Stupro di guerra - L`Osservatore Romano

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Stupro di guerra - L`Osservatore Romano
DONNE CHIESA MONDO
MENSILE DELL’OSSERVATORE ROMANO
NUMERO
50
OTTOBRE
2016
CITTÀ DEL VATICANO
Stupro di guerra
numero 50
ottobre 2016
L’INTERVISTA
Più pericoloso essere donna che soldato
Joyce Anelay sulla tragedia degli stupri di massa
SILVINA PÉREZ
SPIRITUALITÀ
FO CUS
Asia: dalla diseguaglianza
la violenza
Affinché
non si ripeta mai più
WENDY LOUIS
IN
A PAGINA
11
A PAGINA
17
LUCIA CAPUZZI
A PAGINA
3
A PAGINA
23
A PAGINA
26
NOVEMILA CARATTERI
Crimine
contro i diritti umani
ANNA FOA
CINEMA
Uno zoom sulla violenza
EMILIO RANZATO
A PAGINA
LA
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SANTA DEL MESE
La fierezza del coraggio femminile
ELISABETTA RASY
NELL’ANTICO
TESTAMENTO
Ester, il ribaltamento della cattiva sorte
MARIA KO HA-FONG
A PAGINA
29
ENZO BIANCHI
A PAGINA
36
BOSE
A PAGINA
39
ARTISTE
Essenziale che cerca il figurativo
MEDITAZIONE
Il fuoco interiore
A CURA DELLE SORELLE DI
L’EDITORIALE
L’INTERVISTA
Perché gli stupri
In copertina: gli abiti
indossati dalle donne
violentate durante la guerra
in Kosovo esposti nello
stadio di Pristina (Ap)
D ONNE CHIESA MOND O
Mensile dell’Osservatore Romano
a cura di
LUCETTA SCARAFFIA
In redazione
GIULIA GALEOTTI
SILVINA PÉREZ
Comitato di redazione
CATHERINE AUBIN
MARIELLA BALDUZZI
ANNA FOA
RITA MBOSHU KONGO
MARGHERITA PELAJA
Progetto grafico
PIERO DI D OMENICANTONIO
www.osservatoreromano.va
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per abbonamenti:
[email protected]
D ONNE CHIESA MOND O
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Lo stupro è una delle armi più efficaci nel corso delle guerre, per questo è così intensamente praticato. È anche un tipo di violenza che non solo ha effetto immediato sull’oggi,
ma fa sentire le conseguenze ancora per molto tempo dopo.
Possiamo dire che ipoteca il futuro. Ce lo spiega, con grande chiarezza e lucidità, una suora congolese che opera
nell’assistenza alle donne stuprate nel suo paese. Di lei non
diremo il nome, per proteggerla da eventuali ritorsioni nel
pericoloso contesto nel quale vive ed opera.
La tortura di donne e bambini è spesso un’arma per perpetrare genocidi in situazioni di occupazione. Gli organismi ufficiali spesso velano gli effetti di una situazione reale.
Le violenze sono un modo per cacciare le popolazioni da parte del
terrorismo. Nei villaggi abbandonati arrivano subito dei non-indigeni, spesso protetti in nome delle minoranze. Beneficiando pertanto
della protezione degli organismi internazionali, essi si stabiliscono in
un certo senso a spese degli abitanti originari, il cui parere nessuno
richiede. Ciò crea nuove cause di conflitto.
Ma soprattutto è necessario arrivare a identificare con chiarezza le
cause del disastro. Si parla di ribelli, di soldati dell’esercito regolare,
di bande di banditi, di lotte fra villaggi o fra etnie... La localizzazione delle case incendiate e delle terre più devastate ha un denominatore comune: sono sempre luoghi con molte risorse vitali e molte risorse minerarie. Il processo è questo: si semina prima la desolazione,
la popolazione fugge, gli invasori si stabiliscono e vivono delle risorse di questo ambiente occupato, mentre gli autoctoni in fuga sono
abbandonati. Li si perseguita, si violentano le donne e i bambini, si
uccidono gli uomini... ma in tutto questo non c’è chiarezza. Ci sono
certamente delle risorse nascoste che spiegano i crimini. Bisogna cercarle verificando chi cerca di accaparrarsi le risorse esistenti. Si è come in uno stagno in cui si muove l’acqua per pescare il pesce.
Più pericoloso essere
donna che soldato
Per Joyce Anelay, segretario di Stato per il Commonwealth
e le Nazioni Unite, occorre vincere il silenzio
dietro il quale si nasconde la tragedia degli stupri di massa
di SILVINA PÉREZ
«D
all’analisi delle guerre nel mondo negli
ultimi trent’anni, c’è un dato che emerge con chiarezza: è più pericoloso essere una donna che un soldato, quindi
capire le modalità delle violenze sessuali contro le donne è una fatica necessaria perché la prima barriera da infrangere è proprio quella del silenzio»,
e romperlo «è già un atto politico». Lo
sostiene la baronessa Joyce Anelay, segretario di Stato per il Commonwealth e le Nazioni Unite nel ministero degli Esteri britannico.
«I dati infatti parlano di una situazione da bollettino di guerra.
Secondo le agenzie delle Nazioni Unite più di 60.000 donne sono
state stuprate durante la guerra civile in Sierra Leone (1991-2002),
più di 40.000 in Liberia (1989-2003), fino a 60.000 nella ex Jugoslavia (1992-1995), e almeno 200.000 nella Repubblica Democratica del
Congo durante gli ultimi 12 anni di guerra. Nel Sud Sudan, sempre
secondo l’ultimo rapporto dell’Agenzia per i diritti umani delle Nazioni Unite, si sono verificati più di 1300 casi di stupro tra aprile e
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settembre del 2015 solo nello Stato di Unity e più di 50 casi da settembre a ottobre. Ma non solo. In dieci missioni di caschi blu, sulle
16 operative nel 2014, sono stati denunciati 52 casi di stupro di bambini e altre violenze sessuali commessi da soldati, agenti di polizia e
volontari. Nel 2015 il numero è salito a 69 (e si tratta solo dei casi venuti alla luce). Una delle missioni dei caschi blu sotto inchiesta da
mesi è la Minusca, quasi 12.000 unità tra militari, agenti di polizia e
personale civile, incaricata di riportare l’ordine nella Repubblica
Centrafricana, un paese in guerra dalla fine del 2012. Dopo lo stupro
di una bambina di soli 12 anni, violentata lo scorso agosto durante
una operazione affidata a peacekeeper inviati dal Rwanda e dal Camerun, si sono scoperti altri casi di violenza sessuale su bambini di
strada».
In molti conflitti contemporanei privi di linea del fronte, dove a combattersi sono sigle paramilitari con alleanze ambigue e volatili, il corpo delle donne è diventato un
campo di battaglia. Cosa si deve fare per contrastare queste tragedie?
Fin dal XIX secolo anche i conflitti armati sono sottoposti a particolari norme di diritto internazionale, ma la natura delle guerre del
passato era molto diversa da quella attuale, così le stesse norme giuridiche che regolano i conflitti hanno subito negli ultimi cento anni
una rapida evoluzione. Prima, infatti, il diritto tradizionale disciplinava soltanto i conflitti armati tra Stati e considerava legittimi combattenti esclusivamente i membri degli eserciti regolari. Oggi la situazione è cambiata. Prendiamo ad esempio la Repubblica Democratica
del Congo, che dalla metà degli anni Novanta è al centro di una
guerra senza precedenti nella storia africana per violenza e dimensioni. Più di venticinque fazioni ribelli e ben otto eserciti che si combattono senza tregua. Qui, gli stupri di massa su donne e bambini sono
all’ordine del giorno (quasi una violenza al minuto) e sono compiuti
tanto da ribelli quanto da membri delle forze di sicurezza statali.
Nuovi problemi, nuovi scenari hanno aperto la strada verso nuove risposte. Nel 2008, abbiamo raggiunto un accordo storico per porre fine alla violenza sessuale nei conflitti: da quel momento in poi stupri
e violenze sessuali nelle zone di conflitto costituiscono gravi violazioni della Convenzione di Ginevra, al pari dei crimini di guerra. Strada
che è stata aperta dalle Nazioni Unite che hanno approvato alcuni
anni fa la risoluzione 1820, una norma nella quale già allora si minacciavano azioni repressive contro i responsabili delle violenze nei
confronti del genere femminile di fronte alla Corte penale internazionale dell’Aja. Tra le altre cose, la risoluzione definisce l’abuso una
strategia «per umiliare, dominare, spaventare, disperdere o ricollocare
a forza, i civili membri di una comunità o di un gruppo etnico». Il
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Regno Unito è in prima linea negli sforzi internazionali per promuovere i diritti umani, migliorare il mantenimento della pace, promuovere la partecipazione delle donne ai processi di pace e porre fine alla violenza sessuale nei conflitti. Ma questa è una responsabilità collettiva e non può essere realizzata da un solo paese.
Come proteggere queste donne?
Come ha riconosciuto la risoluzione delle Nazioni Unite, ben lontano dall’essere incidentale, un tal genere di violenza costituisce una
vera e propria tattica di guerra. E possiamo dire che nel XX secolo, se
da un lato si afferma lo status giuridico dello stupro come crimine
contro la persona, dall’altro la violenza di massa contro la popolazione femminile diviene parte della strategia politico-militare e strumento di pulizia etnica, usato per terrorizzare l’intera comunità di appartenenza. Ovviamente in questo contesto le norme internazionali sono
fondamentali, ma da sole non bastano. Proprio per questo le comunità locali, in particolare le comunità religiose cattoliche e le donne
di congregazioni religiose — spesso gli unici a rimanere durante e dopo la fine dei conflitti — sono fondamentali. La loro grande determi-
Ayak, una donna
del Sud Sudan,
fotografata da Lynsey
Addario (2015).
Questa immagine, emblema
dello stupro come arma
di guerra, è stata
pubblicata sulla prima
pagina del «Time»
nel marzo di quest’anno
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D ONNE CHIESA MOND O
nazione e il loro impegno sono lodevoli. Esse svolgono un ruolo
molto importante nella cura dei più vulnerabili, nel sostenerli e supportarli anche nel percorso di ricerca della giustizia.
