Le pagine in PDF - L`Osservatore Romano
Transcript
Le pagine in PDF - L`Osservatore Romano
L’EDITORIALE Per ricostruire speranze Quello della riconciliazione è un tema che affonda le sue radici nel nostro recente passato, nei genocidi e negli stermini di massa del Novecento, ma anche nel nostro presente non meno angosciato e bisognoso di riannodare legami e ricostruire speranze. Sulla riconciliazione, che è qualcosa di più della pacificazione, essendone la rielaborazione a un livello più alto, e comprende memoria e giustizia, molto si è lavorato e ancora si sta lavorando, a tutti i livelli: a Yad Vashem come in Ruanda, in Irlanda come nel conflitto israelo-palestinese. È un tema, inoltre, che coinvolge direttamente le donne. La riconciliazione è infatti un aspetto della cura, una delle funzioni materne più importanti e significative. Creare la pace, il perdono, consentire la speranza nel futuro. In copertina: «Improvisation 6» Wassily Kandinsky D ONNE CHIESA MOND O Mensile dell’Osservatore Romano a cura di LUCETTA SCARAFFIA (coordinatrice) e GIULIA GALEOTTI In redazione CATHERINE AUBIN, ANNA FOA RITA MBOSHU KONGO MARGHERITA PELAJA e SILVINA PÉREZ Progetto grafico PIERO DI D OMENICANTONIO www.osservatoreromano.va [email protected] per abbonamenti: [email protected] D ONNE CHIESA MOND O 2 In questo numero affrontiamo alcuni momenti di riconciliazione: il progetto «per la riconciliazione, la restaurazione e la guarigione» creato in Irlanda da una donna, il ministro presbiteriano Patterson, quello per la riconciliazione e l’educazione in Ruanda, animato da un’altra donna, la sopravvissuta tutsi Yolande Mukagasana, una laica, e infine la creazione di rapporti di affetto e di fiducia fra le diverse religioni vista attraverso l’esperienza di una scuola di suore salesiane a Gerusalemme, in gran parte frequentata da bambini musulmani. Intorno a questi esempi, in cui abbiamo tentato di cogliere aspetti diversi di un possibile modello di riconciliazione, ci sono infiniti altri casi, del passato come del presente, a cui i nostri testi si limitano ad alludere. E in tutti le donne hanno avuto e hanno un ruolo determinante. Ne possiamo trarre una lezione importante: la rinuncia all’odio è fondamentale, ma deve essere accompagnata dalla richiesta di giustizia, di riconoscimento, dall’educazione e dalla conoscenza, e infine dall’amore, per divenire collettiva e toccare il cuore dei popoli e non solo quello degli individui. (anna foa) L’INTERVISTA La salvezza per le future generazioni Yolande Mukagasana, infermiera vittima del genocidio ruandese spiega perché la riconciliazione nel suo paese è possibile di CHARLES P DE PECHPEYROU iù di venti anni sono passati dal genocidio in Rwanda. Dopo un lento lavoro di ricostruzione, la popolazione si è impegnata in quello, ancora più difficile, della riconciliazione. Infermiera di origine ruandese e belga di adozione, Yolande Mukagasana ha perso tutta la sua famiglia. Da questo trauma ha attinto la forza per scrivere un libro di testimonianze dove dà la parola sia alle vittime sia ai carnefici. La sua preoccupazione principale sono le generazioni future, come testimonia il suo progetto di costruire una scuola in Rwanda, accanto a un monumento commemorativo, «affinché i bambini conoscano la storia completa del genocidio, conservandone solo gli aspetti positivi»: una scuola dove ci si definisca innanzitutto ruandesi, senza alcuna distinzione etnica. In questo, Yolande ne è convinta, i giovani avranno bisogno di essere accompagnati dalle donne, «madri e riconciliatrici». «La donna è come una religione per i bambini», afferma. «La religione ci tocca nella coscienza, nel cuore, è interna alla persona». Perciò Yolande si rallegra quando «i figli delle vittime si sposano con i figli dei carnefici», prova che il perdono è talmente radicato nella cultura ruandese da