo e le domande (intelligentissime) venivano fuori ad ogni riga, abbiamo dovuto proseguire a casa in un compito. Dico abbiamo, perché io stesso mi sono messo a fare a casa quel che loro avrebbero provato il pomeriggio. Quello che io volevo raccontarvi è che proprio la ragazza che in questo momento è più distante, la supergirl che pare stra‐fregarsene di tutto, è arrivata a scuola il giorno dopo con un intero foglio protocollo di domande, scritto di suo pugno. E qui vi devo dire che mi si è aperto un mondo. Perché, mentre le domande degli altri si fermavano al glossario (cosa significa Hezbollah?, cosa vuol dire Jihad?) o alla pura comprensione (da dove viene questa guerra? Quali sono le parti in causa?) le sue domande andavano al cuore della questione ed erano decine e decine, acutissime. Chiedeva ad esempio: “perché la Siria è definito il paese del male? Perché i rapitori pregano cinque volte al giorno e poi si mostrano così crudeli con i prigionieri? Perché Quirico parla del “silenzio di dio in quei giorni?” Cosa gli ha dato la forza di resistere durante il rapimento? Cosa vuol dire che la loro fede è rito? Che dio è questo? Perché dice che alcuni vecchi profughi siriani si lanciavano contro l’artiglieria di Assad senza armi e con le mani alzate? ” Ho dovuto dare 10 a questo straordinario foglio di domande, in cui Chiara metteva a frutto in un compito tutta la grandezza eccezionale della sua e della mia persona umana, la esprimeva secondo tutto il suo talento. Tengo a sottolineare che io non ho risposto a tutte queste domande, ma ho iniziato un lavoro che partiva dalla carta del Medio Oriente, dal suo clima , dalle sue religioni con la divisione storica e sulla carta di Sunniti e Sciiti. E ogni volta che la nostra lezione tocca una delle domande che abbiamo raccolto e selezionato insieme, vedo uno che alza la testa, improvvisamente colto dall’intuizione, che esclama: “Ma questo risponde alla domanda di Marco! Questo ci aiuta a capire la domanda di Martina!” Ecco: sono voluto partire da qui, dalla geografia proprio perché è una delle materie più “cenerentole della scuola”, se non altro una di quelle più odiate. Ma è anche in essa che sto vedendo che, proprio quei ragazzi di cui si dice “non è fatto per la scuola” o “non gli interessa” stano mostrando ai miei occhi l’emergere del talento del pensiero, dell’ascolto della realtà, del compito. Come testimonia questo tema un ragazzo DSA della mia classe. LETTURA BRANO DEL TEMA DI PASTORE B) Grammatica, recita, narrativa Permettetemi di aggiungere alcuni altri esempi che mi mostrano cosa significa quando un talento inaspettato anche per i ragazzi viene a galla. E poi, così comincio a lambire l’ambito da cui avete scelto il titolo di questo incontro, sono questi talenti che iniziano a far venire a galla la scelta orientativa. PRIMO ESEMPIO GRAMMATICA ‐ Un’altra materia tendenzialmente poco sopportata, che più pare annichilire i talenti anziché farli emergere e frustrare proprio quel desiderio di soddisfazione e di guadagno personale che è la logica del padrone della parabola è la grammatica. Anche qui sinteticamente dirò che persino per me era piuttosto penoso dover illustrare tabelle di fenomeni grammaticali con le loro eccezioni, mandare a memoria definizioni. In questi anni insieme ai miei colleghi stiamo provando a posizionarci a livello della dinamica sorgiva della grammatica. Innanzitutto la grammatica è norma di ciò che si vede accadere nella lingua. La funzione delle parole è già nelle parole, la grammatica la rileva e la codifica in norma. Che differenza quindi, da quando, invece di partire dalla definizione 5
