Le pagine in PDF - L`Osservatore Romano

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Le pagine in PDF - L`Osservatore Romano
numero 47
giugno 2016
L’EDITORIALE
Indagine sull’identità femminile
Cercare di scendere un po’ più in profondità per indagare l’identità
femminile: è questo lo scopo che ci prefiggiamo con i prossimi tre
numeri di «donne chiesa mondo». Un’indagine che non può che
partire dal cuore della differenza, la maternità, declinata in questo
numero come capacità di cura, che le donne sanno esercitare in tutti
gli ambiti, nella vita privata come in quella pubblica.
Diliber Kelesh, siriana
tiene in braccio
il suo bambino di sei mesi
nel campo di Idomeni
(Gregorio Borgia, Ap)
D ONNE CHIESA MOND O
Mensile dell’Osservatore Romano
a cura di LUCETTA SCARAFFIA
(coordinatrice)
e GIULIA GALEOTTI
In redazione
CATHERINE AUBIN, ANNA FOA
RITA MBOSHU KONGO
MARGHERITA PELAJA
e SILVINA PÉREZ
Progetto grafico
PIERO DI D OMENICANTONIO
www.osservatoreromano.va
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per abbonamenti:
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Curare gli altri, i piccoli come i deboli e gli anziani, occuparsi delle persone più fragili, non è facile, non esistono manuali con ricette
pronte all’uso, eppure da sempre è un’arte che le donne imparano,
esercitano e testimoniano nelle loro vite. Vuol dire una pratica costante della misericordia e un amore concreto, che lascia traccia nel
tempo e costruisce rapporti.
Del resto, la forza costruttiva della maternità sta, da sempre, nella
sua universalità. Come dimostrano, al pari di quello che accade da
millenni, le vicende che qui raccontiamo — dall’opera di suor Angela
Bertelli in Thailandia con la sua Casa degli Angeli alla storia delle
cinque donne che salvarono Mosè — non è necessario un parto per
costruire e vivere un legame di cura materna. Lo sanno benissimo le
religiose, madri senza gravidanza, che della capacità di cura verso i
piccoli, i deboli, i fragili e gli ultimi, sono nel mondo quotidiana e
meravigliosa testimonianza.
Nel nostro immaginario cristiano, le immagini della Pietà, estremo
atto di cura della madre per il corpo del figlio crocefisso, costituiscono il simbolo più alto e forte di questa capacità di cura — quindi di
amore — che va oltre la morte. Come ha scritto Julia Kristeva, «se
ogni amore per l’altro si radica in questa esperienza arcaica fondamentale, unica e universale, che è l’amore materno, se l’amore materno è il meno ambivalente, è sull’amore materno che sono costruiti la
caritas dei cristiani e i diritti dell’uomo laico». La cura materna, infatti, è il modello di riferimento per ogni forma di umanizzazione dei
rapporti fra gli esseri umani. (giulia galeotti)
L’INTERVISTA
Gesti d’amore
Con la missionaria saveriana Angela Bertelli
alla periferia di Bangkok
di TERESINA CAFFI
D
a otto anni Angela Bertelli, missionaria saveriana, dirige la Casa degli angeli, per bambini disabili e le loro mamme, nella periferia di
Bangkok.
Che cos’è la Casa degli angeli?
Un’occasione di evangelizzazione attraverso la carità. È dire, attraverso gesti concreti, ciò che non riesci a dire con le parole. Infatti, se
traduciamo in thai parole come misericordia, amore, gratuità, Dio,
queste non hanno lo stesso significato che hanno nel Vangelo: non
sappiamo che cosa l’altro capisca. Invece si capiscono gesti semplici e
concreti: «Venite, vi aiuto, faccio la fisioterapia, ve la insegno, prepariamo la pappa frullata per i bimbi...». Attraverso l’esperienza del ricevere gratuitamente, le mamme intuiscono che c’è qualcosa di diverso dall’amore che conoscono. Questo gesto, in quella realtà, fa riconoscere l’abbondante misericordia di Dio.
Come reagiscono le mamme?
Rimangono stupite. Vedono che sei con loro, lavi i pavimenti, pulisci i cessi, vai all’ospedale con loro... perché? parli con dottori, le
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aiuti a capire la situazione del loro bimbo. Al centro, il grosso lavoro
educativo è con le mamme.
La gratuità non viene meno se tu fai la proposta cristiana?
La mattina, prima di cominciare il lavoro, e a mezzogiorno, leggiamo il vangelo. Dico loro: «Non vi chiedo di cambiare religione, ma
vi propongo un’alternativa al karma» per cui tutto si sconta e si paga. Nonostante la cultura le spinga ad allontanarsi dalla croce, il loro
amore di madre le orienta verso la fede cristiana. Dico loro: «Vi faccio conoscere un’alternativa alla lettura colpevolizzante del dolore dei
vostri bimbi. Gesù dice: ero ammalato e mi avete visitato...».
L’amore delle mamme per i loro bimbi diventa una grazia, un
cammino che le prepara all’incontro con la sorpresa più grande della
loro vita: l’amore gratuito di Dio, la sua misericordia. Vedono che i
loro bimbi sorridono e si ritrovano a vivere il cristianesimo senza saperlo. Quasi ogni anno una mamma chiede il battesimo.
Qualche esempio?
La prima mamma ora fa catechismo e porta con sé il suo bambino: «Senza di lui non avrei mai incontrato l’amore di Dio per me,
non avrei ricevuto il battesimo. Ora so che c’è un Dio che è più padre di mio padre».
Nella Casa degli angeli
a Bangkok
Tutte le mamme si pensano cattive, perché a volte si arrabbiano
con i bimbi, a volte hanno pensato di metterli in istituto. «Attente —
dico loro — l’amore vero non sta nei sentimenti, ma nel servizio, nel
dono di voi stesse». Una mamma che aveva visto la sua bimba disabile di tre anni morire dopo una lunga “inutile” assistenza, poi abbandonata dal marito appena dopo aver partorito il secondo figlio,
era stata accolta alla Casa degli angeli. Due anni dopo, il marito è ritornato. Pur disposta a perdonarlo, ha avuto il coraggio di dirgli:
«Se vuoi che viviamo insieme, devi accettare che sono cristiana». È
una donna timida e schiva, ma ha avuto questo coraggio.
Un’altra donna, incinta, già mamma di un bambino cieco e distonico, si è opposta al marito che voleva che abortisse. È nata una
bimba bellissima e sanissima. Sono gesti coraggiosi, soprattutto in un
contesto in cui la donna è sottomessa al marito.
Qual è la condizione sociale di queste mamme?
È tutta gente povera, che viene dalle baraccopoli attorno alla città
e raramente ha lavoro. A 7 km dalla casa c’è un istituto statale per
bimbi disabili fino ai sette anni, che vengono lasciati lì dalle famiglie:
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sono 540 e quando crescono vanno in altri istituti. La loro condizione è penosa, una volta consegnati i bambini non possono più essere
riportati a casa. La tentazione per le mamme è di lasciare là il loro
bimbo. Alcune disabilità nascono dalla povertà: per mancanza di soldi una mamma non ha potuto subire il cesareo e il bimbo ha subito
traumi al parto; un papà aveva la tbc e ha custodito i figli mentre la
mamma andava al lavoro ed essi hanno preso la tbc al cervello...
Qual è l’eco della Casa degli angeli?
Stupisce il fatto che da scuole e università del Paese dei giovani
vengano a trovarci. Una signora, ragioniera di banca, viene ogni settimana per tenere i conti. E da quando la casa è aperta, più di centotrenta volontari italiani sono arrivati, a loro spese. Superando lo scoglio della lingua, le mamme si sono abituate a una comunicazione
d’amore che diventa conoscenza reciproca. I volontari si prendono
cura dei bimbi e le mamme almeno un pochino si riposano.
La Casa degli angeli
Angela Bertelli, missionaria
di Maria, saveriana, dopo
aver vissuto in Sierra Leone,
è da anni presente in
Thailandia, alla periferia di
Bangkok. Qui è nata nel
2008 la Casa degli angeli,
per i bambini disabili e le
loro mamme. Oggi nella
casa vivono quindici
bambini, di cui cinque
abbandonati, uno orfano,
quattro che hanno solo la
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mamma. Ci sono poi cinque
bimbi che vengono durante
il giorno, hanno mamma e
papà, ma con seri problemi
familiari. Circa tredici
mamme vivono con i bimbi
nel centro durante il giorno.
Tra esse c’è amicizia; a volte
si scontrano o si mostrano
gelose, anche per le storie
sofferte che portano dentro;
a volte c’è tensione fra
buddiste e cristiane, poi si
perdonano. Imparano a
fidarsi l’una dell’altra giorno
per giorno. Sperimentano di
non essere più isolate,
discriminate, ma di essere
insieme. Accade così un
assurdo per la civiltà thai:
che un bimbo disabile
diventi la via che ti conduce
a Dio. Quattro mamme, che
non hanno marito, sono
presenti in permanenza,
un’altra viene per la notte.
Diamo loro un compenso
economico per il servizio
che svolgono non solo per i
loro bimbi ma anche per
quelli abbandonati.
L’esperienza di Angela è
raccontata in un libro:
Maria Angela Bertelli, La
casa degli angeli, Itaca,
Castel Bolognese, 2015
(itacalibri.it).
Anche per i volontari è un momento di incontro con il Vangelo:
vedono l’amore di Dio in queste mamme, nonostante l’esperienza
buddista.
Come si svolge una giornata-tipo alla casa?
Ci si alza alle 6. Le mamme fanno il bagnetto ai bimbi, anche a
quelli che non sono i loro. Poi, alle 8 e 30, li accompagnano con la
carrozzella per la colazione. Chi deve accompagnare il bimbo
all’ospedale è già partita. Poi preghiamo l’Angelus e leggiamo il vangelo del giorno. All’inizio lo spiegavo, ora che il linguaggio è conosciuto basta un momento di silenzio, dopodiché ogni mamma può
dire un pensiero. L’incontro dura una mezzora, parlano quasi tutte.
