Stupro di guerra - L`Osservatore Romano
Transcript
Stupro di guerra - L`Osservatore Romano
DONNE CHIESA MONDO MENSILE DELL’OSSERVATORE ROMANO NUMERO 50 OTTOBRE 2016 CITTÀ DEL VATICANO Stupro di guerra numero 50 ottobre 2016 L’INTERVISTA Più pericoloso essere donna che soldato Joyce Anelay sulla tragedia degli stupri di massa SILVINA PÉREZ SPIRITUALITÀ FO CUS Asia: dalla diseguaglianza la violenza Affinché non si ripeta mai più WENDY LOUIS IN A PAGINA 11 A PAGINA 17 LUCIA CAPUZZI A PAGINA 3 A PAGINA 23 A PAGINA 26 NOVEMILA CARATTERI Crimine contro i diritti umani ANNA FOA CINEMA Uno zoom sulla violenza EMILIO RANZATO A PAGINA LA 22 SANTA DEL MESE La fierezza del coraggio femminile ELISABETTA RASY NELL’ANTICO TESTAMENTO Ester, il ribaltamento della cattiva sorte MARIA KO HA-FONG A PAGINA 29 ENZO BIANCHI A PAGINA 36 BOSE A PAGINA 39 ARTISTE Essenziale che cerca il figurativo MEDITAZIONE Il fuoco interiore A CURA DELLE SORELLE DI L’EDITORIALE L’INTERVISTA Perché gli stupri In copertina: gli abiti indossati dalle donne violentate durante la guerra in Kosovo esposti nello stadio di Pristina (Ap) D ONNE CHIESA MOND O Mensile dell’Osservatore Romano a cura di LUCETTA SCARAFFIA In redazione GIULIA GALEOTTI SILVINA PÉREZ Comitato di redazione CATHERINE AUBIN MARIELLA BALDUZZI ANNA FOA RITA MBOSHU KONGO MARGHERITA PELAJA Progetto grafico PIERO DI D OMENICANTONIO www.osservatoreromano.va [email protected] per abbonamenti: [email protected] D ONNE CHIESA MOND O 2 Lo stupro è una delle armi più efficaci nel corso delle guerre, per questo è così intensamente praticato. È anche un tipo di violenza che non solo ha effetto immediato sull’oggi, ma fa sentire le conseguenze ancora per molto tempo dopo. Possiamo dire che ipoteca il futuro. Ce lo spiega, con grande chiarezza e lucidità, una suora congolese che opera nell’assistenza alle donne stuprate nel suo paese. Di lei non diremo il nome, per proteggerla da eventuali ritorsioni nel pericoloso contesto nel quale vive ed opera. La tortura di donne e bambini è spesso un’arma per perpetrare genocidi in situazioni di occupazione. Gli organismi ufficiali spesso velano gli effetti di una situazione reale. Le violenze sono un modo per cacciare le popolazioni da parte del terrorismo. Nei villaggi abbandonati arrivano subito dei non-indigeni, spesso protetti in nome delle minoranze. Beneficiando pertanto della protezione degli organismi internazionali, essi si stabiliscono in un certo senso a spese degli abitanti originari, il cui parere nessuno richiede. Ciò crea nuove cause di conflitto. Ma soprattutto è necessario arrivare a identificare con chiarezza le cause del disastro. Si parla di ribelli, di soldati dell’esercito regolare, di bande di banditi, di lotte fra villaggi o fra etnie... La localizzazione delle case incendiate e delle terre più devastate ha un denominatore comune: sono sempre luoghi con molte risorse vitali e molte risorse minerarie. Il processo è questo: si semina prima la desolazione, la popolazione fugge, gli invasori si stabiliscono e vivono delle risorse di questo ambiente occupato, mentre gli autoctoni in fuga sono abbandonati. Li si perseguita, si violentano le donne e i bambini, si uccidono gli uomini... ma in tutto questo non c’è chiarezza. Ci sono certamente delle risorse nascoste che spiegano i crimini. Bisogna cercarle verificando chi cerca di accaparrarsi le risorse esistenti. Si è come in uno stagno in cui si muove l’acqua per pescare il pesce. Più pericoloso essere donna che soldato Per Joyce Anelay, segretario di Stato per il Commonwealth e le Nazioni Unite, occorre vincere il silenzio dietro il quale si nasconde la tragedia degli stupri di massa di SILVINA PÉREZ «D all’analisi delle guerre nel mondo negli ultimi trent’anni, c’è un dato che emerge con chiarezza: è più pericoloso essere una donna che un soldato, quindi capire le modalità delle violenze sessuali contro le donne è una fatica necessaria perché la prima barriera da infrangere è proprio quella del silenzio», e romperlo «è già un atto politico». Lo sostiene la baronessa Joyce Anelay, segretario di Stato per il Commonwealth e le Nazioni Unite nel ministero degli Esteri britannico. «I dati infatti parlano di una situazione da bollettino di guerra. Secondo le agenzie delle Nazioni Unite più di 60.000 donne sono state stuprate durante la guerra civile in Sierra Leone (1991-2002), più di 40.000 in Liberia (1989-2003), fino a 60.000 nella ex Jugoslavia (1992-1995), e almeno 200.000 nella Repubblica Democratica del Congo durante gli ultimi 12 anni di guerra. Nel Sud Sudan, sempre secondo l’ultimo rapporto dell’Agenzia per i diritti umani delle Nazioni Unite, si sono verificati più di 1300 casi di stupro tra aprile e 3 D ONNE CHIESA MOND O settembre del 2015 solo nello Stato di Unity e più di 50 casi da settembre a ottobre. Ma non solo. In dieci missioni di caschi blu, sulle 16 operative nel 2014, sono stati denunciati 52 casi di stupro di bambini e altre violenze sessuali commessi da soldati, agenti di polizia e volontari. Nel 2015 il numero è salito a 69 (e si tratta solo dei casi venuti alla luce). Una delle missioni dei caschi blu sotto inchiesta da mesi è la Minusca, quasi 12.000 unità tra militari, agenti di polizia e personale civile, incaricata di riportare l’ordine nella Repubblica Centrafricana, un paese in guerra dalla fine del 2012. Dopo lo stupro di una bambina di soli 12 anni, violentata lo scorso agosto durante una operazione affidata a peacekeeper inviati dal Rwanda e dal Camerun, si sono scoperti altri casi di violenza sessuale su bambini di strada». In molti conflitti contemporanei privi di linea del fronte, dove a combattersi sono sigle paramilitari con alleanze ambigue e volatili, il corpo delle donne è diventato un campo di battaglia. Cosa si deve fare per contrastare queste tragedie? Fin dal XIX secolo anche i conflitti armati sono sottoposti a particolari norme di diritto internazionale, ma la natura delle guerre del passato era molto diversa da quella attuale, così le stesse norme giuridiche che regolano i conflitti hanno subito negli ultimi cento anni una rapida evoluzione. Prima, infatti, il diritto tradizionale disciplinava soltanto i conflitti armati tra Stati e considerava legittimi combattenti esclusivamente i membri degli eserciti regolari. Oggi la situazione è cambiata. Prendiamo ad esempio la Repubblica Democratica del Congo, che dalla metà degli anni Novanta è al centro di una guerra senza precedenti nella storia africana per violenza e dimensioni. Più di venticinque fazioni ribelli e ben otto eserciti che si combattono senza tregua. Qui, gli stupri di massa su donne e bambini sono all’ordine del giorno (quasi una violenza al minuto) e sono compiuti tanto da ribelli quanto da membri delle forze di sicurezza statali. Nuovi problemi, nuovi scenari hanno aperto la strada verso nuove risposte. Nel 2008, abbiamo raggiunto un accordo storico per porre fine alla violenza sessuale nei conflitti: da quel momento in poi stupri e violenze sessuali nelle zone di conflitto costituiscono gravi violazioni della Convenzione di Ginevra, al pari dei crimini di guerra. Strada che è stata aperta dalle Nazioni Unite che hanno approvato alcuni anni fa la risoluzione 1820, una norma nella quale già allora si minacciavano azioni repressive contro i responsabili delle violenze nei confronti del genere femminile di fronte alla Corte penale internazionale dell’Aja. Tra le altre cose, la risoluzione definisce l’abuso una strategia «per umiliare, dominare, spaventare, disperdere o ricollocare a forza, i civili membri di una comunità o di un gruppo etnico». Il D ONNE CHIESA MOND O 4 Regno Unito è in prima linea negli sforzi internazionali per promuovere i diritti umani, migliorare il mantenimento della pace, promuovere la partecipazione delle donne ai processi di pace e porre fine alla violenza sessuale nei conflitti. Ma questa è una responsabilità collettiva e non può essere realizzata da un solo paese. Come proteggere queste donne? Come ha riconosciuto la risoluzione delle Nazioni Unite, ben lontano dall’essere incidentale, un tal genere di violenza costituisce una vera e propria tattica di guerra. E possiamo dire che nel XX secolo, se da un lato si afferma lo status giuridico dello stupro come crimine contro la persona, dall’altro la violenza di massa contro la popolazione femminile diviene parte della strategia politico-militare e strumento di pulizia etnica, usato per terrorizzare l’intera comunità di appartenenza. Ovviamente in questo contesto le norme internazionali sono fondamentali, ma da sole non bastano. Proprio per questo le comunità locali, in particolare le comunità religiose cattoliche e le donne di congregazioni religiose — spesso gli unici a rimanere durante e dopo la fine dei conflitti — sono fondamentali. La loro grande determi- Ayak, una donna del Sud Sudan, fotografata da Lynsey Addario (2015). Questa immagine, emblema dello stupro come arma di guerra, è stata pubblicata sulla prima pagina del «Time» nel marzo di quest’anno 5 D ONNE CHIESA MOND O nazione e il loro impegno sono lodevoli. Esse svolgono un ruolo molto importante nella cura dei più vulnerabili, nel sostenerli e supportarli anche nel percorso di ricerca della giustizia. E difficile lavorare in questi paesi. Ad esempio, v’è la tendenza, tra gli africani, a dare agli altri le colpe d’ogni cosa, un atteggiamento che esonera dall’assunzione delle proprie responsabilità, legato all’esistenza di alcune superstizioni che tardano a essere estirpate ma sopravvivono nella quotidianità, e ogni motivo sembra essere