Le pagine in PDF - L`Osservatore Romano
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numero 47 giugno 2016 L’EDITORIALE Indagine sull’identità femminile Cercare di scendere un po’ più in profondità per indagare l’identità femminile: è questo lo scopo che ci prefiggiamo con i prossimi tre numeri di «donne chiesa mondo». Un’indagine che non può che partire dal cuore della differenza, la maternità, declinata in questo numero come capacità di cura, che le donne sanno esercitare in tutti gli ambiti, nella vita privata come in quella pubblica. Diliber Kelesh, siriana tiene in braccio il suo bambino di sei mesi nel campo di Idomeni (Gregorio Borgia, Ap) D ONNE CHIESA MOND O Mensile dell’Osservatore Romano a cura di LUCETTA SCARAFFIA (coordinatrice) e GIULIA GALEOTTI In redazione CATHERINE AUBIN, ANNA FOA RITA MBOSHU KONGO MARGHERITA PELAJA e SILVINA PÉREZ Progetto grafico PIERO DI D OMENICANTONIO www.osservatoreromano.va [email protected] per abbonamenti: [email protected] Curare gli altri, i piccoli come i deboli e gli anziani, occuparsi delle persone più fragili, non è facile, non esistono manuali con ricette pronte all’uso, eppure da sempre è un’arte che le donne imparano, esercitano e testimoniano nelle loro vite. Vuol dire una pratica costante della misericordia e un amore concreto, che lascia traccia nel tempo e costruisce rapporti. Del resto, la forza costruttiva della maternità sta, da sempre, nella sua universalità. Come dimostrano, al pari di quello che accade da millenni, le vicende che qui raccontiamo — dall’opera di suor Angela Bertelli in Thailandia con la sua Casa degli Angeli alla storia delle cinque donne che salvarono Mosè — non è necessario un parto per costruire e vivere un legame di cura materna. Lo sanno benissimo le religiose, madri senza gravidanza, che della capacità di cura verso i piccoli, i deboli, i fragili e gli ultimi, sono nel mondo quotidiana e meravigliosa testimonianza. Nel nostro immaginario cristiano, le immagini della Pietà, estremo atto di cura della madre per il corpo del figlio crocefisso, costituiscono il simbolo più alto e forte di questa capacità di cura — quindi di amore — che va oltre la morte. Come ha scritto Julia Kristeva, «se ogni amore per l’altro si radica in questa esperienza arcaica fondamentale, unica e universale, che è l’amore materno, se l’amore materno è il meno ambivalente, è sull’amore materno che sono costruiti la caritas dei cristiani e i diritti dell’uomo laico». La cura materna, infatti, è il modello di riferimento per ogni forma di umanizzazione dei rapporti fra gli esseri umani. (giulia galeotti) L’INTERVISTA Gesti d’amore Con la missionaria saveriana Angela Bertelli alla periferia di Bangkok di TERESINA CAFFI D a otto anni Angela Bertelli, missionaria saveriana, dirige la Casa degli angeli, per bambini disabili e le loro mamme, nella periferia di Bangkok. Che cos’è la Casa degli angeli? Un’occasione di evangelizzazione attraverso la carità. È dire, attraverso gesti concreti, ciò che non riesci a dire con le parole. Infatti, se traduciamo in thai parole come misericordia, amore, gratuità, Dio, queste non hanno lo stesso significato che hanno nel Vangelo: non sappiamo che cosa l’altro capisca. Invece si capiscono gesti semplici e concreti: «Venite, vi aiuto, faccio la fisioterapia, ve la insegno, prepariamo la pappa frullata per i bimbi...». Attraverso l’esperienza del ricevere gratuitamente, le mamme intuiscono che c’è qualcosa di diverso dall’amore che conoscono. Questo gesto, in quella realtà, fa riconoscere l’abbondante misericordia di Dio. Come reagiscono le mamme? Rimangono stupite. Vedono che sei con loro, lavi i pavimenti, pulisci i cessi, vai all’ospedale con loro... perché? parli con dottori, le D ONNE CHIESA MOND O 2 3 D ONNE CHIESA MOND O aiuti a capire la situazione del loro bimbo. Al centro, il grosso lavoro educativo è con le mamme. La gratuità non viene meno se tu fai la proposta cristiana? La mattina, prima di cominciare il lavoro, e a mezzogiorno, leggiamo il vangelo. Dico loro: «Non vi chiedo di cambiare religione, ma vi propongo un’alternativa al karma» per cui tutto si sconta e si paga. Nonostante la cultura le spinga ad allontanarsi dalla croce, il loro amore di madre le orienta verso la fede cristiana. Dico loro: «Vi faccio conoscere un’alternativa alla lettura colpevolizzante del dolore dei vostri bimbi. Gesù dice: ero ammalato e mi avete visitato...». L’amore delle mamme per i loro bimbi diventa una grazia, un cammino che le prepara all’incontro con la sorpresa più grande della loro vita: l’amore gratuito di Dio, la sua misericordia. Vedono che i loro bimbi sorridono e si ritrovano a vivere il cristianesimo senza saperlo. Quasi ogni anno una mamma chiede il battesimo. Qualche esempio? La prima mamma ora fa catechismo e porta con sé il suo bambino: «Senza di lui non avrei mai incontrato l’amore di Dio per me, non avrei ricevuto il battesimo. Ora so che c’è un Dio che è più padre di mio padre». Nella Casa degli angeli a Bangkok Tutte le mamme si pensano cattive, perché a volte si arrabbiano con i bimbi, a volte hanno pensato di metterli in istituto. «Attente — dico loro — l’amore vero non sta nei sentimenti, ma nel servizio, nel dono di voi stesse». Una mamma che aveva visto la sua bimba disabile di tre anni morire dopo una lunga “inutile” assistenza, poi abbandonata dal marito appena dopo aver partorito il secondo figlio, era stata accolta alla Casa degli angeli. Due anni dopo, il marito è ritornato. Pur disposta a perdonarlo, ha avuto il coraggio di dirgli: «Se vuoi che viviamo insieme, devi accettare che sono cristiana». È una donna timida e schiva, ma ha avuto questo coraggio. Un’altra donna, incinta, già mamma di un bambino cieco e distonico, si è opposta al marito che voleva che abortisse. È nata una bimba bellissima e sanissima. Sono gesti coraggiosi, soprattutto in un contesto in cui la donna è sottomessa al marito. Qual è la condizione sociale di queste mamme? È tutta gente povera, che viene dalle baraccopoli attorno alla città e raramente ha lavoro. A 7 km dalla casa c’è un istituto statale per bimbi disabili fino ai sette anni, che vengono lasciati lì dalle famiglie: D ONNE CHIESA MOND O 4 5 D ONNE CHIESA MOND O sono 540 e quando crescono vanno in altri istituti. La loro condizione è penosa, una volta consegnati i bambini non possono più essere riportati a casa. La tentazione per le mamme è di lasciare là il loro bimbo. Alcune disabilità nascono dalla povertà: per mancanza di soldi una mamma non ha potuto subire il cesareo e il bimbo ha subito traumi al parto; un papà aveva la tbc e ha custodito i figli mentre la mamma andava al lavoro ed essi hanno preso la tbc al cervello... Qual è l’eco della Casa degli angeli? Stupisce il fatto che da scuole e università del Paese dei giovani vengano a trovarci. Una signora, ragioniera di banca, viene ogni settimana per tenere i conti. E da quando la casa è aperta, più di centotrenta volontari italiani sono arrivati, a loro spese. Superando lo scoglio della lingua, le mamme si sono abituate a una comunicazione d’amore che diventa conoscenza reciproca. I volontari si prendono cura dei bimbi e le mamme almeno un pochino si riposano. La Casa degli angeli Angela Bertelli, missionaria di Maria, saveriana, dopo aver vissuto in Sierra Leone, è da anni presente in Thailandia, alla periferia di Bangkok. Qui è nata nel 2008 la Casa degli angeli, per i bambini disabili e le loro mamme. Oggi nella casa vivono quindici bambini, di cui cinque abbandonati, uno orfano, quattro che hanno solo la D ONNE CHIESA MOND O 6 mamma. Ci sono poi cinque bimbi che vengono durante il giorno, hanno mamma e papà, ma con seri problemi familiari. Circa tredici mamme vivono con i bimbi nel centro durante il giorno. Tra esse c’è amicizia; a volte si scontrano o si mostrano gelose, anche per le storie sofferte che portano dentro; a volte c’è tensione fra buddiste e cristiane, poi si perdonano. Imparano a fidarsi l’una dell’altra giorno per giorno. Sperimentano di non essere più isolate, discriminate, ma di essere insieme. Accade così un assurdo per la civiltà thai: che un bimbo disabile diventi la via che ti conduce a Dio. Quattro mamme, che non hanno marito, sono presenti in permanenza, un’altra viene per la notte. Diamo loro un compenso economico per il servizio che svolgono non solo per i loro bimbi ma anche per quelli abbandonati. L’esperienza di Angela è raccontata in un libro: Maria Angela Bertelli, La casa degli angeli, Itaca, Castel Bolognese, 2015 (itacalibri.it). Anche per i volontari è un momento di incontro con il Vangelo: vedono l’amore di Dio in queste mamme, nonostante l’esperienza buddista. Come si svolge una giornata-tipo alla casa? Ci si alza alle 6. Le mamme fanno il bagnetto ai bimbi, anche a quelli che non sono i loro. Poi, alle 8 e 30, li accompagnano con la carrozzella per la colazione. Chi deve accompagnare il bimbo all’ospedale è già partita. Poi preghiamo l’Angelus e leggiamo il vangelo del giorno. All’inizio lo spiegavo, ora che il linguaggio è conosciuto basta un momento di silenzio, dopodiché ogni mamma può dire un pensiero. L’incontro dura una mezzora, parlano quasi tutte. A pagina 6, Marc Chagall, «La mère à la robe rouge» (1965-68) e suor Angela Bertelli con un ospite della Casa degli angeli Comincia poi la fisioterapia, uno a uno, fino alle 10. Tutte le mamme sanno fare tutto