A pagina 6, Marc Chagall,
«La mère à la robe rouge»
(1965-68)
e suor Angela Bertelli
con un ospite
della Casa degli angeli
Comincia poi la fisioterapia, uno a uno, fino alle 10. Tutte le
mamme sanno fare tutto a tutti, dalla fisioterapia alla cucina. Dalle
10 alle 11, merendina e mezz’ora di gioco insieme (pittura,
bowling...). A mezzogiorno, altra fisioterapia. Intanto si prepara da
mangiare. Alle 12.30 metà delle mamme mangiano, poi le altre, a turno, per accudire i bimbi.
Alle 13.30 arrivo e ci fermiamo per la preghiera del pomeriggio.
Stiamo leggendo la Bibbia, ora siamo ai Profeti. Do un’indicazione
per aiutare a capire come queste cose hanno a che fare con la vita.
Dalle 14.30 alle 15.30, ancora fisioterapia, poi la merendina. Quindi
facciamo pulizie della casa e un secondo bagno ai bambini. Verso le
17 si va verso il refettorio per il pasto serale. Alle 17.30 le mamme tornano a casa, dopo aver lasciato tutto pulito. Alla domenica non c’è
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tava. Dopo sei mesi, padre Adriano mi fornì un’equipe di sei donne.
La mattina pregavamo, poi andavamo due a due. Fu così che conoscemmo i primi disabili.
A dicembre 2004, prima dello tsunami, Federica e Cristiano, due
fidanzati di Venezia che conoscevano padre Adriano, venuti a Bangkok, hanno proposto alla Caritas di Venezia, con l’accordo dell’arcivescovo di Bangkok, di finanziare la costruzione di una casa per
bimbi disabili. Loro stessi destinarono al progetto i doni del loro matrimonio.
Mi proposi di non chiedere niente. All’inizio del 2007, fu posta la
prima pietra della Casa degli angeli. Era l’11 febbraio, inizio delle celebrazioni del centocinquantesimo anniversario delle apparizioni di
Lourdes. L’anno dopo, la casa era pronta. Quando le sorelle sono venute nel 2009 e abbiamo formato la nostra comunità, il lavoro era
impostato.
Che cosa significa per te dunque essere missionaria in Thailandia?
Marisa Mori, «Maternità
o L’ebbrezza fisica
della maternità», 1936
fisioterapia. Al giovedì l’adorazione in cappellina davanti al Santissimo, per ricentrare tutto il servizio nel dono di sé come ha fatto e ci
insegna Gesù stesso nell’Eucaristia.
Qual è il clima nella Casa degli angeli?
È davvero una famiglia — anche per me! — dove le mamme imparano ad amare i loro bambini in modo più vero, come un’occasione
di bene e crescita anche per loro stesse. Quando arrivano, non sanno
neanche sorridere. Non conoscono la realtà dell’amore di Dio. Quante volte ho letto loro il racconto della creazione: «Sei uscita dalle mani di Dio, non sei un caso»! Nel buddismo tutto è casualità. «Rileggiamo ancora» mi ha detto una mamma. Rileggendo con loro questi
passi è come aprire una porta. Dico a Dio: «Io ti offro quel poco
che posso, ma tu trasforma il cuore di queste mamme».
Tutto questo come è nato?
Cominciai a prendermi cura dei malati di aids in fase terminale,
che non sapevano che era passata l’assistenza gratuita per loro. Era il
2004-2005, ne ho visti tanti morire, era il tempo dell’esplosione del
problema aids in Thailandia. La gente mi chiamava, il lavoro aumen-
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Per me missione è diventato annuncio del Vangelo attraverso il linguaggio della carità concreta ai più bisognosi, non solo materialmente: non conoscono la speranza e il conforto che solo la compagnia di
Gesù può dare loro, in tutte le vicende drammatiche della loro vita.
Per me è pura grazia, un dono di Dio, vederlo e sentirlo presente in
queste persone, soprattutto nei nostri angioletti: mi dà gioia ed energia senza fine spendermi per loro, per Gesù in loro! Loro sono Cristo nelle nostre mani: quale onore ci è concesso! Anche quando lavi
il culetto a uno di loro è la più bella preghiera che puoi fare! Questo
ripeto sempre alle mamme che poi ridendo — mentre vanno per cambiare il pannolone — mi dicono: «Sister, andiamo a pregare!».
Non ti sembra a volte uno spazio ristretto rispetto alle grandi sfide del
mondo?
L’organizzazione del male l’ho vista davanti alle cliniche per aborti, poi nella Sierra Leone, nei traffici umani in Thailandia... È troppo
potente il male, non lo possiamo combattere noi, sarebbe tempo perso... Meglio per noi usare il tempo e le energie a lavorare per il bene
che Dio ci permette di operare cominciando dalle piccole cose.
«Vi rendete conto delle cose belle che state facendo?» chiedo alle
mamme. Se esse riescono a diventare seme vitale, sarà un seme che
produce altri semi. Non rifiuto mai le occasioni di raccontare. La violenza che abbiamo dentro noi stessi è la stessa che devasta il mondo:
trasformarla in tenerezza è già contribuire a un mondo nuovo.
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di elevazione dei più grandi mistici uniti alle sofferenze della Vergine. In un tardo medioevo che si estende dal XIV al XVI secolo, la forma figurativa esprime quindi una delle scene più forti del pathos cristiano a cui risponde, come un’eco, il lamento di Geremia: «Voi tutti
che passate per la via, considerate e osservate se c’è un dolore simile
al mio dolore» (Lamentazioni, 1, 12).
SPIRITUALITÀ
di SYLVIE BARNAY
La madre
icona della Pietà
S
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ul Golgota, la Vergine sorregge il corpo di Cristo deposto dalla Croce sulle sue ginocchia prima che sia portato nel sepolcro. Nella storia
dell’arte, questo motivo iconografico viene indicato con il termine
Pietà. Il tema fa la sua comparsa nell’Europa del nord a partire dal
1300. È perciò contemporaneo delle nuove forme della devozione
medievale che propongono la contemplazione di Cristo attraverso la
meditazione di nuove immagini visive. Tra queste immagini di pietà,
la Pietà — che ne è l’eponimo — è senza dubbio la più diffusa. L’immagine entra rapidamente negli usi cultuali, accompagnando i canti
«Pietà del Kosovo»: è con il termine medievale che la coscienza
collettiva sceglie di designare una delle più celebri foto giornalistiche
degli ultimi anni. Il 29 gennaio 1990, il fotografo Georges Mérillon
assiste alla veglia funebre di Nasimi Elshani nel villaggio di Nagafc
in Kosovo: il giovane uomo, che è stato appena ucciso dalle milizie
serbe, riposa in pace, davanti a sua madre circondata dalle altre donne della famiglia, che vegliano il suo corpo avvolto in un lenzuolo
bianco. La coscienza collettiva riconosce immediatamente la foto e se
ne impossessa. Nel 1991 vince il premio World Press Photo — proprio
quando ha inizio la guerra del Golfo — e fa il giro del mondo. Il premio mostra la preferenza immediatamente data alla “qualità plastica”
della fotografia piuttosto che all’importanza dell’evento politico a cui
rimanda. Di fatto, nel 1991, la Jugoslavia non è al centro dell’attenzione internazionale, e tanto meno il Kosovo. Bisognerà attendere
l’esodo dei kosovari e l’intervento della Nato nel 1999 perché
questa foto, considerata fino a quel momento un’icona,
diventi una testimonianza che rilascia un’informazione
politica. Da quel momento in poi la scena in secondo piano diviene leggibile, rivelando la realtà
storica che la sottende e che affonda le sue radici in una lunga storia di sofferenze e di
guerre.
A pagina 10, la fotografia
di Georges Mérillon
premiata al World
Press Photo 1991
In basso, prefiche dipinte
su ceramica in un
frammento attico
(535–525 a.C.)
Mentre gli artisti medievali cominciano
a scolpire le Pietà dai volti addolorati,
nel Kosovo medievale del 1389 la battaglia della Piana dei Merli vede la
sconfitta dei popoli serbi e la consacrazione della dominazione ottomana. Le radici del nazionalismo serbo sono legate a questa sconfitta.
Seicento anni dopo, nel 1989, per
commemorare quella battaglia, Slobodan Milošević decide di far piegare la maggioranza albanese sopprimendo lo statuto di autonomia del Kosovo concesso da Tito. La decisione scatena nella provincia, fino a quel momento autonoma, un
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DAL MOND O
Le vedove indù
e il colore proibito
Hanno manifestato
per le strade di
Lalitpur in
cinquecento contro
una pratica
tradizionale della
loro religione che le
discrimina da secoli.
Secondo un’usanza
della confessione
indù, le donne che
rimangono vedove
sono costrette a
portare il lutto per il
resto dei loro giorni,
devono eliminare dal
loro abbigliamento
tutto ciò che è rosso
e sono obbligate a
vestire solo di
bianco. Tutto questo
porta a una
discriminazione ed
emarginazione di
fatto da ogni attività
lavorativa e sociale.
Lo slogan della
manifestazione era:
“Rispetto per le
donne vedove
ricoperte di rosso”.
Più praticanti
degli uomini
A livello globale ci
sono più donne che
uomini che si
identificano con una
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acceso movimento di protesta, una sollevazione non armata e manifestazioni che vengono represse nel sangue. Nasimi Elshani, compianto
dalla madre e dalle altre donne della veglia funebre, è una delle vittime di quella repressione. Il giovane aveva ventott’anni.
L’immagine di dolore evoca le sofferenze di tutte le madri in un
grido che attraversa il tempo: l’immagine è vibrante, l’immagine è
sorprendente. La pietà cristiana e la fotografia contemporanea si congiungono come in una scena eterna di compassione. La madre addolorata sta accanto al figlio morto. Ma, laddove la Pietà rimanda alla
Passione di Cristo che i vespri meditano al momento della deposizione dalla croce, la fotografia coglie dal vivo un rituale funerario musulmano, al quale partecipano solo le donne, mentre gli uomini restano in un’altra stanza prima di accompagnare la salma al cimitero.