buono per esercitare violenza sessuale sulle donne. Quindi ci vogliono non solo norme giuridiche adeguate, ma servono anche comunità che dal basso possano lavorare a fianco delle vittime. Occorre infatti rapidamente invertire la rotta, combattere l’impunità, ma da dove cominciare? Dall’educazione: questa è la risposta, senza per questo dimenticare la dimensione giuridica. Una delle priorità del Regno Unito per il 2016 è quella di affrontare ad esempio la stigmatizzazione dei sopravvissuti che sono vittime di violenza e per questo sono emarginati dalle loro famiglie e comunità. Ecco perché è molto importante la presenza dei religiosi, ma noi dobbiamo andare ancora oltre, garantendo alle vittime norme internazionali e una possibilità concreta di un reinserimento nella società. Lo stupro, più dell’omicidio, semina terrore tra i civili, disgrega le famiglie, distrugge le comunità e, in alcuni casi, modifica la composizione etnica della generazione successiva. Cosa fanno le nazioni per cancellare definitivamente la cultura dell’impunità per questi crimini, che sappiamo praticati anche tra le file dei peacekeeper? Joyce Anne Anelay Joyce Anne Anelay, baronessa Anelay di St Johns, è nata il 17 luglio 1947. È ministro di Stato del ministero degli Esteri e del Commonwealth dal 6 agosto 2014. Tra le principali protagoniste del summit delle Nazioni Unite D ONNE CHIESA MOND O 6 sul peacekeeping a Londra, ha denunciato severamente il fenomeno delle violenze e degli abusi sessuali commessi da caschi blu in missione. È la rappresentante speciale del primo ministro per la prevenzione della violenza. Sono centinaia di migliaia le donne che nel corso delle guerre vengono violentate e stuprate e senza alcun dubbio si tratta di una gravissima violazione dei diritti umani. Purtroppo abusi sessuali da parte di caschi blu sono stati documentati dalla Bosnia e il Kosovo fino alla Cambogia, a Timor Est, nell’Africa occidentale e in Congo. L’Onu ha adottato una linea di “tolleranza zero” nei confronti di questi crimini e un codice universale di condotta che fa parte integrante della formazione dei peacekeeper. E quando le accuse di violazioni da parte di personale dell’Onu sono accertate, i responsabili vengono rimpatriati e banditi per sempre da future operazioni di peacekeeping. L’Onu cerca di perseguire i casi fin dove può, poi spetta ai tribunali e ai governi nazionali fare la loro parte. La comunità internazionale ha riconosciuto finalmente che la violenza sessuale non è solo un problema individuale delle vittime, ma mina la sicurezza e la stabilità delle nazioni e in quest’ottica bisogna esortare i governi di tutto il mondo a rispettare i loro obblighi sui diritti umani e fare di più per prevenire le violazioni dei diritti umani e gli abusi. Il passo successivo vedrà l’istituzione di un protocollo internazionale A pagina 6 nella foto grande una bambina in un campo profughi in Sud Sudan (Ap) 7 D ONNE CHIESA MOND O Una donna della Repubblica Centrafricana tra i resti della casa dalla quale è stata costretta a fuggire D ONNE CHIESA MOND O 8 per le indagini sugli abusi nelle zone di guerra, e il Regno Unito avrà il compito di elaborare e definire tutti i dettagli con il sostegno di diversi esperti internazionali. L’accordo di Londra del 2008 è stato un passo storico, ma non dimentichiamo che bisogna partire dalla cultura se vogliamo fermare davvero la violenza, perché a rendere possibile lo stupro di massa sono state e sono ancora oggi la subordinazione e la discriminazione subite dalle donne, vittime di mentalità e di culture che giustificano o ridimensionano gli abusi. Tutte le forze di pace hanno bisogno di essere ben addestrate, equipaggiate e approvate prima della loro discesa in campo. A terra, abbiamo bisogno di leader capaci e coraggiosi. Questo è il motivo per cui il Regno Unito non è solo uno Stato che addestra le truppe, ma fornisce anche il supporto di programmi per migliorare le strutture di formazione e sostenere potenziali futuri leader. Siamo in prima linea anche nel processo di raccolta e documentazione delle prove degli stupri avvenuti, per sostenere la formazione di tribunali locali nei paesi dove accadono questi fatti. Quali sono oggi le zone più calde nel mondo? Ci può raccontare in quali angoli del pianeta le donne rischiano di più? Nel Sud Sudan la situazione è molto difficile. Dal 2013 si combatte una crudele guerra civile, una lotta di potere tra il presidente Salva Kiir (etnia dinka) e il suo ex vice Riek Machar (etnia nuer). Hanno ridotto gran parte della popolazione alla fame, alla disperazione e il peso maggiore, il dolore più grande, grava sulle donne. Qui siamo davanti a un caso di «uso massiccio della violenza sessuale come strumento per terrorizzare e come arma di guerra» come l’Onu più volte ha ribadito. Secondo l’Onu, i soldati governativi e le milizie alleate sarebbero i primi responsabili di violenze sessuali su vasta scala, legittimate o incentivate dalle stesse autorità, come ricompensa per chi combatte (e magari non riceve alcuno stipendio). Il team di investigatori dell’Onu denuncia una specie di tacito accordo che avrebbe permesso ai militari di «fare tutto quello che potevano e prendersi tutto quello che trovavano», compreso il furto di bestiame e di altri beni. Qui bisogna intervenire presto ed efficacemente. 9 D ONNE CHIESA MOND O SPIRITUALITÀ di WENDY LOUIS Asia: dalla diseguaglianza la violenza L D ONNE CHIESA MOND O 10 a disuguaglianza o lo squilibrio fra donne e uomini crea instabilità e dà origine alla violenza. In popolazioni più paritarie la violenza è molto ridotta. La fonte della disuguaglianza è la dilagante convinzione culturale, sociale e concettuale secondo cui le donne sono create per gli uomini e gli uomini sono superiori. Questa superiorità si traduce nella nozione di “possesso” dell’oggetto. E ciò vale nella società ma purtroppo anche nella Chiesa. Vengo da Singapore, dove si tende a pensare che benessere, sviluppo economico, ottima assistenza sanitaria ed educazione significhino automaticamente che è stata raggiunta l’uguaglianza di genere. Molti uomini e donne credono che non ci sia bisogno di vigilare sulla disuguaglianza di genere sul posto di lavoro o a casa; ossia sulla violenza domestica, l’abuso sessuale, le molestie sessuali e la mercificazione del corpo femminile. Per sfatare questo mito basta visitare l’Association for Women’s Action and Research, che offre assistenza telefonica, riparo e aiuti d’emergenza alle donne vittime di violenza. Anche il Singapore Council of Women’s Organizations ha una casa rifugio per donne e bambini che necessitano di protezione. Un esempio di disuguaglianza che crea violenza è la presenza a Singapore di “spose straniere”. Qui, gli uomini con scarso livello d’istruzione, in- 11 D ONNE CHIESA MOND O Ma c’è anche chi, come Amrita, nel Nepal, è riuscita a convincere i genitori a non accettare la proposta di matrimonio ricevuta quando lei aveva solo sedici anni e ad aspettare finché non avesse compiuto almeno vent’anni, e nel frattempo ha completato gli studi. DAL MOND O Insieme alle vittime Papa Francesco ha incontrato due donne italiane vittime di abusi del clero. Lo ha riferito padre Hans Zollner, della Pontificia commissione per la tutela dei minori. Le vittime hanno consegnato al Papa due libri, pubblicati quest’anno: Giulia e il lupo e Vorrei risorgere dalle mie ferite. Il primo è sull’esperienza di una giovane abusata da un sacerdote in Italia. L’altro è sulle donne consacrate, che vengono abusate da sacerdoti. «Il Papa — ha riferito Zollner — è stato molto impressionato da ciò che hanno detto queste donne e ha chiesto di poter seguire anche questa vicenda». Padre Zollner ha anche anticipato che è allo studio l’istituzione di una giornata di preghiera per le vittime, una veglia penitenziale e la realizzazione di un >> 15 D ONNE CHIESA MOND O 12 Lo United Nations Women’s Committee di Singapore ha dichiarato: «Cosa più importante, occorre convincere i membri della società a rivedere e a cambiare quegli atteggiamenti e comportamenti tradizionali che relegano le donne a un ruolo inferiore nella società e incoraggiano la violenza maschile. Educare i ragazzi e gli uomini a vedere le donne come partner alla pari è indispensabile per costruire una società orientata alla pace e al progresso». capaci di trovare moglie, guardano al Vietnam e alla Cina dove donne, spinte dalla povertà, accettano le loro proposte di matrimonio per mantenere la propria famiglia. Secondo Chong Ning Qian, responsabile della ricerca alla Aware, «le mogli straniere provenienti da contesti socio-economici più poveri di quelli dei loro mariti di Singapore possono essere più esposte a maltrattamenti. Il fatto di dipendere dal proprio marito per la residenza, la cittadinanza e il diritto al lavoro pone queste donne in una posizione di disparità e rende a quante subiscono abusi più difficile cercare aiuto». Donne e bambine sono viste come merce o pesi in tanti paesi dell’Asia, come dimostrano le usanze e le leggi legate al matrimonio e alla sessualità. Un esempio diffuso di questa disparità sono le “spose bambine”. L’organizzazione Girls Not Brides racconta le storie di molte giovani costrette a sposarsi e soggette ad atti di prepotenza e violenza domestica. La violenza proviene dalla famiglia del marito, che le tratta come schiave e spesso le dileggia perché la famiglia non è riuscita a pagare la dote richiesta. Di solito il marito ha molti più anni e stupra la ragazza. Il fatto che molte ragazzine subiscano gravi violenze e ne muoiano ha spinto alcuni