a tutti, dalla fisioterapia alla cucina. Dalle 10 alle 11, merendina e mezz’ora di gioco insieme (pittura, bowling...). A mezzogiorno, altra fisioterapia. Intanto si prepara da mangiare. Alle 12.30 metà delle mamme mangiano, poi le altre, a turno, per accudire i bimbi. Alle 13.30 arrivo e ci fermiamo per la preghiera del pomeriggio. Stiamo leggendo la Bibbia, ora siamo ai Profeti. Do un’indicazione per aiutare a capire come queste cose hanno a che fare con la vita. Dalle 14.30 alle 15.30, ancora fisioterapia, poi la merendina. Quindi facciamo pulizie della casa e un secondo bagno ai bambini. Verso le 17 si va verso il refettorio per il pasto serale. Alle 17.30 le mamme tornano a casa, dopo aver lasciato tutto pulito. Alla domenica non c’è 7 D ONNE CHIESA MOND O tava. Dopo sei mesi, padre Adriano mi fornì un’equipe di sei donne. La mattina pregavamo, poi andavamo due a due. Fu così che conoscemmo i primi disabili. A dicembre 2004, prima dello tsunami, Federica e Cristiano, due fidanzati di Venezia che conoscevano padre Adriano, venuti a Bangkok, hanno proposto alla Caritas di Venezia, con l’accordo dell’arcivescovo di Bangkok, di finanziare la costruzione di una casa per bimbi disabili. Loro stessi destinarono al progetto i doni del loro matrimonio. Mi proposi di non chiedere niente. All’inizio del 2007, fu posta la prima pietra della Casa degli angeli. Era l’11 febbraio, inizio delle celebrazioni del centocinquantesimo anniversario delle apparizioni di Lourdes. L’anno dopo, la casa era pronta. Quando le sorelle sono venute nel 2009 e abbiamo formato la nostra comunità, il lavoro era impostato. Che cosa significa per te dunque essere missionaria in Thailandia? Marisa Mori, «Maternità o L’ebbrezza fisica della maternità», 1936 fisioterapia. Al giovedì l’adorazione in cappellina davanti al Santissimo, per ricentrare tutto il servizio nel dono di sé come ha fatto e ci insegna Gesù stesso nell’Eucaristia. Qual è il clima nella Casa degli angeli? È davvero una famiglia — anche per me! — dove le mamme imparano ad amare i loro bambini in modo più vero, come un’occasione di bene e crescita anche per loro stesse. Quando arrivano, non sanno neanche sorridere. Non conoscono la realtà dell’amore di Dio. Quante volte ho letto loro il racconto della creazione: «Sei uscita dalle mani di Dio, non sei un caso»! Nel buddismo tutto è casualità. «Rileggiamo ancora» mi ha detto una mamma. Rileggendo con loro questi passi è come aprire una porta. Dico a Dio: «Io ti offro quel poco che posso, ma tu trasforma il cuore di queste mamme». Tutto questo come è nato? Cominciai a prendermi cura dei malati di aids in fase terminale, che non sapevano che era passata l’assistenza gratuita per loro. Era il 2004-2005, ne ho visti tanti morire, era il tempo dell’esplosione del problema aids in Thailandia. La gente mi chiamava, il lavoro aumen- D ONNE CHIESA MOND O 8 Per me missione è diventato annuncio del Vangelo attraverso il linguaggio della carità concreta ai più bisognosi, non solo materialmente: non conoscono la speranza e il conforto che solo la compagnia di Gesù può dare loro, in tutte le vicende drammatiche della loro vita. Per me è pura grazia, un dono di Dio, vederlo e sentirlo presente in queste persone, soprattutto nei nostri angioletti: mi dà gioia ed energia senza fine spendermi per loro, per Gesù in loro! Loro sono Cristo nelle nostre mani: quale onore ci è concesso! Anche quando lavi il culetto a uno di loro è la più bella preghiera che puoi fare! Questo ripeto sempre alle mamme che poi ridendo — mentre vanno per cambiare il pannolone — mi dicono: «Sister, andiamo a pregare!». Non ti sembra a volte uno spazio ristretto rispetto alle grandi sfide del mondo? L’organizzazione del male l’ho vista davanti alle cliniche per aborti, poi nella Sierra Leone, nei traffici umani in Thailandia... È troppo potente il male, non lo possiamo combattere noi, sarebbe tempo perso... Meglio per noi usare il tempo e le energie a lavorare per il bene che Dio ci permette di operare cominciando dalle piccole cose. «Vi rendete conto delle cose belle che state facendo?» chiedo alle mamme. Se esse riescono a diventare seme vitale, sarà un seme che produce altri semi. Non rifiuto mai le occasioni di raccontare. La violenza che abbiamo dentro noi stessi è la stessa che devasta il mondo: trasformarla in tenerezza è già contribuire a un mondo nuovo. 9 D ONNE CHIESA MOND O di elevazione dei più grandi mistici uniti alle sofferenze della Vergine. In un tardo medioevo che si estende dal XIV al XVI secolo, la forma figurativa esprime quindi una delle scene più forti del pathos cristiano a cui risponde, come un’eco, il lamento di Geremia: «Voi tutti che passate per la via, considerate e osservate se c’è un dolore simile al mio dolore» (Lamentazioni, 1, 12). SPIRITUALITÀ di SYLVIE BARNAY La madre icona della Pietà S D ONNE CHIESA MOND O 10 ul Golgota, la Vergine sorregge il corpo di Cristo deposto dalla Croce sulle sue ginocchia prima che sia portato nel sepolcro. Nella storia dell’arte, questo motivo iconografico viene indicato con il termine Pietà. Il tema fa la sua comparsa nell’Europa del nord a partire dal 1300. È perciò contemporaneo delle nuove forme della devozione medievale che propongono la contemplazione di Cristo attraverso la meditazione di nuove immagini visive. Tra queste immagini di pietà, la Pietà — che ne è l’eponimo — è senza dubbio la più diffusa. L’immagine entra rapidamente negli usi cultuali, accompagnando i canti «Pietà del Kosovo»: è con il termine medievale che la coscienza collettiva sceglie di designare una delle più celebri foto giornalistiche degli ultimi anni. Il 29 gennaio 1990, il fotografo Georges Mérillon assiste alla veglia funebre di Nasimi Elshani nel villaggio di Nagafc in Kosovo: il giovane uomo, che è stato appena ucciso dalle milizie serbe, riposa in pace, davanti a sua madre circondata dalle altre donne della famiglia, che vegliano il suo corpo avvolto in un lenzuolo bianco. La coscienza collettiva riconosce immediatamente la foto e se ne impossessa. Nel 1991 vince il premio World Press Photo — proprio quando ha inizio la guerra del Golfo — e fa il giro del mondo. Il premio mostra la preferenza immediatamente data alla “qualità plastica” della fotografia piuttosto che all’importanza dell’evento politico a cui rimanda. Di fatto, nel 1991, la Jugoslavia non è al centro dell’attenzione internazionale, e tanto meno il Kosovo. Bisognerà attendere l’esodo dei kosovari e l’intervento della Nato nel 1999 perché questa foto, considerata fino a quel momento un’icona, diventi una testimonianza che rilascia un’informazione politica. Da quel momento in poi la scena in secondo piano diviene leggibile, rivelando la realtà storica che la sottende e che affonda le sue radici in una lunga storia di sofferenze e di guerre. A pagina 10, la fotografia di Georges Mérillon premiata al World Press Photo 1991 In basso, prefiche dipinte su ceramica in un frammento attico (535–525 a.C.) Mentre gli artisti medievali cominciano a scolpire le Pietà dai volti addolorati, nel Kosovo medievale del 1389 la battaglia della Piana dei Merli vede la sconfitta dei popoli serbi e la consacrazione della dominazione ottomana. Le radici del nazionalismo serbo sono legate a questa sconfitta. Seicento anni dopo, nel 1989, per commemorare quella battaglia, Slobodan Milošević decide di far piegare la maggioranza albanese sopprimendo lo statuto di autonomia del Kosovo concesso da Tito. La decisione scatena nella provincia, fino a quel momento autonoma, un 11 D ONNE CHIESA MOND O DAL MOND O Le vedove indù e il colore proibito Hanno manifestato per le strade di Lalitpur in cinquecento contro una pratica tradizionale della loro religione che le discrimina da secoli. Secondo un’usanza della confessione indù, le donne che rimangono vedove sono costrette a portare il lutto per il resto dei loro giorni, devono eliminare dal loro abbigliamento tutto ciò che è rosso e sono obbligate a vestire solo di bianco. Tutto questo porta a una discriminazione ed emarginazione di fatto da ogni attività lavorativa e sociale. Lo slogan della manifestazione era: “Rispetto per le donne vedove ricoperte di rosso”. Più praticanti degli uomini A livello globale ci sono più donne che uomini che si identificano con una >> 15 D ONNE CHIESA MOND O 12 acceso movimento di protesta, una sollevazione non armata e manifestazioni che vengono represse nel sangue. Nasimi Elshani, compianto dalla madre e dalle altre donne della veglia funebre, è una delle vittime di quella repressione. Il giovane aveva ventott’anni. L’immagine di dolore evoca le sofferenze di tutte le madri in un grido che attraversa il tempo: l’immagine è vibrante, l’immagine è sorprendente. La pietà cristiana e la fotografia contemporanea si congiungono come in una scena eterna di compassione. La madre addolorata sta accanto al figlio morto. Ma, laddove la Pietà rimanda alla Passione di Cristo che i vespri meditano al momento della deposizione dalla croce, la fotografia coglie dal vivo un rituale funerario musulmano, al quale partecipano solo le donne, mentre gli uomini restano in un’altra stanza prima di accompagnare la salma al cimitero. Unite in uno stesso dolore, le due immagini si distinguono dunque radicalmente, evocando una il mondo cristiano, l’altra il mondo musulmano. La fotografia di Georges Mérillon inoltre non riproduce un modello, come