Unite in uno stesso dolore, le due immagini si distinguono dunque
radicalmente, evocando una il mondo cristiano, l’altra il mondo musulmano. La fotografia di Georges Mérillon inoltre non riproduce un
modello, come si direbbe per esempio di una copia. Non copia dunque la Pietà medievale: non c’è nessuna ripetizione degli archetipi
della pittura occidentale. Al contrario, l’icona fotografica sembra indicare la continuità di un’immagine in movimento. Richiama così subito alla mente l’immagine medievale della Pietà ma, ancor prima di
essa, le scene di compianto dipinte sui vasi antichi. Il fondamento
cultuale comune dei Balcani, in cui s’intrecciano le religioni cristiane
e musulmane, non dimentichiamolo, è sempre quello dell’antichità
greca.
Prefiche dell’antichità, mater dolorosa medievale, Pietà del Kosovo:
la fotografia di Georges Mérillon è come la forma che ritorna di
un’immagine in movimento, la cui rilevanza il pensiero greco aveva
già colto a suo tempo. La fotografia risponde ancora alla definizione
dell’immagine così come lo storico Aby Warburg la concepisce concretamente nel primo decennio del Novecento. Il pensatore di origine ebraica — come il suo contemporaneo Mallarmé — voleva introdurre a «una fisica delle passioni e a una storia dell’umanità sofferente», cercando nelle opere le espressioni collettive delle sofferenze che
attraversano la storia. Lo scopo dello storico dell’arte è in effetti di
sapere come la sofferenza o il pathos vissuto dall’uomo, il più delle
volte determinato da un linguaggio gestuale — come per esempio un
gesto di lamento — dia vita all’opera d’arte: in altre parole, a una
“forma” che Warburg chiama Pathosformel (“formula di pathos”).
Andrea Mantegna,
«Lamento
sul Cristo morto»
(particolare, 1475-1478)
A pagina 14, una scena
del film «Il vangelo secondo
Matteo» di Pier Paolo
Pasolini (1964)
Da allora ogni immagine di sofferenza è come un’immagine boomerang, portando la forza del passato nel presente, in altre parole,
creando la sua memoria. Di fatto, per Aby Warburg «la memoria è
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nome della musa della memoria, Mnemosyne, Aby Warburg inserisce
jdunque molte immagini di Pietà medievali. Sulle tavole della Mnemosyne si allineano così le riproduzioni di numerose Pietà, quelle di
Donatello, di Mantegna, di Raffaello, accanto a scene di vasi antichi,
lamenti terribilmente silenziosi che fa udire l’Italia degli anni che
vanno dal 1140 a 1520.
Queste immagini non mostrano la morte
ma la vita più forte della morte: una vita capace di trasformare
le lacrime in speranza
la disperazione in azione, la notte in un mattino che sorge
una forza che si manifesta nel corso del destino umano in quanto
eredità comune». La memoria è “sopravvivenza” (Nachleben). Con il
termine “sopravvivenza”, Warburg designa anche quello che, in
un’immagine, ha perso il suo valore di uso e di significato di partenza, ma continua comunque ad agire nel tempo grazie al suo potenziale di memoria. Al centro della scienza della cultura da lui inventata, questo tipo di immagine è allora simile a un “fantasma” capace di
superare i confini dello spazio e del tempo. Le immagini sono in effetti vive e migranti, ragion per cui sanno perdurare nelle memorie,
consapevoli o inconsapevoli. Nel suo atlante d’immagini, a cui dà il
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Riguardando le immagini come Aby Warburg guardava le immagini di pathos, lo storico e filosofo contemporaneo Georges Didi-Huberman crea a sua volta un atlante di immagini in cui la Pietà medievale sta accanto alle fotografie dei comunardi morti e alle immagini
di pathos del cinema contemporaneo: Pasolini (La rabbia, Il Vangelo
secondo Matteo), Ėjzenštejn (La corazzata Potëmkin), Paradžanov (I cavalli di fuoco), Dreyer (Ordet)... La potenza delle immagini non dipende dalla loro iscrizione nel registro delle belle arti. Le immagini
sono contenute nell’atlante per la loro potenza estrema di esprimere
la sofferenza, il pathos, come faceva la Pietà di Michelangelo. In
questo modo le immagini non appartengono solo al loro presente
storico. Pertanto, la memoria è senza tempo. Ciò che la storia stessa
contiene della sopravvivenza delle immagini del pathos — dalle Pietà
alla Pietà del Kosovo — è la posta in gioco cruciale della vita al centro stesso della morte. Tutte queste immagini, in effetti, non mostrano la morte, ma la vita più forte della morte: una vita capace di trasformare le lacrime in speranza, la disperazione in azione, la notte in
un mattino che sorge. Nelle tenebre del venerdì santo, nel cuore crocifisso di Maria, tacita sgorga una sorgente di vita dalla piaga di Cristo, dove tutto il pensiero medievale situa la nascita della Chiesa.
Nella tragedia jugoslava, attraverso la forza delle donne musulmane,
è presente la vibrante fierezza che può rimettere in cammino un intero popolo e trasformare il gemito in lotta. «Attorno al corpo di Nasimi c’è Sabrié, sua madre che si tiene accanto alla sua testa, e alla sua
sinistra Aferdita, la giovane sorella sedicenne. Al centro in lacrime,
l’altra sorella, Ryvije», descrive Georges Mérillon. Sono loro a testimoniare la forza dei vivi nel loro superamento della morte per giungere alla vita. Allora le Pietà diventano icone per aprire spazi e tempi, per uscire dal buio.
Quindi il termine Pietà può far udire la sua eco in un presente impegnato nelle forme di secolarizzazione che gli sono proprie per aprire un nuovo spazio di credenza che non ha nulla di vitalistico. La
Pietà del Medioevo cristiano e la Pietà della tragedia jugoslava contemporanea esprimono, ognuna a suo modo, l’apertura alla speranza
messianica. Il termine Pietà, al di là dei secoli e delle confessioni,
non trasmette forse questa sopravvivenza?
religione, pregano
quotidianamente e
definiscono la
religione «molto
importante»,
secondo i dati del
centro di ricerca
statunitense Pew
Research Center. I
dati L’83,4 per cento
delle donne del
mondo si identifica
in un’appartenenza
religiosa, mentre per
gli uomini il dato si
ferma al 79,9. Questa
differenza in cifre è
pari a circa 97
milioni di persone. Il
gap in favore delle
donne è più marcato
nel cristianesimo
mentre tra i
musulmani e gli
ebrei ortodossi sono
gli uomini a
praticare
maggiormente. Più
donne che uomini
partecipano alla
liturgia cristiana
domenicale e le
differenze
percentuali più
significative si
registrano in
Colombia e in Italia,
rispettivamente con
il 20 e il 19 per cento
in più donne che
uomini.
La crisi non ferma
le donne in Italia
Più tecnologiche, più
digitali, più disposte
a mettersi in gioco:
la crisi non ha
fermato le donne: tra
il 2010 e il 2015 sono
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IN NOVEMILA CARATTERI
di ANNE SOUPA
Le cinque
madri
N
ulla impedisce d’immaginare che Mosè, un giorno in cui la sua famiglia era riunita, abbia anche ricordato ai suoi due figli il prodigioso
concorso di aiuti al quale doveva la vita, tanto esso mette in evidenza l’attenzione, la sollecitudine e l’amore che aveva ricevuto tra terribili pericoli.
Due bambini stanno attorno al padre, intimoriti ma ben decisi a
non perdere nulla del racconto delle sue imprese. Mosè mette sulle
ginocchia il più piccolo, Eliezer, mentre Gershon si siede a gambe
incrociate sulla stuoia che ricopre il pavimento della tenda. E Mosè
racconta...
— Eliezer, figlio mio, apri la tua manina e conta le tue dita.
— Sono cinque, padre.
— Sappi che ho avuto bisogno dell’aiuto di cinque donne perché
noi fossimo insieme oggi, tutti in vita. Prima che io nascessi, il mio
popolo viveva in Egitto e doveva lavorare duro al servizio del Faraone. Ma gli ebrei erano così numerosi da far paura al re. Allora lui ha
ordinato alle levatrici: «Uccidete i figli maschi, lasciate vivere le figlie
femmine!».
Eliezer si stringe al petto del padre. Gershon si affretta ad aggiungere:
— Bastava che le mamme non dicessero niente alle levatrici!
— Bravo Gershon, che tu possa essere tanto astuto come loro! Ma
Shipra e Pua — così si chiamavano — hanno deciso di aiutare lo stesso le mamme e di lasciar vivere i figli maschi. Hanno disobbedito;
niente femmine senza maschi! E hanno persino mentito al Faraone,
dicendogli che le mamme se la cavavano da sole.
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Gershon sobbalza:
— Disobbedire? Ma è il contrario di quello che c’insegna nostro
nonno Ietro!
— Gershon, tu sei grande, puoi capire che a volte bisogna mentire
di fronte a un ordine crudele che conduce alla morte. Quelle donne
hanno veramente salvato la vita di molti uomini del nostro popolo.
Allora il Faraone, vedendo che non riusciva a farsi obbedire, ha chiesto a tutti di gettare i figli maschi nel fiume.
— Persino alle mamme? E loro hanno disobbedito?
— Indovina!
John Bradford
«Il ritrovamento di Mosè»
(2012)
È Ietro che, dal fondo della tenda, interviene dicendo:
— Piccoli, non avete ancora capito che vostro padre era stato gettato nel fiume, perché il suo nome, Mosè, significa “salvato dalle acque”?
— Ma tu, sei ancora vivo...
I bambini si agitano. Senza essere stato invitato a farlo, Gershon
sale sull’altro ginocchio di Mosè, che lo sostiene teneramente con il
braccio.
— È una lunga storia... Innanzitutto, Eliezer, guarda la tua mano,
di’ “Pua” e “Shipra” e chiudi il mignolo.
— Ma sono due?
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— Ha preso un grosso bastone biforcuto e lo ha agganciato al bordo della cesta.
Lawrence Alma-Tadema
«Il ritrovamento di Mosè»
(1904)
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— Di ogni bambino si è occupata una sola, quindi valgono per
una. Quante dita sono restate aperte?
— Quattro, padre.
— Lascia la mano ben aperta. Parliamo delle altre tre donne.
Quando sono nato, mia madre mi ha trovato bello, perciò all’inizio
mi ha nascosto, non riuscendo a decidersi a gettarmi nel fiume.