E difficile lavorare in questi paesi. Ad esempio, v’è la tendenza, tra
gli africani, a dare agli altri le colpe d’ogni cosa, un atteggiamento
che esonera dall’assunzione delle proprie responsabilità, legato all’esistenza di alcune superstizioni che tardano a essere estirpate ma sopravvivono nella quotidianità, e ogni motivo sembra essere buono
per esercitare violenza sessuale sulle donne. Quindi ci vogliono non
solo norme giuridiche adeguate, ma servono anche comunità che dal
basso possano lavorare a fianco delle vittime. Occorre infatti rapidamente invertire la rotta, combattere l’impunità, ma da dove cominciare? Dall’educazione: questa è la risposta, senza per questo dimenticare la dimensione giuridica. Una delle priorità del Regno Unito per il
2016 è quella di affrontare ad esempio la stigmatizzazione dei sopravvissuti che sono vittime di violenza e per questo sono emarginati dalle loro famiglie e comunità. Ecco perché è molto importante la presenza dei religiosi, ma noi dobbiamo andare ancora oltre, garantendo
alle vittime norme internazionali e una possibilità concreta di un
reinserimento nella società.
Lo stupro, più dell’omicidio, semina terrore tra i civili, disgrega le famiglie, distrugge le comunità e, in alcuni casi, modifica la composizione etnica della generazione
successiva. Cosa fanno le nazioni per cancellare definitivamente la cultura dell’impunità per questi crimini, che sappiamo praticati anche tra le file dei peacekeeper?
Joyce Anne Anelay
Joyce Anne Anelay,
baronessa Anelay di St
Johns, è nata il 17 luglio
1947. È ministro di Stato del
ministero degli Esteri e del
Commonwealth dal 6
agosto 2014. Tra le
principali protagoniste del
summit delle Nazioni Unite
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sul peacekeeping a Londra,
ha denunciato severamente
il fenomeno delle violenze e
degli abusi sessuali
commessi da caschi blu in
missione. È la
rappresentante speciale del
primo ministro per la
prevenzione della violenza.
Sono centinaia di migliaia le donne che nel corso delle guerre vengono violentate e stuprate e senza alcun dubbio si tratta di una gravissima violazione dei diritti umani. Purtroppo abusi sessuali da parte di caschi blu sono stati documentati dalla Bosnia e il Kosovo fino
alla Cambogia, a Timor Est, nell’Africa occidentale e in Congo.
L’Onu ha adottato una linea di “tolleranza zero” nei confronti di
questi crimini e un codice universale di condotta che fa parte integrante della formazione dei peacekeeper. E quando le accuse di violazioni da parte di personale dell’Onu sono accertate, i responsabili
vengono rimpatriati e banditi per sempre da future operazioni di
peacekeeping. L’Onu cerca di perseguire i casi fin dove può, poi
spetta ai tribunali e ai governi nazionali fare la loro parte. La comunità internazionale ha riconosciuto finalmente che la violenza sessuale non è solo un problema individuale delle vittime, ma mina la sicurezza e la stabilità delle nazioni e in quest’ottica bisogna esortare i
governi di tutto il mondo a rispettare i loro obblighi sui diritti umani
e fare di più per prevenire le violazioni dei diritti umani e gli abusi.
Il passo successivo vedrà l’istituzione di un protocollo internazionale
A pagina 6
nella foto grande
una bambina in un campo
profughi
in Sud Sudan (Ap)
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D ONNE CHIESA MOND O
Una donna
della Repubblica
Centrafricana
tra i resti della casa
dalla quale è stata costretta
a fuggire
D ONNE CHIESA MOND O
8
per le indagini sugli abusi nelle zone di guerra, e il Regno Unito
avrà il compito di elaborare e definire tutti i dettagli con il sostegno
di diversi esperti internazionali. L’accordo di Londra del 2008 è stato
un passo storico, ma non dimentichiamo che bisogna partire dalla
cultura se vogliamo fermare davvero la violenza, perché a rendere
possibile lo stupro di massa sono state e sono ancora oggi la subordinazione e la discriminazione subite dalle donne, vittime di mentalità
e di culture che giustificano o ridimensionano gli abusi. Tutte le forze di pace hanno bisogno di essere ben addestrate, equipaggiate e
approvate prima della loro discesa in campo. A terra, abbiamo bisogno di leader capaci e coraggiosi. Questo è il motivo per cui il Regno Unito non è solo uno Stato che addestra le truppe, ma fornisce
anche il supporto di programmi per migliorare le strutture di formazione e sostenere potenziali futuri leader. Siamo in prima linea anche
nel processo di raccolta e documentazione delle prove degli stupri
avvenuti, per sostenere la formazione di tribunali locali nei paesi dove accadono questi fatti.
Quali sono oggi le zone più calde nel mondo? Ci può raccontare in quali angoli del
pianeta le donne rischiano di più?
Nel Sud Sudan la situazione è molto difficile. Dal 2013 si combatte
una crudele guerra civile, una lotta di potere tra il presidente Salva
Kiir (etnia dinka) e il suo ex vice Riek Machar (etnia nuer). Hanno
ridotto gran parte della popolazione alla fame, alla disperazione e il
peso maggiore, il dolore più grande, grava sulle donne. Qui siamo
davanti a un caso di «uso massiccio della violenza sessuale come
strumento per terrorizzare e come arma di guerra» come l’Onu più
volte ha ribadito. Secondo l’Onu, i soldati governativi e le milizie alleate sarebbero i primi responsabili di violenze sessuali su vasta scala,
legittimate o incentivate dalle stesse autorità, come ricompensa per
chi combatte (e magari non riceve alcuno stipendio). Il team di investigatori dell’Onu denuncia una specie di tacito accordo che avrebbe
permesso ai militari di «fare tutto quello che potevano e prendersi
tutto quello che trovavano», compreso il furto di bestiame e di altri
beni. Qui bisogna intervenire presto ed efficacemente.
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D ONNE CHIESA MOND O
SPIRITUALITÀ
di WENDY LOUIS
Asia: dalla diseguaglianza
la violenza
L
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a disuguaglianza o lo squilibrio fra donne e uomini crea instabilità e
dà origine alla violenza. In popolazioni più paritarie la violenza è
molto ridotta. La fonte della disuguaglianza è la dilagante convinzione culturale, sociale e concettuale secondo cui le donne sono create
per gli uomini e gli uomini sono superiori. Questa superiorità si traduce nella nozione di “possesso” dell’oggetto. E ciò vale nella società
ma purtroppo anche nella Chiesa.
Vengo da Singapore, dove si tende a pensare che benessere, sviluppo economico, ottima assistenza sanitaria ed educazione significhino automaticamente che è stata raggiunta l’uguaglianza di genere.
Molti uomini e donne credono che non ci sia bisogno di vigilare sulla disuguaglianza di genere sul posto di lavoro o a casa; ossia sulla
violenza domestica, l’abuso sessuale, le molestie sessuali e la mercificazione del corpo femminile. Per sfatare questo mito basta visitare
l’Association for Women’s Action and Research, che offre assistenza
telefonica, riparo e aiuti d’emergenza alle donne vittime di violenza.
Anche il Singapore Council of Women’s Organizations ha una casa
rifugio per donne e bambini che necessitano di protezione. Un esempio di disuguaglianza che crea violenza è la presenza a Singapore di
“spose straniere”. Qui, gli uomini con scarso livello d’istruzione, in-
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D ONNE CHIESA MOND O
Ma c’è anche chi, come Amrita, nel Nepal, è riuscita a convincere
i genitori a non accettare la proposta di matrimonio ricevuta quando
lei aveva solo sedici anni e ad aspettare finché non avesse compiuto
almeno vent’anni, e nel frattempo ha completato gli studi.
DAL MOND O
Insieme
alle vittime
Papa Francesco ha
incontrato due
donne italiane
vittime di abusi del
clero. Lo ha riferito
padre Hans Zollner,
della Pontificia
commissione per la
tutela dei minori. Le
vittime hanno
consegnato al Papa
due libri, pubblicati
quest’anno: Giulia e
il lupo e Vorrei
risorgere dalle mie
ferite. Il primo è
sull’esperienza di
una giovane abusata
da un sacerdote in
Italia. L’altro è sulle
donne consacrate,
che vengono abusate
da sacerdoti. «Il
Papa — ha riferito
Zollner — è stato
molto impressionato
da ciò che hanno
detto queste donne e
ha chiesto di poter
seguire anche questa
vicenda». Padre
Zollner ha anche
anticipato che è allo
studio l’istituzione di
una giornata di
preghiera per le
vittime, una veglia
penitenziale e la
realizzazione di un
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D ONNE CHIESA MOND O
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Lo United Nations Women’s Committee di Singapore ha dichiarato: «Cosa più importante, occorre convincere i membri della società
a rivedere e a cambiare quegli atteggiamenti e comportamenti tradizionali che relegano le donne a un ruolo inferiore nella società e incoraggiano la violenza maschile. Educare i ragazzi e gli uomini a vedere le donne come partner alla pari è indispensabile per costruire
una società orientata alla pace e al progresso».
capaci di trovare moglie, guardano al Vietnam e alla Cina dove donne, spinte dalla povertà, accettano le loro proposte di matrimonio per
mantenere la propria famiglia.
Secondo Chong Ning Qian, responsabile della ricerca alla Aware,
«le mogli straniere provenienti da contesti socio-economici più poveri di quelli dei loro mariti di Singapore possono essere più esposte a
maltrattamenti. Il fatto di dipendere dal proprio marito per la residenza, la cittadinanza e il diritto al lavoro pone queste donne in una
posizione di disparità e rende a quante subiscono abusi più difficile
cercare aiuto».
Donne e bambine sono viste come merce o pesi in tanti paesi
dell’Asia, come dimostrano le usanze e le leggi legate al matrimonio
e alla sessualità. Un esempio diffuso di questa disparità sono le “spose bambine”. L’organizzazione Girls Not Brides racconta le storie di
molte giovani costrette a sposarsi e soggette ad atti di prepotenza e
violenza domestica. La violenza proviene dalla famiglia del marito,
che le tratta come schiave e spesso le dileggia perché la famiglia non
è riuscita a pagare la dote richiesta. Di solito il marito ha molti più
anni e stupra la ragazza. Il fatto che molte ragazzine subiscano gravi
violenze e ne muoiano ha spinto alcuni paesi a promulgare leggi per
vietare i matrimoni con ragazze minori di 18 anni.