si direbbe per esempio di una copia. Non copia dunque la Pietà medievale: non c’è nessuna ripetizione degli archetipi della pittura occidentale. Al contrario, l’icona fotografica sembra indicare la continuità di un’immagine in movimento. Richiama così subito alla mente l’immagine medievale della Pietà ma, ancor prima di essa, le scene di compianto dipinte sui vasi antichi. Il fondamento cultuale comune dei Balcani, in cui s’intrecciano le religioni cristiane e musulmane, non dimentichiamolo, è sempre quello dell’antichità greca. Prefiche dell’antichità, mater dolorosa medievale, Pietà del Kosovo: la fotografia di Georges Mérillon è come la forma che ritorna di un’immagine in movimento, la cui rilevanza il pensiero greco aveva già colto a suo tempo. La fotografia risponde ancora alla definizione dell’immagine così come lo storico Aby Warburg la concepisce concretamente nel primo decennio del Novecento. Il pensatore di origine ebraica — come il suo contemporaneo Mallarmé — voleva introdurre a «una fisica delle passioni e a una storia dell’umanità sofferente», cercando nelle opere le espressioni collettive delle sofferenze che attraversano la storia. Lo scopo dello storico dell’arte è in effetti di sapere come la sofferenza o il pathos vissuto dall’uomo, il più delle volte determinato da un linguaggio gestuale — come per esempio un gesto di lamento — dia vita all’opera d’arte: in altre parole, a una “forma” che Warburg chiama Pathosformel (“formula di pathos”). Andrea Mantegna, «Lamento sul Cristo morto» (particolare, 1475-1478) A pagina 14, una scena del film «Il vangelo secondo Matteo» di Pier Paolo Pasolini (1964) Da allora ogni immagine di sofferenza è come un’immagine boomerang, portando la forza del passato nel presente, in altre parole, creando la sua memoria. Di fatto, per Aby Warburg «la memoria è 13 D ONNE CHIESA MOND O << 12 nome della musa della memoria, Mnemosyne, Aby Warburg inserisce jdunque molte immagini di Pietà medievali. Sulle tavole della Mnemosyne si allineano così le riproduzioni di numerose Pietà, quelle di Donatello, di Mantegna, di Raffaello, accanto a scene di vasi antichi, lamenti terribilmente silenziosi che fa udire l’Italia degli anni che vanno dal 1140 a 1520. Queste immagini non mostrano la morte ma la vita più forte della morte: una vita capace di trasformare le lacrime in speranza la disperazione in azione, la notte in un mattino che sorge una forza che si manifesta nel corso del destino umano in quanto eredità comune». La memoria è “sopravvivenza” (Nachleben). Con il termine “sopravvivenza”, Warburg designa anche quello che, in un’immagine, ha perso il suo valore di uso e di significato di partenza, ma continua comunque ad agire nel tempo grazie al suo potenziale di memoria. Al centro della scienza della cultura da lui inventata, questo tipo di immagine è allora simile a un “fantasma” capace di superare i confini dello spazio e del tempo. Le immagini sono in effetti vive e migranti, ragion per cui sanno perdurare nelle memorie, consapevoli o inconsapevoli. Nel suo atlante d’immagini, a cui dà il D ONNE CHIESA MOND O 14 Riguardando le immagini come Aby Warburg guardava le immagini di pathos, lo storico e filosofo contemporaneo Georges Didi-Huberman crea a sua volta un atlante di immagini in cui la Pietà medievale sta accanto alle fotografie dei comunardi morti e alle immagini di pathos del cinema contemporaneo: Pasolini (La rabbia, Il Vangelo secondo Matteo), Ėjzenštejn (La corazzata Potëmkin), Paradžanov (I cavalli di fuoco), Dreyer (Ordet)... La potenza delle immagini non dipende dalla loro iscrizione nel registro delle belle arti. Le immagini sono contenute nell’atlante per la loro potenza estrema di esprimere la sofferenza, il pathos, come faceva la Pietà di Michelangelo. In questo modo le immagini non appartengono solo al loro presente storico. Pertanto, la memoria è senza tempo. Ciò che la storia stessa contiene della sopravvivenza delle immagini del pathos — dalle Pietà alla Pietà del Kosovo — è la posta in gioco cruciale della vita al centro stesso della morte. Tutte queste immagini, in effetti, non mostrano la morte, ma la vita più forte della morte: una vita capace di trasformare le lacrime in speranza, la disperazione in azione, la notte in un mattino che sorge. Nelle tenebre del venerdì santo, nel cuore crocifisso di Maria, tacita sgorga una sorgente di vita dalla piaga di Cristo, dove tutto il pensiero medievale situa la nascita della Chiesa. Nella tragedia jugoslava, attraverso la forza delle donne musulmane, è presente la vibrante fierezza che può rimettere in cammino un intero popolo e trasformare il gemito in lotta. «Attorno al corpo di Nasimi c’è Sabrié, sua madre che si tiene accanto alla sua testa, e alla sua sinistra Aferdita, la giovane sorella sedicenne. Al centro in lacrime, l’altra sorella, Ryvije», descrive Georges Mérillon. Sono loro a testimoniare la forza dei vivi nel loro superamento della morte per giungere alla vita. Allora le Pietà diventano icone per aprire spazi e tempi, per uscire dal buio. Quindi il termine Pietà può far udire la sua eco in un presente impegnato nelle forme di secolarizzazione che gli sono proprie per aprire un nuovo spazio di credenza che non ha nulla di vitalistico. La Pietà del Medioevo cristiano e la Pietà della tragedia jugoslava contemporanea esprimono, ognuna a suo modo, l’apertura alla speranza messianica. Il termine Pietà, al di là dei secoli e delle confessioni, non trasmette forse questa sopravvivenza? religione, pregano quotidianamente e definiscono la religione «molto importante», secondo i dati del centro di ricerca statunitense Pew Research Center. I dati L’83,4 per cento delle donne del mondo si identifica in un’appartenenza religiosa, mentre per gli uomini il dato si ferma al 79,9. Questa differenza in cifre è pari a circa 97 milioni di persone. Il gap in favore delle donne è più marcato nel cristianesimo mentre tra i musulmani e gli ebrei ortodossi sono gli uomini a praticare maggiormente. Più donne che uomini partecipano alla liturgia cristiana domenicale e le differenze percentuali più significative si registrano in Colombia e in Italia, rispettivamente con il 20 e il 19 per cento in più donne che uomini. La crisi non ferma le donne in Italia Più tecnologiche, più digitali, più disposte a mettersi in gioco: la crisi non ha fermato le donne: tra il 2010 e il 2015 sono >> 19 15 D ONNE CHIESA MOND O IN NOVEMILA CARATTERI di ANNE SOUPA Le cinque madri N ulla impedisce d’immaginare che Mosè, un giorno in cui la sua famiglia era riunita, abbia anche ricordato ai suoi due figli il prodigioso concorso di aiuti al quale doveva la vita, tanto esso mette in evidenza l’attenzione, la sollecitudine e l’amore che aveva ricevuto tra terribili pericoli. Due bambini stanno attorno al padre, intimoriti ma ben decisi a non perdere nulla del racconto delle sue imprese. Mosè mette sulle ginocchia il più piccolo, Eliezer, mentre Gershon si siede a gambe incrociate sulla stuoia che ricopre il pavimento della tenda. E Mosè racconta... — Eliezer, figlio mio, apri la tua manina e conta le tue dita. — Sono cinque, padre. — Sappi che ho avuto bisogno dell’aiuto di cinque donne perché noi fossimo insieme oggi, tutti in vita. Prima che io nascessi, il mio popolo viveva in Egitto e doveva lavorare duro al servizio del Faraone. Ma gli ebrei erano così numerosi da far paura al re. Allora lui ha ordinato alle levatrici: «Uccidete i figli maschi, lasciate vivere le figlie femmine!». Eliezer si stringe al petto del padre. Gershon si affretta ad aggiungere: — Bastava che le mamme non dicessero niente alle levatrici! — Bravo Gershon, che tu possa essere tanto astuto come loro! Ma Shipra e Pua — così si chiamavano — hanno deciso di aiutare lo stesso le mamme e di lasciar vivere i figli maschi. Hanno disobbedito; niente femmine senza maschi! E hanno persino mentito al Faraone, dicendogli che le mamme se la cavavano da sole. D ONNE CHIESA MOND O 16 Gershon sobbalza: — Disobbedire? Ma è il contrario di quello che c’insegna nostro nonno Ietro! — Gershon, tu sei grande, puoi capire che a volte bisogna mentire di fronte a un ordine crudele che conduce alla morte. Quelle donne hanno veramente salvato la vita di molti uomini del nostro popolo. Allora il Faraone, vedendo che non riusciva a farsi obbedire, ha chiesto a tutti di gettare i figli maschi nel fiume. — Persino alle mamme? E loro hanno disobbedito? — Indovina! John Bradford «Il ritrovamento di Mosè» (2012) È Ietro che, dal fondo della tenda, interviene dicendo: — Piccoli, non avete ancora capito che vostro padre era stato gettato nel fiume, perché il suo nome, Mosè, significa “salvato dalle acque”? — Ma tu, sei ancora vivo... I bambini si agitano. Senza essere stato invitato a farlo, Gershon sale sull’altro ginocchio di Mosè, che lo sostiene teneramente con il braccio. — È una lunga storia... Innanzitutto, Eliezer, guarda la tua mano, di’ “Pua” e “Shipra” e chiudi il mignolo. — Ma sono due? 17 D ONNE CHIESA MOND O << 15 — Ha preso un grosso bastone biforcuto e lo ha agganciato al bordo della cesta. Lawrence Alma-Tadema «Il ritrovamento di Mosè» (1904) D ONNE CHIESA MOND O 18 — Di ogni bambino si è occupata una sola, quindi valgono per una. Quante dita sono restate aperte? — Quattro, padre. — Lascia la mano ben aperta. Parliamo delle altre tre donne. Quando sono nato, mia madre mi ha trovato