— Chiudo un altro dito?
— Pazienza... Mia madre ha preparato per me una piccola cesta di
giunchi rivestita con una colla che le permetteva di galleggiare, con
una copertura per proteggere la mia pelle e i miei occhi. Poi si è decisa a depormi sul grande fiume d’Egitto, quello che dona la vita agli
egiziani.
— Ma tu potevi morire!
— Forse.
— La tua mamma doveva essere triste!
— Certo, la vita a volte è crudele; ma dimentichi che mia madre
era molto astuta, come le due levatrici. Aveva chiesto a mia sorella di
appostarsi sulla riva del fiume per vedere.
— Anche io sarei andato a vedere che cosa succedeva, dice
Gershon.
— Chiudo un altro dito?
— Ascolta piuttosto. La figlia del Faraone passeggia e vede uno
strano fagotto che va alla deriva sul Fiume. Che cos’è? Manda la sua
serva a prenderlo.
— Ah, ma forse l’ha fatto per ucciderti?
— Eliezer, sei sciocco: come puoi ben vedere, papà è qua. — Ma
papà, come ha fatto tua sorella a recuperare la cesta?
Gershon è impaziente di parlare:
— Io lo so, bisogna tirare molto delicatamente, altrimenti, patatrac,
il bambino cade in acqua e muore.
— Ah, figlio mio, finirò col credere che eri lì anche tu quel giorno!
In effetti, la serva è stata abile; ha portato il cesto alla sua padrona.
— Allora chiudo un altro dito?
— Sì, chiudi l’indice, è il dito che mostra che cosa bisogna fare. La
serva è stata efficiente.
— Quante dita ti restano?
— Tre, padre.
— Poi la figlia del Faraone ha sollevato la copertura e ha trovato
me dentro.
— Dovevi aver fame!
— Certo, e non ero più con la mia mamma. Ero diventato un piccolo bambino errante, senza genitori, senza casa, sballottato dalla
corrente del fiume... un senza terra, un emigrato...
— Ma è il mio nome! Gershon vuol dire “Sono un immigrato in
terra straniera”.
— Gershon, mio caro, tu hai questo nome perché la tua storia viene dalla mia.
Fiero e confuso, Gershon scende dalle ginocchia di suo padre e sedutosi sulla stuoia, ascolta avidamente le sue parole.
— Ma la figlia del Faraone aveva il cuore tenero. Ha detto a se
stessa che un neonato vivo era più importante di un ordine, anche se
questo veniva da suo padre.
— Allora ha disobbedito?
— Chiaro!
— Ha disobbedito al Faraone? Allora è grave!
— Certo. Capisci fino a che punto quella donna voleva che la vita
trionfasse sulla morte. Lei mi ha salvato.
— E sono due disobbedienti.
— Disobbedienti agli uomini, ma obbedienti a Dio che vuole la vita del suo popolo.
— Tre, perché le levatrici sono già due.
— Allora la figlia del Faraone ha capito che io ero un piccolo degli
ebrei, mi ha consolato.
— Devi aver smesso di piangere allora. Ma dovevi anche mangiare.
— C’erano sicuramente del pane e dei datteri.
— Ma Eliezer, i neonati non hanno i denti, bevono solo il latte
della loro mamma, o quello di un’altra donna che ha già un neonato
e può dare il latte a tutti e due.
— Una balia, Eliezer, lo sai bene, come Ayala nella nostra famiglia.
entrate nel mercato
35 mila nuove
aziende femminili, il
65 per cento
dell’incremento
totale (53 mila). Una
dinamicità che
triplica quella
maschile (3,1 per
cento di tasso di
crescita contro lo 0,5
degli imprenditori
uomini), che ha
portato a quota 1
milione e 312 mila le
imprese guidate da
donne e che dà
lavoro a quasi tre
milioni di persone. I
dati del rapporto
«Imprese InGenere»,
realizzato da
Unioncamere
fotografa un mondo
in trasformazione
che però non riesce a
liberarsi dai retaggi
di un sistema che
penalizza le madri e
che relega il
Belpaese agli ultimi
posti della classifica
Ue per occupazione
femminile.
Dorothy Day verso
gli altari
L’arcidiocesi di New
York ha annunciato
l’apertura
dell’inchiesta
canonica — raccolta
di testimonianze
intorno alla vita e
alle opere da
presentare alla
Congregazione per le
cause dei santi in
Vaticano — relativa
alla «serva di Dio,
>> 21
19
D ONNE CHIESA MOND O
<< 19
— Credete che sia facile trovare una nutrice a casa della figlia del
Faraone, che non è ancora mamma e che vive con altre giovani come
lei? Come fare allora?
— Beh... basta andare a cercare una balia tra gli ebrei, perché hanno tanti figli.
— Giusto Eliezer! È quello che ha proposto mia sorella alla figlia
del Faraone.
— Ah, tua sorella era ancora lì?
— Certo, nostra madre le aveva detto di non perdermi di vista. Allora lei mi seguiva ovunque.
— Le dò un dito?
— Puoi darle il pollice, perché è stata tanto utile come un pollice.
Quante dita ti restano?
— Le due centrali.
— Ora, indovinate chi è andata a cercare mia sorella?
I due bambini esclamano insieme:
— Mamma!
— Sì... la mia mamma, vostra nonna.
— La tua mamma non ha avuto paura di andare a casa della figlia
del Faraone?
— No, era troppo felice di sapermi in vita.
— Sono certo che sentiva che la figlia del Faraone era sua amica,
perché tutte e due volevano che tu vivessi.
Mia madre ha preparato per me una piccola cesta di giunchi
Poi si è decisa a depormi sul grande fiume d’Egitto
Ero diventato un piccolo bambino errante, sballottato dalla corrente
Senza far rumore, Zippora si avvicina e si siede.
Con sguardo sorridente, Mosè continua:
— La mia mamma, soprattutto, non doveva dire che era la mia
mamma.
— Ma perché?
Il silenzio invade la tenda. Mosè sembrava addirittura un po’ in
imbarazzo.
— Ora cerco di spiegarvi, dice infine Ietro, accarezzando la sua
barba grigia. Se vostra nonna avesse detto la verità, la figlia del Faraone non avrebbe più potuto fare nulla, mentre era lei che aveva appena salvato il bambino. Era preferibile che fosse onorata come una
D ONNE CHIESA MOND O
20
madre adottiva, perché si prendesse cura del bambino, alla sua maniera.
— Grazie a questo piccolo segreto ben custodito, la figlia del Faraone ha trovato da sola una buona soluzione. Ha chiesto a mia madre di diventare la balia del neonato abbandonato. L’ha persino pagata per farlo.
Zippora sobbalza:
— Tua madre è stata pagata per nutrire il proprio figlio, come
un’estranea!
Mosè fissa sua moglie:
— Sì, come una estranea... Vedo molta umiltà in questa rinuncia...
I nostri figli non ci appartengono. Sono di Dio. Noi dobbiamo solo
prendercene cura fino all’età adulta, senza vanagloria né desiderio di
possesso.
Perché io vivessi, lei ha accettato di essere una sorta di madre
nell’ombra. Era troppo felice di vedermi, di coccolarmi, di darmi il
suo latte, di gioire nel vedermi crescere. Ma la sua gioia sarebbe stata
breve: non appena sono stato in grado di mangiare cibo solido, mi
ha ridato alla figlia del Faraone, che mi ha cresciuto come un figlio.
— Allora tu hai due mamme?
— Se vuoi. E sono cresciuto imparando la lingua e le usanze degli
egiziani. Sono stato un bambino coccolato. Tutte quelle donne si sono prese cura di me, sono state la mano di Dio su di me.
— Tu, Mosè mio, hai dato molto, ma hai anche ricevuto molto.
Spero che avvenga lo stesso a ognuno di noi, osserva Zippora, commossa.
— Ed io, che cosa faccio con le mie due dita?
— Indovinate!
Eliezer si affretta a rispondere, prima che suo fratello gli tolga la
parola.
— Il dito più grande va alla tua mamma, perché è la tua vera
mamma. E la figlia del Faraone che ha disobbedito, e ti ha salvato la
vita, ha diritto all’altro dito.
— Bravo Eliezer, ogni volta che aprirai la tua mano, saprai che, anche se non lo ricordi, sei stato salvato cinque volte — e persino molte
di più — da tutti quelli che si sono presi cura di te.
Eliezer, tutto sorridente, si esercita ad aprire e chiudere la sua mano e conclude dicendo: È una mano intera che disobbedisce!
— E anche di più, perché ci sono stati altri ebrei che hanno saputo
obbedire a Dio, nonostante gli ordini malvagi. Figli miei, cercate di
fare in modo che le vostre due mani obbediscano a Dio, per la vita e
non per la morte. Ecco che cosa c’insegnano queste donne coraggiose e astute.
Dorothy Day» al
fine di determinare
le «virtù eroiche» e
dichiararla
«venerabile». Una
definizione, secondo
l’iter tradizionale,
necessaria per la
richiesta di
beatificazione e la
canonizzazione di
questa donna. Nel
2000, su richiesta del
cardinale John
O’Connor, il
Vaticano ha fornito il
suo nulla osta e
Dorothy Day è stata
dichiarata serva di
D io.
360 anni per stupro
di indigene
in Guatemala
Confermata in
Guatemala la
condanna di febbraio
scorso nei confronti
di due militari per
aver stuprato donne
indigene. Hanno
atteso più di
trent’anni prima di
avere giustizia. Sono
11 donne, oggi
ultrasettantenni, che
tra il 1982 e il 1983
hanno subito degli
abusi sessuali presso
la base militare di
Sepur Zarco, nel
nord del Guatemala.
I militari sono stati
riconosciuti colpevoli
di crimini contro
l’umanità per
violenze sessuali e
omicidi. È la prima
volta che nel paese
un caso del genere
porta alla condanna
di militari.