Nel suo messaggio per la Giornata mondiale di preghiera per la
pace del 2017 Papa Francesco parla del bisogno di pari diritti e di rispetto tra le nazioni per evitare violenze e conflitti. Applicando lo
stesso principio, la disuguaglianza e la convinzione che gli uomini
siano in qualche modo moralmente e fisicamente superiori generano
l’atteggiamento di sopraffazione e influenzano profondamente le nostre risposte. Nella Evangelii gaudium, come pure in Amoris laetitia,
Papa Francesco definisce la violenza domestica come una minaccia
non solo per il benessere della donna, ma anche per la famiglia e la
società. Cita le strutture patriarcali tra i responsabili della violenza
contro le donne e nelle società.
Da notare la connessione costante tra disuguaglianza e violenza.
Per esempio, nel caso dei lavoratori domestici stranieri in Asia e nel
Medio oriente, le leggi favoriscono il datore di lavoro. I lavoratori
domestici stranieri non sono considerati uguali agli altri cittadini in
termini di diritti legali e quando subiscono abusi sessuali o verbali o
vengono picchiati si sentono in trappola e impotenti. La disuguaglianza di fronte alla legge è un altro aspetto della disuguaglianza
che fa spesso da sfondo alla violenza e all’ingiustizia.
La realizzazione di un
murale per la sede del
Singapore Council
of Women’s Organizations
La sensazione di essere in trappola non riguarda solo i lavoratori
immigrati legati a un particolare datore di lavoro, che non hanno diritto a cercare un altro impiego. Riguarda anche milioni di donne
imprigionate in matrimoni nei quali le usanze e la cultura le hanno
destinate a giornate interminabili di duro lavoro, oltre che a essere
malnutrite, non istruite e ultime nella fila per l’assistenza sanitaria.
Ciò che era piuttosto comune fino alla prima parte del XX secolo
persiste ancora oggi in molte culture asiatiche, anche in famiglie relativamente benestanti. Dalle nuore ci si aspetta che si occupino di tutte le faccende domestiche e che soddisfino tutte le irragionevoli richieste dei loro suoceri senza lamentarsi. Nel suo libro From Fear to
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modello guida
per le Conferenze
episcopali.
Freedom, la dottoressa Rilly Ray Rajkumar descrive la vita di sua madre a Calcutta come giornate interminabili di estenuanti faccende domestiche, senza alcun aiuto e attenzione da parte dei suoi suoceri.
Per essere certa che le sue figlie non subissero la stessa sorte, convinse il marito ad andare in Malesia, che a quel tempo era sotto il governo britannico. Si trasferirono poco prima dello scoppio della
guerra mondiale, ma alla fine tutto andò bene e le figlie riuscirono a
raggiungere i vertici nella loro professione.
Un altro fattore importante che crea il contesto per la violenza
contro le donne è la povertà, che, unita alla disuguaglianza, rende la
vita molto più insostenibile per le donne e i bambini che per gli uomini. Quando il denaro è poco o inesistente, le ultime a mangiare
sono le donne, le ultime a ricevere un’istruzione sono le figlie femmine e solo i maschi possono beneficiare dell’assistenza sanitaria. Le ragazze vengono vendute ad agenti che le rivendono, destinandole alla
prostituzione e a un lavoro che equivale a vera e propria schiavitù,
con una paga minima o nulla e senza diritti. Nel 2001 a Bangkok, in
Thailandia, ho conosciuto una giovane proveniente dal nordest del
paese. Era ancora adolescente ed era ragazza madre. Per poter provvedere al figlio lo aveva lasciato con la sua famiglia — dei contadini
molto poveri — ed era venuta a cercare lavoro in città. A Bangkok
era finita nella rete della prostituzione, fino a quando una ong l’ave-
Quando il denaro è poco o inesistente
le donne sono le ultime a mangiare e le ultime a ricevere un’istruzione
Le ragazze vengono vendute e rivendute
destinate alla prostituzione o a un lavoro da schiave
va salvata e le aveva dato aiuto per aprire una piccola attività come
venditrice ambulante di ciambelle. Quando l’ho incontrata aveva degli amici e si sentiva al sicuro, dopo tanti mesi di traumatica violenza
sessuale e fisica.
Le donne sono profondamente deluse dal fatto che la Chiesa sia
molto in ritardo nel dare la necessaria testimonianza per cambiare la
percezione dell’uguaglianza e della complementarità tra uomo e donna. Esempi di scandaloso comportamento di sacerdoti e religiosi nei
confronti delle donne e dei bambini deriva da un senso di impunità
che nasce dalla profonda e radicata convinzione della superiorità ma-
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schile. Invece di sfidare la società con il Vangelo, molto spesso la
Chiesa offre una testimonianza contraria. Il divario tra clero e laicato
è incolmabile persino per i laici uomini, e quindi lo è ancora di più
per le donne laiche. Ecco un semplice esempio.
A Singapore i ministranti sono tutti ragazzi. La giustificazione per
l’esclusione delle ragazze è che servire durante la messa porta molti
ragazzi a prendere in considerazione il sacerdozio come loro vocazione. Le ragazze costituirebbero una distrazione e potrebbero portare a
una diminuzione del numero dei ragazzi che servono durante la messa e che rispondono alla vocazione. Ma potrebbero anche esserci implicazioni non confessate. In primo luogo, la percezione che le ragazze non possono servire l’altare perché meno degne e meno sante. La
“vocazione” delle donne non è importante. La disuguaglianza è esistenziale. Il libro della Genesi dice «a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò». Come può la Chiesa, nella società, avere
un ruolo guida contro la violenza inflitta alle donne se le cause fondamentali della violenza non vengono riconosciute o affrontate?
C’è un lungo elenco di crimini contro le donne. Omicidi “d’onore” di donne accusate di “disonorare” la propria famiglia con le loro
relazioni, l’abbigliamento o la ribellione; gli aborti selettivi, dove il
feto femminile viene abortito poiché la coppia vuole solo un figlio
maschio. Questa situazione era molto diffusa in Cina fino al recente
allentamento della politica del figlio unico. In India è illegale, ma
viene ancora largamente praticato. Uno studio indica che dalla popolazione indiana mancano 10 milioni di bambine. Oltre all’aborto selettivo, esiste ancora l’infanticidio femminile.
Molte donne, vittime innocenti della guerra, hanno subito stupri e
torture. A migliaia vivono la vergogna dello stupro, della vedovanza
e dell’abbandono. Succede in Sri Lanka e in molte parti del sud e
del sudest asiatico, dove gruppi etnici combattono contro i militari.
Occorre un approccio multiplo. Educazione per tutti, con una
particolare enfasi sull’educare donne e uomini alla loro dignità e ai
loro diritti. Attenzione preferenziale per l’educazione delle ragazze e
delle donne. Aiutare i cristiani, ovunque sono presenti, convertendo
le culture con il Vangelo, sia nella Chiesa sia nella società, così da
poter contrastare le disuguaglianze dalla nostra prospettiva di fede.
Riduzione della povertà, con una particolare attenzione per le donne
e i bambini abbandonati dalla famiglia. Alloggi adeguati per sostenere la vita familiare. Educazione alla vita familiare per uomini e donne, al fine di creare relazioni matrimoniali migliori. Infine, una riforma delle strutture ecclesiali, affinché diano testimonianza di Gesù
Cristo, che ha portato a tutti noi un amore avvolgente e uguale.
In Tunisia una
nuova legge in
difesa delle donne
Il governo tunisino
ha proposto al
Parlamento una
legge per combattere
le violenze fisiche e
verbali rivolte contro
le donne. Il testo
inasprisce le pene
per chi si macchia
del reato in
questione in tutte le
sue forme. La
proposta
dell’esecutivo segue
la pubblicazione, a
marzo, di un
rapporto del Centro
per la ricerca, studi
documentazione e
informazione sulle
donne secondo il
quale il 53 per cento
delle tunisine ha
subito violenze nel
corso della sua vita.
Per non morire
di parto
Si trova nel Sud
della Sierra Leone, a
Gbondapi, una zona
piena d’acqua, dove
spesso le strade non
esistono o spariscono
nella stagione delle
piogge e la gente si
sposta in barca. La
nuova struttura
sanitaria è stata
inaugurata a maggio,
utilizzando la sede di
un centro di
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D ONNE CHIESA MOND O
IN NOVEMILA CARATTERI
di ANNA FOA
Crimine contro
i diritti umani
a circa vent’anni la regione dei grandi laghi, nell’Africa centro-orientale, vive in uno stato di guerra, che a
partire dal 2008 si è acuita nella zona orientale del
Kivu. A combattersi, tanto per motivazioni politiche
che economiche, cioè per il controllo delle ricchezze
minerarie del Congo orientale, sono da una parte le truppe dell’esercito regolare, dall’altra le milizie non governative e quelle filorwandesi e ugandesi. Se la zona intorno alla capitale, Kinshasa, nella parte
occidentale del paese, è sotto il controllo del governo, assai debole è
invece tale controllo nel resto della nazione. La presenza di un grande contingente di truppe Onu, la missione Monuc, non ha portato a
risultati sostanziali.
D
Un aspetto fondamentale di questa guerra sono i massacri dei civili con gli stupri di massa nei confronti di donne e bambini. Non si
tratta solo di episodi occasionali di violenza, ma di violenze sistematiche, che hanno il risultato di distruggere i legami sociali delle comunità. Vi contribuiscono non solo le milizie ribelli o quelle non governative, ma i soldati stessi dell’esercito regolare (secondo rapporti
Onu) e fin le truppe della missione Onu, Monuc, in teoria inviate a
proteggere la popolazione. Il coinvolgimento di soldati dell’Onu negli stupri — e non solo in quest’area — è stato denunciato più volte
negli ultimi anni, senza tuttavia che vi siano state serie conseguenze.