poter addirittura «funzionare con i crimini di sangue». «Penso che saranno proprio le prossime generazioni a 3 D ONNE CHIESA MOND O salvarci», conclude Yolande Mukagasana, «purché si permetta loro di crescere con i valori dell’amore, della lotta contro l’odio, del vivere insieme». Sono già trascorsi dodici anni dal genocidio in Rwanda. Che cosa ha fatto da allora? Non sono rimasta ferma all’epoca del genocidio, ho ricostruito. Tutti i ruandesi vogliono ricostruire un paese che non esiste più. Tutto è stato distrutto durante il genocidio: le vite umane, le cose materiali, le istituzioni. Non restava più nulla, si è dovuto ricreare tutto. Le donne sono state davvero le prime a partecipare alla ricostruzione e questo è per me motivo di orgoglio. È anche uno dei motivi per cui sono tornata: volevo rendere testimonianza del genocidio in tutto il mondo, perché vedevo che il mondo non aveva capito che cosa era accaduto nel mio paese. È chiaro, alcuni non volevano capire. Qualche carnefice ci aveva preceduti per predicare il proprio vangelo. Io volevo assolutamente che la mia voce prevalesse sulla sua e penso di esserci riuscita in molti paesi. In Les Blessures du Silence ho fatto testimoniare i carnefici. Volevo che i carnefici parlassero del genocidio, raccontassero quello che avevano fatto. È stato il motivo principale per cui ho scritto il libro, che contiene interviste sia alle vittime sia ai carnefici, e ai giusti. Che cosa è cambiato dentro di lei? Dovevo sapere: sono capace di vivere in Rwanda, di guardare in faccia i carnefici dei miei familiari? All’inizio non credevo nella riconciliazione, perché vedevo quello che i ruandesi si erano fatti gli uni gli altri. Mi chiedevo come potevo alzarmi la mattina e vedere il volto del boia della mia famiglia. Alla fine mi sono resa conto che la popolazione ruandese aveva il desiderio di ricostruire e che c’era riuscita. Attenzione, è un cammino non facile, sempre in corso. Come vivono i giovani quanto è accaduto? È qui che s’inserisce il ruolo delle donne. La donna è madre, riconciliatrice. Ho costatato una cosa. Ci sono uomini poligami. Da noi la poligamia non è consentita, lo dice la legge. Ma ovunque ho visto una donna con figli di padri diversi, quei figli andavano d’accordo. Nel caso invece di un padre con figli di donne diverse, quei figli non andavano d’accordo. «Venti anni dopo il genocidio del Rwanda» è il titolo del progetto e della mostra del fotografo Pieter Higo che ha documentato il processo di riconciliazione nel paese africano affiancando vittime e carnefici. Nella foto: Dominique Ndahimana e Cansilde Munganyinka È interessante... Sì, è una constatazione personale, qui come in Belgio, e ovunque ho vissuto: la donna è più forte dell’uomo, soprattutto nell’educazio- D ONNE CHIESA MOND O 4 5 D ONNE CHIESA MOND O ne dei figli. Non è più forte in tutto chiaramente. La donna è come una religione per i figli. La religione ci tocca nella coscienza, nel cuore, nel profondo. E la trasmissione dei valori da una madre ai figli avviene in un modo molto interiore, intimo, e dunque agisce di più sui figli e farà di loro degli adulti con dei valori, soprattutto nell’amore. La riconciliazione passa, in qualche modo, per l’educazione... Yolande Mukagasana Nata in Rwanda nel 1954, Yolande Mukagasana è stata infermiera anestesista per 19 anni nel centro ospedaliero di Kigali, la capitale, poi caposala nell’ambulatorio che aveva aperto in quella stessa città. Vittima dei massacri che hanno devastato il suo paese nel 1994, è sopravvissuta al genocidio dei tutsi D ONNE CHIESA MOND O 6 ma ha perso la famiglia e gli amici. Nei cento giorni del genocidio, si è nascosta per la maggior parte del tempo nella boscaglia. È stata persino ospitata in una casa dove si trovava uno dei carnefici. Rifugiatasi in Belgio, è stata naturalizzata nel 1999. Le sue