21
D ONNE CHIESA MOND O
IL LIBRO
Come mai, una volta abbattuti i numerosi ostacoli legali, le donne hanno avuto così tante difficoltà ad affermarsi in quegli ambiti che in passato erano occupati dagli uomini? In altre parole, per quale motivo le donne rimangono scarsamente rappresentate nei settori di potere e influenza? Perché continuano ad avere un reddito
così tanto inferiore a quello degli uomini, anche
quando sono impegnate nello stesso tipo di lavoro? In breve, perché l’uguaglianza si è dimostrata così irraggiungibile per le donne?
La ricchezza
della dipendenza
Le statistiche, almeno negli Stati Uniti, parlano chiaro. Le donne che non hanno responsabilità legate alla cura, che non hanno figli, si sono
spinte un po’ più vicino alla parità di stipendi e
retribuzione con gli uomini. Non si può dire lo
stesso per le donne con figli, malgrado gli alti
livelli di partecipazione al lavoro e di istruzione
che le donne hanno ottenuto come gruppo.
Negli Stati Uniti e in tutto il mondo, le donne che hanno responsabilità legate alla dipendenza sono più povere e hanno sempre trovato
irraggiungibile l’uguaglianza. Per tutti i progressi delle donne, le società nella maggior parte
del mondo, ma marcatamente nelle nazioni più
ricche, come gli Stati Uniti, non sono arrivate a
cogliere le esigenze della dipendenza. Finché
concepiremo noi stessi come creature le cui vite
non sono solo profondamente interdipendenti
ma anche, in alcuni momenti, inevitabilmente e
D ONNE CHIESA MOND O
22
necessariamente dipendenti, queste esigenze
continueranno a rendere utopico un mondo in
cui vige una piena uguaglianza di genere. Dobbiamo respingere la visione per la quale la dipendenza, quando è inevitabile e non è semplicemente la conseguenza di strutture ingiuste, è
uno stato miserabile da sfuggire. Finché non accettiamo e addirittura comprendiamo questa dipendenza come origine dei nostri legami più
profondi e come radice di ogni organizzazione
sociale umana, non troveremo mai la strada verso una società pienamente giusta e assistenziale
in cui si realizzi l’uguaglianza di genere.
Ho lottato con questi stessi interrogativi e sono arrivata alla conclusione che soltanto attraverso dei cambiamenti strutturali della società
potremo cominciare a essere determinati rispetto
a ciò che era così significativo per le relazioni
strette più importanti, rispetto alle relazioni di
dipendenza, e a uno spazio per la disabilità, anche nel momento in cui le donne cercavano di
realizzarsi in modi nuovi.
L’indipendenza che spesso le donne cercano
non è quella forma di indipendenza isolata che
la filosofia liberale proclama, ma una forma che
richiede il presupposto della responsabilità sociale per aiutare e supportare le relazioni di dipendenza.
Se dobbiamo lavorare per un mondo in cui le
conquiste di alcune donne non dipendano dallo
sfruttamento del “lavoro di dipendenza” di altre
donne (che lasciano scoperte le loro famiglie)
dobbiamo pensare all’assistenza e alla giustizia
in un contesto globale.
(Dall’introduzione di E. Feder Kittay, La cura
dell’amore, Milano, Vita e Pensiero, 2010)
Madri per sempre
FO CUS
di SILVINA PÉREZ
T
utto cominciò con le ronde delle Madri di Plaza de Mayo. In piena
dittatura argentina, nel 1976, alcune donne con il capo coperto da un
fazzoletto bianco marciavano ogni giovedì di fronte alla sede del Governo per esigere notizie sui loro figli scomparsi. I militari le chiamavano “le pazze”. Erano molto sole, ma ogni volta erano di più. Nel
giro di pochi mesi, alcune iniziarono a riunirsi in un angolo della
piazza: molte delle loro figlie erano incinte quando erano state sequestrate. Cercavano non solo dei figli, ma anche dei nipoti. «Il primo giorno eravamo un gruppetto sparuto. Avevamo necessità diverse, non bastava chiedere l’habeas corpus alla giustizia, andare dal Ministero degli Interni, dall’esercito. Lo facevamo per i nostri figli. Ma
andavamo anche nei tribunali dei minori, negli orfanotrofi», racconta
Mirta Acuña de Baravalle, una delle fondatrici delle Nonne di Plaza
de Mayo, che a 92 anni non ha ancora smesso di cercare il nipote.
Ogni volta arrivavano più nonne e madri. Si incontravano nei bar attorno alla piazza. Avevano solo se stesse. Persino i familiari, compresi
23
D ONNE CHIESA MOND O
con il suo tono quieto, convinta che il movimento delle Madri sia
«nato da una camminata silenziosa che si è trasformata nel grido più
forte di tutti i tempi». «È vero che la battaglia contro il tempo, contro il passare degli anni, contro il corpo che invecchia e non ti appartiene più è la più dura da combattere, ma nonostante tutto siamo ancora delle madri!».
Mirta non si è mai arresa e non intende farlo ora. Si lamenta per
«i piedi che tante madri si sono consumate camminando nella Piazza, ma oggi andiamo avanti, alcune in sedia a rotelle e altre con un
evidente declino fisico, ma andiamo avanti». Il sequestro di sua figlia, Ana María, avvenuto il 28 agosto 1976, fu il punto di rottura
che spinse una madre «lontana dalla politica e occupata a badare alla famiglia» a dedicare la sua vita a una ricerca condivisa. Le madri
resero sociale la maternità. Fu solo per amore, un amore infinito, che
«passammo dalla lotta per il figlio di una alla lotta per i figli di tutte», costruendo a poco a poco una coscienza di genere fondata sul
passaggio dalla maternità biologica a quella associativa. I figli reclamati oltrepassavano il legame con i propri genitori perché venivano
considerati figli scomparsi di una determinata comunità sociale e politica. Mirta sostiene che queste madri, che oggi hanno un’età com-
A pagina 23, le madri
di Plaza de Mayo
nel quarantesimo
anniversario del colpo
di stato militare
(24 marzo 2016)
Qui sopra, una foto
delle manifestazioni
del 1979
D ONNE CHIESA MOND O
24
quelli di Mirta, chiedevano loro di arrendersi. Era troppo pericoloso.
Un’auto parcheggiata troppo a lungo davanti alla porta di casa, un
rumore, tutto le spaventava. Ma insistevano. La dittatura uccise la
prima leader delle madri, Azucena Villaflor, il cui cadavere fu rinvenuto nel Río de la Plata. Fu vittima dei cosiddetti voli della morte.
Il terrore era la norma, ma non smisero di ritrovarsi ogni giovedì
in piazza. All’inizio stavano ferme, ma glielo proibirono, quindi cominciarono a marciare in cerchio. «All’epoca nessuno ci aiutava, c’era
molta paura. Con la democrazia [1983] hanno cominciato a sostenerci di più. La gente accorreva ogni giovedì. Molti erano curiosi, volevano sapere che cos’era successo in quegli anni terribili», racconta
Mirta. Come tutte le mattine, anche oggi che ha 92 anni comincia la
giornata con la lettura dei quotidiani, come parte di un impegno che,
assicura, «è sia del corpo sia dell’anima». La giornata prosegue con
letture e discussioni, perché «ci sono madri e nonne che hanno opinioni diverse», e alla fine, alle cinque di pomeriggio, torna a casa
con un autobus attrezzato per disabili «per sbrigare, se riesco, alcune
faccende di casa». Si sorprende quando le viene chiesto se continuerà
a marciare con le Madri attorno alla Piramide di Plaza de Mayo, come 40 anni fa. «Non me lo chiedere nemmeno» scherza. «Ogni
aspetto della mia vita ha a che fare con l’andare in piazza» afferma
In Argentina le madri di Plaza de Mayo resero sociale la maternità
Fu solo per amore che «passammo
dalla lotta per il figlio di una alla lotta per i figli di tutte»
Costruendo una coscienza di genere fondata sul passaggio
dalla maternità biologica a quella associativa
presa tra gli 85 e i 95 anni, a differenza di quarant’anni fa, sono state
«partorite dai propri figli». Quale dolore più grande per una madre
— aggiunge Mirta — che perdere il proprio figlio? Forse quello di vederlo sparire, nel nulla, senza sapere che cosa gli è successo e dove
giace il suo corpo. «Dobbiamo ancora recuperare 350 nipoti sequestrati, ma vedo la lotta con rinnovata speranza. Finché saremo in vita, noi madri e nonne continueremo a lottare. Inoltre, adesso i nostri
nipoti ci aiutano a portare avanti l’organizzazione, che non smette di
crescere. Stiamo aprendo una rete in Francia». Mirta è piena di energia e ottimismo.
25
D ONNE CHIESA MOND O
Jacopo Tintoretto
«Madonna col Bambino
e i santi Cecilia, Marina
Secondo, Cosma
e Damiano»
LA SANTA DEL MESE
Come un romanzo
d’avventura
Melania Mazzucco racconta santa Marina
lle Gallerie dell’Accademia di Venezia si conserva una pala d’altare
che Tintoretto dipinse per la chiesa del convento benedettino femminile dei Santi Cosma e Damiano, alla Giudecca. Ginocchioni in primo piano,
ammantati nella rossa veste dottorale, Cosma e
Damiano, medici, guaritori e patroni dei dottori,
offrono alla Madonna — che appare loro in cielo
con Gesù bambino in braccio, in un tripudio di
angeli — gli strumenti del loro mestiere: una bacinella, il cantero, il bisturi. La pala era infatti
destinata all’altare dei medici anargiri (ovvero,
che operavano gratis). Ma i due santi non sono
i soli a contemplare la Madonna. Fra le nuvole
sostano santa Cecilia, a sinistra, e a destra san
Secondo (lui pure santo taumaturgo, protettore
delle partorienti cui facilitava l’espulsione della
placenta). Ma chi è la figura al centro dell’immagine?
A
Sembra un giovane monaco coi capelli rasati,
avvolto in un rozzo saio di tela. Circonfuso di
D ONNE CHIESA MOND O
26
splendore dorato, volge gli occhi al cielo. Fra
seno e spalla, dolcemente, stringe, con naturalezza, la testa di un bimbo. Non un attributo
ma il gesto premuroso ci rivela la sua identità.
L’enigmatica e androgina figura è santa Marina.
