Tinagli Irene, Talento da svendere. Perchè in Italia il

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Tinagli Irene, Talento da svendere. Perchè in Italia il
Tinagli Irene, Talento da svendere. Perchè in Italia il talento non riesce a prendere il
volo, Einaudi, Torino 2008, pp. IX-191.
Recensione di Katia Basili
Dottorato in Scienze della Cognizione e della Formazione, Cà Foscari Università, Venezia,
Dipartimento di Filosofia e Teoria della Scienza – Centro di Eccellenza per la Ricerca
l'Innovazione e la Formazione Avanzata ([email protected])
Abstract
L’Italia sarà forse stato il paese di poeti e navigatori, ma proprio nell’era della
globalizzazione il suo ruolo nella competizione internazionale, e quindi i suoi talenti,
risultano sempre più marginali. Quali sono le ragioni della marginalizzazione di una
nazione che si è sempre vantata della sua naturale indole creativa? Irene Tinagli, giovane e
brillante ricercatrice delle dinamiche dell’innovazione economica presso la Carnegie
Mellon University di Pittsburgh, tenta di descrivere in questo libro il relativo fallimento in
Italia delle politiche che dovrebbero motivare l’elemento chiave di ogni processo creativo:
gli individui. In Italia ci sono oltre quattro milioni di persone che lavorano in settori
strategici come la medicina, l’ingegneria, il design, la moda, protagonisti di piccoli o
grandi gesti creativi. Tuttavia i loro meriti non sono stati ancora riconosciuti dalle
università e dalle imprese, dalle comunità sociali e dalla politica.
Recensione
“Il 25 maggio del 1961 John F. Kennedy tenne un discorso al Congresso americano in un
momento difficile del suo mandato. Gli Stati Uniti avevano appena fatto una pessima
figura nella Baia dei Porci e l’Unione Sovietica li aveva battuti su più di un traguardo sul
fronte tecnologico, a partire dal lancio dello Sputnik del 1957. Ma JFK non ebbe timore di
rilanciare. Di fronte al Congresso non si limitò a proporre interventi per rafforzare la difesa
e la sicurezza, ma delineò un obiettivo ancor più ambizioso:
Credo che questa nazione si debba impegnare per raggiungere prima che il decennio finisca,
l’obiettivo di far atterrare un uomo sulla luna e riportarlo sano e salvo sulla terra. (…) E sia chiaro
che non sarà un singolo uomo ad andare sulla luna, ma un’intera nazione. Perché tutti noi dovremo
lavorare per portarcelo.” (cfr. p. 189)
Da questa esemplificazione finale possiamo comprendere l’assunto fondativo del testo di
Irene Tinagli. Forze e realtà isolate non potranno risollevare le sorti dell’Italia nel campo
dell’innovazione tecnologica e produttiva se continuerà a mancare uno sforzo di
cambiamento complessivo. Il rispetto e la valorizzazione del talento deve diventare norma
e non eccezione. Come diceva J.F.K. sulla luna ci andrà l’intera nazione e non un uomo
solo.
Nell’introduzione al saggio vengono impietosamente elencati alcuni degli aspetti
macroscopici del ritardo generale del nostro paese nei confronti dei processi di
trasformazione in atto nei paesi più sviluppati ed in particolare con gli Stati Uniti.
Una forza lavoro fra le meno qualificate del mondo occidentale; inesistenza di processi
formativi nel mondo del lavoro; modeste competenze tecnologiche, linguistiche e più
complessivamente culturali. A fronte di queste carenze ormai strutturali la tendenza a
rievocare primati e competenze che si perdono nella storia (Rinascimento) o che
appartengono all’Italia solo come nazione di nascita di alcuni importanti scienziati:
Rubbia, Dulbecco, Giacconi e Levi-Montalcini.
Da queste dure premesse risulta assolutamente necessario per l’autrice ripensare alla
effettiva consistenza dei talenti e della creatività in Italia.