competenze professionali nell’ambito sanitario non sono state tuttavia riconosciute. Nel 1999 è tornata in Rwanda, accompagnata dal fotografo greco Alain Kazinierakis, per intervistare sia le vittime sia i carnefici del genocidio del 1994. Quel meticoloso lavoro ha dato vita al libro Les blessures du silence. Ma Yolande Mukagasana ha scritto anche altri testi sul genocidio ruandese: opere teatrali, racconti, testi autobiografici. Nel suo libro La mort ne veut pas de moi racconta come ha vissuto il fatto di essere sopravvissuta, mentre suo marito, i tre figli, il fratello, le sorelle e altri familiari sono stati uccisi. Ora si reca spesso in Rwanda, ma non vi risiede stabilmente, perché perseguitata dai ricordi della tragedia. L’educazione, per me, è una condizione sine qua non affinché un intero popolo possa evolversi. In Rwanda è stata educata a «vivere insieme» una popolazione che si è lacerata durante il genocidio. Se qualcuno che non era un assassino lo diviene è perché qualcosa è accaduto. Che cosa è accaduto? Di fatto, ci si è resi conto che molti ruandesi sapevano leggere e scrivere, conoscevano la loro storia, la nostra storia vera, non quella rivista dalla colonizzazione. Ma si è anche constatato che alcune persone non avevano capito. Ascoltavano radio RTLM [ritenuta complice del genocidio, avendo incitato a sradicare i tutsi] ogni giorno, perché le divertiva, trasmetteva buona musica, ma al tempo stesso le trascinava nell’ideologia del genocidio. Quanti leggevano giornali di fonti diverse e conoscevano altre lingue non si sono lasciati condizionare facilmente. Durante il genocidio, si promettevano anche ricompense a chi uccideva di più. E così è stato. Di fronte a tutto ciò, ci si è resi conto che l’educazione era veramente basilare. Ci parli del progetto che le sta a cuore... Oggi lo Stato ruandese si è dotato di un progetto che si chiama Je Suis Rwandais. Io aprirò una scuola materna che avrà lo stesso nome. All’epoca della colonizzazione venivamo identificati come hutu o tutsi. Quella carta d’identità è stata abolita da tempo e ora veniamo identificati con la nostra vera identità: io sono ruandese prima di qualunque altra cosa. Desidero quindi che i bambini crescano in questo spirito, perché ho capito l’importanza dell’educazione. I bambini che hanno imparato la divisione, la sera in cucina con la madre o discutendone tra loro, sono diventati poi artefici del genocidio. Adesso bisogna fare in modo che i bambini abbiano la forza di dire «no, non è questo che ci insegnano a scuola». Perché allora a scuola ci veniva insegnata proprio la divisione. Oggi sono altri i valori con cui vorrei che i bambini crescessero: l’amore, la lotta contro l’odio, il «vivere insieme». Io sono ruandese. A pagina 6, l’incontro di Yolande con Patrice colpevole dell’uccisione di cento persone raccontato nel libro «Les blessures du silence» realizzato con il fotografo Alain Kazinierakis Negli anni che sono seguiti al genocidio, lei ha riflettuto molto sul tema della riconciliazione. Si è recata in Sud Africa, al Yad Vashem a Gerusalemme, per riflet- 7 D ONNE CHIESA MOND O Mi interessano sia il perdono sia la riconciliazione. Non capivo come si poteva perdonare quanto era accaduto, come le persone avrebbero potuto vivere nuovamente insieme e riconciliarsi. Ma alla fine mi sono resa conto che tutto ciò fa parte della nostra cultura, da molto prima della colonizzazione. Tutto parte dalla verità, dalla confessione. È la prima cosa. Che il colpevole voglia chiedere perdono. Se qualcuno che vi ha fatto un torto non vi vuole chiedere perdono, è perché non ama l’idea della vostra ricostruzione. Ebbene, finché tu non ti ricostruirai, lui stesso non si ricostruirà, resterà bloccato in quell’odio. nata io, a Butare. Si diceva che Butare era la città intellettuale del paese perché era lì che la Chiesa cattolica