A Venezia vantava una chiesa a lei dedicata,
nella zona commerciale di Rialto. Vi si veneravano le sue reliquie, da quando un mercante veneziano aveva trafugato il suo corpo, donandolo
alla città natale. Le monache benedettine, committenti del quadro, avevano particolare ragione
per far effigiare Marina nella posizione privilegiata di tramite fra cielo e terra. Marina (Celsi)
era infatti il nome della badessa che aveva fondato il convento, nel XV secolo. Ma Tintoretto
dovette rallegrarsi di poter valorizzare proprio
Marina.
La storia di Marina è un avvincente romanzo
d’amore e d’avventura, che ebbe infatti uno
straordinario successo e fu tradotta in molte lingue. La santità e il miracolo sono ingredienti secondari di una narrazione popolare che della
novella e della favola ricalca l’intreccio, la dinamica, i personaggi. Siamo nell’VIII secolo, in
Medio Oriente, terra leggendaria di asceti, eremiti, deserti e digiuni. Quella di Marina è una
famiglia di ferventi cristiani della Bitinia. Orfana di madre, cresce col padre, che ama profondamente e da cui è profondamente amata.
Quando il padre entra in convento e si fa monaco, entrambi quasi si ammalano di dispiacere.
Così, pur di non separarsi, escogitano un inganno. Il padre le taglia i capelli, Marina si traveste
da ragazzo, e si fa monaco nello stesso convento col nome di frate Marino. Marina/o prega,
digiuna, questua. Anche dopo la morte del padre, e per anni, nessuno dei confratelli nutre il
minimo sospetto sulla sua identità. Finché un
giorno la figlia di un oste nella cui locanda frate
Marino e i suoi compagni hanno passato la notte, rimane incinta (di un soldato). Costretta a
confessare la colpa, la ragazza accusa Marino di
essere il padre. Per dimostrare la propria innocenza, Marina dovrebbe solo rivelare la sua natura. Non lo fa. Si accolla un peccato che non
ha commesso. Si sacrifica, per amore di Dio e
del suo prossimo. La bugiarda diventa indemoniata, ma Marina viene scacciata dal convento e
costretta a rintanarsi in una grotta, e poi a prendersi cura del bimbo nel frattempo venuto al
mondo, Fortunato. Vive di elemosina, in miseria, col piccolo sempre in braccio. Mossi a compassione, dopo qualche tempo i monaci la riaccolgono, ma Marina si è ammalata per gli stenti, e muore poco dopo. Solo quando spogliano
il suo cadavere, i monaci scoprono la verità. Il
27
D ONNE CHIESA MOND O
NELL’ANTICO TESTAMENTO
loro compagno era una donna. L’indemoniata
corre a prendere congedo dalla sua vittima, e
appena si avvicina al corpo viene miracolosamente liberata dai suoi demoni.
Questa storia di amore paterno, travestimento
e sacrificio dovette piacere a Tintoretto. Ma anche a sua figlia Marietta. La primogenita, amatissima, avuta dall’amante prima che il pittore
contraesse rispettabile matrimonio con la figlia
di un suo amico. Come il padre di Marina, anche Tintoretto aveva cresciuto la figlia, quasi
fosse orfana. Come quello, pur di tenersela accanto l’aveva travestita da maschio. Aveva scan-
Melania Mazzucco
Scrittrice romana
di primo piano, Melania Mazzucco
lavora anche per il teatro,
il cinema, radio e televisione.
Del 2003 è il romanzo Vita, vincitore
del Premio Strega che ha grande fortuna
anche all’estero. Nel 2005 pubblica
Un giorno perfetto (Premio Hemingway
e Premio Roma), romanzo corale che
racconta ventiquattro ore nella vita
di una dozzina di personaggi
nella Roma contemporanea.
Nel 2009 il libro diventa un film.
Due opere successive sono dedicate a
Jacopo Tintoretto e alla figlia Marietta,
premiate con il Premio Benedetto Croce,
e premio Comisso per la saggistica.
Nel 2011 seguono altri due importanti
riconoscimenti, il Premio Viareggio-Tobino
alla carriera e il Premio De Sica per la
letteratura. Nel 2012 le viene conferito il
premio Elsa Morante per la narrativa per
il suo romanzo Limbo.
D ONNE CHIESA MOND O
28
dalizzato la società, ma aveva potuto così insegnarle a dipingere e a frequentare un mondo
che altrimenti, come femmina, le sarebbe stato
precluso. La storia dei Tintoretto fu meno romanzesca di quella di Marina. Non ci furono
gravidanze misteriose, né accuse infamanti (solo
pettegolezzi). Ma un sacrificio ci fu ugualmente. Se Marina rinuncia alla propria vita per
amore del padre, e di Dio, Marietta fa altrettanto. Rinuncia alla propria possibile gloria di pittrice e nel 1578 acconsente a un matrimonio che
non desidera, rinchiudendosi tra le mura di una
casa qualsiasi.
La pala dei Santi Cosma e Damiano venne
commissionata a Tintoretto sul finire del 1579, e
consegnata qualche tempo dopo (prima del
1583). Così, l’omaggio delle monache benedettine alla fondatrice del loro convento e alla santa
di cui l’aristocratica portava il nome divenne
anche un poetico e privato omaggio del padre
alla figlia.
E il bambino? Non sappiamo che ne è stato
di Fortunato, di cui Marina si era presa cura come fosse davvero suo figlio. Se sia rimasto per
sempre in convento, o se sia tornato nel mondo,
con la madre naturale, perdonata dalla santa
dall’al di là. I documenti ci dicono però che sul
finire del 1579 Marietta era incinta. Nel quadro,
Marina offre la creatura alla Madonna e al
Bambino Gesù. Tintoretto faceva altrettanto
con la figlia di sua figlia? (In quel periodo, il
pittore mandò in un convento benedettino la figlia Gerolama, e si augurava che tutte le sue
quattro figlie legittime prendessero il velo). Marina morì a venticinque anni, Marietta poco dopo i trenta. Rimasta orfana, la figlia cercò la sua
via nel mondo. Le sue tracce si perdono nella
Venezia del XVII secolo. Santa Marina invece è
ancora lì. La chiesa a lei intitolata non esiste
più, ma le sue reliquie sono ancora custodite a
poca distanza, in una teca d’oro, nella chiesa di
Santa Maria Formosa.
La donna
che genera il profeta
di GRAZIA PAPOLA
29
D ONNE CHIESA MOND O
l primo libro di Samuele si apre presentando la storia di una
delle donne più affascinanti dell’Antico Testamento, Anna, la
madre del futuro profeta che dà nome all’intero libro. La sua
figura occupa solo i primi due capitoli, tuttavia il narratore
ne tratteggia un ritratto intenso e, attraverso la sua vicenda,
delinea una modalità di intervento attivo ma non violento in una situazione complessa e dolorosa che pare senza via di uscita. Il lettore,
che ha sentito la storia dei patriarchi, riconosce alcune caratteristiche
delle narrazioni riguardanti gli antichi antenati di Israele che Anna
assume; anche da questo punto di vista la sua figura appare interessante, poiché la donna non riprende semplicemente quei tratti, ma li
reinterpreta in maniera nuova.
I
La storia si apre presentando Elkanà, un abitante di Refataim, di
cui si nominano gli antenati, come se si trattasse di un personaggio
importante. Tuttavia, la sua storia si interrompe subito, perché il narratore dà spazio alla situazione della sua famiglia e in particolare delle sue due mogli, Anna e Peninnà, la prima priva di figli perché sterile, la seconda molto feconda. Non è una circostanza inedita per il
lettore che conosce altre coppie di donne caratterizzate così: Sara e
Agar (Genesi 16; 21, 1-14), Lia e Rachele (Genesi 29, 30; 30, 2).
La sterilità di Anna viene sottolineata con la ripetizione per due
volte dell’espressione «il Signore le aveva chiuso il grembo» (1 Samuele 1, 5.6). La sua condizione ricorda quella di Sara, Rebecca, Rachele, che riuscirono a concepire solo con l’intervento di Dio (Genesi
18, 10-12; 25, 21; 30, 22); il narratore vuole probabilmente rievocare
queste storie lasciando presagire un esito analogo, ma la modalità
con cui ciò avverrà costituisce l’aspetto originale di questa vicenda.
Le mogli di Elkanà
(1250 circa, miniatura
della Bibbia di Maciejowski
foglio 19)
La maternità è peraltro un tema rilevante nella Bibbia: i figli sono
visti come un dono di Dio, un segno della sua benedizione, la speranza di un futuro che riesce a superare il limite della morte: sono loro che possono portare a compimento quanto iniziato dal padre, ed è
nella loro vita che continua quella dei genitori. Per queste ragioni essere sterili era avvertito come una disgrazia, la conseguenza dello sfavore divino; la parola “sterile” indica in maniera forte tutto ciò, perché viene da una radice che significa sradicare: la donna che non genera è sradicata e sradicante, e come tale patisce vergogna, è considerata insignificante e priva di valore. Anna, sebbene amata dal marito,
vive tale situazione e il narratore ne fa comprendere il dramma. Nel
contesto del pellegrinaggio annuale che Elkanà compie al santuario
di Silo, viene presentata la forte tensione che attraversa le relazioni
fra le due mogli. Anna è infatti oggetto di continue umiliazioni da
parte di Peninnà, la moglie prolifica, verso la quale il marito non mo-
D ONNE CHIESA MOND O
30
31
D ONNE CHIESA MOND O
suo dolore a Dio, il solo che non la fraintende. Di fronte al venir
meno della vita, l’unica cosa che sente rimanerle è rifugiarsi nel grido
della preghiera (vv. 9-10).
Anna va al cuore della sua povertà, la accoglie senza subirla, senza
attribuire ad altri la responsabilità della sua situazione, e rivela di nutrire speranze e desideri che, essendo impossibili, domandano l’intervento del Signore. Non si accontenta, non cerca soluzioni intermedie
per risolvere il suo problema (come aveva fatto Sara con Agar). Apre
il suo sguardo e il suo cuore, lasciando che il suo desiderio di fecondità, di futuro, di senso si esprima e lascia che questo desiderio sia
saziato da un Dio che ricolma al di là di ogni attesa.