paesi a promulgare leggi per vietare i matrimoni con ragazze minori di 18 anni. Nel suo messaggio per la Giornata mondiale di preghiera per la pace del 2017 Papa Francesco parla del bisogno di pari diritti e di rispetto tra le nazioni per evitare violenze e conflitti. Applicando lo stesso principio, la disuguaglianza e la convinzione che gli uomini siano in qualche modo moralmente e fisicamente superiori generano l’atteggiamento di sopraffazione e influenzano profondamente le nostre risposte. Nella Evangelii gaudium, come pure in Amoris laetitia, Papa Francesco definisce la violenza domestica come una minaccia non solo per il benessere della donna, ma anche per la famiglia e la società. Cita le strutture patriarcali tra i responsabili della violenza contro le donne e nelle società. Da notare la connessione costante tra disuguaglianza e violenza. Per esempio, nel caso dei lavoratori domestici stranieri in Asia e nel Medio oriente, le leggi favoriscono il datore di lavoro. I lavoratori domestici stranieri non sono considerati uguali agli altri cittadini in termini di diritti legali e quando subiscono abusi sessuali o verbali o vengono picchiati si sentono in trappola e impotenti. La disuguaglianza di fronte alla legge è un altro aspetto della disuguaglianza che fa spesso da sfondo alla violenza e all’ingiustizia. La realizzazione di un murale per la sede del Singapore Council of Women’s Organizations La sensazione di essere in trappola non riguarda solo i lavoratori immigrati legati a un particolare datore di lavoro, che non hanno diritto a cercare un altro impiego. Riguarda anche milioni di donne imprigionate in matrimoni nei quali le usanze e la cultura le hanno destinate a giornate interminabili di duro lavoro, oltre che a essere malnutrite, non istruite e ultime nella fila per l’assistenza sanitaria. Ciò che era piuttosto comune fino alla prima parte del XX secolo persiste ancora oggi in molte culture asiatiche, anche in famiglie relativamente benestanti. Dalle nuore ci si aspetta che si occupino di tutte le faccende domestiche e che soddisfino tutte le irragionevoli richieste dei loro suoceri senza lamentarsi. Nel suo libro From Fear to 13 D ONNE CHIESA MOND O >> 12 modello guida per le Conferenze episcopali. Freedom, la dottoressa Rilly Ray Rajkumar descrive la vita di sua madre a Calcutta come giornate interminabili di estenuanti faccende domestiche, senza alcun aiuto e attenzione da parte dei suoi suoceri. Per essere certa che le sue figlie non subissero la stessa sorte, convinse il marito ad andare in Malesia, che a quel tempo era sotto il governo britannico. Si trasferirono poco prima dello scoppio della guerra mondiale, ma alla fine tutto andò bene e le figlie riuscirono a raggiungere i vertici nella loro professione. Un altro fattore importante che crea il contesto per la violenza contro le donne è la povertà, che, unita alla disuguaglianza, rende la vita molto più insostenibile per le donne e i bambini che per gli uomini. Quando il denaro è poco o inesistente, le ultime a mangiare sono le donne, le ultime a ricevere un’istruzione sono le figlie femmine e solo i maschi possono beneficiare dell’assistenza sanitaria. Le ragazze vengono vendute ad agenti che le rivendono, destinandole alla prostituzione e a un lavoro che equivale a vera e propria schiavitù, con una paga minima o nulla e senza diritti. Nel 2001 a Bangkok, in Thailandia, ho conosciuto una giovane proveniente dal nordest del paese. Era ancora adolescente ed era ragazza madre. Per poter provvedere al figlio lo aveva lasciato con la sua famiglia — dei contadini molto poveri — ed era venuta a cercare lavoro in città. A Bangkok era finita nella rete della prostituzione, fino a quando una ong l’ave- Quando il denaro è poco o inesistente le donne sono le ultime a mangiare e le ultime a ricevere un’istruzione Le ragazze vengono vendute e rivendute destinate alla prostituzione o a un lavoro da schiave va salvata e le aveva dato aiuto per aprire una piccola attività come venditrice ambulante di ciambelle. Quando l’ho incontrata aveva degli amici e si sentiva al sicuro, dopo tanti mesi di traumatica violenza sessuale e fisica. Le donne sono profondamente deluse dal fatto che la Chiesa sia molto in ritardo nel dare la necessaria testimonianza per cambiare la percezione dell’uguaglianza e della complementarità tra uomo e donna. Esempi di scandaloso comportamento di sacerdoti e religiosi nei confronti delle donne e dei bambini deriva da un senso di impunità che nasce dalla profonda e radicata convinzione della superiorità ma- D ONNE CHIESA MOND O 14 schile. Invece di sfidare la società con il Vangelo, molto spesso la Chiesa offre una testimonianza contraria. Il divario tra clero e laicato è incolmabile persino per i laici uomini, e quindi lo è ancora di più per le donne laiche. Ecco un semplice esempio. A Singapore i ministranti sono tutti ragazzi. La giustificazione per l’esclusione delle ragazze è che servire durante la messa porta molti ragazzi a prendere in considerazione il sacerdozio come loro vocazione. Le ragazze costituirebbero una distrazione e potrebbero portare a una diminuzione del numero dei ragazzi che servono durante la messa e che rispondono alla vocazione. Ma potrebbero anche esserci implicazioni non confessate. In primo luogo, la percezione che le ragazze non possono servire l’altare perché meno degne e meno sante. La “vocazione” delle donne non è importante. La disuguaglianza è esistenziale. Il libro della Genesi dice «a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò». Come può la Chiesa, nella società, avere un ruolo guida contro la violenza inflitta alle donne se le cause fondamentali della violenza non vengono riconosciute o affrontate? C’è un lungo elenco di crimini contro le donne. Omicidi “d’onore” di donne accusate di “disonorare” la propria famiglia con le loro relazioni, l’abbigliamento o la ribellione; gli aborti selettivi, dove il feto femminile viene abortito poiché la coppia vuole solo un figlio maschio. Questa situazione era molto diffusa in Cina fino al recente allentamento della politica del figlio unico. In India è illegale, ma viene ancora largamente praticato. Uno studio indica che dalla popolazione indiana mancano 10 milioni di bambine. Oltre all’aborto selettivo, esiste ancora l’infanticidio femminile. Molte donne, vittime innocenti della guerra, hanno subito stupri e torture. A migliaia vivono la vergogna dello stupro, della vedovanza e dell’abbandono. Succede in Sri Lanka e in molte parti del sud e del sudest asiatico, dove gruppi etnici combattono contro i militari. Occorre un approccio multiplo. Educazione per tutti, con una particolare enfasi sull’educare donne e uomini alla loro dignità e ai loro diritti. Attenzione preferenziale per l’educazione delle ragazze e delle donne. Aiutare i cristiani, ovunque sono presenti, convertendo le culture con il Vangelo, sia nella Chiesa sia nella società, così da poter contrastare le disuguaglianze dalla nostra prospettiva di fede. Riduzione della povertà, con una particolare attenzione per le donne e i bambini abbandonati dalla famiglia. Alloggi adeguati per sostenere la vita familiare. Educazione alla vita familiare per uomini e donne, al fine di creare relazioni matrimoniali migliori. Infine, una riforma delle strutture ecclesiali, affinché diano testimonianza di Gesù Cristo, che ha portato a tutti noi un amore avvolgente e uguale. In Tunisia una nuova legge in difesa delle donne Il governo tunisino ha proposto al Parlamento una legge per combattere le violenze fisiche e verbali rivolte contro le donne. Il testo inasprisce le pene per chi si macchia del reato in questione in tutte le sue forme. La proposta dell’esecutivo segue la pubblicazione, a marzo, di un rapporto del Centro per la ricerca, studi documentazione e informazione sulle donne secondo il quale il 53 per cento delle tunisine ha subito violenze nel corso della sua vita. Per non morire di parto Si trova nel Sud della Sierra Leone, a Gbondapi, una zona piena d’acqua, dove spesso le strade non esistono o spariscono nella stagione delle piogge e la gente si sposta in barca. La nuova struttura sanitaria è stata inaugurata a maggio, utilizzando la sede di un centro di >> 19 15 D ONNE CHIESA MOND O IN NOVEMILA CARATTERI di ANNA FOA Crimine contro i diritti umani a circa vent’anni la regione dei grandi laghi, nell’Africa centro-orientale, vive in uno stato di guerra, che a partire dal 2008 si è acuita nella zona orientale del Kivu. A combattersi, tanto per motivazioni politiche che economiche, cioè per il controllo delle ricchezze minerarie del Congo orientale, sono da una parte le truppe dell’esercito regolare, dall’altra le milizie non governative e quelle filorwandesi e ugandesi. Se la zona intorno alla capitale, Kinshasa, nella parte occidentale del paese, è sotto il controllo del governo, assai debole è invece tale controllo nel resto della nazione. La presenza di un grande contingente di truppe Onu, la missione Monuc, non ha portato a risultati sostanziali. D Un aspetto fondamentale di questa guerra sono i massacri dei civili con gli stupri di massa nei confronti di donne e bambini. Non si tratta solo di episodi occasionali di violenza, ma di violenze sistematiche, che hanno il risultato di distruggere i legami sociali delle comunità. Vi contribuiscono non solo le milizie ribelli o quelle non governative, ma i soldati stessi dell’esercito regolare (secondo rapporti Onu) e fin le truppe della missione Onu, Monuc, in teoria inviate a proteggere la popolazione. Il coinvolgimento di soldati