bello, perciò all’inizio mi ha nascosto, non riuscendo a decidersi a gettarmi nel fiume. — Chiudo un altro dito? — Pazienza... Mia madre ha preparato per me una piccola cesta di giunchi rivestita con una colla che le permetteva di galleggiare, con una copertura per proteggere la mia pelle e i miei occhi. Poi si è decisa a depormi sul grande fiume d’Egitto, quello che dona la vita agli egiziani. — Ma tu potevi morire! — Forse. — La tua mamma doveva essere triste! — Certo, la vita a volte è crudele; ma dimentichi che mia madre era molto astuta, come le due levatrici. Aveva chiesto a mia sorella di appostarsi sulla riva del fiume per vedere. — Anche io sarei andato a vedere che cosa succedeva, dice Gershon. — Chiudo un altro dito? — Ascolta piuttosto. La figlia del Faraone passeggia e vede uno strano fagotto che va alla deriva sul Fiume. Che cos’è? Manda la sua serva a prenderlo. — Ah, ma forse l’ha fatto per ucciderti? — Eliezer, sei sciocco: come puoi ben vedere, papà è qua. — Ma papà, come ha fatto tua sorella a recuperare la cesta? Gershon è impaziente di parlare: — Io lo so, bisogna tirare molto delicatamente, altrimenti, patatrac, il bambino cade in acqua e muore. — Ah, figlio mio, finirò col credere che eri lì anche tu quel giorno! In effetti, la serva è stata abile; ha portato il cesto alla sua padrona. — Allora chiudo un altro dito? — Sì, chiudi l’indice, è il dito che mostra che cosa bisogna fare. La serva è stata efficiente. — Quante dita ti restano? — Tre, padre. — Poi la figlia del Faraone ha sollevato la copertura e ha trovato me dentro. — Dovevi aver fame! — Certo, e non ero più con la mia mamma. Ero diventato un piccolo bambino errante, senza genitori, senza casa, sballottato dalla corrente del fiume... un senza terra, un emigrato... — Ma è il mio nome! Gershon vuol dire “Sono un immigrato in terra straniera”. — Gershon, mio caro, tu hai questo nome perché la tua storia viene dalla mia. Fiero e confuso, Gershon scende dalle ginocchia di suo padre e sedutosi sulla stuoia, ascolta avidamente le sue parole. — Ma la figlia del Faraone aveva il cuore tenero. Ha detto a se stessa che un neonato vivo era più importante di un ordine, anche se questo veniva da suo padre. — Allora ha disobbedito? — Chiaro! — Ha disobbedito al Faraone? Allora è grave! — Certo. Capisci fino a che punto quella donna voleva che la vita trionfasse sulla morte. Lei mi ha salvato. — E sono due disobbedienti. — Disobbedienti agli uomini, ma obbedienti a Dio che vuole la vita del suo popolo. — Tre, perché le levatrici sono già due. — Allora la figlia del Faraone ha capito che io ero un piccolo degli ebrei, mi ha consolato. — Devi aver smesso di piangere allora. Ma dovevi anche mangiare. — C’erano sicuramente del pane e dei datteri. — Ma Eliezer, i neonati non hanno i denti, bevono solo il latte della loro mamma, o quello di un’altra donna che ha già un neonato e può dare il latte a tutti e due. — Una balia, Eliezer, lo sai bene, come Ayala nella nostra famiglia. entrate nel mercato 35 mila nuove aziende femminili, il 65 per cento dell’incremento totale (53 mila). Una dinamicità che triplica quella maschile (3,1 per cento di tasso di crescita contro lo 0,5 degli imprenditori uomini), che ha portato a quota 1 milione e 312 mila le imprese guidate da donne e che dà lavoro a quasi tre milioni di persone. I dati del rapporto «Imprese InGenere», realizzato da Unioncamere fotografa un mondo in trasformazione che però non riesce a liberarsi dai retaggi di un sistema che penalizza le madri e che relega il Belpaese agli ultimi posti della classifica Ue per occupazione femminile. Dorothy Day verso gli altari L’arcidiocesi di New York ha annunciato l’apertura dell’inchiesta canonica — raccolta di testimonianze intorno alla vita e alle opere da presentare alla Congregazione per le cause dei santi in Vaticano — relativa alla «serva di Dio, >> 21 19 D ONNE CHIESA MOND O << 19 — Credete che sia facile trovare una nutrice a casa della figlia del Faraone, che non è ancora mamma e che vive con altre giovani come lei? Come fare allora? — Beh... basta andare a cercare una balia tra gli ebrei, perché hanno tanti figli. — Giusto Eliezer! È quello che ha proposto mia sorella alla figlia del Faraone. — Ah, tua sorella era ancora lì? — Certo, nostra madre le aveva detto di non perdermi di vista. Allora lei mi seguiva ovunque. — Le dò un dito? — Puoi darle il pollice, perché è stata tanto utile come un pollice. Quante dita ti restano? — Le due centrali. — Ora, indovinate chi è andata a cercare mia sorella? I due bambini esclamano insieme: — Mamma! — Sì... la mia mamma, vostra nonna. — La tua mamma non ha avuto paura di andare a casa della figlia del Faraone? — No, era troppo felice di sapermi in vita. — Sono certo che sentiva che la figlia del Faraone era sua amica, perché tutte e due volevano che tu vivessi. Mia madre ha preparato per me una piccola cesta di giunchi Poi si è decisa a depormi sul grande fiume d’Egitto Ero diventato un piccolo bambino errante, sballottato dalla corrente Senza far rumore, Zippora si avvicina e si siede. Con sguardo sorridente, Mosè continua: — La mia mamma, soprattutto, non doveva dire che era la mia mamma. — Ma perché? Il silenzio invade la tenda. Mosè sembrava addirittura un po’ in imbarazzo. — Ora cerco di spiegarvi, dice infine Ietro, accarezzando la sua barba grigia. Se vostra nonna avesse detto la verità, la figlia del Faraone non avrebbe più potuto fare nulla, mentre era lei che aveva appena salvato il bambino. Era preferibile che fosse onorata come una D ONNE CHIESA MOND O 20 madre adottiva, perché si prendesse cura del bambino, alla sua maniera. — Grazie a questo piccolo segreto ben custodito, la figlia del Faraone ha trovato da sola una buona soluzione. Ha chiesto a mia madre di diventare la balia del neonato abbandonato. L’ha persino pagata per farlo. Zippora sobbalza: — Tua madre è stata pagata per nutrire il proprio figlio, come un’estranea! Mosè fissa sua moglie: — Sì, come una estranea... Vedo molta umiltà in questa rinuncia... I nostri figli non ci appartengono. Sono di Dio. Noi dobbiamo solo prendercene cura fino all’età adulta, senza vanagloria né desiderio di possesso. Perché io vivessi, lei ha accettato di essere una sorta di madre nell’ombra. Era troppo felice di vedermi, di coccolarmi, di darmi il suo latte, di gioire nel vedermi crescere. Ma la sua gioia sarebbe stata breve: non appena sono stato in grado di mangiare cibo solido, mi ha ridato alla figlia del Faraone, che mi ha cresciuto come un figlio. — Allora tu hai due mamme? — Se vuoi. E sono cresciuto imparando la lingua e le usanze degli egiziani. Sono stato un bambino coccolato. Tutte quelle donne si sono prese cura di me, sono state la mano di Dio su di me. — Tu, Mosè mio, hai dato molto, ma hai anche ricevuto molto. Spero che avvenga lo stesso a ognuno di noi, osserva Zippora, commossa. — Ed io, che cosa faccio con le mie due dita? — Indovinate! Eliezer si affretta a rispondere, prima che suo fratello gli tolga la parola. — Il dito più grande va alla tua mamma, perché è la tua vera mamma. E la figlia del Faraone che ha disobbedito, e ti ha salvato la vita, ha diritto all’altro dito. — Bravo Eliezer, ogni volta che aprirai la tua mano, saprai che, anche se non lo ricordi, sei stato salvato cinque volte — e persino molte di più — da tutti quelli che si sono presi cura di te. Eliezer, tutto sorridente, si esercita ad aprire e chiudere la sua mano e conclude dicendo: È una mano intera che disobbedisce! — E anche di più, perché ci sono stati altri ebrei che hanno saputo obbedire a Dio, nonostante gli ordini malvagi. Figli miei, cercate di fare in modo che le vostre due mani obbediscano a Dio, per la vita e non per la morte. Ecco che cosa c’insegnano queste donne coraggiose e astute. Dorothy Day» al fine di determinare le «virtù eroiche» e dichiararla «venerabile». Una definizione, secondo l’iter tradizionale, necessaria per la richiesta di beatificazione e la canonizzazione di questa donna. Nel 2000, su richiesta del cardinale John O’Connor, il Vaticano ha fornito il suo nulla osta e Dorothy Day è stata dichiarata serva di D io. 360 anni per stupro di indigene in Guatemala Confermata in Guatemala la condanna di febbraio scorso nei confronti di due militari per aver stuprato donne indigene. Hanno atteso più di trent’anni prima di avere giustizia. Sono 11 donne, oggi ultrasettantenni, che tra il 1982 e il 1983 hanno subito degli abusi sessuali presso la base militare di Sepur Zarco, nel nord del Guatemala. I militari sono stati riconosciuti colpevoli di crimini contro l’umanità per violenze sessuali e omicidi. È la prima volta che nel paese un caso del genere porta alla condanna di militari. 