si era sviluppata e perché c’era un’università. Credo sia questo il motivo per cui il genocidio è iniziato molto tardi a Butare, dopo il 20 aprile. Il presidente dell’epoca vi si è dovuto recare di persona per incitare la gente a uccidersi. Penso tuttavia che sia stato anche uno dei motivi per perdonarsi. Perché? Ammettiamo che tuo cognato sia venuto per uccidere tuo marito... I vostri figli sono cugini: come si potrebbe impedire loro di vivere insieme? Impossibile. Per me è molto bello vedere che ancora oggi figli di vittime si sposano con figli di carnefici. Abbiamo dunque un punto da cui partire proprio grazie ai nostri figli. Penso che saranno proprio le prossime generazioni a salvarci. Tutto ciò per quel che riguarda la richiesta di perdono. Ma per perdonare? Il ricordo del bene è più forte di quello del male? Non è difficile perdonare quando qualcuno te lo chiede. Nella nostra cultura, quando si faceva un torto a qualcuno, si chiedeva perdono, davanti alla famiglia prima di tutto, e confessava il male commesso. L’altro aveva il diritto di perdonare o meno. Ma si perdonava sempre. L’unica differenza è che non c’erano ancora stati crimini di sangue, crimini orribili come il genocidio. Anch’io pensavo che tutto ciò non poteva funzionare con i crimini di sangue. Allora, come si poteva fare? Mi sembra — ma potrei sbagliarmi — che i punti siano due. Il primo è la presenza del perdono nella nostra cultura, come ho spiegato. Il secondo è che i ruandesi si erano sposati tra loro, senza preoccuparsi del fatto di essere hutu o tutsi, soprattutto dove sono Certo. Il ricordo del male distrugge, mentre quello del bene costruisce. Là dove vorrei aprire la mia scuola, c’è un monumento commemorativo che permetterebbe ai bambini di capire la storia di quel genocidio. Non voglio che ne serbino l’orrore. Vorrei che ne conservassero solo gli aspetti positivi. Perciò vorrei creare lì il primo giardino dei giusti. I giusti verranno a rendere la loro testimonianza ai bambini, seduti in quel giardino. Il giardino del bene, appunto, là dove si parlerà delle persone che hanno rifiutato il male, a rischio della propria vita, che hanno fatto il bene. Così i bambini conosceranno la storia completa del genocidio, serbandone solo il bene. Cercheranno di essere come i buoni, non come i cattivi. tere sulle modalità, non per arrivare al perdono, ma per andare al di là del genocidio... Due ritratti ripresi dal libro «Les blessures du silence»: a sinistra Clémence K. 22 anni, sopravvissuta; a destra Jean-Damascène M. 18 anni, recluso in un centro di rieducazione D ONNE CHIESA MOND O 8 9 D ONNE CHIESA MOND O SPIRITUALITÀ di ANNA FOA Una palma tra mondi ostili L D ONNE CHIESA MOND O 10 a casa delle suore salesiane di Gerusalemme è nel quartiere di Musrara, sorto fuori dalle mura della Città Vecchia alla fine dell’O ttocento. La casa si erge alla cerniera fra tre mondi, quello cristiano, quello ebraico (è proprio accanto al quartiere ortodosso di Mea Shearim) e quello musulmano (è a pochi metri dalla Porta di Damasco). Essa è oggi, oltre che sede delle salesiane, scuola materna e residenza per pellegrini e studiosi. L’asilo ha circa settanta bambini. Nella residenza, da undici anni si tengono anche corsi di aggiornamento biblico per suore che vengono da tutto il mondo. Nel cortile si erge una palma altissima, che rappresenta una grande preoccupazione per le suore: è così alta e si piega tanto al vento che temono possa cadere sulle case accanto, degli israeliani. Hanno tentato di ottenere il permesso di tagliarla, ma non ci sono riuscite. Parliamo con le suore — sono in tutto sette, di diversa età — in una stanza accogliente. Il clima è disteso e caldo: sono Sabina, Caterina, Lina, Giuliana, Margherita, Milena, Silvia. Alcune di loro sono italiane, altre provengono dalla Slovenia, dall’Ungheria, da Betlemme. Anche