della categoria di avverbio, abbiamo iniziato ad osservare insieme ai ragazzi che ruolo ha l’avverbio in un testo e a provare insieme a capire che differenza c’era togliendo o aggiungendo l’avverbio in una frase. Alla fine di questa osservazione vissuta insieme, in cui tutti sono chiamati a partecipare, perché tutti partono da una condizione vergine di nozioni, insieme costruiamo la definizione. Che poi impareremo a memoria, ma stiamo imparando la formula nata dalla nostra osservazione e dal nostro lavoro di comprensione. È come voler trattenere un passo difficile, avventuroso che ho vissuto io. Immaginatevi la foto di una gita. ‐ Su questo avrei un esempio significativo. Alla prima lezione sul nome leggevo con loro la frase “l’uomo ha bisogno di dare il nome alle cose”. A casa mi ero chiesto: ma è vero? È accettabile per me che io abbia bisogno di dare il nome alle cose, così come ho bisogno di mangiare? E ho cercato per me un esempio che me lo rendesse chiaro. Trovandolo per me l’ho potuto fornire a loro (si vede che la logica è quella del guadagno? Cosa ci guadagno davvero io professore da questa affermazione del libro? Se non la trovo non gliela dico nemmeno.) Allora il giorno dopo ho letto insieme a loro la frase. Poi li ho guardati e chiedo: avete capito? “Sì”. Ma ci credete? Una ragazzina mi guarda e dice: “Profe, no, non capisco perché abbiamo il bisogno di dare il nome alle cose. Per me non è vero”. Io sono stato zitto, ma ho tirato fuori dalla borsa questo oggetto DOSASPAGHETTI. “Che cos’è?” È stata subito la domanda. “Che cosa volete sapere?” “Come si chiama! Cos’è! Il nome!”. “Non ve lo dico.” E loro: “noooo!” E quando ho detto “ok ve lo dico: si chiama Filippo!” Loro: “nooo!”. “Perché?” una dice: “Perché noi vogliamo sapere il nome vero!”. Mi ha fatto impressione che per noi davvero il bisogno del nome è legato al bisogno del significato dell’oggetto. Noi abbiamo bisogno di sapere che cos’è un oggetto, e poi del nome unico che lo distingue dagli altri oggetti della realtà. Alla ragione non va bene qualsiasi nome, qualsiasi risposta. Uno addirittura dice: “Profe, ce lo dica o io impazzisco!”. Pensate che è suonata la campanella e io non glielo avevo ancora rivelato, allora ho messo l’oggetto in borsa e sono uscito dalla classe. Tutti mi hanno inseguito in corridoio. Non pensavo andasse così. È qui che la lezione ha raggiunto il suo apice. Guardandoli ho detto: “Fermatevi: guardate cosa sta succedendo! Voi mi state seguendo per sapere il nome di un oggetto. E non sopportate l’idea di aspettare domani perché io ve lo dica. Un cane mi avrebbe seguito per sapere che cos’è questo oggetto? E il suo nome? No. Allora adesso capite che noi abbiamo sete di conoscere le cose, di sapere anche il loro nome?” Tutti: “Sì”. Allora ve lo dirò: è un DOSASPAGHETTI. E lì è stata un’ondata di entusiasmo: il nome era adeguato. Perché era nuovo, e ‐ in questo caso ‐ afferrava l’oggetto in modo giusto. SECONDO ESEMPIO: LA RECITA Un episodio che ha segnato la mia attuale terza media, divenuto una tappa fondamentale del cammino con loro è accaduto l’anno scorso. Il cambiamento di molti docenti all’interno del consiglio di classe aveva provocato molte lamentele nei genitori e diffidenze o ostilità nei ragazzi. Alcuni colleghi non riuscivano nemmeno ad entrare in classe per il clima di chiusura che trovavano. Come si gioca qui il talento dei talenti? È questa occasione perché tutto in me e in loro fruttifichi o no? Qui la logica del guadagno è destinata a naufragare? Si avvicinavano le vacanze di Natale e c’era da preparare la tradizionale recita natalizia con loro. Immaginatevi in che clima iniziavamo. Racconto questo episodio perché è uno di quelli in cui ho visto fiorire in maniera più palese il talento di ciascuno davanti ai miei occhi. Mettendo in gioco uno dei talenti (propriamente detto) che la vita mi ha donato, ho provato, invece di adattare un testo teatrale, a scrivere di mio pugno un copione per loro, in cui i personaggi erano modellati su ciò che ciascuno dei ragazzi aveva finora 6