21 D ONNE CHIESA MOND O IL LIBRO Come mai, una volta abbattuti i numerosi ostacoli legali, le donne hanno avuto così tante difficoltà ad affermarsi in quegli ambiti che in passato erano occupati dagli uomini? In altre parole, per quale motivo le donne rimangono scarsamente rappresentate nei settori di potere e influenza? Perché continuano ad avere un reddito così tanto inferiore a quello degli uomini, anche quando sono impegnate nello stesso tipo di lavoro? In breve, perché l’uguaglianza si è dimostrata così irraggiungibile per le donne? La ricchezza della dipendenza Le statistiche, almeno negli Stati Uniti, parlano chiaro. Le donne che non hanno responsabilità legate alla cura, che non hanno figli, si sono spinte un po’ più vicino alla parità di stipendi e retribuzione con gli uomini. Non si può dire lo stesso per le donne con figli, malgrado gli alti livelli di partecipazione al lavoro e di istruzione che le donne hanno ottenuto come gruppo. Negli Stati Uniti e in tutto il mondo, le donne che hanno responsabilità legate alla dipendenza sono più povere e hanno sempre trovato irraggiungibile l’uguaglianza. Per tutti i progressi delle donne, le società nella maggior parte del mondo, ma marcatamente nelle nazioni più ricche, come gli Stati Uniti, non sono arrivate a cogliere le esigenze della dipendenza. Finché concepiremo noi stessi come creature le cui vite non sono solo profondamente interdipendenti ma anche, in alcuni momenti, inevitabilmente e D ONNE CHIESA MOND O 22 necessariamente dipendenti, queste esigenze continueranno a rendere utopico un mondo in cui vige una piena uguaglianza di genere. Dobbiamo respingere la visione per la quale la dipendenza, quando è inevitabile e non è semplicemente la conseguenza di strutture ingiuste, è uno stato miserabile da sfuggire. Finché non accettiamo e addirittura comprendiamo questa dipendenza come origine dei nostri legami più profondi e come radice di ogni organizzazione sociale umana, non troveremo mai la strada verso una società pienamente giusta e assistenziale in cui si realizzi l’uguaglianza di genere. Ho lottato con questi stessi interrogativi e sono arrivata alla conclusione che soltanto attraverso dei cambiamenti strutturali della società potremo cominciare a essere determinati rispetto a ciò che era così significativo per le relazioni strette più importanti, rispetto alle relazioni di dipendenza, e a uno spazio per la disabilità, anche nel momento in cui le donne cercavano di realizzarsi in modi nuovi. L’indipendenza che spesso le donne cercano non è quella forma di indipendenza isolata che la filosofia liberale proclama, ma una forma che richiede il presupposto della responsabilità sociale per aiutare e supportare le relazioni di dipendenza. Se dobbiamo lavorare per un mondo in cui le conquiste di alcune donne non dipendano dallo sfruttamento del “lavoro di dipendenza” di altre donne (che lasciano scoperte le loro famiglie) dobbiamo pensare all’assistenza e alla giustizia in un contesto globale. (Dall’introduzione di E. Feder Kittay, La cura dell’amore, Milano, Vita e Pensiero, 2010) Madri per sempre FO CUS di SILVINA PÉREZ T utto cominciò con le ronde delle Madri di Plaza de Mayo. In piena dittatura argentina, nel 1976, alcune donne con il capo coperto da un fazzoletto bianco marciavano ogni giovedì di fronte alla sede del Governo per esigere notizie sui loro figli scomparsi. I militari le chiamavano “le pazze”. Erano molto sole, ma ogni volta erano di più. Nel giro di pochi mesi, alcune iniziarono a riunirsi in un angolo della piazza: molte delle loro figlie erano incinte quando erano state sequestrate. Cercavano non solo dei figli, ma anche dei nipoti. «Il primo giorno eravamo un gruppetto sparuto. Avevamo necessità diverse, non bastava chiedere l’habeas corpus alla giustizia, andare dal Ministero degli Interni, dall’esercito. Lo facevamo per i nostri figli. Ma andavamo anche nei tribunali dei minori, negli orfanotrofi», racconta Mirta Acuña de Baravalle, una delle fondatrici delle Nonne di Plaza de Mayo, che a 92 anni non ha ancora smesso di cercare il nipote. Ogni volta arrivavano più nonne e madri. Si incontravano nei bar attorno alla piazza. Avevano solo se stesse. Persino i familiari, compresi 23 D ONNE CHIESA MOND O con il suo tono quieto, convinta che il movimento delle Madri sia «nato da una camminata silenziosa che si è trasformata nel grido più forte di tutti i tempi». «È vero che la battaglia contro il tempo, contro il passare degli anni, contro il corpo che invecchia e non ti appartiene più è la più dura da combattere, ma nonostante tutto siamo ancora delle madri!». Mirta non si è mai arresa e non intende farlo ora. Si lamenta per «i piedi che tante madri si sono consumate camminando nella Piazza, ma oggi andiamo avanti, alcune in sedia a rotelle e altre con un evidente declino fisico, ma andiamo avanti». Il sequestro di sua figlia, Ana María, avvenuto il 28 agosto 1976, fu il punto di rottura che spinse una madre «lontana dalla politica e occupata a badare alla famiglia» a dedicare la sua vita a una ricerca condivisa. Le madri resero sociale la maternità. Fu solo per amore, un amore infinito, che «passammo dalla lotta per il figlio di una alla lotta per i figli di tutte», costruendo a poco a poco una coscienza di genere fondata sul passaggio dalla maternità biologica a quella associativa. I figli reclamati oltrepassavano il legame con i propri genitori perché venivano considerati figli scomparsi di una determinata comunità sociale e politica. Mirta sostiene che queste madri, che oggi hanno un’età com- A pagina 23, le madri di Plaza de Mayo nel quarantesimo anniversario del colpo di stato militare (24 marzo 2016) Qui sopra, una foto delle manifestazioni del 1979 D ONNE CHIESA MOND O 24 quelli di Mirta, chiedevano loro di arrendersi. Era troppo pericoloso. Un’auto parcheggiata troppo a lungo davanti alla porta di casa, un rumore, tutto le spaventava. Ma insistevano. La dittatura uccise la prima leader delle madri, Azucena Villaflor, il cui cadavere fu rinvenuto nel Río de la Plata. Fu vittima dei cosiddetti voli della morte. Il terrore era la norma, ma non smisero di ritrovarsi ogni giovedì in piazza. All’inizio stavano ferme, ma glielo proibirono, quindi cominciarono a marciare in cerchio. «All’epoca nessuno ci aiutava, c’era molta paura. Con la democrazia [1983] hanno cominciato a sostenerci di più. La gente accorreva ogni giovedì. Molti erano curiosi, volevano sapere che cos’era successo in quegli anni terribili», racconta Mirta. Come tutte le mattine, anche oggi che ha 92 anni comincia la giornata con la lettura dei quotidiani, come parte di un impegno che, assicura, «è sia del corpo sia dell’anima». La giornata prosegue con letture e discussioni, perché «ci sono madri e nonne che hanno opinioni diverse», e alla fine, alle cinque di pomeriggio, torna a casa con un autobus attrezzato per disabili «per sbrigare, se riesco, alcune faccende di casa». Si sorprende quando le viene chiesto se continuerà a marciare con le Madri attorno alla Piramide di Plaza de Mayo, come 40 anni fa. «Non me lo chiedere nemmeno» scherza. «Ogni aspetto della mia vita ha a che fare con l’andare in piazza» afferma In Argentina le madri di Plaza de Mayo resero sociale la maternità Fu solo per amore che «passammo dalla lotta per il figlio di una alla lotta per i figli di tutte» Costruendo una coscienza di genere fondata sul passaggio dalla maternità biologica a quella associativa presa tra gli 85 e i 95 anni, a differenza di quarant’anni fa, sono state «partorite dai propri figli». Quale dolore più grande per una madre — aggiunge Mirta — che perdere il proprio figlio? Forse quello di vederlo sparire, nel nulla, senza sapere che cosa gli è successo e dove giace il suo corpo. «Dobbiamo ancora recuperare 350 nipoti sequestrati, ma vedo la lotta con rinnovata speranza. Finché saremo in vita, noi madri e nonne continueremo a lottare. Inoltre, adesso i nostri nipoti ci aiutano a portare avanti l’organizzazione, che non smette di crescere. Stiamo aprendo una rete in Francia». Mirta è piena di energia e ottimismo. 25 D ONNE CHIESA MOND O Jacopo Tintoretto «Madonna col Bambino e i santi Cecilia, Marina Secondo, Cosma e Damiano» LA SANTA DEL MESE Come un romanzo d’avventura Melania Mazzucco racconta santa Marina lle Gallerie dell’Accademia di Venezia si conserva una pala d’altare che Tintoretto dipinse per la chiesa del convento benedettino femminile dei Santi Cosma e Damiano, alla Giudecca. Ginocchioni in primo piano, ammantati nella rossa veste dottorale, Cosma e Damiano, medici, guaritori e patroni dei dottori, offrono alla Madonna — che appare loro in cielo con Gesù bambino in braccio, in un tripudio di angeli — gli strumenti del loro mestiere: una bacinella, il cantero, il bisturi. La pala era infatti destinata all’altare dei medici anargiri (ovvero, che operavano gratis). Ma i due santi non sono i soli a contemplare la Madonna. Fra le nuvole sostano santa Cecilia, a sinistra, e a destra san Secondo (lui pure santo taumaturgo, protettore delle partorienti cui facilitava l’espulsione della placenta). Ma chi è la figura al centro dell’immagine? A Sembra un giovane monaco coi capelli rasati, avvolto in un rozzo saio di tela. Circonfuso di D ONNE CHIESA MOND O 26 splendore dorato, volge gli occhi al cielo. Fra seno e spalla, dolcemente, stringe, con naturalezza, la testa di un bimbo. Non un attributo ma il gesto premuroso ci rivela la sua identità. L’enigmatica e androgina figura è santa Marina. A Venezia vantava una chiesa a lei dedicata, nella zona commerciale di Rialto. Vi si veneravano le sue reliquie, da quando un mercante veneziano aveva trafugato il suo corpo, donandolo alla città natale. Le monache benedettine, committenti del quadro, avevano particolare ragione per far effigiare Marina nella posizione privilegiata di tramite fra cielo e terra. Marina (Celsi) era infatti il nome della badessa che aveva fondato il convento, nel XV secolo. Ma Tintoretto dovette rallegrarsi di poter valorizzare proprio Marina. La storia di Marina è