loro parlano italiano, la lingua del convento, ma conoscono tutte l’arabo e l’ebraico. Si raccontano con apertura fiduciosa non priva di una certa civetteria. E dai loro racconti vengono fuori, oltre ai problemi della gestione dell’asilo, i loro percorsi di donne energi- 11 D ONNE CHIESA MOND O Haifa. Avevo un po’ di paura ma poi l’impiegato mi ha detto “Vada, sorella, vedrà che potrà fare il bene”». È venuta a Gerusalemme, nella Casa di Musrara, nel 1966. «Qui era l’ultima strada, al di là c’era la Cisgiordania, ma noi non passavamo da questa strada per andarci, ma dalla Porta di Mandelbaum e sempre con il passaporto. Per le cerimonie religiose andavamo a Notre Dame, che era molto più piccola di ora». Avevano di nuovo per loro tutta la casa, dopo che l’Università Ebraica, che aveva preso in affitto per alcuni anni le due ali, l’aveva lasciata. «Ma avevamo molti ladri, io alle volte gli correvo dietro ma avevo un po’ paura. Erano gli ebrei marocchini e i poveri. Ci tiravano pietre, ma il governo israeliano e la polizia ci difendevano». Siamo negli anni immediatamente precedenti la guerra dei Sei giorni, che avrebbe radicalmente trasformato il panorama politico della zona. «Qui c’era tanta povertà, tutto era rotto, le altre suore avevano iniziato ad aggiustare, ma insomma c’era ancora tanto da fare. Eravamo noi due, suor Caterina e io: ci siamo tirate su le maniche e avanti! Sono partita due mesi prima della guerra dei Sei giorni, mandata in Egitto, al Cairo, dove sono rimasta sedici anni. Poi sono tornata a Gerusalemme». Interviene suor Caterina. È nata nel 1933 in Piemonte in un paesino in provincia di Asti, è in Medio oriente dal 1964 e ha vissuto la guerra del 1967 nel monastero salesiano di Cremisan, a Betlemme, che allora era in Giordania. Ricorda le novizie arabe, siriane, libanesi ed egiziane, sei o sette, obbligate dalle loro fa- DAL MOND O Gioca a favore della vita La Rete internazionale della vita consacrata contro il traffico di persone lancia una campagna invitando tutti i turisti che si recheranno a Rio per le olimpiadi a denunciare ogni forma di sfruttamento di cui verranno a conoscenza, soprattutto lo sfruttamento sessuale di bambini e adolescenti. 100 è il numero telefonico gratuito da chiamare. Possono essere presentate denunce anche in forma anonima, precisa suor Gabriella Bottani, coordinatrice di Talitha Kum. @UISGRoma www.uisg.org Tante donne nel Parlamento iraniano In tutta la storia della Repubblica Islamica dell’Iran è la prima volta che le donne >> 15 D ONNE CHIESA MOND O 12 che e appassionate, insieme a spaccati di rapporti tra i cristiani e gli arabi e gli ebrei. Solo a Gerusalemme poteva esistere una mescolanza di questo genere, viene subito da pensare ascoltando i loro racconti e soprattutto lasciando che, dietro le parole, emerga la percezione di questo mondo affascinante e complesso. Tutte sono passate, prima di fermarsi a Gerusalemme, da altre sedi del Medio oriente, Siria, Libano, Egitto. Sedi difficili, teoricamente definite sedi missionarie, anche se a una mia domanda specifica le suore mi dicono di non aver mai avuto conversioni, né spontanee né tanto meno da loro sollecitate, e di aver sempre rispettato la religione dell’altro. Nella scuola, ora come in passato, ci sono lezioni di religione cattolica per i bambini cattolici e lezioni di religione islamica per quelli musulmani. Tutte le suore hanno attraversato periodi di guerra, hanno vissuto sotto i bombardamenti, hanno costruito e ricostruito dopo le distruzioni. Sembrano molto serene. Parla suor Sabina, arrivata dall’Italia in Israele nell’agosto del 1957: «Al porto di Napoli mi hanno detto che c’era stato un attentato a Vedevamo gli Scud sparati su Tel Aviv dall’Iraq Abbiamo promesso alla Madonna che se ci fossimo salvate saremmo andate in pellegrinaggio in un santuario miglie a lasciare