Abbiamo incontrato, per parlare di questi fenomeni, due frati cappuccini: Benedict Ayodi, keniota, direttore dell’Ufficio di giustizia,
pace e ecologia, particolarmente impegnato sul fronte della riconciliazione, e Joaquim Josè Hangalo, angolano, vicario della Fraternità.
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biamo fare di più per aiutare queste persone e assisterle nelle loro
sofferenze» dice Hayodi.
In questo contesto generale, esiste un problema specifico molto
grave ed urgente, che è quello degli stupri di massa, compiuti su
donne e bambini e sovente seguiti dall’uccisione delle vittime stesse.
«Tra il 2009 e il 2014 ne sono riportati duecentomila, forse di più, il
che dimostra la gravità del problema. Le milizie e anche le truppe
del governo sono accusate di essere coinvolte in questi stupri, che si
rivelano come un’arma di guerra e di degradazione del nemico. E anche negli ultimi massacri in Beni sono riportati moltissimi casi di stupro di donne e bambini» dice Ayodi. «Anche le bambine molto piccole vengono stuprate. E poi c’è il problema dei bambini soldati,
presi nelle milizie come soldati. Questi bambini sono abusati, violentati in tutti i modi. I bambini soffrono come le donne».
Già nel caso della Bosnia lo stupro era visto come un’arma di
guerra, in quel caso però aveva una funzione di pulizia etnica, per
far generare alle donne bosniache bambini di sangue serbo. In questi
casi, invece, lo stupro ha un significato diverso: «In queste comunità
africane la donna è sacra, è un pilastro della comunità e se questo pilastro viene colpito è la comunità che muore».
Cornelia Parker
«Fuoco sospeso (sospetto
doloso)» (1999)
D ONNE CHIESA MOND O
18
Nel dialogo con loro e nel confronto con le loro esperienze sul campo abbiamo cercato di individuare le specificità del fenomeno degli
stupri, senza confonderlo con le violenze caratteristiche della guerra e
senza tuttavia prescindere dal fatto che la guerra è il contesto in cui
queste violenze si verificano. «La guerra coinvolge almeno da dieci
anni sei o sette paesi, Uganda, Rwanda, Burundi, Sud Sudan e Congo, insomma la regione dei grandi laghi» spiega Ayodi. «L’ultima
strage, quella di Beni, è avvenuta in una regione vicina ai grandi laghi. Il conflitto dei grandi laghi è un conflitto ormai vecchio, con
stragi che coinvolgono la popolazione civile, donne, bambini. È in
pratica un genocidio, ripreso molto scarsamente dai media internazionali, e che crea grande preoccupazione perché, oltre le sue ripercussioni locali, destabilizza anche i rapporti tra gli Stati» ci dice
Joaquim Hangalo. «Le istituzioni internazionali, in particolare i media, hanno dimenticato molte cose sull’Africa. Hanno dimenticato il
Congo, e fino a che il Papa non ha parlato dei recenti massacri di
Beni nessuno dei media ne ha parlato. Sentiamo della Siria,
dell’Iraq, ma non dell’Africa. Bisogna sottoporre alle istituzioni internazionali il fatto che qui le persone, i poveri, stanno soffrendo. Dob-
Le donne stuprate restano nelle famiglie, dove queste ci sono ancora, o vengono allontanate? Questo è un grande problema che potremmo dire culturale, di mentalità. Dopo lo stupro, infatti, c’è lo
stigma. «Migliaia di donne stuprate non possono nemmeno dirlo
perché sarebbero rifiutate dalle loro famiglie, dalle loro comunità.
Restano in silenzio e in silenzio soffrono l’impatto della violenza subita. Ed è su questo enorme problema che molte organizzazioni hanno cominciato a lavorare offrendo aiuti psicologici. Una delle strategie che la Chiesa, in particolare i cappuccini, hanno incominciato a
mettere in atto è quella di creare piccoli gruppi di donne che possano parlare fra loro di quanto hanno subito. Le donne possono finalmente aprirsi l’una con l’altra, ottenere assistenza. È solo un inizio,
ma il fenomeno sta diffondendosi. Servirebbe anche dare alle donne
maggiore potere, maggiore autonomia. Incrementare l’alfabetizzazione femminile, l’istruzione» dice Ayodi. Certo, questa è una strategia
generale, che funziona sui tempi lunghi, ma intanto i massacri e gli
stupri aumentano.
Lo stupro diventa un fenomeno di massa, un’arma di guerra,
quando perde il suo carattere di eccezionalità e viene accettato come
un’arma di guerra pari alle altre, se non addirittura più efficace. Ma i
governi e le popolazioni considerano gli stupri un crimine o come
delle violenze inevitabili, che non devono essere sanzionate o punite?
isolamento per
Ebola. Una volta qui
venivano accolte
persone malate, ora è
la casa dove si
accompagna la
nascita dei bambini.
Nella casa di
Gbondapi non sono
accolte donne del
distretto di Pujehun,
ma anche di quello
di Bonthe dove
l’ospedale
governativo si trova
su un’isola, a cui si
arriva solo dopo tre
ore di navigazione.
D onne
contro il divorzio
in India
Le donne
musulmane in India
combattono contro
la discussa pratica
del divorzio
immediato che
permette agli uomini
di lasciare mogli e
figli pronunciando
per tre volte la
parola «talaq» (io
divorzio da te).
L’India è uno dei
pochi paesi laici al
mondo che consente
ancora agli uomini
di ripudiare le mogli.
In ottobre a Parigi
il primo
campo profughi
La città di Parigi
aprirà un campo
profughi riservato
agli uomini a metà
ottobre, in un’area
oggi inutilizzata di
>> 21
19
D ONNE CHIESA MOND O
>> 19
proprietà del gestore
ferroviario Sncf nei
pressi della Gare du
nord. Il campo sarà
gestito
dall’associazione di
assistenza Emmaus
Solidarité, che da
anni si occupa della
questione degli
alloggi per i
migranti. Il sindaco
Anne Hidalgo ha
anche annunciato la
costruzione di un
secondo campo per
sole donne e minori
non accompagnati. Il
centro sorgerà entro
la fine dell’anno
nella cittadina di
Ivry-sur-Seine, nei
sobborghi a sudest
di Parigi.
Ci sono leggi contro gli stupri? Sia Ayodi che Hangalo riconoscono
la volontà politica dei governi di porre fine agli stupri, ma sottolineano anche la loro debolezza che non lo consente nella realtà. I governi, fra cui quello della Repubblica democratica del Congo, aderiscono ai protocolli internazionali sullo stupro e la sua criminalizzazione.
Ma il governo del Congo è debole e non ha molto potere, il paese è
da anni molto instabile. Servono, afferma Hayodi, «riforme politiche
strutturali che supportino il governo nel portare questi criminali in
tribunale». I casi di stupratori condannati in tribunale per lo specifico reato di stupro sono una minoranza assoluta, poche decine di
fronte alle centinaia di migliaia di violenze sessuali perpetrate.
Il quadro che emerge è quello di una enorme difficoltà a trasformare lo stupro da arma di guerra accettata e riconosciuta a crimine
perseguibile e perseguito, isolando in qualche modo lo stupro dal
suo contesto generale di violenze belliche. È tuttavia quanto sta tentando di fare la Chiesa, soprattutto quella cattolica, accogliendo le
donne violentate ed entrando anche in conflitto con la mentalità che
mette ai margini le vittime delle violenze. «La Chiesa ha risposto agli
stupri e alle violenze contro donne e bambini in diversi modi. Prima
di tutto, attraverso le lettere dei vescovi che chiedono giustizia ai governi. Molte lettere sono state inviate alle autorità della Repubblica
democratica del Congo domandando giustizia per le vittime. La
C’è una enorme difficoltà a isolare lo stupro dal contesto delle violenze belliche
passando dal concetto di arma di guerra accettata e riconosciuta
a quello di crimine perseguibile e perseguito
Tuttavia è proprio questo che sta tentando di fare la Chiesa
Chiesa è anche il rifugio che si offre alle donne, dando loro un posto
dove stare, cibo, rispondendo ai loro bisogni. Tutto questo in un
contesto generale in cui la Chiesa offre riparo ai disastri della guerra,
ai profughi che sono costretti a lasciare i villaggi distrutti. La Chiesa
crea scuole per i bambini rimasti orfani. Scuole che, a loro volta,
vengono distrutte». «Chi parla ha paura di subire ritorsioni. La
Chiesa non può fermare chi viene col machete, ma solo accogliere le
vittime» aggiunge Hangalo. In quest’opera della Chiesa, le donne
svolgono un ruolo molto importante. «Il 60 per cento sono donne,
le donne nel continente africano sono l’anima della Chiesa. Le stesse
suore spesso sono sottoposte a stupri. Ci sono molte differenti con-
D ONNE CHIESA MOND O
20
Le api danno
speranza alle donne
palestinesi
gregazioni di missionarie religiose e laiche nella regione. Potrebbero
avere più potere per fare di più in questo campo. Le donne potrebbero essere messe nella condizione di fare di più se si desse loro più
potere» dice Ayodi. Solo negli ultimi anni l’attenzione dell’opinione
pubblica internazionale si è focalizzata sul problema specifico delle
violenze sessuali, in un contesto in cui lo stupro di massa è stato inserito alla fine degli anni Novanta tra i crimini di guerra e in alcuni
casi equiparato al genocidio. L’attenzione è comunque insufficiente
rispetto alla portata del disastro in corso. «Serve una maggiore visibilità, una conoscenza maggiore delle cose terribili che succedono. Capire che non si tratta di conseguenze secondarie della guerra, di incidenti ma di scelte politiche, attacchi preordinati a comunità. Lo stupro è un’arma di guerra», dice Hangalo. «A proposito degli stupri si
è detto: “È la cultura africana”. È sbagliato. Lo stupro è un crimine
come l’uccisione. Bisogna guardare a questo crimine dal punto di vista dei diritti umani, della giustizia» conclude Ayodi. «Portare chi
commette questi crimini davanti alla giustizia».
In Cisgiordania,
vicino a Ramallah, la
produzione di miele
è diventata una
risorsa economica
fondamentale per un
gruppo di donne.
Un sostegno
importante
per i territori
palestinesi, dove una
persona su quattro è
senza lavoro. Il
progetto è
supportato dal
Comitato palestinesi
all’agricoltura che
aiuta 103 donne a
gestire imprese
agricole in
Cisgiordania e nella
Striscia di Gaza.