un avvincente romanzo d’amore e d’avventura, che ebbe infatti uno straordinario successo e fu tradotta in molte lingue. La santità e il miracolo sono ingredienti secondari di una narrazione popolare che della novella e della favola ricalca l’intreccio, la dinamica, i personaggi. Siamo nell’VIII secolo, in Medio Oriente, terra leggendaria di asceti, eremiti, deserti e digiuni. Quella di Marina è una famiglia di ferventi cristiani della Bitinia. Orfana di madre, cresce col padre, che ama profondamente e da cui è profondamente amata. Quando il padre entra in convento e si fa monaco, entrambi quasi si ammalano di dispiacere. Così, pur di non separarsi, escogitano un inganno. Il padre le taglia i capelli, Marina si traveste da ragazzo, e si fa monaco nello stesso convento col nome di frate Marino. Marina/o prega, digiuna, questua. Anche dopo la morte del padre, e per anni, nessuno dei confratelli nutre il minimo sospetto sulla sua identità. Finché un giorno la figlia di un oste nella cui locanda frate Marino e i suoi compagni hanno passato la notte, rimane incinta (di un soldato). Costretta a confessare la colpa, la ragazza accusa Marino di essere il padre. Per dimostrare la propria innocenza, Marina dovrebbe solo rivelare la sua natura. Non lo fa. Si accolla un peccato che non ha commesso. Si sacrifica, per amore di Dio e del suo prossimo. La bugiarda diventa indemoniata, ma Marina viene scacciata dal convento e costretta a rintanarsi in una grotta, e poi a prendersi cura del bimbo nel frattempo venuto al mondo, Fortunato. Vive di elemosina, in miseria, col piccolo sempre in braccio. Mossi a compassione, dopo qualche tempo i monaci la riaccolgono, ma Marina si è ammalata per gli stenti, e muore poco dopo. Solo quando spogliano il suo cadavere, i monaci scoprono la verità. Il 27 D ONNE CHIESA MOND O NELL’ANTICO TESTAMENTO loro compagno era una donna. L’indemoniata corre a prendere congedo dalla sua vittima, e appena si avvicina al corpo viene miracolosamente liberata dai suoi demoni. Questa storia di amore paterno, travestimento e sacrificio dovette piacere a Tintoretto. Ma anche a sua figlia Marietta. La primogenita, amatissima, avuta dall’amante prima che il pittore contraesse rispettabile matrimonio con la figlia di un suo amico. Come il padre di Marina, anche Tintoretto aveva cresciuto la figlia, quasi fosse orfana. Come quello, pur di tenersela accanto l’aveva travestita da maschio. Aveva scan- Melania Mazzucco Scrittrice romana di primo piano, Melania Mazzucco lavora anche per il teatro, il cinema, radio e televisione. Del 2003 è il romanzo Vita, vincitore del Premio Strega che ha grande fortuna anche all’estero. Nel 2005 pubblica Un giorno perfetto (Premio Hemingway e Premio Roma), romanzo corale che racconta ventiquattro ore nella vita di una dozzina di personaggi nella Roma contemporanea. Nel 2009 il libro diventa un film. Due opere successive sono dedicate a Jacopo Tintoretto e alla figlia Marietta, premiate con il Premio Benedetto Croce, e premio Comisso per la saggistica. Nel 2011 seguono altri due importanti riconoscimenti, il Premio Viareggio-Tobino alla carriera e il Premio De Sica per la letteratura. Nel 2012 le viene conferito il premio Elsa Morante per la narrativa per il suo romanzo Limbo. D ONNE CHIESA MOND O 28 dalizzato la società, ma aveva potuto così insegnarle a dipingere e a frequentare un mondo che altrimenti, come femmina, le sarebbe stato precluso. La storia dei Tintoretto fu meno romanzesca di quella di Marina. Non ci furono gravidanze misteriose, né accuse infamanti (solo pettegolezzi). Ma un sacrificio ci fu ugualmente. Se Marina rinuncia alla propria vita per amore del padre, e di Dio, Marietta fa altrettanto. Rinuncia alla propria possibile gloria di pittrice e nel 1578 acconsente a un matrimonio che non desidera, rinchiudendosi tra le mura di una casa qualsiasi. La pala dei Santi Cosma e Damiano venne commissionata a Tintoretto sul finire del 1579, e consegnata qualche tempo dopo (prima del 1583). Così, l’omaggio delle monache benedettine alla fondatrice del loro convento e alla santa di cui l’aristocratica portava il nome divenne anche un poetico e privato omaggio del padre alla figlia. E il bambino? Non sappiamo che ne è stato di Fortunato, di cui Marina si era presa cura come fosse davvero suo figlio. Se sia rimasto per sempre in convento, o se sia tornato nel mondo, con la madre naturale, perdonata dalla santa dall’al di là. I documenti ci dicono però che sul finire del 1579 Marietta era incinta. Nel quadro, Marina offre la creatura alla Madonna e al Bambino Gesù. Tintoretto faceva altrettanto con la figlia di sua figlia? (In quel periodo, il pittore mandò in un convento benedettino la figlia Gerolama, e si augurava che tutte le sue quattro figlie legittime prendessero il velo). Marina morì a venticinque anni, Marietta poco dopo i trenta. Rimasta orfana, la figlia cercò la sua via nel mondo. Le sue tracce si perdono nella Venezia del XVII secolo. Santa Marina invece è ancora lì. La chiesa a lei intitolata non esiste più, ma le sue reliquie sono ancora custodite a poca distanza, in una teca d’oro, nella chiesa di Santa Maria Formosa. La donna che genera il profeta di GRAZIA PAPOLA 29 D ONNE CHIESA MOND O l primo libro di Samuele si apre presentando la storia di una delle donne più affascinanti dell’Antico Testamento, Anna, la madre del futuro profeta che dà nome all’intero libro. La sua figura occupa solo i primi due capitoli, tuttavia il narratore ne tratteggia un ritratto intenso e, attraverso la sua vicenda, delinea una modalità di intervento attivo ma non violento in una situazione complessa e dolorosa che pare senza via di uscita. Il lettore, che ha sentito la storia dei patriarchi, riconosce alcune caratteristiche delle narrazioni riguardanti gli antichi antenati di Israele che Anna assume; anche da questo punto di vista la sua figura appare interessante, poiché la donna non riprende semplicemente quei tratti, ma li reinterpreta in maniera nuova. I La storia si apre presentando Elkanà, un abitante di Refataim, di cui si nominano gli antenati, come se si trattasse di un personaggio importante. Tuttavia, la sua storia si interrompe subito, perché il narratore dà spazio alla situazione della sua famiglia e in particolare delle sue due mogli, Anna e Peninnà, la prima priva di figli perché sterile, la seconda molto feconda. Non è una circostanza inedita per il lettore che conosce altre coppie di donne caratterizzate così: Sara e Agar (Genesi 16; 21, 1-14), Lia e Rachele (Genesi 29, 30; 30, 2). La sterilità di Anna viene sottolineata con la ripetizione per due volte dell’espressione «il Signore le aveva chiuso il grembo» (1 Samuele 1, 5.6). La sua condizione ricorda quella di Sara, Rebecca, Rachele, che riuscirono a concepire solo con l’intervento di Dio (Genesi 18, 10-12; 25, 21; 30, 22); il narratore vuole probabilmente rievocare queste storie lasciando presagire un esito analogo, ma la modalità con cui ciò avverrà costituisce l’aspetto originale di questa vicenda. Le mogli di Elkanà (1250 circa, miniatura della Bibbia di Maciejowski foglio 19) La maternità è peraltro un tema rilevante nella Bibbia: i figli sono visti come un dono di Dio, un segno della sua benedizione, la speranza di un futuro che riesce a superare il limite della morte: sono loro che possono portare a compimento quanto iniziato dal padre, ed è nella loro vita che continua quella dei genitori. Per queste ragioni essere sterili era avvertito come una disgrazia, la conseguenza dello sfavore divino; la parola “sterile” indica in maniera forte tutto ciò, perché viene da una radice che significa sradicare: la donna che non genera è sradicata e sradicante, e come tale patisce vergogna, è considerata insignificante e priva di valore. Anna, sebbene amata dal marito, vive tale situazione e il narratore ne fa comprendere il dramma. Nel contesto del pellegrinaggio annuale che Elkanà compie al santuario di Silo, viene presentata la forte tensione che attraversa le relazioni fra le due mogli. Anna è infatti oggetto di continue umiliazioni da parte di Peninnà, la moglie prolifica, verso la quale il marito non mo- D ONNE CHIESA MOND O 30 31 D ONNE CHIESA MOND O suo dolore a Dio, il solo che non la fraintende. Di fronte al venir meno della vita, l’unica cosa che sente rimanerle è rifugiarsi nel grido della preghiera (vv. 9-10). Anna va al cuore della sua povertà, la accoglie senza subirla, senza attribuire ad altri la responsabilità della sua situazione, e rivela di nutrire speranze e desideri che, essendo impossibili, domandano l’intervento del Signore. Non si accontenta, non cerca soluzioni intermedie per risolvere il suo problema (come aveva fatto Sara con Agar). Apre il suo sguardo e il suo cuore, lasciando che il suo desiderio di fecondità, di futuro, di senso si esprima e lascia che questo desiderio sia saziato da un Dio che ricolma al di là di ogni attesa. Anna prega per un figlio (1250 circa, miniatura della Bibbia di Maciejowski foglio 19) stra né affetto né generosità: nei suoi confronti si mostra giusto (assegna le porzioni del sacrificio dovute a lei e ai figli), ma la sua vera benevolenza è rivolta alla sterile alla quale dona una parte speciale (vv. 4-5). A una prima lettura Anna sembra solo una vittima, ma il narratore delinea la condizione triste anche di Peninnà, utile solo perché feconda, ma priva di un