il convento per la guerra. Gli arabi avevano molta paura degli israeliani, racconta, c’era vivo il ricordo della guerra del 1948. È arrivata a Gerusalemme nel 1988, quindi alla fine della prima intifada: «Allora c’era solo una piccola scuola di bambini, un asilo, cinque bambini arabi, avevano paura di mandarli, poi si sono tranquillizzati, non è mai successo niente in tutti questi anni». Più tardi, hanno creato una scuola di computer e una di sartoria e ricamo. È ancora suor Sabina a parlare: «Le ragazze che uscivano di qua dopo tre anni col diploma firmato dal patriarcato andavano nei laboratori 13 D ONNE CHIESA MOND O >> 12 ebraici dove, quando vedevano la tessera della nostra scuola salesiana, le prendevano senza fare esami. Era una scuola di avviamento professionale con diploma. Ma poi, quando i vestiti hanno cominciato ad arrivare a minor prezzo dalla Cina e in tutte le scuole si sono introdotte le lezioni di computer, abbiamo chiuso. Abbiamo dato incremento all’asilo, che già c’era, e siamo andate avanti. Siamo arrivate ad avere centoquaranta bambini. Abbiamo anche iniziato lezioni di inglese e di lingua ebraica». All’epoca, avevano delle interne, ragazze arabe che studiavano all’Università di Gerusalemme. Il fatto che potessero restare nella casa di Musrara era una protezione non da poco, come riconobbe lo stesso vicesindaco, l’italiano David Cassuto, venuto a visitare la Casa. La sensazione è che il governo israeliano non si limitasse a proteggere le suore ma tenesse anche in alta considerazione il ruolo che svolgevano. Molto vivi anche i ricordi della guerra del Golfo, nel 1991. Avevano tre sirene a destra, a sinistra e al piano superiore, e due stanze sigillate in preparazione di un attacco chimico: «Ci hanno dato tutti i numeri di telefono e le maschere, abbiamo anche fatto le foto con le maschere. Il governo ci proteggeva, ci telefonava per sapere come andava, ci avevano avvisato di far provviste per alcuni mesi. Vedevamo gli Scud sparati su Tel Aviv dall’Iraq. Abbiamo promesso alla Ma- Le famiglie erano poverissime a volte i bambini sotto il grembiule erano quasi nudi anche d’inverno donna che se ci fossimo salvate saremmo andate in pellegrinaggio in un santuario della Madonna, siamo andate a Rafat (santuario mariano a metà strada tra Gerusalemme e Tel Aviv). Non ci è mai capitato niente» racconta suor Sabina. Suor Giuliana è ungherese e ha lasciato il suo paese nel dopoguerra. Anche lei ha errato, prima di venire a Gerusalemme, in tutto il Medio oriente, in particolare in Siria. «Il mio cuore è ancora a Damasco» ci dice. Suor Lina ha vissuto la guerra del 1982 in Libano. È nata in provincia di Padova nel 1937, si è fatta suora a Novara ed è partita nel 1978 per il Libano, nella valle della Bekaa, dove c’era una scuola di 800 e 900 bambini, solo il 10 per cento dei quali cristiani. I genitori si presentavano a iscrivere i figli a scuola armati, e bisognava D ONNE CHIESA MOND O 14 dir loro di lasciar fuori le armi. Le famiglie erano poverissime, a volte i bambini sotto il grembiule erano quasi nudi, anche d’inverno. Una volta, nella guerra, la loro automobile è stata bombardata. Rispetto all’esperienza della guerra del Libano, Gerusalemme, dove suor Lina è arrivata nel 2008, le sembra un’oasi di pace. Negli anni la vita continua a Musrara senza danni, nonostante le guerre, le intifade, e il fatto che, in teoria almeno, le suore si trovino accanto a mondi che potrebbero essere loro ostili, il quartiere ebraico ultraortodosso di Mea Shearim e quello musulmano. Con Mea Shearim, naturalmente, non ci sono stati mai veri rapporti. Prima della guerra del 1948 nella scuola c’erano 700 ragazze, musulmane, ebree e cristiane. C’era tra loro una buonissima relazione. Dopo l’indipendenza, mi raccontano, i bambini ebrei smisero di venire, vennero invece molti più bambini