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Al primo posto la necessità di analizzare il funzionamento delle nostre Università, le più
antiche del mondo occidentale, ma oramai incapaci di apportare benefici effetti di
cambiamento nel tessuto produttivo e innovativo del sistema paese. In seconda battuta il
sistema delle imprese caratterizzato da una scarsa propensione all’innovazione produttiva e
di conseguenza poco interessato alla valorizzazione di nuove competenze. Il treno della
terza industrializzazione sembra essere passato in Italia senza che governi e lavoratori se ne
siano accorti. È stato incentivato un incremento quantitativo del lavoro (più posti) a scapito
di un miglioramento qualitativo dello stesso (ad es. tecnologie informatiche, chimica fine,
settore aereo-spaziale). Inoltre è continuato ad esistere un modello bloccato e irrigidito di
mercato del lavoro, con ampie zone territoriali escluse da ogni processo di
industrializzazione efficace.
Le colpe infine della classe politica, interessata alla gestione dei fenomeni e non alla loro
programmazione, hanno largamente contribuito al quadro generale negativo che
impietosamente le statistiche offrono dell’Italia nel contesto europeo e mondiale: un paese
perennemente in crisi economica; privo di risorse innovative; sempre sull’orlo di pericolosi
sbandamenti economici e sociali.
Il primo capitolo cerca di descrivere, sorridendo, i molti malintesi italiani nei confronti del
“talento”. La pretesa, ovviamente del tutto immotivata, di una predisposizione genetica
italiana al talento e al genio. L’equivoco nazionale di una divisione strutturale fra scienza e
arte, fra cultura e saper fare, fra conoscenze e tecnologie. La conseguente incapacità di
saper valorizzare le cosiddette “industrie creative”, legate all’informatica e all’innovation
technology, che in Inghilterra hanno da anni soppiantato in reddidività le più classiche
industrie “heavy” quali il settore automobilistico o la stessa agricoltura.
Conseguenza di questi ritardi, e non causa come spesso si sostiene, è la precarietà della
condizione giovanile che arriva al punto di pensare quasi non conveniente proseguire gli
studi per ottenere una istruzione universitaria. Conseguenza paradossale di questa
situazione è che l’Italia risulta uno dei paesi a più forte emigrazione di laureati e di scarsa
attrazione per tecnici e specialisti stranieri.
Nel secondo capitolo dedicato all’analisi sulla competitività del nostro paese l’autrice
riporta alcuni impietosi richiami alla realtà statistica: secondo l’Ocse, il FMI e varie testate
economiche, l’Italia è “il malato d’Europa”, un paese depresso e incapace di guardare al
futuro. Gli indicatori economici sembrano collocare l’Italia fra i primi dieci paesi del
mondo, mentre i dati relativi alla produzione pro-capite siamo solo trentesimi. Uno scarto
che pone seri problemi anche per la semplice gestione del nostro futuro (pensioni, welfare,
sanità). Le cause dello stato attuale sembrano derivare per l’autrice da una serie di mancate
scelte, o di scelte deliberatamente volute, contrarie ad ogni logica competitiva e basate solo
sul mantenimento di equilibri socio-economici preesistenti. Tali trasformazioni risultano
particolarmente evidenti a partire dagli anni novanta, anni in cui l’Italia si allontana dai
tassi di sviluppo degli altri competitors e sembra disinteressarsi alle travolgenti
modificazioni del sistema produttivo mondiale. La mancanza di innovazione impedisce
anche la valorizzazione dei talenti individuali e la creazione di sistemi di innovazione e di
sperimentazione, Su questi si basa invece lo sviluppo delle nazioni “forti” e di nuovi stati
emergenti quali Svezia, Finlandia, Scozia, Irlanda, Spagna in europa e Brasile India e Cina
nel mondo. Mentre l’occidente passava dal modello di uomo-organizzazione descritto nel
1956 dal sociologo americano William Whyte, cioè l’uomo che esegue, a quello del
creation-man, l’uomo che crea, delineato già negli anni novanta dall’economista ed ex
ministro clintoniano Robert Reich, secondo cui la competitività delle nazioni passa
attraverso la valorizzazione delle competenze e dei talenti individuali.