svelato di sé. Non volevo rinunciare a guardare la crisi che la mia classe stava vivendo per il cambiamento dei docenti e allora ho ambientato la recita nel 1188, quando il vecchissimo Federico Barbarossa, senza più forze e gravato dal male commesso contro la Chiesa assiste alla caduta di Gerusalemme in mano ai turchi. L’impero è in una crisi nera, la classe aristocratica non è più quella di prima, la cristianità è sconfitta. Mi sembrava così di descrivere la situazione della nostra classe. In questa situazione il vecchissimo imperatore si arma e parte, lui per primo per chiedere perdono e andare a liberare Gerusalemme. Nella recita erano due ragazzi, Adelaide e Marco, che per il loro desiderio di liberare Gerusalemme ridestavano l’imperatore. Ma più che il contenuto è quel che è accaduto a rivoluzionare le cose. Inizialmente presi in contropiede da un copione che non capivano e parti che non accettavano (io la zingara?) i ragazzi hanno iniziato a fare le prove male, cantilenando o ridacchiando. Accompagnandoli ho iniziato a fare capire loro che non mi interessava se sbagliavano il testo, ma che ci fossero loro in ciò che dicevano, che si divertissero. La svolta è accaduta quando ho chiesto un compito per casa: dovevano raccontare chi era il loro personaggio, narrando una sua giornata tipica e raccontando come affrontava le cose. Loro lo hanno fatto, descrivendo di fatto se stessi in quel personaggio. Ho cominciato a veder cambiare le facce: muoversi più naturali sulla scena, aggiungere addirittura movimenti, gesti o persino battute che io non avevo previsto. Di giorno in giorno si invertiva l’approccio: non erano loro che dovevano raggiungere un personaggio lontano, ma il personaggio esprimeva in modo potenziato la loro personalità, ciò che nemmeno la quotidianità faceva emergere. Se leggeste i temi di quel periodo parlavano tutti di scoperta: scoperta di sé, di come si potevano muovere liberi sulla scena, di come si divertivano sperimentandosi in un modo nuovo, privo delle maschere di ogni giorno. Il teatro privo di maschere. Incredibile. La messa in scena è stato l’esplodere di questo, perché io ho assistito commosso alla creazione che in quel momento il loro interagire realizzava. TERZO ESEMPIO: NARRATIVA Un ultimo esempio lo prendo da una delle materie che costituiscono il curricolo di lettere alle scuole medie: la narrativa. Tradizionalmente noi leggiamo in prima media un libro veramente fondativo, straordinario per la ricchezza e la profondità umana che permette di toccare. Si tratta del capolavoro di Carlo Lorenzini, conosciuto come Collodi, Pinocchio, che leggiamo interamente nell’arco del primo anno di scuola media. I primi anni di insegnamento le mie lezioni erano piuttosto dualistiche: leggevamo la narrazione di ogni capitolo e poi si faceva un lavoro per fare emergere l’altro piano del racconto, quello metaforico e allegorico, rischiando però di tradurre la lezione nell’esposizione di una morale a volto piuttosto stretta, che scorre accanto al mero racconto. Ciò che ho descritto prima invece ha nel tempo fatto maturare uno sguardo diverso, teso alla lettura del racconto per cogliere nelle parole tutta la ricchezza del senso. Abbiamo cominciato coi colleghi e coi ragazzi ad ascoltare il testo, a cercare in esso le finestre sul senso, a volte imprevedibile e più profondo di quel che credevamo già di poter ravvisare. Non scordo più un momento: Leggendo il famoso capitolo XIII, in cui Pinocchio giunge col gatto e la volpe all’Osteria del gambero rosso ci siamo messi a notare quante volte Collodi, usando l’ironia, fa parlare i personaggi secondo il contrario di ciò che intenderebbero dire, o contraddicendo palesemente l’evidenza della situazione. 7
Entrati nell'osteria, si posero tutti e tre a tavola: ma nessuno di loro aveva appetito.