dell’Onu negli stupri — e non solo in quest’area — è stato denunciato più volte negli ultimi anni, senza tuttavia che vi siano state serie conseguenze. Abbiamo incontrato, per parlare di questi fenomeni, due frati cappuccini: Benedict Ayodi, keniota, direttore dell’Ufficio di giustizia, pace e ecologia, particolarmente impegnato sul fronte della riconciliazione, e Joaquim Josè Hangalo, angolano, vicario della Fraternità. D ONNE CHIESA MOND O 16 17 D ONNE CHIESA MOND O >> 15 biamo fare di più per aiutare queste persone e assisterle nelle loro sofferenze» dice Hayodi. In questo contesto generale, esiste un problema specifico molto grave ed urgente, che è quello degli stupri di massa, compiuti su donne e bambini e sovente seguiti dall’uccisione delle vittime stesse. «Tra il 2009 e il 2014 ne sono riportati duecentomila, forse di più, il che dimostra la gravità del problema. Le milizie e anche le truppe del governo sono accusate di essere coinvolte in questi stupri, che si rivelano come un’arma di guerra e di degradazione del nemico. E anche negli ultimi massacri in Beni sono riportati moltissimi casi di stupro di donne e bambini» dice Ayodi. «Anche le bambine molto piccole vengono stuprate. E poi c’è il problema dei bambini soldati, presi nelle milizie come soldati. Questi bambini sono abusati, violentati in tutti i modi. I bambini soffrono come le donne». Già nel caso della Bosnia lo stupro era visto come un’arma di guerra, in quel caso però aveva una funzione di pulizia etnica, per far generare alle donne bosniache bambini di sangue serbo. In questi casi, invece, lo stupro ha un significato diverso: «In queste comunità africane la donna è sacra, è un pilastro della comunità e se questo pilastro viene colpito è la comunità che muore». Cornelia Parker «Fuoco sospeso (sospetto doloso)» (1999) D ONNE CHIESA MOND O 18 Nel dialogo con loro e nel confronto con le loro esperienze sul campo abbiamo cercato di individuare le specificità del fenomeno degli stupri, senza confonderlo con le violenze caratteristiche della guerra e senza tuttavia prescindere dal fatto che la guerra è il contesto in cui queste violenze si verificano. «La guerra coinvolge almeno da dieci anni sei o sette paesi, Uganda, Rwanda, Burundi, Sud Sudan e Congo, insomma la regione dei grandi laghi» spiega Ayodi. «L’ultima strage, quella di Beni, è avvenuta in una regione vicina ai grandi laghi. Il conflitto dei grandi laghi è un conflitto ormai vecchio, con stragi che coinvolgono la popolazione civile, donne, bambini. È in pratica un genocidio, ripreso molto scarsamente dai media internazionali, e che crea grande preoccupazione perché, oltre le sue ripercussioni locali, destabilizza anche i rapporti tra gli Stati» ci dice Joaquim Hangalo. «Le istituzioni internazionali, in particolare i media, hanno dimenticato molte cose sull’Africa. Hanno dimenticato il Congo, e fino a che il Papa non ha parlato dei recenti massacri di Beni nessuno dei media ne ha parlato. Sentiamo della Siria, dell’Iraq, ma non dell’Africa. Bisogna sottoporre alle istituzioni internazionali il fatto che qui le persone, i poveri, stanno soffrendo. Dob- Le donne stuprate restano nelle famiglie, dove queste ci sono ancora, o vengono allontanate? Questo è un grande problema che potremmo dire culturale, di mentalità. Dopo lo stupro, infatti, c’è lo stigma. «Migliaia di donne stuprate non possono nemmeno dirlo perché sarebbero rifiutate dalle loro famiglie, dalle loro comunità. Restano in silenzio e in silenzio soffrono l’impatto della violenza subita. Ed è su questo enorme problema che molte organizzazioni hanno cominciato a lavorare offrendo aiuti psicologici. Una delle strategie che la Chiesa, in particolare i cappuccini, hanno incominciato a mettere in atto è quella di creare piccoli gruppi di donne che possano parlare fra loro di quanto hanno subito. Le donne possono finalmente aprirsi l’una con l’altra, ottenere assistenza. È solo un inizio, ma il fenomeno sta diffondendosi. Servirebbe anche dare alle donne maggiore potere, maggiore autonomia. Incrementare l’alfabetizzazione femminile, l’istruzione» dice Ayodi. Certo, questa è una strategia generale, che funziona sui tempi lunghi, ma intanto i massacri e gli stupri aumentano. Lo stupro diventa un fenomeno di massa, un’arma di guerra, quando perde il suo carattere di eccezionalità e viene accettato come un’arma di guerra pari alle altre, se non addirittura più efficace. Ma i governi e le popolazioni considerano gli stupri un crimine o come delle violenze inevitabili, che non devono essere sanzionate o punite? isolamento per Ebola. Una volta qui venivano accolte persone malate, ora è la casa dove si accompagna la nascita dei bambini. Nella casa di Gbondapi non sono accolte donne del distretto di Pujehun, ma anche di quello di Bonthe dove l’ospedale governativo si trova su un’isola, a cui si arriva solo dopo tre ore di navigazione. D onne contro il divorzio in India Le donne musulmane in India combattono contro la discussa pratica del divorzio immediato che permette agli uomini di lasciare mogli e figli pronunciando per tre volte la parola «talaq» (io divorzio da te). L’India è uno dei pochi paesi laici al mondo che consente ancora agli uomini di ripudiare le mogli. In ottobre a Parigi il primo campo profughi La città di Parigi aprirà un campo profughi riservato agli uomini a metà ottobre, in un’area oggi inutilizzata di >> 21 19 D ONNE CHIESA MOND O >> 19 proprietà del gestore ferroviario Sncf nei pressi della Gare du nord. Il campo sarà gestito dall’associazione di assistenza Emmaus Solidarité, che da anni si occupa della questione degli alloggi per i migranti. Il sindaco Anne Hidalgo ha anche annunciato la costruzione di un secondo campo per sole donne e minori non accompagnati. Il centro sorgerà entro la fine dell’anno nella cittadina di Ivry-sur-Seine, nei sobborghi a sudest di Parigi. Ci sono leggi contro gli stupri? Sia Ayodi che Hangalo riconoscono la volontà politica dei governi di porre fine agli stupri, ma sottolineano anche la loro debolezza che non lo consente nella realtà. I governi, fra cui quello della Repubblica democratica del Congo, aderiscono ai protocolli internazionali sullo stupro e la sua criminalizzazione. Ma il governo del Congo è debole e non ha molto potere, il paese è da anni molto instabile. Servono, afferma Hayodi, «riforme politiche strutturali che supportino il governo nel portare questi criminali in tribunale». I casi di stupratori condannati in tribunale per lo specifico reato di stupro sono una minoranza assoluta, poche decine di fronte alle centinaia di migliaia di violenze sessuali perpetrate. Il quadro che emerge è quello di una enorme difficoltà a trasformare lo stupro da arma di guerra accettata e riconosciuta a crimine perseguibile e perseguito, isolando in qualche modo lo stupro dal suo contesto generale di violenze belliche. È tuttavia quanto sta tentando di fare la Chiesa, soprattutto quella cattolica, accogliendo le donne violentate ed entrando anche in conflitto con la mentalità che mette ai margini le vittime delle violenze. «La Chiesa ha risposto agli stupri e alle violenze contro donne e bambini in diversi modi. Prima di tutto, attraverso le lettere dei vescovi che chiedono giustizia ai governi. Molte lettere sono state inviate alle autorità della Repubblica democratica del Congo domandando giustizia per le vittime. La C’è una enorme difficoltà a isolare lo stupro dal contesto delle violenze belliche passando dal concetto di arma di guerra accettata e riconosciuta a quello di crimine perseguibile e perseguito Tuttavia è proprio questo che sta tentando di fare la Chiesa Chiesa è anche il rifugio che si offre alle donne, dando loro un posto dove stare, cibo, rispondendo ai loro bisogni. Tutto questo in un contesto generale in cui la Chiesa offre riparo ai disastri della guerra, ai profughi che sono costretti a lasciare i villaggi distrutti. La Chiesa crea scuole per i bambini rimasti orfani. Scuole che, a loro volta, vengono distrutte». «Chi parla ha paura di subire ritorsioni. La Chiesa non può fermare chi viene col machete, ma solo accogliere le vittime» aggiunge Hangalo. In quest’opera della Chiesa, le donne svolgono un ruolo molto importante. «Il 60 per cento sono donne, le donne nel continente africano sono l’anima della Chiesa. Le stesse suore spesso sono sottoposte a stupri. Ci sono molte differenti con- D ONNE CHIESA MOND O 20 Le api danno speranza alle donne palestinesi gregazioni di missionarie religiose e laiche nella regione. Potrebbero avere più potere per fare di più in questo campo. Le donne potrebbero essere messe nella condizione di fare di più se si desse loro più potere» dice Ayodi. Solo negli ultimi anni l’attenzione dell’opinione pubblica internazionale si è focalizzata sul problema specifico delle violenze sessuali, in un contesto in cui lo stupro di massa è stato inserito alla fine degli anni Novanta tra i crimini di guerra e in alcuni casi equiparato al genocidio. L’attenzione è comunque insufficiente rispetto alla portata del disastro in corso. «Serve una maggiore visibilità, una conoscenza maggiore delle cose terribili che succedono. Capire che non si tratta di conseguenze secondarie della guerra, di incidenti ma di scelte politiche, attacchi preordinati a comunità. Lo stupro è un’arma di guerra», dice Hangalo. «A proposito degli stupri si è detto: “È la cultura africana”. È sbagliato. Lo stupro è un crimine come l’uccisione. Bisogna guardare a questo crimine dal punto di vista dei diritti umani, della giustizia» conclude Ayodi. «Portare chi commette questi crimini davanti alla giustizia». In Cisgiordania, vicino a Ramallah, la produzione di miele è diventata una risorsa economica fondamentale per un gruppo di donne. Un sostegno importante per i territori palestinesi, dove una persona su quattro è senza lavoro. Il progetto è supportato dal Comitato palestinesi all’agricoltura che aiuta 103 donne a gestire imprese agricole in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. 