Cosa si intenda per talento e quali siano le implicazioni sociali che permettono una
effettiva competenza è l’oggetto del terzo capitolo. Possiamo sintetizzare i punti nodali
della questione evidenziando l’importanza, suggerita dell’autrice, di un nuovo modello di
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istruzione basato innanzitutto sul superamento delle croniche differenze di standard
formativi tra le diverse università italiane. Oltre a questo è necessario approfondire la
specializzazione, opponendosi ad ogni forma di tuttologia, e rilanciare
l’interdisciplinarietà, ormai scomparsa dal rigido sistema disciplinare dell’Università
italiana. La mobilità e il riferirsi ad una cultura cosmopolita sono visti come due traguardi
necessari per compensare la sistematica chiusura del sistema universitario, ma anche
individuale, italiano. È ovvio che il riferimento scontato per l’autrice è quello fornito dal
modello anglossassone, e in particolare degli Stati Uniti, senza però entrare nel merito di
quel sistema economico-sociale in termini critici. I risultati tangibili bastano a stabilire un
primato evidente con il nostro sistema attuale. Il metodo è impietoso quanto la verifica
delle differenze esistenti.
Nel quarto capitolo l’analisi approfondisce le relazioni implicite fra il “capitale umano” e il
sistema di istruzione. Vista da questo lato l’Italia risulta un paese assolutamente arretrato.
Nel 1991 il 7% dei giovani fra 24 e 35 anni risulta laureato. In Spagna invece il 16% e in
Francia il 20%, in Svezia il 27, negli Stati Uniti il 30. Solo la Turchia in quel momento è in
posizione peggiore. Tale divario non solo non è diminuito nel corso degli anni novanta ma
addirittura si è ampliato. Nel 2001 l’Italia ha raggiunto il 12% di popolazione laureata: la
Francia però è al 34%, la Svezia al 37 e la Spagna al 36.
A fronte di tale situazione il sistema politico ha deliberato la riforma dell’Università
secondo il modello del 3+2 (laurea di primo livello + specialistica. L’analisi statistica dei
risultati sembrava inizialmente favorevole a tale riforma: tra il 2001 e il 2005 aumento del
75% dei laureati. Nonostante l’aumento del 6 % delle iscrizioni nel periodo 2001-04 si è
passati poi ad un calo sostanziale nel 2005 (- 6143 iscritti) e nel 2006 (- 7709 iscritti). La
riforma ha quindi risolto molti problemi dei fuori-corso senza modificare i comportamenti
effettivi. Tanto che il fenomeno induce a porsi una domanda: in Italia conviene studiare?
Sulla base del reddito sembra di si, che questa convenienza esista. Sulla base delle effettive
disponibilità di lavoro per i laureati sembra invece che le opportunità di valorizzare un
laureato siano diminuite. La realtà oggettiva, che la Tinagli ci ricorda, è che: “l’Italia
produce meno della metà dei laureati degli altri paesi europei e continua ad avere una delle
popolazioni e della forza lavoro meno istruite del mondo occidentale. “
Ne consegue che la capacità di attrazione del paese nei confronti di lavoratori stranieri
qualificati è irrisoria: 0,6%, contro una media del 5-6% europea. Viceversa il fenomeno
della “fuga dei cervelli” risulta invece continuo e visibile. Dalla fine degli anni ottanta
l’Italia ha perso dal 3 al 5 % dei suoi neolaureati non solo verso gli Stati uniti ma molto di
più verso i paesi forti europei quali Francia e Germania. Tale tendenza è fortemente attiva
anche nelle proiezioni di scelta degli studenti attuali.
Il laureato che abbandona il paese costituisce un costo per la comunità privo di riscontro
anche se il paese d’arrivo dovrà sostenere ulteriori costi per la sua valorizzazione. Unico
aspetto positivo è quello della possibilità futura di ritorno delle competenze degli individui.
Il quinto capitolo tratta brevemente della valorizzazione e della motivazione dei talenti
mettendo però ancora in rilievo l’inefficacia del modello italiano, le molteplici distorsioni
retributive e meritocratiche. Di questo la maggioranza degli italiani (61%) sono
perfettamente consapevoli: per ottenere una affermazione professionale ritengono
necessario avere non tanto qualità personali, quanto invece “risorse economiche” 30%,
“relazioni politiche” 23%, “relazioni personali” 8%.
I capitoli finali riguardano quindi in maniera specifica i due attori protagonisti, secondo
Tinagli, delle possibili trasformazioni della nostra società in funzione della valorizzazione
dei talenti: l’Università e le imprese.
All’Università è dedicato il sesto capitolo che cerca di fornire una analisi delle qualità del
nostro sistema contrapposte alla visione che ne hanno diversi studiosi stranieri. Il giudizio
è impietoso.