Anna prega per un figlio
(1250 circa, miniatura
della Bibbia di Maciejowski
foglio 19)
stra né affetto né generosità: nei suoi confronti si mostra giusto (assegna le porzioni del sacrificio dovute a lei e ai figli), ma la sua vera
benevolenza è rivolta alla sterile alla quale dona una parte speciale
(vv. 4-5). A una prima lettura Anna sembra solo una vittima, ma il
narratore delinea la condizione triste anche di Peninnà, utile solo
perché feconda, ma priva di un reale valore agli occhi del marito; la
gelosia e la mortificazione di cui fa oggetto Anna sono le modalità
con cui reagisce, proiettando sulla rivale la situazione che lei stessa
patisce.
Anna invece sceglie una strada differente e non risponde alle offese, pur provando una grande afflizione interiore che la conduce a
non mangiare più (v. 6). Reagire agli insulti, o rinfacciare alla rivale
di non essere amata avrebbe innescato una catena di male; così, non
mette in atto nessun gesto di violenza in risposta all’umiliazione e al
disprezzo, non si mette in competizione, distinguendosi in questo da
Sara e Rachele. La donna invece sceglie di fermare l’offesa su di sé,
di “patirla”, pur di non reduplicarla facendo crescere il dolore senza
trovare una autentica soluzione. La stessa modalità Anna la assume
nei confronti di Elkanà, che prova a consolare la moglie amata con
parole che rivelano quanto egli sia cieco davanti a una situazione che
lui stesso ha contribuito a creare, e come non riesca a comprendere la
sofferenza di una moglie che pure ama, trasformando il suo dolore in
qualcosa che riguarda lui stesso (v. 8).
Anna sembra chiudersi nel suo dispiacere, in una forma di debolezza, ma la rinuncia a reagire si trasforma nella sua forza. Sceglie,
infatti, di parlare e di rivolgere il suo lamento, la sua amarezza e il
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Anna si reca perciò al tempio, dove non solo chiede un figlio, ma
fa il voto di consacrarlo al Signore. Volge uno sguardo e cerca una
soluzione fuori della sua famiglia, domanda un figlio che le consentirebbe di assumere un ruolo sociale differente, di avere un potere finora non goduto, ma non tiene per sé il dono. Proprio questa decisione avrà implicazioni decisive non solo per lei, ma
per tutto il suo popolo: il bambino che nascerà diventerà la speranza di Israele in un’epoca di grande confusione e incertezza politica e sociale, restituirà a
Israele la parola del Signore, sarà il profeta che ungerà re Saul e poi Davide. La modalità che Anna sceglie, le parole che dice, lo sguardo che rivolge alla
realtà assumono tonalità profetiche: nella sua storia
convoca il Signore e lo vede presente nelle vicende
aperte al futuro.
La sua preghiera, infatti, che pure nasce da un cuore amareggiato ed è accompagnata da molte lacrime, è
formulata con grande lucidità: «Signore degli eserciti,
se vorrai considerare la miseria della tua schiava e ricordarti di me, se non dimenticherai la tua schiava e darai alla tua
schiava un figlio maschio, io lo offrirò al Signore per tutti i giorni
della sua vita e il rasoio non passerà sul suo capo» (v. 11).
La preghiera è una supplica che invoca il «Signore degli eserciti»,
un titolo che celebra l’agire vittorioso di Dio in quanto si schiera con
la sua fedele che di sé dice di essere una serva, un appellativo evocatore di adorazione e di confessione della grandezza divina, allusivo
del rapporto di dipendenza che Anna riconosce per sé. La richiedente domanda che Dio si ricordi di lei, guardi alla sua situazione infelice e le dia un figlio maschio. È a questo punto che la donna promette di donare a sua volta il bambino che le sarà concesso. Le sue paro-
L’autrice
Suor Grazia Papola fa
parte
delle suore orsoline
di San Carlo. È
biblista e insegna
Pentateuco presso
l’Istituto superiore di
scienze religiose e lo
Studio teologico di
Verona. Vive a
Desenzano del Garda.
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D ONNE CHIESA MOND O
le non hanno lo scopo di costringere il Signore, quanto di esprimere
che il suo desiderio avrà effettiva attuazione solo nel momento in cui
lei potrà agire come il divino donatore. Il suo sguardo non si ferma
alla realizzazione di ciò che desidera più di ogni altra cosa, ma riesce
a vedere nel compimento il segno di una bontà più grande, l’affermazione della fedeltà divina verso la vita dei suoi fedeli.
La preghiera di Anna ha un testimone, il sacerdote Eli che, vedendo il movimento silenzioso delle labbra della donna, ne fraintende il
comportamento e la accusa di ubriachezza, rimproverandola con
asprezza (vv. 13-14). Ancora una volta Anna è oggetto di un’offesa,
ma questa volta, dopo che, nella preghiera, ha ormai ritrovato la verità di sé e del suo desiderio davanti a colui che è l’unico a comprenderla, non resta muta, ma ha il coraggio di rispondere al sacerdote,
rivendicando la giustezza del suo agire e il valore della sua persona.
Le sue parole suonano autentiche e ricevono la benedizione di Eli.
Il narratore non dice subito che il Signore esaudisce la preghiera,
ma segnala che Anna è trasformata, riprende a mangiare e il suo viso
non è più come quello di prima, passa dalle lacrime alla gioia,
dall’amarezza alla serenità e alla pace. Il cambiamento è prodotto
dalla certezza dell’esaudimento. Come il ricordo della promessa di
Dio aveva spinto Anna a rivolgersi con totalità al Signore, così la fi-
Forte della preghiera nella quale ha offerto tutta la sua vita
Anna può proclamare
che il bene e la salvezza sono di Dio
ducia che Dio farà il suo dono basta a trasformare il suo sguardo e la
sua attesa.
Il desiderio irrealizzabile di Anna si compie: il Signore visita la
donna sterile, rendendo fecondo il suo rapporto con il marito. Nasce
il bambino che la madre chiama Samuele «perché — diceva — al Signore l’ho richiesto» (v. 20) e che conduce al tempio, per sciogliere il
voto, dopo averlo svezzato. Ancora una volta Anna parla al sacerdote, rivelando che il suo desiderio di dare il figlio al Signore corrisponde al dono ricevuto ed è conforme alla promessa.
In questa occasione Anna si rivolge nuovamente al Signore, questa
volta attraverso una preghiera di lode, un canto per esaltare il Signo-
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re e la sua opera; è un testo famoso che risuona nel Nuovo Testamento nelle parole del Magnificat.
L’inno celebra il Dio che rovescia le sorti, sconvolge le situazioni
che paiono senza via di uscita, e offre una particolare protezione a
quanti sono più indifesi; lo sguardo si estende a tutta la storia e contempla tutta l’opera di salvezza, riconoscendo ed esaltando il modo
in cui sempre il Signore agisce (2, 1).
Anna porta nella sua preghiera il dolore e la vergogna che la circondano, leggendo nella situazione di tutti anche la sua personale
angoscia e oppressione, senza un esplicito riferimento alla sua situazione. La preghiera si apre così a una intercessione complessiva mentre si ricorda l’agire di Dio. Non è solo un ringraziamento per quanto lei ha ricevuto, ma una lode che, gioendo del bene che è per tutti
e che anche altri possono godere, fa nascere una vera comunione.
La lode è plasmata dalla supplica. È come se Anna avesse accolto
nella sua preghiera la sua sterilità e quella di tutto il popolo, avesse
fatto suo il grido di tutti coloro che sentono venir meno la vita, che
soffrono per una esistenza priva di ciò che dà veramente senso. Proprio perché forte della precedente preghiera, nella quale ha offerto al
Signore tutta la sua vita, può proclamare che il bene, la vita, la salvezza sono di Dio e durano sempre, perché sono dappertutto.
Anna canta, come un profeta, la via scelta dal Signore, costante
lungo tutta la storia della salvezza. Il Signore si volge a chi è piccolo, a chi non ha pretese, a chi riconosce la sua povertà, il suo limite,
la sua mancanza, non perché è un Dio che si compiace della sua potenza, che vuole esercitare il suo dominio su chi è debole e indifeso,
ma per poterlo ricolmare dei suoi doni e della sua pienezza, per
compiere desideri impossibili. Anna riconosce che questo è il senso
della sapienza divina: quella che assegna la vittoria a chi in partenza
è sconfitto, a chi non ha il vigore per affrontare il nemico, quella che
confonde la superbia e l’arroganza di chi non vede nell’affamato e
nella sterile il fratello. Il Signore, a cui appartiene la terra, che fa vivere e fa morire, non sceglie il potente o il ricco, ma sceglie per sé il
piccolo, il povero e trasforma la sua vita, vegliando sui suoi passi,
perché si custodisca fedele.
Anna celebra questo e poi lo sperimenta concretamente nella sua
vita; la sua storia termina con un’ultima annotazione: diventa ancora
feconda e il dono da lei fatto al Signore, invece di provocare una
mancanza rinnovata, causa una fecondità rinnovata: «e il Signore visitò Anna che partorì ancora tre figli e due figlie» (2, 21).
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D ONNE CHIESA MOND O
ARTISTE
Non piangere
per me
o madre
di RAFFAELA D’ESTE
icona che porta il titolo «Non
piangere per me, o madre»
compare nella tradizione russa
a partire dal XVI secolo. Si tratta dell’immagine del Cristo
morto, il cui busto si leva eretto dal sepolcro,
davanti alla croce, e di Maria sua madre che
sembra sorreggerlo in un abbraccio. Questa immagine di Pietà ha origini antiche ed è particolarmente interessante sia per il suo soggetto —
un testimone privilegiato dell’apparire ed evolversi dell’espressione dei sentimenti nell’arte
religiosa — che per la sua storia, esempio istruttivo dello scambio culturale tra oriente e occidente.