21 D ONNE CHIESA MOND O on sono molti i film che hanno come argomento centrale lo stupro di guerra. Forse l’unico che nel passato ha affrontato esplicitamente il tema è stato La ciociara (Vittorio De Sica, 1960), tratto dall’omonimo romanzo di Alberto Moravia, in cui la protagonista, interpretata da Sofia Loren, viene violentata insieme alla giovanissima figlia per mano di un gruppo di goumier durante la seconda guerra mondiale, poco prima della fine dell’occupazione tedesca. Il regista italiano in questo caso dimostra un coraggio avanti coi tempi, ma non altrettanta sensibilità, almeno nei momenti cruciali: la scena in cui qui si rappresenta lo stupro svela accorgimenti espressivi tutt’altro N Uno zoom sulla violenza di EMILIO RANZATO che appropriati. Lo zoom sul volto della ragazza nel momento della violenza può essere paragonato al famoso — e molto più spesso condannato — carrello in avanti sulla vittima di un lager in Kapò. Come lì, c’è un’enfasi grossolana e non richiesta, e quindi un sensazionalismo del tutto fuori luogo. Molto più convincente è il finale del film, in cui vediamo quali conseguenze ha avuto la violenza sulla giovanissima protagonista. Un caso singolare è quello di Brian De Palma. Il regista americano specializzato in thriller hitchcockiani ha affrontato l’argomento dello stupro di guerra per due volte, sfruttando praticamente lo stesso soggetto in entrambi i casi, mettendolo però in scena in modi radicalmente D ONNE CHIESA MOND O 22 diversi. Ambientato durante la guerra del Vietnam, Vittime di guerra (1989) racconta il fatto realmente accaduto di un plotone dell’esercito americano che violenta e uccide una cittadina vietnamita, sulla spinta del cieco odio per il nemico. De Palma non si tira indietro davanti all’orrore, e il tono del racconto è indignato e piuttosto antipatriottico, ma il tema della violenza è inserito in quello più ampio della guerra che porta a una sostanziale follia. Completamente diverso è invece il taglio adottato per il più recente Redacted (2007), in cui la violenza avviene sullo sfondo della guerra in Iraq. Qui De Palma cerca il più assoluto realismo, affidandosi a spezzoni di finti documentari, pagine di internet, schermi di cellulari, telecamere di sorveglianza. La scena della violenza è molto cruda, ma giustificata da un racconto stavolta del tutto sincero. Ci sono poi pellicole che trattano delle conseguenze che il trauma produce a distanza di tempo. Il segreto di Esma (Jasmila Zbanic, 2006) — vincitore dell’Orso d’oro — e La donna che canta (Denis Villeneuve, 2010), rispettivamente sulla guerra civile in Bosnia e su quella in Libano, sono due film ben diretti e soprattutto ben recitati, in cui si raccontano i drammi di due generazioni. Quella delle madri violentate che faticano a reinserirsi nella vita normale, e quella dei figli che scoprono con sconcerto di essere nati da quel crimine terribile. Il film migliore sull’argomento, però, è forse il recente Agnus Dei (Anne Fontaine, 2016). Vittime della violenza sono in questo caso delle suore di un convento polacco per mano di soldati sovietici durante la seconda guerra mondiale. La regista lussemburghese riesce a tratteggiare con straordinaria sensibilità gli animi in tumulto delle protagoniste, in bilico fra il rifiuto di un qualcosa che va completamente contro la propria scelta religiosa, e l’inevitabile emozione per una nuova vita che arriva. Affinché non si ripeta mai più FO CUS di LUCIA CAPUZZI P er diciannove interminabili udienze sono rimaste imprigionate nei coloratissimi scialli. Il volto, i capelli, le mani, tutto era coperto. La stoffa pesante occultava ogni centimetro di pelle e di umanità. Immobili fagotti maya. Si sono presentate al mondo con l’immagine che gli aguzzini le cucirono violentemente indosso, 34 anni fa. Ancora una volta. L’ultima volta. Perché, appena il giudice Jazmín Barrios ha terminato di leggere la sentenza, le braccia si sono levate verso l’alto, spontanee. Uno dopo l’altro, i manti si sono aperti, liberando il viso. Labbra e occhi sono saltati fuori. E nell’aula è risuonato il grido: Mak´al li qa xiw (“non abbiamo più paura”). Allora, il 26 febbraio scorso, l’incubo è veramente finito per le undici eroine di Sepur Zarco — come le ha ribattezzate la stampa locale — ed è nata una nuova speranza per le migliaia e migliaia di guatemalteche stuprate, torturate, schiavizzate durante la guerra civile (1966-1996). Uno dei conflitti più feroci del Novecento, in cui anche i corpi delle donne furono trasformati in campi di battaglia. Nel silenzio generale. Tanto 23 D ONNE CHIESA MOND O che, dopo la firma degli accordi di pace, c’è stata, a lungo, una difficoltà a considerare le violenze sessuali come parte della strategia di terrore sistematico inflitta dai gruppi armati — in particolare dall’esercito — alla popolazione. Quel giorno del 2016, però, il Tribunale A di massima sicurezza ha messo fine a decenni di impunità, condannando a 120 e 240 anni di carcere Steelmer Reyes Girón e Heriberto Váldez Asij, colpevoli, in quanto responsabili della guarnigione di Sepur Zarco, dello stupro di massa di decine di indigene nonché della scomparsa dei loro mariti. Il verdetto è storico: per la prima volta, gli abusi sessuali commessi durante una guerra sono stati giudicati e Una manifestazione di solidarietà con le donne di Sepur Zarco condannati all’interno dello stesso Paese. In Jugoslavia e Rwanda — i due punti di riferimento in materia — si è dovuto ricorrere a corti internazionali. In Guatemala no. Là, un gruppo di donne di etnia Q’eqchí ha costretto il sistema giudiziario nazionale a guardare in faccia la verità. «Non so né leggere né scrivere. Forse, se lo sapessi fare, parlerei con più scioltezza. Ma tutto ciò che ho detto è vero. Ero lì, ho visto e vissuto quei giorni. Dio mi è testimone» ha detto Petrona, 75 anni, al termine della deposizione. In aula, ha parlato in lingua q’eqchí, l’unica che conosce e l’unica in cui si sente autentica. Perché l’orrore richiede parole precise, spesso. Aveva quarantuno anni quando l’esercito arrivò nel villaggio di Panzós, nella valle del Polochic, il 25 agosto 1982. I militari interruppero la festa per il giorno di santa Rosa da Lima e cominciarono la “caccia”. Cercavano Mario, il marito di Petrona, “colpevole” di aver reclamato la proprietà del suo piccolo appezzamento. La versione ufficiale era ovviamente un’altra: Mario e altri 17 contadini delle comunità limitrofe avrebbero fornito cibo e protezione ai guerriglieri. Pec- D ONNE CHIESA MOND O 24 cato che in quella zona non ci fossero formazioni ribelli. Difficile che le forze armate ignorassero un simile dettaglio. Più probabile, invece, che la tattica della “terra bruciata” fosse impiegata in modo “flessibile” per regolare i conti tra latifondisti e agricoltori. Mario, quella volta, si salvò fuggendo sui monti insieme alla famiglia. Poco dopo, però, fu scoperto e ucciso. O meglio, fatto scomparire. Quando Petrona si recò insieme ai quattro figli a chiedere il corpo al neonato distaccamento di Sepur Zarco, divenne lei stessa una “preda”. Anzi, una schiava. L’esercito obbligò le “vedove” — ma anche, a volte, le figlie e le sorelle — dei contadini assassinati a servirlo. In tutti i sensi. Le donne dovevano, a rotazione, lavare le uniformi, cucinare, rammendare, pulire l’interno della guarnigione. E, soprattutto, lasciarsi violentare senza fiatare dalle truppe. In caso contrario, avrebbero fatto la fine di Dominga Coc e delle figlie, Anita e Hermenilda, picchiate e seviziate per settimane prima di “sparire”. Per sei mesi — fino al 10 ottobre 1983 quando Steelmer Reyes Girón fu sostituito da un nuovo comandante — le indigene del Polochic furono costrette a “garantire il servizio”, secondo l’espressione impiegata all’epoca, dandosi il cambio ogni tre giorni. «Andavi via sapendo che al ritorno ti avrebbe aspettato lo stesso trattamento. O uno peggiore. Mi hanno stuprato molte volte. E l’hanno fatto anche a mia figlia» racconta Petrona. «Spesso lo facevano in tanti... Quando avevo delle emorragie, dovevo curarmi con le erbe. Spesso ci facevano delle iniezioni perché non avessimo bambini» le fa eco Rosa, un’altra delle undici eroine. «Nel distaccamento, però, sono passate molte più donne» sottolinea Petrona. Di sicuro, le “schiave” furono diverse decine, almeno una sessantina. La maggior parte, però, ha scelto il silenzio. Nel timore, in primis, di una rappresaglia dell’esercito, che rimase a Sepur Zarco nei successivi sei anni e continuò a pretendere “servizi”, sebbene con meno regolarità. La paura più grande, però, era il giudizio degli altri. Come spiegare loro che erano vittime se le stesse comunità le consideravano prostitute o, peggio, traditrici? I rapporti Guatemala Nunca Más — coordinato dal vescovo Juan Gerardi, assassinato a causa del suo impegno per i diritti umani — e Memoria del Silencio, della commissione Onu, aprirono la strada affinché le verità sepolte potessero riaffiorare. Per superare lo stigma dello stupro ci sono voluti, però, ancora molti anni di paziente lavoro delle attiviste dell’Unión nacional de mujeres de Guatemala, Mujeres transformando