musulmani, oltre a quelli cristiani. A Gerusalemme come in Siria e in Egitto, i bambini delle salesiane sono più musulmani che cristiani. Le suore non sembrano avere mai avuto difficoltà con le famiglie dei bambini musulmani, anzi appaiono molto amate. La casa delle salesiane si presenta come un’oasi di tolleranza e questo aiuta a proteggerla. Quali sono oggi le vostre difficoltà? domando. Le suore hanno fatto una scelta, quella di far pagare una retta molto bassa per la scuola. Una scelta dettata dalla tradizione educativa salesiana e dall’amore e dal senso di solidarietà che accompagna il loro lavoro. Ciò nonostante, i bambini sono diminuiti. «La cosa dipende dal fatto che il governo israeliano sovvenziona le scuole con classi da un certo numero in su e nelle altre scuole cristiane ci sono tutte le classi, prendono i piccoli per portarli dall’asilo alla fine del liceo». Invece a Musrara c’è solo l’asilo, anche se le suore stanno pensando di mettere anche le elementari. Ora hanno settanta piccoli. Sono bambini di famiglie modeste o povere, a volte poverissime. «C’erano dei padri, racconta una delle suore, che insistevano per iscrivere i figli alla scuola, e non c’era posto, ma loro insistevano, dicevano che avrebbero portato loro il banco». Non è questione di banco ma di numero, rispondevano le suore. «Portatelo alla grande scuola musulmana qui accanto». «No perché là mettono nel bambino il suss, il vermiciattolo dell’intolleranza» risposero. Le scuole cattoliche come quella delle salesiane si caratterizzano per la loro apertura: «Ognuno cammini per la strada che vuole, nel rispetto di una religione verso l’altra religione» dicono le suore. È un insegnamento importante, che spiega l’amore e il rispetto che le circonda, e che può rappresentare un seme di speranza per il futuro. superano addirittura il numero degli ayatollah presenti in Parlamento. Alle 14 deputate elette al primo turno si sono aggiunte le quattro che hanno conquistato un seggio alla seconda tornata elettorale portando il numero a 18 su 290 parlamentari. Gli ayatollah sono soltanto 16. Nuova legge contro la prostituzione in Francia Dopo Svezia, Norvegia, Islanda e Regno Unito, la Francia diventa il quinto Paese dell’Unione europea ad adottare la linea dura contro i clienti delle prostitute. La legge riafferma il principio di non-patrimonialità del corpo umano, prevedendo a carico del cliente una contravvenzione di 1.500 euro, che, in caso ripetizione del reato, può trasformarsi in multa di 3.750 euro. L’uomo recidivo viene costretto, a sue spese, a frequentare un corso di rieducazione sessuale. >> 19 15 D ONNE CHIESA MOND O IN NOVEMILA CARATTERI di IVA BERANEK Una donna di pace nalizzando la situazione attuale in Irlanda del Nord, David Stevens, già leader della Corrymeela Community, ha osservato che c’è una prevalenza della pace di tregua sulla più profonda pace di trasformazione, cioè la situazione in cui gli atteggiamenti e le relazioni possono essere cambiati. La prima si può realizzare attraverso gli strumenti politici del processo di pace, mentre invece la fede e la spiritualità possono aiutare a passare dalla pace di tregua alla pace di trasformazione. Secondo il reverendo dottor Ruth Patterson, direttore di Restoration Ministries, «qualsiasi processo di pace diventerà una realtà solo quando cambieranno gli atteggiamenti». Gli atteggiamenti possono cambiare in modo graduale, costruendo relazioni con quanti sono diversi da noi, accettando il rischio di essere aperti e vulnerabili. A Il dottor Patterson è un ministro presbiteriano, prima donna nell’isola irlandese a essere ordinata per una qualunque denominazione, nonché persona di grande profondità e intuito. All’inizio di quest’anno ha celebrato quarant’anni di ministero. L’Irlanda del Nord ha alle spalle un passato tormentato, ma ci sono state persone e organizzazioni