L’
Apparsa nel mondo bizantino inizialmente
come sola rappresentazione di Cristo Uomo dei
dolori (XI secolo) — posta poi in parallelo con
un’immagine della Vergine con il Bambino (associazione che porterà alla nascita dell’iconografia della Eleusa, la Vergine della Tenerezza in
cui il Cristo bambino abbraccia la madre) oppure, come in un dittico del monastero della Trasfigurazione alle Meteore, con l’immagine di
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Maria afflitta dal dolore — giunse in Italia verso
il XIII secolo e qui conobbe un notevole successo, trasformandosi e diffondendosi al nord, in
Francia e Germania. Parallelamente anche in
area bizantina l’iconografia dell’Uomo dei dolori (chiamata Akra Tapinosis, Grande Umiliazione) divenne più complessa, mutuando elementi
propri alle immagini della crocifissione e deposizione dalla croce e subendo probabilmente anche l’influenza degli sviluppi occidentali.
Un’icona di Tessalonica datata attorno al 1400
mostra Maria che abbraccia il Cristo morto e
porta il titolo di La discesa. Forse si tratta del
primo esempio di questo soggetto. La stessa immagine si ritrova al Monte Athos all’inizio del
XVI secolo e di qui, io ritengo, ha raggiunto la
Santa Russia, divenendovi molto popolare.
Quando, nella seconda metà del XX secolo le
icone russe sono state scoperte dalla cultura occidentale, questa immagine l’abbiamo sentita
come di casa.
Nella tradizione bizantina Maria che abbraccia il Cristo deposto dalla croce che si erge dal
sepolcro è già un annuncio della vittoria sulla
morte e un compendio dei tre giorni santi, come ben emerge dal tropario del mattutino del
Grande Sabato da cui l’icona ha preso il nome:
«Non piangere per me, o madre, vedendo nella
tomba il figlio che, senza seme, hai concepito
nel grembo: io risorgerò e sarò glorificato e,
poiché sono Dio, incessantemente innalzerò nella gloria coloro che con fede e affetto ti magnificano». Una lunga tradizione patristica e innografica ha contribuito alla fissazione in testo liturgico di questo dialogo tra il Cristo morto e la
Vergine, che compare come tropario dell’O de
IX, quella corrispondente al Magnificat, e che è
«Pietà» (Monastero di Iviron, Monte Athos,
XVI
secolo)
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D ONNE CHIESA MOND O
ripreso nella successiva liturgia dei Lamenti
(Enkomia 164-166):
«O luce dei miei occhi, o dolcissimo mio figlio, come puoi ora nasconderti in una tomba?
Soffro questa passione per liberare Adamo ed
Eva, o madre, non piangere!
Glorifico, figlio mio, l’immensità della tua
misericordia; per essa tu patisci».
L’elemento del dialogo tra il Cristo e la madre nell’ora della Passione — attestato dalla liturgia solo in questi brevi passi per il sabato santo
— sembra essere stato introdotto da Romano il
Melode (prima metà del VI secolo) nell’inno
Maria ai piedi della croce. Attraverso lo stile
drammatico egli riesce ad enunciare con chiarezza e forza il significato della passione e
morte, leggendole alla luce della grande misericordia di Cristo: «Ancora un poco di pazienza, madre... perché tu possa cantare: “Con il soffrire distrugge il soffrire, il figlio mio e Dio
mio”» (13).
Il lamento su Cristo morto rimanda al lamento di Adamo e alla misericordia di Cristo che,
per liberare Adamo ed Eva, si affretta nella passione, va a cercare la pecorella smarrita e come
il buon samaritano si avvicina alle sue ferite e le
cura. L’immagine di Cristo Uomo dei dolori è
già di per sé l’immagine dell’abbraccio di Cristo
all’umanità, nella sua carne. Esso corrisponde
simbolicamente a quel primo abbraccio pieno di
slancio del Bambino
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nei confronti della madre, meditativa e quasi
preveggente il mistero della Passione, fissato
nell’icona della Vergine della Tenerezza.
L’espressione dei sentimenti di gioia, dolore e
affetto è testimoniata nell’arte cristiana solo dopo
la controversia iconoclastica. A partire dal IX-X
secolo a Bisanzio si cominciano a dipingere il
Cristo morto sulla croce, la sua deposizione e la
sua sepoltura, spinti dall’influenza di testi omiletici e dalle innovazioni liturgiche del tempo dei
Comneni. Significativamente però il titolo che
compare sia sull’immagine della crocifissione che
su quella della Grande Umiliazione è Re della
gloria, titolo che ritroviamo anche quando è introdotto l’abbraccio della Vergine al figlio morto,
come nell’icona di Iviron. Una grande pace, soprattutto sul volto di Cristo, emana da questa
icona, così lontana dalle espressioni estreme del
dolore conosciute in occidente. I segni del dolore
non sono annullati, ma si tratta di un dolore interiorizzato, espresso negli occhi chiusi del Cristo
morto e nei tratti dolenti della madre. C’è da osservare che Maria non china la testa ma la solleva
verso il volto di Gesù. Forse si può pensare alla
frase evangelica «Le potenze dei cieli infatti saranno sconvolte... Allora vedranno il Figlio
dell’uomo venire con grande potenza e gloria...
Alzate il capo, perché la vostra liberazione è vicina» (Luca 21, 26-28). Questo tratto ben si adatta
allo spirito e all’epoca di Teofane di Creta. Dopo
poco più di mezzo secolo dalla tragica caduta di
Costantinopoli nelle mani dei turchi (1453), la
pittura di Teofane è un segno di resistenza e un
mezzo per conservare il grande patrimonio spirituale bizantino. Linee spezzate e aspre, luci e
ombre si fiancheggiano nella sua opera, testimoni
di una tensione ascetica esigente, ma portatrice
della luce della resurrezione. «Non piangere per me, o madre — più esattamente:
non fare il lamento funebre — Soffro... per liberare Adamo ed Eva». Sì,
«con il soffrire distrugge il soffrire, il
figlio mio e Dio mio».
MEDITAZIONE
a cura delle sorelle di Bose
Dono
e contraddizione
LUCA 1, 57-66
iovanni battista fu straordinario
profeta, maestro e amico di Gesù. Alla sua sequela, e poi fino
alla fine, Gesù imparò molte cose di Dio. Per i discepoli di Gesù la sua importanza è tale che il vangelo solo
per lui e per Gesù racconta l’annunciazione, la
nascita, il ministero profetico e la predicazione a
causa della quale furono assassinati.
G
Arcabas, «Jean le Baptiste»
A pagina 40, icona della chiesa
della Natività di Giovanni Battista
(g. Kainske, ora Kujbysev)
Come ogni pagina evangelica anche questa
della nascita di Giovanni non è una cronaca ma
molto di più. Racconta l’invisibile coinvolgimento della misericordia del Dio d’Israele nella
storia di Zaccaria ed Elisabetta, una coppia di
anziani, persone fedeli al Signore che sopportavano, senza venir meno, la dolorosa mancanza
di figli.
Elisabetta, vista nella sua sterilità e nella sua
fede, è la prima donna e la prima povertà che
apre il vangelo di Luca, che è buona novella
per i poveri e le povere. Nella Bibbia le tante
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D ONNE CHIESA MOND O
donne sterili, e per questo umiliate, sono lì come preziose testimoni dell’intervento del Signore in quei loro figli impossibili e promessi dei
quali il Signore ha bisogno.
Nella nascita di Giovanni i vicini e i parenti
compresero che Dio aveva esaltato in Elisabetta
la sua misericordia. Protagonista di questa nascita, come di tutta la vita di Giovanni e del
vangelo che comincia con lui è la misericordia
del Signore, quella eterna promessa ad Abramo.
Elisabetta e Zaccaria sono lì a nostro insegnamento, consolazione e correzione. Essi ci sono
maestri di libertà e di parresia nei confronti delle tradizioni familiari e religiose. A coloro che
vogliono imporgli il nome di suo padre Zaccaria
secondo l’uso, Elisabetta oppone con fermezza
il suo no, e riferisce la parola dell’Angelo: «Si
chiamerà Giovanni». Ma non le crederanno.
Elisabetta, la prima donna del vangelo, annuncia la parola dell’angelo alla quale lei ha creduto, e non è creduta, proprio come accadrà alle
donne alla fine del vangelo: credono, annunciano, e non sono credute.
Anche Zaccaria, il sacerdote prima ammutolito e poi esultante, ci è di lezione. Lui e sua moglie, discendenti di Aronne, avrebbero potuto fi-
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nalmente trasmettere al figlio maschio il potere
e l’onore sacerdotale. Ma ora il figlio che la misericordia di Dio concede loro contraddirà del
tutto le loro attese: non sarà sacerdote, bensì
profeta, e un grande profeta. Per Zaccaria accettare le parole dell’angelo Gabriele è accettare
che il dono di Dio, che è questo figlio, sia per
lui la grande rinuncia: non potrà trasmettere il
suo potere sacerdotale a Giovanni. Questa grande fatica lo ammutolisce. Deve accettare una vera diminuzione. Col suo stare nel deserto e non
nel Tempio, Giovanni inizia Gesù alla comprensione che per i suoi discepoli il sacerdozio di
Aronne è finito per sempre. Perché il Signore
ha bisogno di incarnazione e non di mediazione. Zaccaria, faticando ad aderire alla parola di
Dio, ci insegna che il dono di Dio è sempre per
noi miracoloso esaudimento e anche, prima o
poi, grande contraddizione.
La diminuzione che il Battista riconoscerà come propria verità e gioia davanti a Gesù, già
qui è adombrata come vocazione di suo padre
davanti al proprio figlio, una paternità che è kenosi. Questa sarà la vera eredità che il figlio
Giovanni saprà accogliere. Egli sarà profeta,
crescerà e si fortificherà nel deserto, e vivrà la
sua vocazione di voce che grida nel deserto la
parola di Dio. Rinunciando al Tempio, Giovanni farà ascoltare la parola di Dio anche a coloro
che erano esclusi dal Tempio. Il vangelo si apre
adombrando già, per i discepoli di Gesù, la fine
del Tempio e di ogni esclusione religiosa che è
la pietra angolare di ogni sacralità e di ogni
spazio e ruolo sacro. Dal Battista infatti andranno pubblicani e peccatori, non più esclusi
dall’ascolto della parola di Dio. E Gesù porterà
a straordinaria fioritura la lezione imparata da
lui: Gesù, che si oppose sempre e solo a ogni
esclusione, oltre ad accogliere con compassione
e a dare pace a ogni umanità dolente ed esclusa,
non escluderà neppure le donne dalla sua comunità!