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Sostanzialmente Irene Tinagli, senza dirlo esplicitamente, fa notare che il nostro sistema
educativo e formativo non si è adeguato ad una società di massa (l’università rimane
strutturata d’elite), e soprattutto non si è plasmato sul modello organizzativo e funzionale
dell’Industria, che vede invece rapidamente mutare i suoi processi finanziari e produttivi.
L’Università italiana rimane ancorata a schemi formativi del tutto obsoleti, validi in sé, ma
privi di relazioni con il mondo produttivo del quale dovrebbe costituire invece la premessa
necessaria.
Sul mondo produttivo e sulla sua cronica incapacità di valorizzare il talento degli individui
l’Italia sconta una diversità sostanziale con il modello anglosassone. Una diversità che
contribuisce potentemente alla creazione dei fenomeni lamentati nell’intero saggio.
Indice
Il talento: cos’è e a cosa serve
I. Il talento: miti e luoghi comuni
1. Il talento come genio
2. Talento come “gene”
3. Talento come scienza o arte?
4. Talento e questione giovanile
II.Il talento e il dibattito sulla competitività
1. L’Italia tra ottimismo e declinismo
2. L’Italia e la “terza rivoluzione industriale”
3. La trasformazione degli anni Novanta e il ruolo del talento
4. Il nuovo sistema competitivo
III. Che cos’è il talento
1. Cosa si intende per talento?
2. Le caratteristiche del talento
3. Il talento in prospettiva sistemica
La catena del valore del talento: formazione, attrazione e valorizzazione in Italia
IV. Formazione e attrazione
1. La classe creativa in Italia
2. L’istruzione e il “capitale umano” in Italia
3. Conviene studiare?
4. L’attrazione di talento
5. L’altra faccia dell’attrazione: la “fuga dei cervelli”
6. Il costo dei cervelli in fuga
7. I talenti all’estero come opportunità
V. Valorizzazione e motivazione
1. I talenti e il primo impiego
2. La valorizzazione post-impiego
3. La motivazione
4. Il valore sociale della conoscenza
5. Il merito
6. Fiducia e ottimismo
I principali attori del sistema
VI. L’università
1. L’università e la specializzazione
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L’università e l’internazionalizzazione
L’università e l’interdisciplinarietà
Chi forma i formatori? Uno sguardo ai docenti italiani
VII. Le imprese
1. La dimensione aziendale
2. La specializzazione produttiva
3. Gli imprenditori e l’istruzione
4. La dimensione territoriale
5. Le imprese tra internazionalizzazione e provincialismo
6. Le imprese e le risorse umane
VIII. La città e il contesto sociale
1. L’importanza dei luoghi
2. La città e l’attrazione dei talenti
3. La rinascita dei centri urbani
4. Il ruolo dell’estetica
5. Il ruolo del contesto sociale e della diversità
6. Le città italiane come risorsa?
IX. Politica e politiche
1. Il ruolo della politica
2. Una politica per il talento?
3. Alcuni casi stranieri
4. Una via italiana al talento?
5. Ripartire dal talento
Note sull’autrice Irene Tinagli
Irene Tinagli (Empoli, 1974) è ricercatrice presso la Heinz School of Public Policy della
Carnegie Mellon University di Pittsburgh. Nei suoi studi ha affrontato il rapporto tra
creatività, innovazione e sviluppo economico. E’ autrice e co-autrice di pubblicazioni
internazionali e italiane. Ha lavorato come consulente per il Dipartimento Affari
Economici e Sociali dell’ONU sui temi di Knowledge Management and Development,
presso la SDA Bocconi a Milano, il Software Industry Center a Pittsburgh e Deloitte
Consulting in California. Ha lavorato come consulente per il Dipartimento Affari
Economici e Sociali delle Nazioni Unite e come coordinatrice degli studi condotti in
Europa dal team di ricerca di Richard Florida. Attualmente risiede a Parigi.
Bibliografia essenziale dell’autrice
Sweden in the Creative Age, Handels School of Business, Göteborg, 2007.
Italy in the Creative Age, Creativity Group Europe, Milan, 2005.
Understanding Knowledge Societies, United Nations Publications, New York, 2005.
Europe in the Creative Age, Demos, London, 2004.
Links http://www.andrew.cmu.edu/user/itinagli/
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