Il povero Gatto, sentendosi gravemente indisposto di stomaco, non poté mangiare
altro che trentacinque triglie con salsa di pomodoro e quattro porzioni di trippa alla
parmigiana: e perché la trippa non gli pareva condita abbastanza, si rifece tre volte a
chiedere il burro e il formaggio grattato!
La Volpe avrebbe spelluzzicato volentieri qualche cosa anche lei: ma siccome il
medico le aveva ordinato una grandissima dieta, così dové contentarsi di una
semplice lepre dolce e forte con un leggerissimo contorno di pollastre ingrassate e di
galletti di primo canto. Dopo la lepre si fece portare per tornagusto un cibreino di
pernici, di starne, di conigli, di ranocchi, di lucertole e d'uva paradisa; e poi non
volle altro. Aveva tanta nausea per il cibo, diceva lei, che non poteva accostarsi nulla
alla bocca.
Come vedete tutto è al contrario, tutto va alla rovescia di come viene detto. L’unico che non mangia nulla è Pinocchio, perché dice Collodi ha già fatto una indigestione anticipata di monete d’oro. Dopo cena i tre vanno a dormire, fin quando Pinocchio non è svegliato dall’oste, che lo avverte che il Gatto e la Volpe sono già partiti: E la cena l'hanno pagata?
- Che vi pare? Quelle lì sono persone troppo educate perché facciano un affronto
simile alla signoria vostra.
- Peccato! Quest'affronto mi avrebbe fatto tanto piacere! - disse Pinocchio,
grattandosi il capo. Poi domandò:
- E dove hanno detto di aspettarmi quei buoni amici?
- Al Campo dei miracoli, domattina, allo spuntare del giorno. Pinocchio si mette in marcia e incontra l’ombra del grillo Parlante, che gli sconsiglia di addentrarsi da solo nella notte buia: gli consiglia di tornare indietro. Dài retta a me, ritorna indietro.
- E io, invece, voglio andare avanti.
- L'ora è tarda!...
- Voglio andare avanti.
- La nottata è scura...
- Voglio andare avanti.
- La strada è pericolosa...
- Voglio andare avanti.
Familiari a notare i segnali linguistici lasciati anche incoscientemente dall’autore in mezzo ai suoi capitoli, ci sono saltate all’occhio subito quelle ripetizioni: quattro volte Pinocchio risponde, sul finale del capitolo, che lui vuole andare avanti, nonostante il grillo gli intimi di tornare indietro. Lui vuole andare avanti, ripete che vuole andare avanti e lo sviluppo della storia lo allontanerà dalla meta, mentre invece se fosse tornato indietro come diceva il grillo, avrebbe sì guadagnato la meta, andando avanti nel suo cammino. Ad un certo punto, mi ricordo ancora il momento, il mio alunno Edoardo, quasi con la voce tremante mi dice: “professore: 4 volte è ripetuto voglio andare avanti” e io dico: sì, perché?” “Guardi il titolo del capitolo”. Io torno indietro leggo: “L’osteria del gambero rosso” e il mio alunno: “Professore, ma il gambero non è la bestia che per avanzare va all’indietro? Tanto che si dice: procede come un gambero!” Io sono saltato in aria, perché in effetti è il primo 8
capitolo in cui Collodi usa sistematicamente l’ironia ed è l’unico che presenta un titolo così succinto, perché negli altri capitoli troviamo sottotitoli in forma di frase, come Il burattinaio Mangiafoco
regala cinque monete d’oro a Pinocchio perché le porti al suo babbo Geppetto: e Pinocchio,
invece, si lascia abbindolare dalla Volpe e dal Gatto e se ne va con loro. Ma in quel capitolo Collodi sottotitola solo così: L’osteria del gambero rosso. È un’intuizione geniale, che io e tutta la classe abbiamo portato a casa, ma quell’alunno aveva potuto farla non per una predisposizione alla letteratura, quanto per una educazione all’ascolto del dato, che aveva fatto emergere tutta la sua potenzialità, capace poi di vedere qualcosa che io non avevo mai notato. 9