21
D ONNE CHIESA MOND O
on sono molti i film che hanno
come argomento centrale lo stupro di guerra. Forse l’unico che
nel passato ha affrontato esplicitamente il tema è stato La ciociara (Vittorio De Sica, 1960), tratto dall’omonimo romanzo di Alberto Moravia, in cui la protagonista, interpretata da Sofia Loren, viene violentata insieme alla giovanissima figlia per mano di un gruppo di goumier durante la seconda
guerra mondiale, poco prima della fine dell’occupazione tedesca. Il regista italiano in questo
caso dimostra un coraggio avanti coi tempi, ma
non altrettanta sensibilità, almeno nei momenti
cruciali: la scena in cui qui si rappresenta lo
stupro svela accorgimenti espressivi tutt’altro
N
Uno zoom
sulla violenza
di EMILIO RANZATO
che appropriati. Lo zoom sul volto della ragazza nel momento della violenza può essere paragonato al famoso — e molto più spesso condannato — carrello in avanti sulla vittima di un lager in Kapò. Come lì, c’è un’enfasi grossolana e
non richiesta, e quindi un sensazionalismo del
tutto fuori luogo. Molto più convincente è il finale del film, in cui vediamo quali conseguenze
ha avuto la violenza sulla giovanissima protagonista.
Un caso singolare è quello di Brian De Palma. Il regista americano specializzato in thriller
hitchcockiani ha affrontato l’argomento dello
stupro di guerra per due volte, sfruttando praticamente lo stesso soggetto in entrambi i casi,
mettendolo però in scena in modi radicalmente
D ONNE CHIESA MOND O
22
diversi. Ambientato durante la guerra del Vietnam, Vittime di guerra (1989) racconta il fatto
realmente accaduto di un plotone dell’esercito
americano che violenta e uccide una cittadina
vietnamita, sulla spinta del cieco odio per il nemico. De Palma non si tira indietro davanti
all’orrore, e il tono del racconto è indignato e
piuttosto antipatriottico, ma il tema della violenza è inserito in quello più ampio della guerra
che porta a una sostanziale follia. Completamente diverso è invece il taglio adottato per il
più recente Redacted (2007), in cui la violenza
avviene sullo sfondo della guerra in Iraq. Qui
De Palma cerca il più assoluto realismo, affidandosi a spezzoni di finti documentari, pagine di
internet, schermi di cellulari, telecamere di sorveglianza. La scena della violenza è molto cruda, ma giustificata da un racconto stavolta del
tutto sincero.
Ci sono poi pellicole che trattano delle conseguenze che il trauma produce a distanza di
tempo. Il segreto di Esma (Jasmila Zbanic, 2006)
— vincitore dell’Orso d’oro — e La donna che
canta (Denis Villeneuve, 2010), rispettivamente
sulla guerra civile in Bosnia e su quella in Libano, sono due film ben diretti e soprattutto ben
recitati, in cui si raccontano i drammi di due
generazioni. Quella delle madri violentate che
faticano a reinserirsi nella vita normale, e quella
dei figli che scoprono con sconcerto di essere
nati da quel crimine terribile.
Il film migliore sull’argomento, però, è forse
il recente Agnus Dei (Anne Fontaine, 2016). Vittime della violenza sono in questo caso delle
suore di un convento polacco per mano di soldati sovietici durante la seconda guerra mondiale. La regista lussemburghese riesce a tratteggiare con straordinaria sensibilità gli animi in tumulto delle protagoniste, in bilico fra il rifiuto
di un qualcosa che va completamente contro la
propria scelta religiosa, e l’inevitabile emozione
per una nuova vita che arriva.
Affinché
non si ripeta mai più
FO CUS
di LUCIA CAPUZZI
P
er diciannove interminabili udienze sono rimaste imprigionate nei coloratissimi scialli. Il volto, i capelli, le mani, tutto era coperto. La
stoffa pesante occultava ogni centimetro di pelle e di umanità. Immobili fagotti maya. Si sono presentate al mondo con l’immagine che
gli aguzzini le cucirono violentemente indosso, 34 anni fa. Ancora
una volta. L’ultima volta. Perché, appena il giudice Jazmín Barrios
ha terminato di leggere la sentenza, le braccia si sono levate verso
l’alto, spontanee. Uno dopo l’altro, i manti si sono aperti, liberando
il viso. Labbra e occhi sono saltati fuori. E nell’aula è risuonato il
grido: Mak´al li qa xiw (“non abbiamo più paura”). Allora, il 26 febbraio scorso, l’incubo è veramente finito per le undici eroine di Sepur Zarco — come le ha ribattezzate la stampa locale — ed è nata una
nuova speranza per le migliaia e migliaia di guatemalteche stuprate,
torturate, schiavizzate durante la guerra civile (1966-1996). Uno dei
conflitti più feroci del Novecento, in cui anche i corpi delle donne
furono trasformati in campi di battaglia. Nel silenzio generale. Tanto
23
D ONNE CHIESA MOND O
che, dopo la firma degli accordi di pace, c’è stata, a lungo, una difficoltà a considerare le violenze sessuali come parte della strategia di
terrore sistematico inflitta dai gruppi armati — in particolare dall’esercito — alla popolazione. Quel giorno del 2016, però, il Tribunale A
di massima sicurezza ha messo fine a decenni di impunità, condannando a 120 e 240 anni di carcere Steelmer Reyes Girón e Heriberto
Váldez Asij, colpevoli, in quanto responsabili della guarnigione di
Sepur Zarco, dello stupro di massa di decine di indigene nonché della scomparsa dei loro mariti. Il verdetto è storico: per la prima volta,
gli abusi sessuali commessi durante una guerra sono stati giudicati e
Una manifestazione
di solidarietà con le donne
di Sepur Zarco
condannati all’interno dello stesso Paese. In Jugoslavia e Rwanda — i
due punti di riferimento in materia — si è dovuto ricorrere a corti internazionali. In Guatemala no. Là, un gruppo di donne di etnia
Q’eqchí ha costretto il sistema giudiziario nazionale a guardare in
faccia la verità.
«Non so né leggere né scrivere. Forse, se lo sapessi fare, parlerei
con più scioltezza. Ma tutto ciò che ho detto è vero. Ero lì, ho visto
e vissuto quei giorni. Dio mi è testimone» ha detto Petrona, 75 anni,
al termine della deposizione. In aula, ha parlato in lingua q’eqchí,
l’unica che conosce e l’unica in cui si sente autentica. Perché l’orrore
richiede parole precise, spesso.
Aveva quarantuno anni quando l’esercito arrivò nel villaggio di
Panzós, nella valle del Polochic, il 25 agosto 1982. I militari interruppero la festa per il giorno di santa Rosa da Lima e cominciarono la
“caccia”. Cercavano Mario, il marito di Petrona, “colpevole” di aver
reclamato la proprietà del suo piccolo appezzamento. La versione ufficiale era ovviamente un’altra: Mario e altri 17 contadini delle comunità limitrofe avrebbero fornito cibo e protezione ai guerriglieri. Pec-
D ONNE CHIESA MOND O
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cato che in quella zona non ci fossero formazioni ribelli. Difficile che
le forze armate ignorassero un simile dettaglio. Più probabile, invece,
che la tattica della “terra bruciata” fosse impiegata in modo “flessibile” per regolare i conti tra latifondisti e agricoltori. Mario, quella volta, si salvò fuggendo sui monti insieme alla famiglia. Poco dopo, però, fu scoperto e ucciso. O meglio, fatto scomparire. Quando Petrona
si recò insieme ai quattro figli a chiedere il corpo al neonato distaccamento di Sepur Zarco, divenne lei stessa una “preda”. Anzi, una
schiava. L’esercito obbligò le “vedove” — ma anche, a volte, le figlie e
le sorelle — dei contadini assassinati a servirlo. In tutti i sensi. Le
donne dovevano, a rotazione, lavare le uniformi, cucinare, rammendare, pulire l’interno della guarnigione. E, soprattutto, lasciarsi violentare senza fiatare dalle truppe. In caso contrario, avrebbero fatto
la fine di Dominga Coc e delle figlie, Anita e Hermenilda, picchiate
e seviziate per settimane prima di “sparire”. Per sei mesi — fino al 10
ottobre 1983 quando Steelmer Reyes Girón fu sostituito da un nuovo
comandante — le indigene del Polochic furono costrette a “garantire
il servizio”, secondo l’espressione impiegata all’epoca, dandosi il
cambio ogni tre giorni. «Andavi via sapendo che al ritorno ti avrebbe aspettato lo stesso trattamento. O uno peggiore. Mi hanno stuprato molte volte. E l’hanno fatto anche a mia figlia» racconta Petrona. «Spesso lo facevano in tanti... Quando avevo delle emorragie,
dovevo curarmi con le erbe. Spesso ci facevano delle iniezioni perché
non avessimo bambini» le fa eco Rosa, un’altra delle undici eroine.
«Nel distaccamento, però, sono passate molte più donne» sottolinea
Petrona. Di sicuro, le “schiave” furono diverse decine, almeno una
sessantina. La maggior parte, però, ha scelto il silenzio. Nel timore,
in primis, di una rappresaglia dell’esercito, che rimase a Sepur Zarco
nei successivi sei anni e continuò a pretendere “servizi”, sebbene con
meno regolarità. La paura più grande, però, era il giudizio degli altri. Come spiegare loro che erano vittime se le stesse comunità le
consideravano prostitute o, peggio, traditrici? I rapporti Guatemala
Nunca Más — coordinato dal vescovo Juan Gerardi, assassinato a
causa del suo impegno per i diritti umani — e Memoria del Silencio,
della commissione Onu, aprirono la strada affinché le verità sepolte
potessero riaffiorare. Per superare lo stigma dello stupro ci sono voluti, però, ancora molti anni di paziente lavoro delle attiviste
dell’Unión nacional de mujeres de Guatemala, Mujeres transformando el mundo ed Ecap, riunite nell’Alianza rompiendo el silencio. Nel
2011, quindici indigene hanno presentato la prima denuncia per il
“caso Sepur Zarco”. Cinque anni dopo, è arrivato il tempo della giustizia. Non solo per le undici superstiti rimaste. La sentenza è destinata a fare storia nelle cause sugli stupri di guerra. Perché ciò che è
accaduto a Sepur Zarco non si ripeta. Nunca Más.