reale valore agli occhi del marito; la gelosia e la mortificazione di cui fa oggetto Anna sono le modalità con cui reagisce, proiettando sulla rivale la situazione che lei stessa patisce. Anna invece sceglie una strada differente e non risponde alle offese, pur provando una grande afflizione interiore che la conduce a non mangiare più (v. 6). Reagire agli insulti, o rinfacciare alla rivale di non essere amata avrebbe innescato una catena di male; così, non mette in atto nessun gesto di violenza in risposta all’umiliazione e al disprezzo, non si mette in competizione, distinguendosi in questo da Sara e Rachele. La donna invece sceglie di fermare l’offesa su di sé, di “patirla”, pur di non reduplicarla facendo crescere il dolore senza trovare una autentica soluzione. La stessa modalità Anna la assume nei confronti di Elkanà, che prova a consolare la moglie amata con parole che rivelano quanto egli sia cieco davanti a una situazione che lui stesso ha contribuito a creare, e come non riesca a comprendere la sofferenza di una moglie che pure ama, trasformando il suo dolore in qualcosa che riguarda lui stesso (v. 8). Anna sembra chiudersi nel suo dispiacere, in una forma di debolezza, ma la rinuncia a reagire si trasforma nella sua forza. Sceglie, infatti, di parlare e di rivolgere il suo lamento, la sua amarezza e il D ONNE CHIESA MOND O 32 Anna si reca perciò al tempio, dove non solo chiede un figlio, ma fa il voto di consacrarlo al Signore. Volge uno sguardo e cerca una soluzione fuori della sua famiglia, domanda un figlio che le consentirebbe di assumere un ruolo sociale differente, di avere un potere finora non goduto, ma non tiene per sé il dono. Proprio questa decisione avrà implicazioni decisive non solo per lei, ma per tutto il suo popolo: il bambino che nascerà diventerà la speranza di Israele in un’epoca di grande confusione e incertezza politica e sociale, restituirà a Israele la parola del Signore, sarà il profeta che ungerà re Saul e poi Davide. La modalità che Anna sceglie, le parole che dice, lo sguardo che rivolge alla realtà assumono tonalità profetiche: nella sua storia convoca il Signore e lo vede presente nelle vicende aperte al futuro. La sua preghiera, infatti, che pure nasce da un cuore amareggiato ed è accompagnata da molte lacrime, è formulata con grande lucidità: «Signore degli eserciti, se vorrai considerare la miseria della tua schiava e ricordarti di me, se non dimenticherai la tua schiava e darai alla tua schiava un figlio maschio, io lo offrirò al Signore per tutti i giorni della sua vita e il rasoio non passerà sul suo capo» (v. 11). La preghiera è una supplica che invoca il «Signore degli eserciti», un titolo che celebra l’agire vittorioso di Dio in quanto si schiera con la sua fedele che di sé dice di essere una serva, un appellativo evocatore di adorazione e di confessione della grandezza divina, allusivo del rapporto di dipendenza che Anna riconosce per sé. La richiedente domanda che Dio si ricordi di lei, guardi alla sua situazione infelice e le dia un figlio maschio. È a questo punto che la donna promette di donare a sua volta il bambino che le sarà concesso. Le sue paro- L’autrice Suor Grazia Papola fa parte delle suore orsoline di San Carlo. È biblista e insegna Pentateuco presso l’Istituto superiore di scienze religiose e lo Studio teologico di Verona. Vive a Desenzano del Garda. 33 D ONNE CHIESA MOND O le non hanno lo scopo di costringere il Signore, quanto di esprimere che il suo desiderio avrà effettiva attuazione solo nel momento in cui lei potrà agire come il divino donatore. Il suo sguardo non si ferma alla realizzazione di ciò che desidera più di ogni altra cosa, ma riesce a vedere nel compimento il segno di una bontà più grande, l’affermazione della fedeltà divina verso la vita dei suoi fedeli. La preghiera di Anna ha un testimone, il sacerdote Eli che, vedendo il movimento silenzioso delle labbra della donna, ne fraintende il comportamento e la accusa di ubriachezza, rimproverandola con asprezza (vv. 13-14). Ancora una volta Anna è oggetto di un’offesa, ma questa volta, dopo che, nella preghiera, ha ormai ritrovato la verità di sé e del suo desiderio davanti a colui che è l’unico a comprenderla, non resta muta, ma ha il coraggio di rispondere al sacerdote, rivendicando la giustezza del suo agire e il valore della sua persona. Le sue parole suonano autentiche e ricevono la benedizione di Eli. Il narratore non dice subito che il Signore esaudisce la preghiera, ma segnala che Anna è trasformata, riprende a mangiare e il suo viso non è più come quello di prima, passa dalle lacrime alla gioia, dall’amarezza alla serenità e alla pace. Il cambiamento è prodotto dalla certezza dell’esaudimento. Come il ricordo della promessa di Dio aveva spinto Anna a rivolgersi con totalità al Signore, così la fi- Forte della preghiera nella quale ha offerto tutta la sua vita Anna può proclamare che il bene e la salvezza sono di Dio ducia che Dio farà il suo dono basta a trasformare il suo sguardo e la sua attesa. Il desiderio irrealizzabile di Anna si compie: il Signore visita la donna sterile, rendendo fecondo il suo rapporto con il marito. Nasce il bambino che la madre chiama Samuele «perché — diceva — al Signore l’ho richiesto» (v. 20) e che conduce al tempio, per sciogliere il voto, dopo averlo svezzato. Ancora una volta Anna parla al sacerdote, rivelando che il suo desiderio di dare il figlio al Signore corrisponde al dono ricevuto ed è conforme alla promessa. In questa occasione Anna si rivolge nuovamente al Signore, questa volta attraverso una preghiera di lode, un canto per esaltare il Signo- D ONNE CHIESA MOND O 34 re e la sua opera; è un testo famoso che risuona nel Nuovo Testamento nelle parole del Magnificat. L’inno celebra il Dio che rovescia le sorti, sconvolge le situazioni che paiono senza via di uscita, e offre una particolare protezione a quanti sono più indifesi; lo sguardo si estende a tutta la storia e contempla tutta l’opera di salvezza, riconoscendo ed esaltando il modo in cui sempre il Signore agisce (2, 1). Anna porta nella sua preghiera il dolore e la vergogna che la circondano, leggendo nella situazione di tutti anche la sua personale angoscia e oppressione, senza un esplicito riferimento alla sua situazione. La preghiera si apre così a una intercessione complessiva mentre si ricorda l’agire di Dio. Non è solo un ringraziamento per quanto lei ha ricevuto, ma una lode che, gioendo del bene che è per tutti e che anche altri possono godere, fa nascere una vera comunione. La lode è plasmata dalla supplica. È come se Anna avesse accolto nella sua preghiera la sua sterilità e quella di tutto il popolo, avesse fatto suo il grido di tutti coloro che sentono venir meno la vita, che soffrono per una esistenza priva di ciò che dà veramente senso. Proprio perché forte della precedente preghiera, nella quale ha offerto al Signore tutta la sua vita, può proclamare che il bene, la vita, la salvezza sono di Dio e durano sempre, perché sono dappertutto. Anna canta, come un profeta, la via scelta dal Signore, costante lungo tutta la storia della salvezza. Il Signore si volge a chi è piccolo, a chi non ha pretese, a chi riconosce la sua povertà, il suo limite, la sua mancanza, non perché è un Dio che si compiace della sua potenza, che vuole esercitare il suo dominio su chi è debole e indifeso, ma per poterlo ricolmare dei suoi doni e della sua pienezza, per compiere desideri impossibili. Anna riconosce che questo è il senso della sapienza divina: quella che assegna la vittoria a chi in partenza è sconfitto, a chi non ha il vigore per affrontare il nemico, quella che confonde la superbia e l’arroganza di chi non vede nell’affamato e nella sterile il fratello. Il Signore, a cui appartiene la terra, che fa vivere e fa morire, non sceglie il potente o il ricco, ma sceglie per sé il piccolo, il povero e trasforma la sua vita, vegliando sui suoi passi, perché si custodisca fedele. Anna celebra questo e poi lo sperimenta concretamente nella sua vita; la sua storia termina con un’ultima annotazione: diventa ancora feconda e il dono da lei fatto al Signore, invece di provocare una mancanza rinnovata, causa una fecondità rinnovata: «e il Signore visitò Anna che partorì ancora tre figli e due figlie» (2, 21). 