II) SECONDA PARTE: L’ORIENTAMENTO SCOLASTICO Quanto detto finora vale tanto più nel percorso dell’orientamento scolastico, che nella mia scuola altro non è se non il lavoro di fare emergere agli occhi dei ragazzi ciò che già c’è in loro come talenti, inclinazioni, interessi, capacità: si tratta di una riflessione sul presente, piuttosto che un’ipotesi sul futuro. Nella mia scuola dedichiamo un mese e mezzo di lavoro a questo passo, collocato tra i primi giorni di novembre (io lo inizierò lunedì) e i primi giorni di gennaio. Il nostro percorso si compone di vari passaggi che provo ad illustrarvi, ma lo scopo dichiarato ai ragazzi e ai genitori è aiutarli a rendersi conto di chi sono, di quali caratteristiche e quali doni ha ciascuno di loro, per iniziare a dare forma alla propria vita in modo più aderente possibile alla forma della propria persona. Il nostro orientamento pertanto ha questi due obiettivi specifici: un’osservazione della loro persona in azione, per rendersi conto di talenti, interessi, capacità, inclinazioni e limiti; una acquisizione dei criteri secondo i quali è più ragionevole fare una scelta. In base a questi due elementi: persona e criteri di scelta, loro effettueranno la prima scelta effettiva della loro vita. Per questo è un momento sempre drammatico e bello, che a volte cambia radicalmente il modo di guardarsi dei ragazzi, la loro coscienza di sé. Vi dico cosa abbiamo fatto l’anno scorso per farvi capire di che percorso si tratta. Abbiamo iniziato con una provocazione. I ragazzi sapevano che avremmo iniziato l’orientamento ed erano evidentemente molto eccitati. Io mi sono presentato in classe con 25 atlanti della scelta, li ho distribuiti e ho detto: “Bene, adesso scegliamo!”. Mi ha colpito che una ragazza, quasi con le lacrime agli occhi diceva: “No, professore, io non ce la faccio! Sono troppe le scuole possibili”. Ci siamo accorti subito che non bastano le semplici informazioni, ma occorre qualcosa proprio per orientarsi tra le informazioni. Allora ecco i primi passi: occorre guardare come si è, i dati che si hanno in mano per leggere chi si è. Abbiamo letto un testo di Antoine de Saint Exupery: il suo primo volo come corriere postale. In questo testo lui sta per effettuare il primo decollo, ma mentre si reca all’aeroporto in bus e fuori imperversa il maltempo, ascolta i discorsi banali e mediocri degli impiegati dell’aeroporto, che quella mattina non rischieranno nulla e che per paura hanno chiuso la porta a possibili rischi. Mentre lui ed è questo che gli farà passare la paura, anche se non conosce ancora cosa lo aspetta nel suo primo volo, sa che gli si sta per aprire davanti agli occhi la magia del mestiere che aveva sempre desiderato, e che fra poco, quando il suo aereo guizzerà tra i fulmini, negli astri leggerà il proprio cammino. Un primo dato è quel desiderio di soddisfazione vera, di soddisfazione personale che non vuole scendere a compromessi, che è più forte dei rischi, delle paure e che ci chiama per nome a seguire il nostro cammino, proprio il mio. A seconda degli anni e dei ragazzi con cui interloquivamo abbiamo chiamato insieme a loro questo criterio con vari nomi: a volte era il criterio dell’Ideale, a volte è diventato il criterio della forma (nel senso di forma della mia persona); a volte il criterio della vocazione, nel senso che ognuno è chiamato ad una sua strada. Questo è il primo criterio e proprio qualche giorno fa un ex alunno che ora frequenta il quarto anno di liceo mi scriveva: “Quei testi fatti in terza media mi hanno aiutato tanto a fare emergere il mio desiderio: studiare qualcosa che mi piace davvero. La storia, l’inglese, la matematica è posto per te, è per te. Se uno accoglie questo invito e aderisce alle sue passioni, persino lo studio diventa una avventura, per essere fedeli a sé stessi”. 10