25
D ONNE CHIESA MOND O
LA SANTA DEL MESE
La fierezza
del coraggio
femminile
di ELISABETTA RASY
el vasto e prestigioso repertorio
di immagini scaturite dalla storia di sant’Orsola ce n’è una più
umile delle altre ma particolarmente commovente. Si tratta di
un insieme di busti, forse reliquiari, conservati
nel Museo diocesano del capoluogo di una provincia basca, Álava, nella Spagna settentrionale:
è opera di un anonimo scultore del sedicesimo
secolo e raffigura la santa con quattro compagne. Per ognuna di esse l’immagine è costituita
da un breve tratto di busto molto stilizzato e
dalla testa, raffigurata invece con un sorprendente realismo: sembra di vedere davvero, come
se ce le avessimo di fronte, il volto di quelle cinque ragazze con i loro capelli lunghi pettinati
con cura e l’espressione di chi ha fiducia nella
vita, un’immagine di giovinezza femminile che
sfida il tempo, come se affidasse all’eternità una
intramontabile speranza. Nei tanti modi in cui
l’arte ha raccontato la storia di questa fanciulla
N
D ONNE CHIESA MOND O
26
non manca mai l’elemento della serenità del volto e una certa fierezza del coraggio femminile.
Ma che cos’è tale coraggio? E con quali altri
aspetti si intreccia nella storia leggendaria della
santa? E dove nasce la sua potente e ispiratrice
leggenda?
Un piccolo mucchio di ossa, poveri resti
umani lavorati dal tempo: ecco quanto dà fondamento al nucleo di verità storica che è all’origine della vicenda tramandata di Orsola. Le ossa sono state ritrovate a Colonia dove, nella
chiesa a lei dedicata, un’iscrizione ricorda il
martirio di alcune vergini che “sparsero il loro
sangue per il nome di Cristo”. Le vicende della
costruzione e delle successive ricostruzioni della
basilica, unite ad antichi documenti e a testimonianze del culto (già presente tra l’ottavo e il
nono secolo), hanno permesso di collegare quei
resti umani alla persecuzione di Diocleziano, intorno all’inizio del quarto secolo. Ma è a partire
dal decimo secolo, attraverso uno stratificarsi di
successive notizie, che la storia della loro guida,
la giovane Orsola, prende corpo e non smette
di arricchirsi, sollecitando l’immaginazione e la
devozione.
Ecco dunque, contro il fondale di un’epoca
remota in uno scenario nordico, una fanciulla
che riceve una proposta di matrimonio. Non è
una ragazza qualsiasi, ma la figlia di un re, un
sovrano bretone che attraverso tale matrimonio
cerca di stringere alleanze con un giovane principe straniero. Orsola sa bene che il suo assenso
e il suo rifiuto non sono una semplice faccenda
privata: potrebbe andarne della pace o della
guerra del suo popolo. Eppure rilutta, arretra. È
molto giovane, ma non è la sua età a preoccuparla, né a contrariarla è la persona del futuro
sposo. La questione è un’altra: il giovane monarca cui è destinata è pagano. Orsola è cristiana, anche se non avesse consacrato la sua verginità a Dio (come riportano alcune versioni della
sua storia) non può accettare di unirsi a chi non
condivide la sua fede. E qui c’è un primo elemento sorprendente: Orsola non rifiuta il matrimonio, ma chiede una dilazione. Lascia forse allo sposo il tempo per convertirsi, forse fa intendere che lei stessa potrebbe cambiare idea. Ciò
27
D ONNE CHIESA MOND O
NELL’ANTICO TESTAMENTO
che è certo è che prende tempo. Ma cosa significa questo prendere tempo?
Significa non lasciarsi travolgere dal corso
stesso del tempo, significa inserire nel tempo lineare della Storia un tempo diverso, un tempo
meditativo alleato al tempo sacro, che ha il potere di scompaginare le vicende e le volontà
umane. In questo caso, il tempo sacro fa irruzione nella notte. La ragazza fa un sogno in cui
le appare un angelo che le mostra il cammino.
Spesso nell’iconografia della santa l’angelo ha
con sé la palma del martirio, ma prima che il
martirio avvenga accadranno molte cose. Una
soprattutto: Orsola prenderà in mano la propria
vita, non sarà passiva, non cederà e neppure si
limiterà a indietreggiare. Invece, si metterà in
movimento, in maniera imprevista e audace.
Anche se non è che una donna dalla quale ci si
aspetta obbedienza, anzi una ragazza molto giovane e rispettosa del padre, vuole difendere la
sua fede, quella fede per la quale, come scrive
san Paolo ai Galati, “non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù”.
La fede cristiana l’affranca dalla sottomissione
femminile.
La notte, il sogno, l’angelo non annunciano
un evento soprannaturale, ma una decisione:
malgrado la sua età, la sua condizione di donna
e figlia, Orsola darà prova di tenace indipendenza e saprà trasmettere questa indipendenza
alle sue compagne, ragazze come lei che la sosterranno nella scelta di non accettare quel matrimonio e di andare in pellegrinaggio a Roma.
Da qui nasce il suo viaggio: la nave che la trasporterà verso lontani lidi è insieme la Chiesa e
la sua chiesa, cioè la chiesa che la sua stessa decisione sta edificando e contemporaneamente la
lontana chiesa di Inghilterra, che si unisce al
centro della cristianità attraverso l’inaspettato
viaggio a Roma di una ragazza inerme, seguita
da altre ragazze inermi e coraggiose come lei.
D ONNE CHIESA MOND O
28
Erano davvero undicimila quelle fanciulle?
Forse tale cifra, come sostengono alcuni, è soltanto un errore di lettura dell’iscrizione di Colonia. Ma ben s’intende che undicimila, questo
numero così inimmaginabile e dunque fiabesco,
non è che un’amplificazione della forza di Orsola e del gruppo delle sue seguaci, adatto a entrare in una leggenda dove la potenza femminile ha tanto rilievo. Siano state undici o fiabescamente undicimila, certo è che Orsola e il suo
seguito sono una comunità femminile in movimento, capace di alleare alla fede l’azione. Non
meraviglia che nel suo nome Angela Merici abbia fondato nel 1535, a Brescia, l’ordine delle orsoline dedicato all’istruzione delle fanciulle, cioè
a qualcosa che è l’esatto contrario della passività, della inconsapevolezza.
La santa e le sue compagne viaggiano verso
Colonia, poi verso Roma, dove si fanno ascoltare autorevolmente dal pontefice, poi tornano a
Colonia, dove saranno trucidate dai barbari pagani. Ma in tutte le opere che la raffigurano,
dal reliquiario dipinto alla fine del Quattrocento
da Hans Memling come nel meraviglioso ciclo
coevo di Carpaccio, spicca la giovanile fermezza
con cui questa eroina sfida l’ignoto, il mare, gli
aggressori, la morte. E insieme la solidarietà
protettiva che dimostra verso le compagne
(Memling la raffigura persino secondo l’iconografia di Nostra Signora di Misericordia, con le
compagne raccolte amorosamente sotto il suo
mantello).
Ma anche nel cupo olio di Caravaggio dove è
rappresentato il martirio della santa, trafitta dalla freccia che Attila secondo la leggenda le ha
scagliato, sono lo stesso assassino e i suoi sgherri a mostrare sgomento e paura. Orsola invece
guarda con composta accettazione la ferita che
segna la fine del suo viaggio. Nel culto che la
circonda l’avventurosa viaggiatrice diventa presto la protettrice di un altro cammino: l’agente
di viaggio, per così dire, del tragitto che porta
in paradiso.
Ester, il ribaltamento
della cattiva sorte
di MARIA KO HA-FONG
29
D ONNE CHIESA MOND O
Andrea del Castagno
«Ester» (1421 circa - 1457)
ome molte grandi figure della storia, soprattutto quella
biblica, Ester è di umili origini. È un’orfana ebrea, deportata in terra straniera, la cui situazione a un certo
punto cambia, in modo sorprendente, radicale: per misteriosa disposizione di Dio diventa la regina di una
grande potenza mondiale e in questo suo ruolo influente riesce a salvare il suo popolo dal pericolo della distruzione.
C
Ester fa pensare alla fiaba popolare di Cenerentola, che sviluppa
un tema molto conosciuto dal folclore universale, variamente modulato nelle diverse culture, quella di una ragazza orfana inaspettatamente riscattata dalla miseria e dal nascondimento.
La storia di Ester presso la corte persiana è inoltre paragonabile a
quella di Giuseppe in Egitto o di Daniele in Babilonia; la trama in sé
non è inedita nella Bibbia, la novità sta nel fatto che qui abbiamo
una protagonista donna, cioè che qui le meraviglie del Signore si manifestano con stile femminile.
«Piccola sorgente che divenne un fiume» (Ester 10, 3c), la definisce Mardocheo, suo tutore: metafora suggestiva delle grandi cose realizzate nel silenzio, con tenace soavità. L’immagine dell’acqua e del
fiume evoca in me, cinese, un detto di Lao Tzu, un saggio vissuto
nel V secolo prima dell’era cristiana: «L’acqua non lotta per una sua
forma permanente, ma si distende serena tra le braccia di ciascun recipiente. L’acqua del fiume non abbatte e non annienta gli ostacoli,
ma segue la via di minore resistenza per arrivare all’oceano. L’acqua
cerca con gioia di donarsi e cerca sempre il luogo più basso per rendere fecondo il prato che le sta sopra e attorno. L’acqua è umile e sale in alto soltanto quando evapora per innalzarsi quale figlia del cielo». Semplice e limpida, retta e coraggiosa, Ester è la trasparenza del
bene dentro un groviglio di intrighi, di gelosie e di odi, di lotte per
il potere e di tradimenti. Dapprima scorre umile e nascosta, poi
emerge di sorpresa, cresce sicura, fino a travolgere e a sopraffare il
male.