el mundo ed Ecap, riunite nell’Alianza rompiendo el silencio. Nel 2011, quindici indigene hanno presentato la prima denuncia per il “caso Sepur Zarco”. Cinque anni dopo, è arrivato il tempo della giustizia. Non solo per le undici superstiti rimaste. La sentenza è destinata a fare storia nelle cause sugli stupri di guerra. Perché ciò che è accaduto a Sepur Zarco non si ripeta. Nunca Más. 25 D ONNE CHIESA MOND O LA SANTA DEL MESE La fierezza del coraggio femminile di ELISABETTA RASY el vasto e prestigioso repertorio di immagini scaturite dalla storia di sant’Orsola ce n’è una più umile delle altre ma particolarmente commovente. Si tratta di un insieme di busti, forse reliquiari, conservati nel Museo diocesano del capoluogo di una provincia basca, Álava, nella Spagna settentrionale: è opera di un anonimo scultore del sedicesimo secolo e raffigura la santa con quattro compagne. Per ognuna di esse l’immagine è costituita da un breve tratto di busto molto stilizzato e dalla testa, raffigurata invece con un sorprendente realismo: sembra di vedere davvero, come se ce le avessimo di fronte, il volto di quelle cinque ragazze con i loro capelli lunghi pettinati con cura e l’espressione di chi ha fiducia nella vita, un’immagine di giovinezza femminile che sfida il tempo, come se affidasse all’eternità una intramontabile speranza. Nei tanti modi in cui l’arte ha raccontato la storia di questa fanciulla N D ONNE CHIESA MOND O 26 non manca mai l’elemento della serenità del volto e una certa fierezza del coraggio femminile. Ma che cos’è tale coraggio? E con quali altri aspetti si intreccia nella storia leggendaria della santa? E dove nasce la sua potente e ispiratrice leggenda? Un piccolo mucchio di ossa, poveri resti umani lavorati dal tempo: ecco quanto dà fondamento al nucleo di verità storica che è all’origine della vicenda tramandata di Orsola. Le ossa sono state ritrovate a Colonia dove, nella chiesa a lei dedicata, un’iscrizione ricorda il martirio di alcune vergini che “sparsero il loro sangue per il nome di Cristo”. Le vicende della costruzione e delle successive ricostruzioni della basilica, unite ad antichi documenti e a testimonianze del culto (già presente tra l’ottavo e il nono secolo), hanno permesso di collegare quei resti umani alla persecuzione di Diocleziano, intorno all’inizio del quarto secolo. Ma è a partire dal decimo secolo, attraverso uno stratificarsi di successive notizie, che la storia della loro guida, la giovane Orsola, prende corpo e non smette di arricchirsi, sollecitando l’immaginazione e la devozione. Ecco dunque, contro il fondale di un’epoca remota in uno scenario nordico, una fanciulla che riceve una proposta di matrimonio. Non è una ragazza qualsiasi, ma la figlia di un re, un sovrano bretone che attraverso tale matrimonio cerca di stringere alleanze con un giovane principe straniero. Orsola sa bene che il suo assenso e il suo rifiuto non sono una semplice faccenda privata: potrebbe andarne della pace o della guerra del suo popolo. Eppure rilutta, arretra. È molto giovane, ma non è la sua età a preoccuparla, né a contrariarla è la persona del futuro sposo. La questione è un’altra: il giovane monarca cui è destinata è pagano. Orsola è cristiana, anche se non avesse consacrato la sua verginità a Dio (come riportano alcune versioni della sua storia) non può accettare di unirsi a chi non condivide la sua fede. E qui c’è un primo elemento sorprendente: Orsola non rifiuta il matrimonio, ma chiede una dilazione. Lascia forse allo sposo il tempo per convertirsi, forse fa intendere che lei stessa potrebbe cambiare idea. Ciò 27 D ONNE CHIESA MOND O NELL’ANTICO TESTAMENTO che è certo è che prende tempo. Ma cosa significa questo prendere tempo? Significa non lasciarsi travolgere dal corso stesso del tempo, significa inserire nel tempo lineare della Storia un tempo diverso, un tempo meditativo alleato al tempo sacro, che ha il potere di scompaginare le vicende e le volontà umane. In questo caso, il tempo sacro fa irruzione nella notte. La ragazza fa un sogno in cui le appare un angelo che le mostra il cammino. Spesso nell’iconografia della santa l’angelo ha con sé la palma del martirio, ma prima che il martirio avvenga accadranno molte cose. Una soprattutto: Orsola prenderà in mano la propria vita, non sarà passiva, non cederà e neppure si limiterà a indietreggiare. Invece, si metterà in movimento, in maniera imprevista e audace. Anche se non è che una donna dalla quale ci si aspetta obbedienza, anzi una ragazza molto giovane e rispettosa del padre, vuole difendere la sua fede, quella fede per la quale, come scrive san Paolo ai Galati, “non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù”. La fede cristiana l’affranca dalla sottomissione femminile. La notte, il sogno, l’angelo non annunciano un evento soprannaturale, ma una decisione: malgrado la sua età, la sua condizione di donna e figlia, Orsola darà prova di tenace indipendenza e saprà trasmettere questa indipendenza alle sue compagne, ragazze come lei che la sosterranno nella scelta di non accettare quel matrimonio e di andare in pellegrinaggio a Roma. Da qui nasce il suo viaggio: la nave che la trasporterà verso lontani lidi è insieme la Chiesa e la sua chiesa, cioè la chiesa che la sua stessa decisione sta edificando e contemporaneamente la lontana chiesa di Inghilterra, che si unisce al centro della cristianità attraverso l’inaspettato viaggio a Roma di una ragazza inerme, seguita da altre ragazze inermi e coraggiose come lei. D ONNE CHIESA MOND O 28 Erano davvero undicimila quelle fanciulle? Forse tale cifra, come sostengono alcuni, è soltanto un errore di lettura dell’iscrizione di Colonia. Ma ben s’intende che undicimila, questo numero così inimmaginabile e dunque fiabesco, non è che un’amplificazione della forza di Orsola e del gruppo delle sue seguaci, adatto a entrare in una leggenda dove la potenza femminile ha tanto rilievo. Siano state undici o fiabescamente undicimila, certo è che Orsola e il suo seguito sono una comunità femminile in movimento, capace di alleare alla fede l’azione. Non meraviglia che nel suo nome Angela Merici abbia fondato nel 1535, a Brescia, l’ordine delle orsoline dedicato all’istruzione delle fanciulle, cioè a qualcosa che è l’esatto contrario della passività, della inconsapevolezza. La santa e le sue compagne viaggiano verso Colonia, poi verso Roma, dove si fanno ascoltare autorevolmente dal pontefice, poi tornano a Colonia, dove saranno trucidate dai barbari pagani. Ma in tutte le opere che la raffigurano, dal reliquiario dipinto alla fine del Quattrocento da Hans Memling come nel meraviglioso ciclo coevo di Carpaccio, spicca la giovanile fermezza con cui questa eroina sfida l’ignoto, il mare, gli aggressori, la morte. E insieme la solidarietà protettiva che dimostra verso le compagne (Memling la raffigura persino secondo l’iconografia di Nostra Signora di Misericordia, con le compagne raccolte amorosamente sotto il suo mantello). Ma anche nel cupo olio di Caravaggio dove è rappresentato il martirio della santa, trafitta dalla freccia che Attila secondo la leggenda le ha scagliato, sono lo stesso assassino e i suoi sgherri a mostrare sgomento e paura. Orsola invece guarda con composta accettazione la ferita che segna la fine del suo viaggio. Nel culto che la circonda l’avventurosa viaggiatrice diventa presto la protettrice di un altro cammino: l’agente di viaggio, per così dire, del tragitto che porta in paradiso. Ester, il ribaltamento della cattiva sorte di MARIA KO HA-FONG 29 D ONNE CHIESA MOND O Andrea del Castagno «Ester» (1421 circa - 1457) ome molte grandi figure della storia, soprattutto quella biblica, Ester è di umili origini. È un’orfana ebrea, deportata in terra straniera, la cui situazione a un certo punto cambia, in modo sorprendente, radicale: per misteriosa disposizione di Dio diventa la regina di una grande potenza mondiale e in questo suo ruolo influente riesce a salvare il suo popolo dal pericolo della distruzione. C Ester fa pensare alla fiaba popolare di Cenerentola, che sviluppa un tema molto conosciuto dal folclore universale, variamente modulato nelle diverse culture, quella di una ragazza orfana inaspettatamente riscattata dalla miseria e dal nascondimento. La storia di Ester presso la corte persiana è inoltre paragonabile a quella di Giuseppe in Egitto o di Daniele in Babilonia; la trama in sé non è inedita nella Bibbia, la novità sta nel fatto che qui abbiamo una protagonista donna, cioè che qui le meraviglie del Signore si manifestano con stile femminile. «Piccola sorgente che divenne un fiume» (Ester 10, 3c), la definisce Mardocheo, suo tutore: metafora suggestiva delle grandi cose realizzate nel silenzio, con tenace soavità. L’immagine dell’acqua e del fiume evoca in me, cinese, un detto di Lao Tzu, un saggio vissuto nel V secolo prima dell’era cristiana: «L’acqua non lotta per una sua forma permanente, ma si distende serena tra le braccia di ciascun recipiente. L’acqua del fiume non abbatte e non annienta gli ostacoli, ma segue la via di minore resistenza per arrivare all’oceano. L’acqua cerca con gioia di donarsi e cerca sempre il luogo più basso per rendere fecondo il prato che le sta sopra e attorno. L’acqua è umile e sale in alto soltanto quando evapora per innalzarsi quale figlia del cielo». Semplice e limpida, retta e coraggiosa, Ester è la trasparenza del bene dentro un groviglio di intrighi, di gelosie e di odi, di lotte per il potere e di tradimenti. Dapprima scorre umile e nascosta, poi emerge di sorpresa, cresce sicura, fino a travolgere e a