Ma come si è, cosa si desidera per sé non lo si capisce in astratto, ma guardando se stessi mentre si vive. Allora ricordo che l’anno scorso è venuto un collega in classe a illustrare i vari livelli delle scuole e il tipo di studio che esigono. È stata una lezione molto concreta, molto efficace, che ha messo l’accento sul lavoro di ciascuno, secondo questa domanda: Come lavoro io? Il foglio di valutazione bimestrale, consegnato ai primi di novembre (nella mia scuola facciamo un pagellino in mezzo al quadrimestre per monitorare la situazione) è stata l’occasione di una riflessione sul proprio lavoro. Pagellino in mano abbiamo iniziato a notare aspetti che paiono scontati, ma non lo sono: le materie che hanno i voti più alti, quelle che hanno i voti peggiori. Nascono molte riflessioni e domande, come “perché quelle materie mi riescono bene, anche se non le studio molto? Perché in queste colleziono da sempre pessimi risultati? È perché non sono portato o perché non l’ho mai studiata? E perché non la studio mai?” I compiti a casa sono lo spazio privilegiato di questa riflessione sull’esperienza quotidiana: i ragazzi ti riportano il loro stupore nell’accorgersi di alcune abitudini: “mi sono accorta che svolgo sempre prima i compiti di matematica, ma non perché sono più lunghi, ma perché mi vien facile partire da lì”. Oppure, “nelle lingue impiego pochissimo tempo: mi sono accorto che le imparo con facilità”. Oppure: “impiego sempre molto nel tema per casa, perché ci tengo molto a farlo bene!” Emerge così un altro criterio, che l’anno scorso abbiamo intitolato il criterio delle capacità esercitate, nel senso che a volte non basta sapere di avere una qualità in qualche disciplina, occorre sperimentarla e metterla alla prova di un lavoro. È bellissimo allora vedere qualcuno che, avendo snobbato alcune materie, inizia nel periodo dell’orientamento a studiarle in modo diverso, ad accogliere come ipotesi la predisposizione che si trova addosso. Ma, e a volte emerge prima di questo criterio appena descritto, nell’osservarsi viene anche a galla quanto contino gli interessi che ciascuno sperimenta vivendo. Non si tratta di interessi necessariamente e meramente scolastici. Guardando la propria giornata si osserva lo spazio che diamo a ciò che realmente ci piace, al quale dedichiamo senza obiezioni tempo e fatica, senza che ci venga richiesto da nessuno. L’anno scorso un mio alunno si accorse che, siccome abita in una cascina della bassa, trascorreva tutto il tempo libero nell’orto; all’inizio perché suo padre lo obbligava, ma col tempo era lui stesso ad allungare il tempo del lavoro fra le zucchine e i pomodori. Si era accorto di un dato importantissimo: “Quando sono lì” diceva “il tempo sembra volare e cerco sempre di fare le cose bene anche se nessuno me lo chiede. E quando poi vedo i pomodori cresciuti o l’aiuola ben ordinata provo una soddisfazione enorme”. È questa soddisfazione enorme che ci attira e ci chiama, quando uno va nell’orto, oppure quando un altro mio alunno si fa comprare le biciclette usate e rotte perché passa il tempo a ripararle; oppure quando la mia alunna prova per ore e ore gli esercizi di danza, o quando risolviamo un problema di matematica o scriviamo un bel racconto. Il terzo criterio è quello degli interessi e noi proviamo a metterli a fuoco sia, come dicevo, osservando l’esperienza quotidiana, sia attraverso due test che negli anni ci hanno aiutato ad individuare insieme ai ragazzi delle aree di interesse e di forma mentis. Sono i famosi test Trieste ed Holland, che raggruppano le attività in aree di interesse, per andare a descrivere dei tipi umani (non rigidi, ma chiarificatori nel riferimento) di area umanistica, tecnico pratica, scientifica o dell’indagine, dei rapporti sociali eccetera. Durante il periodo in cui lavoriamo assiduamente sull’osservazione di queste emergenze, chiedendo di proseguire la riflessione nel compito che ciascuno fa a casa, viviamo un intenso confronto personale con 11