La sua storia è riportata nell’omonimo libro biblico che, insieme a
quello di Rut e a quello di Giuditta, va a formare una trilogia di racconti sapienziali o storie edificanti che portano il nome di una donna. L’aspetto redazionale un po’ complesso di questo libro di Ester
ha avuto come conseguenza che fosse tramandato in due forme diverse: una più concisa in lingua ebraica, l’altra, più ampia, nella versione greca.
La trama si lascia sintetizzare con facilità. Ester vive a Susa, città
babilonese, dove il re di Persia usa trascorrere il tempo invernale. È
sotto la tutela di un parente, Mardocheo, che «l’aveva presa come
D ONNE CHIESA MOND O
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31
D ONNE CHIESA MOND O
gnore, Dio di Abramo» (4, 17y). Ora gestisce saggiamente la sua posizione delicata: dimostra una solida personalità capace di abitare
due mondi tanto diversi, rimanendo se stessa. La nuova regina non è
solo bella e buona, dolce e docile, ma è, soprattutto, uno strumento
di salvezza, intelligente e coraggioso, nelle mani di Dio.
propria figlia». Attorno al 480 prima dell’era cristiana, durante l’esilio d’Israele, Assuero, il potente re persiano «che regnava dall’India
fino all’Etiopia sopra centoventisette province» (1, 1), per sfoggiare la
sua ricchezza imbandisce banchetti lussuosi «per tutto il popolo dal
più grande al più piccolo» (1, 5). Un giorno, al culmine delle celebrazioni, il re decide di esibire il “pezzo” più prezioso del suo possesso: la sua bellissima regina. Ma, colpo di scena, la regina Vasti si
rifiuta di obbedirgli: la donna non si lascia trattare come un oggetto,
si ribella allo sfruttamento. Gravemente offeso, il re s’infuria e la ripudia. Vasti esce di scena, in silenzio, ma con dignità. Il suo diniego
è una sfida e un’ironia. Il potente Assuero, nonostante tutta la sua
strabiliante ricchezza e la sua enorme mania di grandezza, non riesce
a piegare la volontà della moglie.
Il ripudio di Vasti segna l’ascesa rapida della “cenerentola”, che
diventa la regina amata del grande Assuero e di Mardocheo, il quale
entra in servizio nel palazzo. «Di bella presenza e di aspetto avvenente» (2, 7), Ester affascina immediatamente: «Il re si innamorò di
Ester: ella trovò grazia più di tutte le fanciulle e perciò egli pose su
di lei la corona regale» (2, 17). Ester, in realtà, non aveva mai ambito
alla gloria e alla ricchezza di corte, come lei stessa confessa al Signore: «Detesto l’insegna della mia alta carica, che cinge il mio capo nei
giorni in cui devo comparire in pubblico» (4, 17v). Ha sempre conservato il suo cuore integro per il Signore: «La tua serva, da quando
ha cambiato condizione fino a oggi, non ha gioito, se non in te, Si-
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Viene a crearsi, nel tempo, un aspro dissidio fra Mardocheo e
Aman, un funzionario perverso. Questi, avido di potere, ordisce un
piano criminale: eliminare Mardocheo e tutti i giudei presenti nel regno di Persia. Mediante estrazione a sorte, fissa la data precisa dello
sterminio. Il complotto è segreto, ma Mardocheo ne viene a conoscenza. Non riesce, però, a fare niente per opporsi a un decreto imperiale già ratificato. Non gli resta che coinvolgere la regina, l’unica
che può ancora tentare di fare qualcosa. La contatta, le espone la
gravità della situazione, la spinge a impegnarsi, a intervenire, sottolineando la richiesta con parole taglienti, che sono allo stesso tempo
stimolo all’azione e chiave interpretativa di tutta la vicenda: «Non
dire a te stessa che tu sola potrai salvarti nel regno, fra tutti i giudei»
(4, 13). Si tratta di un tema teologico molto importante: il rapporto tra salvezza del singolo e salvezza della
collettività. Nessuno è un’isola, neanche nell’esperienza di fede e di salvezza. Non c’è una salvezza egoistica e non c’è un cammino di fede senza amore per gli
altri. Con una domanda, Mardocheo, quindi, provoca
ulteriormente Ester invitandola a leggere in profondità
la propria vita, in particolare la sua inaspettata ascesa
al trono: «Chi sa che tu non sia diventata regina proprio per questa circostanza?» (4, 14). Fa emergere in
tal modo un altro tema teologico: quello della provvidenza di Dio che tutto dispone secondo un piano misterioso, stupendo, imprevedibile e insondabile.
Ester è posta di fronte a una scelta imprescindibile: rischiare la
propria vita per salvare il suo popolo o salvare la propria vita rischiando la distruzione del suo popolo? Senza esitare, con risolutezza, decide la prima soluzione. Si mette a digiuno per tre giorni, coinvolgendo tutto il popolo, poi pronuncia la lapidaria dichiarazione:
«Contravvenendo alla legge, entrerò dal re, anche se dovessi morire»
(4, 16). Quindi si ritira e prega: con intensità eleva un inno alla potenza e all’amore misericordioso di Dio: «Ricordati, Signore, manifestati nel giorno della nostra afflizione e dà a me coraggio, o re degli
dei e dominatore di ogni potere. Metti sulla mia bocca una parola
ben misurata di fronte al leone e volgi il suo cuore all’odio contro
colui che ci combatte, per lo sterminio suo e di coloro che sono d’ac-
L’autrice
Maria Ko Ha-Fong è
cinese, appartiene
all’istituto delle Figlie
di Maria Ausiliatrice.
Ha studiato Scienze
dell’educazione in
Italia e Teologia in
Germania. Ha
conseguito il dottorato
in Teologia biblica
presso l’università di
Münster. Insegna
Nuovo Testamento e
materie di Pastorale
biblica alla Pontificia
Facoltà di Scienze
dell’educazione
Auxilium a Roma e
periodicamente nel
Holy Spirit Seminary,
a Hong Kong, e in
vari seminari in Cina.
È consultore del
Pontificio Consiglio
per la promozione
dell’unità dei cristiani.
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cordo con lui. Quanto a noi, salvaci con la tua mano e vieni in mio
aiuto, perché sono sola e non ho altri che te, Signore!» (4, 17r-17t).
Rinforzata dalla preghiera si alza e, indossati i sontuosi abiti da regina, va ad affrontare il re. Fiduciosa nel Signore e solidale con i suoi
connazionali, Ester è pronta a collaborare al progetto divino per
cambiare la sorte del suo popolo: «Il suo viso era lieto, come ispirato
a benevolenza». Al di là di tanta bellezza, però, sente battere in sé il
cuore di una donna semplice e umile, consapevole della propria debolezza, impegnata in un’impresa più grande di lei, per cui «il suo
cuore era oppresso dalla paura» (5, 1b). È così che la piccola sorgente emerge dal nascondimento, scorre con sempre maggior forza e decisione, diventa un fiume travolgente.
«Che cosa vuoi, Ester, e qual è la tua richiesta? Fosse pure metà
del mio regno, sarà tua» (5, 3). Il re, mosso da sincero affetto e colpito dal gesto coraggioso della sua regina, promette di realizzare ogni
suo desiderio. Ester sa agire in modo giusto e al momento giusto, così riesce ad affrontare con saggezza l’emotività del re. Imbandisce
ben tre banchetti ai quali invita anche il suo avversario, Aman, che
arriva a illudersi di essere entrato nelle grazie del re e della regina. Al
terzo banchetto, però, quando la vicenda giunge al culmine del pathos, strategicamente Ester rivela al re il meschino complotto di
Aman e il suo piano malvagio di sterminare il popolo ebraico. La
Nell’Antico Testamento la donna emerge come il luogo dialettico
tra la debolezza umana e la forza divina
Prova di ciò che l’essere umano è capace di fare con l’aiuto di Dio
storia termina con l’impiccagione del ministro perverso su quel palo
che proprio lui aveva fatto innalzare per il suo nemico Mardocheo. Il
bene trionfa sul male, dunque, il cattivo subisce l’atrocità da lui stesso preparata per il buono. Il giorno che avrebbe dovuto segnare la fine del popolo di Dio si trasforma così in un giorno di rivalsa. La
cattiva sorte è cambiata in buona sorte.
L’avvenimento è così importante che per ricordarlo viene istituita
una festa, da allora celebrata con gioia lungo i secoli fino a oggi. È
la festa di purim, festa del ribaltamento della sorte, fissata per il 15 di
Adar. Pur significa “sorte”: è un termine di origine persiana, successivamente accolto nella lingua ebraica e trascritto nella forma plurale
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purim. Il senso della festa è ricordare che Dio salva il suo popolo ribaltando le sue sorti. Ed è proprio Ester all’origine di questo ribaltamento. Ester: modello di fede in Dio e di amore per il suo popolo.
In una situazione di prepotenza che sembrava inespugnabile, grazie
a questa giovane donna, il bene vince il male, la vita rinasce, la gioia
rifiorisce sul volto d’Israele. Ester resta nella tradizione ebraica un segno vivo di gioia e di speranza. È lei che riporta la voglia di vivere
nel cuore di un popolo devastato e stremato, è lei che sa intuire nelle
tenebre fitte il bagliore della luce. È lei la piccola sorgente che sgorga in terra arida.
Ester può essere considerata un paradigma della figura femminile
nella Bibbia. Nell’Antico Testamento, nonostante il contesto culturale
a esse sfavorevole, le donne non sono invisibili: le madri d’Israele come Sara, Rebecca, Rachele; le donne carismatiche come Miriam, Debora; le donne esemplari come Rut, Ester, Giuditta; insieme a tante
altre meno conosciute o anonime, tutte queste donne si presentano
interlocutrici di Dio, rivelatrici del suo mistero e collaboratrici nella
realizzazione del suo progetto. Soprattutto nei momenti di crisi e
d’incertezza, nel tempo in cui bisogna affrontare le sfide più dure,
nella situazione in cui si richiede un maggior slancio di speranza, un
supplemento di autenticità umana, di radicalità e di eroismo, ecco
che Dio agisce per mezzo della donna. La donna emerge nell’Antico
Testamento come il luogo dialettico tra la debolezza umana e la forza divina, la prova autentica di ciò che l’essere umano è capace di fare con l’aiuto di Dio.