35 D ONNE CHIESA MOND O ARTISTE Non piangere per me o madre di RAFFAELA D’ESTE icona che porta il titolo «Non piangere per me, o madre» compare nella tradizione russa a partire dal XVI secolo. Si tratta dell’immagine del Cristo morto, il cui busto si leva eretto dal sepolcro, davanti alla croce, e di Maria sua madre che sembra sorreggerlo in un abbraccio. Questa immagine di Pietà ha origini antiche ed è particolarmente interessante sia per il suo soggetto — un testimone privilegiato dell’apparire ed evolversi dell’espressione dei sentimenti nell’arte religiosa — che per la sua storia, esempio istruttivo dello scambio culturale tra oriente e occidente. L’ Apparsa nel mondo bizantino inizialmente come sola rappresentazione di Cristo Uomo dei dolori (XI secolo) — posta poi in parallelo con un’immagine della Vergine con il Bambino (associazione che porterà alla nascita dell’iconografia della Eleusa, la Vergine della Tenerezza in cui il Cristo bambino abbraccia la madre) oppure, come in un dittico del monastero della Trasfigurazione alle Meteore, con l’immagine di D ONNE CHIESA MOND O 36 Maria afflitta dal dolore — giunse in Italia verso il XIII secolo e qui conobbe un notevole successo, trasformandosi e diffondendosi al nord, in Francia e Germania. Parallelamente anche in area bizantina l’iconografia dell’Uomo dei dolori (chiamata Akra Tapinosis, Grande Umiliazione) divenne più complessa, mutuando elementi propri alle immagini della crocifissione e deposizione dalla croce e subendo probabilmente anche l’influenza degli sviluppi occidentali. Un’icona di Tessalonica datata attorno al 1400 mostra Maria che abbraccia il Cristo morto e porta il titolo di La discesa. Forse si tratta del primo esempio di questo soggetto. La stessa immagine si ritrova al Monte Athos all’inizio del XVI secolo e di qui, io ritengo, ha raggiunto la Santa Russia, divenendovi molto popolare. Quando, nella seconda metà del XX secolo le icone russe sono state scoperte dalla cultura occidentale, questa immagine l’abbiamo sentita come di casa. Nella tradizione bizantina Maria che abbraccia il Cristo deposto dalla croce che si erge dal sepolcro è già un annuncio della vittoria sulla morte e un compendio dei tre giorni santi, come ben emerge dal tropario del mattutino del Grande Sabato da cui l’icona ha preso il nome: «Non piangere per me, o madre, vedendo nella tomba il figlio che, senza seme, hai concepito nel grembo: io risorgerò e sarò glorificato e, poiché sono Dio, incessantemente innalzerò nella gloria coloro che con fede e affetto ti magnificano». Una lunga tradizione patristica e innografica ha contribuito alla fissazione in testo liturgico di questo dialogo tra il Cristo morto e la Vergine, che compare come tropario dell’O de IX, quella corrispondente al Magnificat, e che è «Pietà» (Monastero di Iviron, Monte Athos, XVI secolo) 37 D ONNE CHIESA MOND O ripreso nella successiva liturgia dei Lamenti (Enkomia 164-166): «O luce dei miei occhi, o dolcissimo mio figlio, come puoi ora nasconderti in una tomba? Soffro questa passione per liberare Adamo ed Eva, o madre, non piangere! Glorifico, figlio mio, l’immensità della tua misericordia; per essa tu patisci». L’elemento del dialogo tra il Cristo e la madre nell’ora della Passione — attestato dalla liturgia solo in questi brevi passi per il sabato santo — sembra essere stato introdotto da Romano il Melode (prima metà del VI secolo) nell’inno Maria ai piedi della croce. Attraverso lo stile drammatico egli riesce ad enunciare con chiarezza e forza il significato della passione e morte, leggendole alla luce della grande misericordia di Cristo: «Ancora un poco di pazienza, madre... perché tu possa cantare: “Con il soffrire distrugge il soffrire, il figlio mio e Dio mio”» (13). Il lamento su Cristo morto rimanda al lamento di Adamo e alla misericordia di Cristo che, per liberare Adamo ed Eva, si affretta nella passione, va a cercare la pecorella smarrita e come il buon samaritano si avvicina alle sue ferite e le cura. L’immagine di Cristo Uomo dei dolori è già di per sé l’immagine dell’abbraccio di Cristo all’umanità, nella sua carne. Esso corrisponde simbolicamente a quel primo abbraccio pieno di slancio del Bambino D ONNE CHIESA MOND O 38 nei confronti della madre, meditativa e quasi preveggente il mistero della Passione, fissato nell’icona della Vergine della Tenerezza. L’espressione dei sentimenti di gioia, dolore e affetto è testimoniata nell’arte cristiana solo dopo la controversia iconoclastica. A partire dal IX-X secolo a Bisanzio si cominciano a dipingere il Cristo morto sulla croce, la sua deposizione e la sua sepoltura, spinti dall’influenza di testi omiletici e dalle innovazioni liturgiche del tempo dei Comneni. Significativamente però il titolo che compare sia sull’immagine della crocifissione che su quella della Grande Umiliazione è Re della gloria, titolo che ritroviamo anche quando è introdotto l’abbraccio della Vergine al figlio morto, come nell’icona di Iviron. Una grande pace, soprattutto sul volto di Cristo, emana da questa icona, così lontana dalle espressioni estreme del dolore conosciute in occidente. I segni del dolore non sono annullati, ma si tratta di un dolore interiorizzato, espresso negli occhi chiusi del Cristo morto e nei tratti dolenti della madre. C’è da osservare che Maria non china la testa ma la solleva verso il volto di Gesù. Forse si può pensare alla frase evangelica «Le potenze dei cieli infatti saranno sconvolte... Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire con grande potenza e gloria... Alzate il capo, perché la vostra liberazione è vicina» (Luca 21, 26-28). Questo tratto ben si adatta allo spirito e all’epoca di Teofane di Creta. Dopo poco più di mezzo secolo dalla tragica caduta di Costantinopoli nelle mani dei turchi (1453), la pittura di Teofane è un segno di resistenza e un mezzo per conservare il grande patrimonio spirituale bizantino. Linee spezzate e aspre, luci e ombre si fiancheggiano nella sua opera, testimoni di una tensione ascetica esigente, ma portatrice della luce della resurrezione. «Non piangere per me, o madre — più esattamente: non fare il lamento funebre — Soffro... per liberare Adamo ed Eva». Sì, «con il soffrire distrugge il soffrire, il figlio mio e Dio mio». MEDITAZIONE a cura delle sorelle di Bose Dono e contraddizione LUCA 1, 57-66 iovanni battista fu straordinario profeta, maestro e amico di Gesù. Alla sua sequela, e poi fino alla fine, Gesù imparò molte cose di Dio. Per i discepoli di Gesù la sua importanza è tale che il vangelo solo per lui e per Gesù racconta l’annunciazione, la nascita, il ministero profetico e la predicazione a causa della quale furono assassinati. G Arcabas, «Jean le Baptiste» A pagina 40, icona della chiesa della Natività di Giovanni Battista (g. Kainske, ora Kujbysev) Come ogni pagina evangelica anche questa della nascita di Giovanni non è una cronaca ma molto di più. Racconta l’invisibile coinvolgimento della misericordia del Dio d’Israele nella storia di Zaccaria ed Elisabetta, una coppia di anziani, persone fedeli al Signore che sopportavano, senza venir meno, la dolorosa mancanza di figli. Elisabetta, vista nella sua sterilità e nella sua fede, è la prima donna e la prima povertà che apre il vangelo di Luca, che è buona novella per i poveri e le povere. Nella Bibbia le tante 39 D ONNE CHIESA MOND O donne sterili, e per questo umiliate, sono lì come preziose testimoni dell’intervento del Signore in quei loro figli impossibili e promessi dei quali il Signore ha bisogno. Nella nascita di Giovanni i vicini e i parenti compresero che Dio aveva esaltato in Elisabetta la sua misericordia. Protagonista di questa nascita, come di tutta la vita di Giovanni e del vangelo che comincia con lui è la misericordia del Signore, quella eterna promessa ad Abramo. Elisabetta e Zaccaria sono lì a nostro insegnamento, consolazione e correzione. Essi ci sono maestri di libertà e di parresia nei confronti delle tradizioni familiari e religiose. A coloro che vogliono imporgli il nome di suo padre Zaccaria secondo l’uso, Elisabetta oppone con fermezza il suo no, e riferisce la parola dell’Angelo: «Si chiamerà Giovanni». Ma non le crederanno. Elisabetta, la prima donna del vangelo, annuncia la parola dell’angelo alla quale lei ha creduto, e non è creduta, proprio come accadrà alle donne alla fine del vangelo: credono, annunciano, e non sono credute. Anche Zaccaria, il sacerdote prima ammutolito e poi esultante, ci è di lezione. Lui e sua moglie, discendenti di Aronne, avrebbero potuto fi- D ONNE CHIESA MOND O 40 nalmente trasmettere al figlio maschio il potere e l’onore sacerdotale. Ma ora il figlio che la misericordia di Dio concede loro contraddirà del tutto le loro attese: non sarà sacerdote, bensì profeta, e un grande profeta. Per Zaccaria accettare le parole dell’angelo Gabriele è accettare che il dono di Dio, che è questo figlio, sia per lui la grande rinuncia: non potrà trasmettere il suo potere sacerdotale a Giovanni. Questa grande fatica lo ammutolisce. Deve accettare una vera diminuzione. Col suo stare nel deserto e non nel Tempio, Giovanni inizia Gesù alla comprensione che per i suoi discepoli il sacerdozio di Aronne è finito per sempre. Perché il Signore ha bisogno di incarnazione e non di mediazione. Zaccaria, faticando ad aderire alla parola di Dio, ci insegna che il dono di Dio è sempre per noi miracoloso esaudimento e anche, prima o poi, grande contraddizione. La diminuzione che il Battista riconoscerà come propria verità e gioia davanti a Gesù, già qui è adombrata come vocazione di suo padre davanti al proprio figlio, una paternità che è kenosi. Questa sarà la vera eredità che il figlio Giovanni saprà accogliere. Egli sarà profeta, crescerà e si fortificherà nel deserto, e vivrà la sua vocazione di voce che grida nel deserto la parola di Dio. Rinunciando al Tempio, Giovanni farà ascoltare la parola di Dio anche a coloro che erano esclusi dal Tempio. Il vangelo si apre adombrando già, per i discepoli di Gesù, la fine del Tempio e di ogni esclusione religiosa che è la pietra angolare di ogni sacralità e di ogni spazio e ruolo sacro. Dal Battista infatti andranno pubblicani e peccatori, non più esclusi dall’ascolto della parola di Dio. E Gesù porterà a straordinaria fioritura la lezione imparata da lui: Gesù, che si oppose sempre e solo a ogni esclusione, oltre ad accogliere con compassione e a dare pace a ogni umanità dolente ed esclusa, non escluderà neppure le donne dalla sua comunità!