loro e con i loro genitori, fissando colloqui con i ragazzi e con le famiglie su prenotazione. È una fase molto bella, perché i ragazzi iniziano a muoversi, a chiedere un confronto con gli adulti che ritengono preziosi per il proprio percorso di scelta, o perché hanno affrontato un percorso simile a quello che loro stanno ipotizzando, o semplicemente per paragonare il proprio percorso con il loro giudizio, o per chiedere un conforto o un sostegno sull’osservazione di certi dati. È il criterio finale del confronto con gli adulti, con l’ipotesi fornita dalla realtà di persone di cui i ragazzi si fidano perché vogliono loro bene e perché in misura diversa li conoscono. È un criterio fondamentale perché una scelta che procedesse astraendosi dal confronto serio coi loro genitori e professori li lascerebbe insicuri. Un paragone con gli adulti invece, costringe a darsi le ragioni, a considerare con lealtà ciò che si è, a cercare con realismo un’ipotesi che possa realizzare con giustezza la mia persona. Il tema chiave di questo momento è non escludere nessuna ipotesi iniziale, lanciarli moltissimo nel paragone con se stessi e con le proprie ipotesi, incitarli ad andare a sentire gli open day delle varie scuole superiori della provincia, chiedere molto a fratelli, cugini, amici che hanno fatto la scelta, segnandosi magari i dialoghi che li hanno più segnati in un diario dell’orientamento; nel tempo il campo di ricerca tende a ridursi, escludendo i contributi meno utili e concentrandosi sulle ipotesi più confortate dal realismo del confronto con i propri interessi, con le proprie capacità e con ciò che veramente si desidera per sé. Il perno sul quale si regge tutto per noi adulti è la fiducia che la loro umanità, servendosi degli strumenti che l’esperienza fornisce, è in grado veramente di effettuare la prima scelta della vita, la cui giustezza non sarà nell’eliminazione delle difficoltà di percorso, ma nell’acquisire le ragioni più solide per affrontare queste difficoltà. Ad ogni modo i ragazzi, giunti ormai a dicembre dopo un confronto a tutto campo, ricevono un consiglio orientativo provvisorio da parte del consiglio di classe, che tiene totalmente conto del percorso che il ragazzo sta affrontando, ma offre un’indicazione che nasce dall’osservazione che il corpo docenti ha condiviso sul ragazzo. Durante le vacanze di Natale il percorso culmina in uno splendido colloquio con i genitori, che si svolge secondo una modalità molto precisa. 1) Innanzitutto è necessario decidere con entrambi i genitori un giorno in cui dedicare un’ora (almeno) a
tirare le fila del lavoro sull’orientamento. È bene non aspettare gli ultimi giorni di vacanza per evitare di
fare un lavoro affrettato.
2) Il colloquio deve avvenire senza distrazioni (niente TV accesa, per esempio, o persone che distraggano);
per questo motivo bisogna stabilire un momento che vada bene a tutti.
3) Prima del colloquio è necessario preparare il materiale: sottolineare le parti dei testi che hai scritto sul
quaderno e che vorresti leggere ai genitori per riassumere loro le riflessioni più importanti sui primi tre
criteri.
Svolgimento del colloquio
4) Bisogna avere a portata di mano il quaderno (con i testi sottolineati) e il libro di antologia, il quaderno di
brutta per prendere appunti, i risultati dei test e il consiglio orientativo dato dagli insegnanti.
5) Occorre riassumere ai genitori le principali riflessioni sui criteri: la vocazione, gli interessi, le capacità
esercitate e il confronto con gli adulti. Non potendo dire tutto, dovrai scegliere prima ciò che va riferito,
ossia ciò che più ti ha interessato o più ti è stato utile, sia dei testi letti che dei test svolti.
6) Appuntare che cosa emerge dal colloquio e poi scrivere una relazione di almeno due colonne (vedi a mo’
d’esempio a pag. 168 del libro di antologia). La relazione va poi stesa in bella sul quaderno e consegnata
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Quello che mi stupisce sempre di questo percorso è che la certezza non nasce, come dicono gli aviatori anziani del racconto di Saint‐Exupery, dall’aver chiari tutti i passi futuri della strada, ma da un percorso che, accettando la sfida di tutte le provocazioni (i pareri, le capacità, i limiti, i dubbi) fa venire a galla, con chiarezza, le ragioni che sostengono una scelta e una strada futura. 13