sopraffare il male. La sua storia è riportata nell’omonimo libro biblico che, insieme a quello di Rut e a quello di Giuditta, va a formare una trilogia di racconti sapienziali o storie edificanti che portano il nome di una donna. L’aspetto redazionale un po’ complesso di questo libro di Ester ha avuto come conseguenza che fosse tramandato in due forme diverse: una più concisa in lingua ebraica, l’altra, più ampia, nella versione greca. La trama si lascia sintetizzare con facilità. Ester vive a Susa, città babilonese, dove il re di Persia usa trascorrere il tempo invernale. È sotto la tutela di un parente, Mardocheo, che «l’aveva presa come D ONNE CHIESA MOND O 30 31 D ONNE CHIESA MOND O gnore, Dio di Abramo» (4, 17y). Ora gestisce saggiamente la sua posizione delicata: dimostra una solida personalità capace di abitare due mondi tanto diversi, rimanendo se stessa. La nuova regina non è solo bella e buona, dolce e docile, ma è, soprattutto, uno strumento di salvezza, intelligente e coraggioso, nelle mani di Dio. propria figlia». Attorno al 480 prima dell’era cristiana, durante l’esilio d’Israele, Assuero, il potente re persiano «che regnava dall’India fino all’Etiopia sopra centoventisette province» (1, 1), per sfoggiare la sua ricchezza imbandisce banchetti lussuosi «per tutto il popolo dal più grande al più piccolo» (1, 5). Un giorno, al culmine delle celebrazioni, il re decide di esibire il “pezzo” più prezioso del suo possesso: la sua bellissima regina. Ma, colpo di scena, la regina Vasti si rifiuta di obbedirgli: la donna non si lascia trattare come un oggetto, si ribella allo sfruttamento. Gravemente offeso, il re s’infuria e la ripudia. Vasti esce di scena, in silenzio, ma con dignità. Il suo diniego è una sfida e un’ironia. Il potente Assuero, nonostante tutta la sua strabiliante ricchezza e la sua enorme mania di grandezza, non riesce a piegare la volontà della moglie. Il ripudio di Vasti segna l’ascesa rapida della “cenerentola”, che diventa la regina amata del grande Assuero e di Mardocheo, il quale entra in servizio nel palazzo. «Di bella presenza e di aspetto avvenente» (2, 7), Ester affascina immediatamente: «Il re si innamorò di Ester: ella trovò grazia più di tutte le fanciulle e perciò egli pose su di lei la corona regale» (2, 17). Ester, in realtà, non aveva mai ambito alla gloria e alla ricchezza di corte, come lei stessa confessa al Signore: «Detesto l’insegna della mia alta carica, che cinge il mio capo nei giorni in cui devo comparire in pubblico» (4, 17v). Ha sempre conservato il suo cuore integro per il Signore: «La tua serva, da quando ha cambiato condizione fino a oggi, non ha gioito, se non in te, Si- D ONNE CHIESA MOND O 32 Viene a crearsi, nel tempo, un aspro dissidio fra Mardocheo e Aman, un funzionario perverso. Questi, avido di potere, ordisce un piano criminale: eliminare Mardocheo e tutti i giudei presenti nel regno di Persia. Mediante estrazione a sorte, fissa la data precisa dello sterminio. Il complotto è segreto, ma Mardocheo ne viene a conoscenza. Non riesce, però, a fare niente per opporsi a un decreto imperiale già ratificato. Non gli resta che coinvolgere la regina, l’unica che può ancora tentare di fare qualcosa. La contatta, le espone la gravità della situazione, la spinge a impegnarsi, a intervenire, sottolineando la richiesta con parole taglienti, che sono allo stesso tempo stimolo all’azione e chiave interpretativa di tutta la vicenda: «Non dire a te stessa che tu sola potrai salvarti nel regno, fra tutti i giudei» (4, 13). Si tratta di un tema teologico molto importante: il rapporto tra salvezza del singolo e salvezza della collettività. Nessuno è un’isola, neanche nell’esperienza di fede e di salvezza. Non c’è una salvezza egoistica e non c’è un cammino di fede senza amore per gli altri. Con una domanda, Mardocheo, quindi, provoca ulteriormente Ester invitandola a leggere in profondità la propria vita, in particolare la sua inaspettata ascesa al trono: «Chi sa che tu non sia diventata regina proprio per questa circostanza?» (4, 14). Fa emergere in tal modo un altro tema teologico: quello della provvidenza di Dio che tutto dispone secondo un piano misterioso, stupendo, imprevedibile e insondabile. Ester è posta di fronte a una scelta imprescindibile: rischiare la propria vita per salvare il suo popolo o salvare la propria vita rischiando la distruzione del suo popolo? Senza esitare, con risolutezza, decide la prima soluzione. Si mette a digiuno per tre giorni, coinvolgendo tutto il popolo, poi pronuncia la lapidaria dichiarazione: «Contravvenendo alla legge, entrerò dal re, anche se dovessi morire» (4, 16). Quindi si ritira e prega: con intensità eleva un inno alla potenza e all’amore misericordioso di Dio: «Ricordati, Signore, manifestati nel giorno della nostra afflizione e dà a me coraggio, o re degli dei e dominatore di ogni potere. Metti sulla mia bocca una parola ben misurata di fronte al leone e volgi il suo cuore all’odio contro colui che ci combatte, per lo sterminio suo e di coloro che sono d’ac- L’autrice Maria Ko Ha-Fong è cinese, appartiene all’istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice. Ha studiato Scienze dell’educazione in Italia e Teologia in Germania. Ha conseguito il dottorato in Teologia biblica presso l’università di Münster. Insegna Nuovo Testamento e materie di Pastorale biblica alla Pontificia Facoltà di Scienze dell’educazione Auxilium a Roma e periodicamente nel Holy Spirit Seminary, a Hong Kong, e in vari seminari in Cina. È consultore del Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani. 33 D ONNE CHIESA MOND O cordo con lui. Quanto a noi, salvaci con la tua mano e vieni in mio aiuto, perché sono sola e non ho altri che te, Signore!» (4, 17r-17t). Rinforzata dalla preghiera si alza e, indossati i sontuosi abiti da regina, va ad affrontare il re. Fiduciosa nel Signore e solidale con i suoi connazionali, Ester è pronta a collaborare al progetto divino per cambiare la sorte del suo popolo: «Il suo viso era lieto, come ispirato a benevolenza». Al di là di tanta bellezza, però, sente battere in sé il cuore di una donna semplice e umile, consapevole della propria debolezza, impegnata in un’impresa più grande di lei, per cui «il suo cuore era oppresso dalla paura» (5, 1b). È così che la piccola sorgente emerge dal nascondimento, scorre con sempre maggior forza e decisione, diventa un fiume travolgente. «Che cosa vuoi, Ester, e qual è la tua richiesta? Fosse pure metà del mio regno, sarà tua» (5, 3). Il re, mosso da sincero affetto e colpito dal gesto coraggioso della sua regina, promette di realizzare ogni suo desiderio. Ester sa agire in modo giusto e al momento giusto, così riesce ad affrontare con saggezza l’emotività del re. Imbandisce ben tre banchetti ai quali invita anche il suo avversario, Aman, che arriva a illudersi di essere entrato nelle grazie del re e della regina. Al terzo banchetto, però, quando la vicenda giunge al culmine del pathos, strategicamente Ester rivela al re il meschino complotto di Aman e il suo piano malvagio di sterminare il popolo ebraico. La Nell’Antico Testamento la donna emerge come il luogo dialettico tra la debolezza umana e la forza divina Prova di ciò che l’essere umano è capace di fare con l’aiuto di Dio storia termina con l’impiccagione del ministro perverso su quel palo che proprio lui aveva fatto innalzare per il suo nemico Mardocheo. Il bene trionfa sul male, dunque, il cattivo subisce l’atrocità da lui stesso preparata per il buono. Il giorno che avrebbe dovuto segnare la fine del popolo di Dio si trasforma così in un giorno di rivalsa. La cattiva sorte è cambiata in buona sorte. L’avvenimento è così importante che per ricordarlo viene istituita una festa, da allora celebrata con gioia lungo i secoli fino a oggi. È la festa di purim, festa del ribaltamento della sorte, fissata per il 15 di Adar. Pur significa “sorte”: è un termine di origine persiana, successivamente accolto nella lingua ebraica e trascritto nella forma plurale D ONNE CHIESA MOND O 34 purim. Il senso della festa è ricordare che Dio salva il suo popolo ribaltando le sue sorti. Ed è proprio Ester all’origine di questo ribaltamento. Ester: modello di fede in Dio e di amore per il suo popolo. In una situazione di prepotenza che sembrava inespugnabile, grazie a questa giovane donna, il bene vince il male, la vita rinasce, la gioia rifiorisce sul volto d’Israele. Ester resta nella tradizione ebraica un segno vivo di gioia e di speranza. È lei che riporta la voglia di vivere nel cuore di un popolo devastato e stremato, è lei che sa intuire nelle tenebre fitte il bagliore della luce. È lei la piccola sorgente che sgorga in terra arida. Ester può essere considerata un paradigma della figura femminile nella Bibbia. Nell’Antico Testamento, nonostante il contesto culturale a esse sfavorevole, le donne non sono invisibili: le madri d’Israele come Sara, Rebecca, Rachele; le donne carismatiche come Miriam, Debora; le donne esemplari come Rut, Ester, Giuditta; insieme a tante altre meno conosciute o anonime, tutte queste donne si presentano interlocutrici di Dio, rivelatrici del suo mistero e collaboratrici nella realizzazione del suo progetto. Soprattutto nei momenti di crisi e d’incertezza, nel tempo in cui bisogna affrontare le sfide più dure, nella situazione in cui si richiede un maggior slancio di speranza, un supplemento di autenticità umana, di radicalità e di eroismo, ecco che Dio agisce per mezzo della donna. La donna emerge nell’Antico Testamento come il luogo dialettico tra la debolezza umana e la forza divina, la prova autentica di ciò che l’essere umano è capace di fare con l’aiuto di Dio. In mezzo alla schiera femminile emerge Maria, la «benedetta fra le donne», la donna umile in cui Dio opera «cose grandi», la più alta manifestazione dell’identità stessa di una donna: essere lo spazio ideale dove Dio manifesta la sua gloria e celebra la sua vittoria di salvezza. Come Ester e più di lei, Maria guarda con ottimismo realistico la scena del mondo, vive con speranza gli alti e bassi della storia. Ella si fida di Dio, si fida dell’onnipotente che ha fatto e che continua a fare «grandi cose». Con il suo canto del Magnificat Maria annuncia, testimonia e celebra la vittoria di Dio. Il rovesciamento delle posizioni tra ricchi e poveri, tra potenti e umili, tra forti e deboli, è segno e manifestazione di questa vittoria escatologica già presente col farsi uomo del figlio di Dio. Il Magnificat di Maria trascende la gioia di purim, anticipa l’exsultet pasquale celebrando un passaggio, un definitivo ribaltamento della sorte dell’umanità. Nella storia di Ester e più ancora nel canto di Maria emerge la voce rassicurante di Gesù: «Voi avrete tribolazione nel mondo, ma abbiate fiducia; io ho vinto il mondo!» (Giovanni, 16, 33). 