In mezzo alla schiera femminile emerge Maria, la «benedetta fra le
donne», la donna umile in cui Dio opera «cose grandi», la più alta
manifestazione dell’identità stessa di una donna: essere lo spazio
ideale dove Dio manifesta la sua gloria e celebra la sua vittoria di
salvezza. Come Ester e più di lei, Maria guarda con ottimismo realistico la scena del mondo, vive con speranza gli alti e bassi della storia. Ella si fida di Dio, si fida dell’onnipotente che ha fatto e che
continua a fare «grandi cose». Con il suo canto del Magnificat Maria
annuncia, testimonia e celebra la vittoria di Dio. Il rovesciamento
delle posizioni tra ricchi e poveri, tra potenti e umili, tra forti e deboli, è segno e manifestazione di questa vittoria escatologica già presente col farsi uomo del figlio di Dio. Il Magnificat di Maria trascende la gioia di purim, anticipa l’exsultet pasquale celebrando un passaggio, un definitivo ribaltamento della sorte dell’umanità. Nella storia di Ester e più ancora nel canto di Maria emerge la voce rassicurante di Gesù: «Voi avrete tribolazione nel mondo, ma abbiate fiducia; io ho vinto il mondo!» (Giovanni, 16, 33).
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ARTISTE
Essenziale
che cerca
il figurativo
di ENZO BIANCHI
a pittura di Odile Escolier, artista
francese che vive a Chambéry da
ventisette anni, affonda le radici
nell’esperienza artistica informale di
area francofona: il tratto di Jean
Dubuffet, la gestualità di Georges Mathieu, la
materia di Jean Fautrier. In queste radici si ritrovano l’uso di materiali differenti, la forza del
gesto e del segno, le infinite possibilità espressive che la materia pittorica riesce a ottenere.
L
Esperienza sempre feconda perché capace di
produrre e riprodurre codici, quasi delle grammatiche tipiche per ogni esponente di cui si riesce a riconoscere la cifra stilistica. Da queste radici Odile Escolier fa nascere un linguaggio che
riporta forma, materia e gesto verso la figurazione, non impoverendo le possibilità espressive di
questi strumenti.
L’uso del colore è ricercato, sapiente, meditato e i fondi dei quadri si infittiscono utilizzando
diversi strati che la gestualità fa emergere a seconda della potenza del gesto stesso. Scrive
Escolier: «Le pitture che nascono sono il risultato di tutte le emozioni e le sensazioni incasto-
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lega i tre viandanti. Quello
che si coglie è la presenza,
non la caratterizzazione, ma
quella presenza che appartiene a tutte le storie che si
incrociano.
La pittura di Odile Escolier contiene l’universalità
delle forme semplici e trasversali, capaci di raccontarsi a ogni epoca e cultura.
Nella grande tela della pesca miracolosa, nell’azzurro
di un’alba radiosa, i discepoli in barca intravedono
chi sta sulle acque del mare,
pronti al grido: «È il Signore!». E Gesù si avvicina loro... Quando contempliamo
le tele di Escolier, non a caso presenti nella nostra chiesa di Bose, ci sentiamo di
appartenere in qualche modo alla raffigurazione, al
senso di attesa che la attraversa, come se questi segni
Odile Escolier, «Emmaus»; nella pagina precedente «La nave»
fossero presenti nella nostra
memoria con il compito di
nate nella memoria viva, coscienti e incoscienti,
riportarci a quel momento di vita in cui li abbiamo incrociati.
individuali e collettive. Spesso dipingo contemporaneamente su diverse tele, favorendo il temOdile Escolier è una pittrice essenziale che
po del seccare dei colori, tempo di incubazione
accenna al figurativo, dando la possibilità di dinecessario per prendere una distanza: una tela
scernimento di una parola biblica nelle sue opein corso d’opera può rimbalzare in ogni istante.
re: è un’artista per la quale l’umano e la natura
Permettergli questa apertura è un atto di libertà,
restano le ispirazioni principali. Infatti l’umaniuna rinuncia a controllare tutto e lasciare invece
tà nella sua fragilità mostra la sua bellezza e il
che questa meraviglia nascosta emerga e si svisuo mistero, in un’opposizione tra ambiente e
luppi al di là delle nostre azioni coscienti, fare
soggetti che evidenzia l’istante presente.
spazio al caso, agli accidenti sulla tela... Il pittoHo conosciuto Odile Escolier a una mostra a
re nutre la sua tela, ma la tela nutre il pittore».
Parigi e da lì è nata una grande e profonda amiInchiostri, pastelli, acrilici, tecniche miste con
cizia. Così ho visto alcune delle sue esposizioni
un uso sapiente della spatola diventano sulle tein Francia, mentre altre sono state realizzate in
le di Odile Escolier materia viva attraversata da
Belgio, Austria, Irlanda, Stati Uniti, Emirati
crepe, spazi, ispessimenti, come se la pittura si
Arabi, Russia, Giappone. Conosciuta e apprezfacesse scultura. Così nasce un mondo, nascono
zata a livello internazionale, ama la semplicità
soprattutto delle presenze umane, nascono indella vita tra le montagne di Chambéry e persecontri sulle vie della terra o del cielo. Si veda
gue una ricerca spirituale profonda, soprattutto
nella tela Emmaus dove le tre figure di Cristo e
cristiana, ma senza erigere muri. È una pittrice
dei discepoli camminano insieme in un rosso inche cammina e sa discernere chi è in attesa sulla
strada percorsa.
fuocato e cupo, ma in attesa di un evento che
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MEDITAZIONE
a cura delle sorelle di Bose
Il fuoco
interiore
LUCA 12, 49-53
esù è in viaggio verso Gerusalemme, verso il luogo dove si
compie il suo destino e ancora
una volta ai suoi discepoli di allora, e a noi discepoli e ascoltatori di oggi, vuole ricordare la meta di questo
viaggio: la sua morte e la sua resurrezione. Gesù svela in questo modo la via per l’esistenza
del discepolo, la riempie di contenuto e definisce tale esistenza come un “seguirlo”, e un seguirlo nel suo amare sino alla fine. Anche questo brano dell’evangelista Luca — che troviamo
scomodo, a tratti duro, forse un po’ fuori luogo
e fuori tempo, che saremmo tentati di tralasciare
o addolcire — anch’esso indica alcuni passi di
questa sequela.
G
Duccio di Buoninsegna, «Apparizione agli apostoli»
(1308-1311, particolare)
a pagina 40: Duccio di Buoninsegna
«Cristo prende commiato dai discepoli» (1308-1311)
«Sono venuto a gettare fuoco sulla terra».
Quale fuoco, possiamo chiederci? C’è un fuoco
che Gesù rifiuta sdegnosamente. Quello che
Gesù è venuto a portare non è un fuoco divora-
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tore; egli prende le distanze da coloro che vogliono appiccare il fuoco della durezza e del
giudizio, quello che avevano invocato Giacomo
e Giovanni pochi capitoli prima, sdegnati per il
rifiuto dell’ospitalità in un villaggio di samaritani (cfr. Luca, 9, 54). Il suo è un fuoco interiore,
lo stesso che ardeva nel cuore dei profeti e che
Geremia confessa di possedere, «un fuoco ardente chiuso nelle sue ossa, incontenibile» (cfr.
Geremia, 20, 7-9): è il fuoco, la passione per la
parola di Dio. È questo il fuoco che Gesù vorrebbe accendere per trasformare i nostri cuori di
pietra in cuori di carne: la passione per Dio e la
passione per l’altro, per il volto di Dio e per il
volto dell’altro, unico fuoco, unica passione; la
passione per Dio, fuoco ardente, quello zelo per
la sua casa che portò un giorno Gesù a scacciare i mercanti dal tempio. Questo sì è un fuoco
che Gesù vuole: il fuoco che consuma le false
immagini religiose di una fede ridotta a mercato. Fuoco è anche lo Spirito effuso dalla croce
dopo la sua morte, fuoco che abita in ciascuno
di noi e che cerca di farsi spazio e luce per illuminare e liberare le nostre vite. Ma proprio questo fuoco che lo divora diviene causa di divisione, di incomprensione per molti.
«Pensate che sia venuto a portare pace sulla
terra? No, io vi dico, ma divisione». Gesù sarebbe venuto sulla terra per questo? Lui, il mite, l’umile di cuore, che si era presentato all’inizio del suo ministero come colui che era stato
mandato a portare ai poveri il lieto annuncio?
Gesù è venuto come uomo di pace, ma proprio
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40
il suo vivere l’amore incondizionato fino
all’estremo ha provocato l’effetto opposto, facendone per molti un segno di contraddizione,
una pietra d’inciampo. Con le sue parole e le
sue azioni Gesù diventa uno spartiacque che
mette in crisi perfino i legami familiari, i legami
più naturali di ogni vita umana. L’opposizione
che ha toccato l’esistenza di Gesù toccherà anche la vita dei suoi discepoli: i suoi familiari lo
considerano pazzo e vanno a prenderlo perché
stentano a capire (cfr. Marco, 3, 21), ma lui non
scende a compromessi e con forza si oppone loro dicendo che «sua madre e i suoi fratelli sono
coloro che ascoltano e mettono in pratica la parola di Dio» (cfr. Luca, 8, 20-21). La sequela è
esigente, ci è chiesto di considerare, verificare e
scegliere come un buon costruttore di torri o un
ottimo stratega in guerra, se cominciare o meno
il viaggio con lui; durante il viaggio, si tratta di
lottare ogni giorno per morire a se stessi e vivere solo in Dio e per Dio, facendo della rinuncia
a ciò che non è essenziale, a ciò che ci è d’intralcio e ci distoglie dalla meta, la cifra della nostra intera esistenza. La battaglia è quotidiana,
però il fine di questa guerra è l’acquisizione di
quella pace e di quella gioia che niente e nessuno potrà toglierci, e l’imparare il dono di sé, il
vero amore. L’obiettivo, il punto di arrivo è
quella carità che sola può dare la forza di realizzare finalmente la morte a se stessi per vivere in
Dio; il fine è l’autentica carità, che è allo stesso
tempo e indissolubilmente amore di Dio e amore del prossimo.