35 D ONNE CHIESA MOND O ARTISTE Essenziale che cerca il figurativo di ENZO BIANCHI a pittura di Odile Escolier, artista francese che vive a Chambéry da ventisette anni, affonda le radici nell’esperienza artistica informale di area francofona: il tratto di Jean Dubuffet, la gestualità di Georges Mathieu, la materia di Jean Fautrier. In queste radici si ritrovano l’uso di materiali differenti, la forza del gesto e del segno, le infinite possibilità espressive che la materia pittorica riesce a ottenere. L Esperienza sempre feconda perché capace di produrre e riprodurre codici, quasi delle grammatiche tipiche per ogni esponente di cui si riesce a riconoscere la cifra stilistica. Da queste radici Odile Escolier fa nascere un linguaggio che riporta forma, materia e gesto verso la figurazione, non impoverendo le possibilità espressive di questi strumenti. L’uso del colore è ricercato, sapiente, meditato e i fondi dei quadri si infittiscono utilizzando diversi strati che la gestualità fa emergere a seconda della potenza del gesto stesso. Scrive Escolier: «Le pitture che nascono sono il risultato di tutte le emozioni e le sensazioni incasto- D ONNE CHIESA MOND O 36 37 D ONNE CHIESA MOND O lega i tre viandanti. Quello che si coglie è la presenza, non la caratterizzazione, ma quella presenza che appartiene a tutte le storie che si incrociano. La pittura di Odile Escolier contiene l’universalità delle forme semplici e trasversali, capaci di raccontarsi a ogni epoca e cultura. Nella grande tela della pesca miracolosa, nell’azzurro di un’alba radiosa, i discepoli in barca intravedono chi sta sulle acque del mare, pronti al grido: «È il Signore!». E Gesù si avvicina loro... Quando contempliamo le tele di Escolier, non a caso presenti nella nostra chiesa di Bose, ci sentiamo di appartenere in qualche modo alla raffigurazione, al senso di attesa che la attraversa, come se questi segni Odile Escolier, «Emmaus»; nella pagina precedente «La nave» fossero presenti nella nostra memoria con il compito di nate nella memoria viva, coscienti e incoscienti, riportarci a quel momento di vita in cui li abbiamo incrociati. individuali e collettive. Spesso dipingo contemporaneamente su diverse tele, favorendo il temOdile Escolier è una pittrice essenziale che po del seccare dei colori, tempo di incubazione accenna al figurativo, dando la possibilità di dinecessario per prendere una distanza: una tela scernimento di una parola biblica nelle sue opein corso d’opera può rimbalzare in ogni istante. re: è un’artista per la quale l’umano e la natura Permettergli questa apertura è un atto di libertà, restano le ispirazioni principali. Infatti l’umaniuna rinuncia a controllare tutto e lasciare invece tà nella sua fragilità mostra la sua bellezza e il che questa meraviglia nascosta emerga e si svisuo mistero, in un’opposizione tra ambiente e luppi al di là delle nostre azioni coscienti, fare soggetti che evidenzia l’istante presente. spazio al caso, agli accidenti sulla tela... Il pittoHo conosciuto Odile Escolier a una mostra a re nutre la sua tela, ma la tela nutre il pittore». Parigi e da lì è nata una grande e profonda amiInchiostri, pastelli, acrilici, tecniche miste con cizia. Così ho visto alcune delle sue esposizioni un uso sapiente della spatola diventano sulle tein Francia, mentre altre sono state realizzate in le di Odile Escolier materia viva attraversata da Belgio, Austria, Irlanda, Stati Uniti, Emirati crepe, spazi, ispessimenti, come se la pittura si Arabi, Russia, Giappone. Conosciuta e apprezfacesse scultura. Così nasce un mondo, nascono zata a livello internazionale, ama la semplicità soprattutto delle presenze umane, nascono indella vita tra le montagne di Chambéry e persecontri sulle vie della terra o del cielo. Si veda gue una ricerca spirituale profonda, soprattutto nella tela Emmaus dove le tre figure di Cristo e cristiana, ma senza erigere muri. È una pittrice dei discepoli camminano insieme in un rosso inche cammina e sa discernere chi è in attesa sulla strada percorsa. fuocato e cupo, ma in attesa di un evento che D ONNE CHIESA MOND O 38 MEDITAZIONE a cura delle sorelle di Bose Il fuoco interiore LUCA 12, 49-53 esù è in viaggio verso Gerusalemme, verso il luogo dove si compie il suo destino e ancora una volta ai suoi discepoli di allora, e a noi discepoli e ascoltatori di oggi, vuole ricordare la meta di questo viaggio: la sua morte e la sua resurrezione. Gesù svela in questo modo la via per l’esistenza del discepolo, la riempie di contenuto e definisce tale esistenza come un “seguirlo”, e un seguirlo nel suo amare sino alla fine. Anche questo brano dell’evangelista Luca — che troviamo scomodo, a tratti duro, forse un po’ fuori luogo e fuori tempo, che saremmo tentati di tralasciare o addolcire — anch’esso indica alcuni passi di questa sequela. G Duccio di Buoninsegna, «Apparizione agli apostoli» (1308-1311, particolare) a pagina 40: Duccio di Buoninsegna «Cristo prende commiato dai discepoli» (1308-1311) «Sono venuto a gettare fuoco sulla terra». Quale fuoco, possiamo chiederci? C’è un fuoco che Gesù rifiuta sdegnosamente. Quello che Gesù è venuto a portare non è un fuoco divora- 39 D ONNE CHIESA MOND O tore; egli prende le distanze da coloro che vogliono appiccare il fuoco della durezza e del giudizio, quello che avevano invocato Giacomo e Giovanni pochi capitoli prima, sdegnati per il rifiuto dell’ospitalità in un villaggio di samaritani (cfr. Luca, 9, 54). Il suo è un fuoco interiore, lo stesso che ardeva nel cuore dei profeti e che Geremia confessa di possedere, «un fuoco ardente chiuso nelle sue ossa, incontenibile» (cfr. Geremia, 20, 7-9): è il fuoco, la passione per la parola di Dio. È questo il fuoco che Gesù vorrebbe accendere per trasformare i nostri cuori di pietra in cuori di carne: la passione per Dio e la passione per l’altro, per il volto di Dio e per il volto dell’altro, unico fuoco, unica passione; la passione per Dio, fuoco ardente, quello zelo per la sua casa che portò un giorno Gesù a scacciare i mercanti dal tempio. Questo sì è un fuoco che Gesù vuole: il fuoco che consuma le false immagini religiose di una fede ridotta a mercato. Fuoco è anche lo Spirito effuso dalla croce dopo la sua morte, fuoco che abita in ciascuno di noi e che cerca di farsi spazio e luce per illuminare e liberare le nostre vite. Ma proprio questo fuoco che lo divora diviene causa di divisione, di incomprensione per molti. «Pensate che sia venuto a portare pace sulla terra? No, io vi dico, ma divisione». Gesù sarebbe venuto sulla terra per questo? Lui, il mite, l’umile di cuore, che si era presentato all’inizio del suo ministero come colui che era stato mandato a portare ai poveri il lieto annuncio? Gesù è venuto come uomo di pace, ma proprio D ONNE CHIESA MOND O 40 il suo vivere l’amore incondizionato fino all’estremo ha provocato l’effetto opposto, facendone per molti un segno di contraddizione, una pietra d’inciampo. Con le sue parole e le sue azioni Gesù diventa uno spartiacque che mette in crisi perfino i legami familiari, i legami più naturali di ogni vita umana. L’opposizione che ha toccato l’esistenza di Gesù toccherà anche la vita dei suoi discepoli: i suoi familiari lo considerano pazzo e vanno a prenderlo perché stentano a capire (cfr. Marco, 3, 21), ma lui non scende a compromessi e con forza si oppone loro dicendo che «sua madre e i suoi fratelli sono coloro che ascoltano e mettono in pratica la parola di Dio» (cfr. Luca, 8, 20-21). La sequela è esigente, ci è chiesto di considerare, verificare e scegliere come un buon costruttore di torri o un ottimo stratega in guerra, se cominciare o meno il viaggio con lui; durante il viaggio, si tratta di lottare ogni giorno per morire a se stessi e vivere solo in Dio e per Dio, facendo della rinuncia a ciò che non è essenziale, a ciò che ci è d’intralcio e ci distoglie dalla meta, la cifra della nostra intera esistenza. La battaglia è quotidiana, però il fine di questa guerra è l’acquisizione di quella pace e di quella gioia che niente e nessuno potrà toglierci, e l’imparare il dono di sé, il vero amore. L’obiettivo, il punto di arrivo è quella carità che sola può dare la forza di realizzare finalmente la morte a se stessi per vivere in Dio; il fine è l’autentica carità, che è allo stesso tempo e indissolubilmente amore di Dio e amore del prossimo.