che hanno incarnato la speranza e sono state strumento di guarigione. Una di queste persone è proprio il reverendo Patterson, il cui cammino di fede e la cui vocazione sono stati fondamentali per l’avvio di Restoration Ministries, gruppo cristiano nato in Irlanda del Nord, che opera per la pace, la restaurazione e la guarigione sin dal 1988. Prima di allora, Ruth Patterson era ministro in una parrocchia pre- D ONNE CHIESA MOND O 16 17 D ONNE CHIESA MOND O >> 15 In bicicletta sfidano l’Isis in quel particolare momento, desidera andare lontano e in profondità nel suo cammino di guarigione e di riconciliazione. Il fine di Restoration Ministries è di aiutare le persone a compiere almeno un passo avanti e un passo più in profondità nel loro cammino di vita e di fede. Ruth Patterson insegna che «è nell’ambito dell’anima, ovvero nella nostra mente, nelle nostre emozioni e nella nostra volontà che sorge la maggior parte delle nostre difficoltà». È ben consapevole della necessità di riconciliazione tra diverse comunità in Irlanda del Nord: «Sono pochissime — sempre che ci siano — le situazioni conflittuali nel mondo, la cui causa deriva dal momento presente. Quasi sempre proviene da un battito di tamburo ancestrale, dove un senso di offesa, ingiustizia o abuso, reale o immaginato, è rimasto lì, non affrontato o represso, per molto tempo. In Irlanda del Nord, e in tutta l’isola nel suo insieme, non siamo estranei a simili scenari». La pace duratura, frutto della pazienza è anche «frutto dell’amore, il quale va oltre quanto può apportare la semplice giustizia» come dice la Gaudium et spes. Se, come ha detto Thomas Merton, «la radice della guerra è la paura» è chiaro che non si possono riparare in tempi rapidi lunghi secoli di inimicizia. Nel promuovere la pace serve invece impegno verso la speranza, che alla fine favorirà e preparerà un futuro comune per ogni cittadino del paese: «Penso che si potrebbe affermare che il 99 per cento delle persone che vengono da noi a Restoration House hanno un problema con il perdono». A pagina 16, la scultura di Maurice Harron «Hands Across the Divide» inaugurata nel 1992 a Derry in Irlanda del Nord Qui sopra «Le temps d’une pause» di Odile Escolier e a pagina 19 il logo di Restoration Ministries D ONNE CHIESA MOND O 18 sbiteriana, e la decisione di lasciare la parrocchia per lavorare a tempo pieno a Restoration Ministries è stata, come dice lei stessa, la scelta più importante della sua vita. A Restoration Ministries viene posta grande enfasi sull’ospitalità, la preghiera e l’ascolto; in altre parole, l’approccio si basa su una tradizione spirituale cristiana profonda. L’aspetto pubblico del ministero della Patterson è assorbito dai suoi impegni come oratrice, quello privato, invece, dal ministero dell’ascolto. Il suo ministero di ascolto e di preghiera, grazie al quale le persone possono affrontare ricordi dolorosi in un ambiente confidenziale, ha aiutato molti a rivedere e, in una qualche misura a guarire, parti esiliate di se stessi. Il suo approccio di ascolto, preghiera e perdono favorisce la speranza e alimenta la vita interiore. Come afferma Ruth Patterson, «le persone non riusciranno ad andare oltre fino a quando qualcuno non avrà ascoltato la loro storia». L’approccio di Restoration Ministries è sensibile e non assertivo: si lascia ogni persona libera di stabilire quanto, Ruth Patterson ha scritto diversi libri, che fondano l’impegno per la riconciliazione di Restoration Ministries nel ministero di riconciliazione di Gesù stesso, in una spirituale che supera le divisioni confessionali. Affinché un incontro possa essere definito «ecumenico», deve esserci un’intenzione riconciliatrice, e spesso questo è implicito in ciò che il reverendo Ruth Patterson fa e in ciò che Restoration Ministries rappresenta. Questi incontri favoriscono la chiamata all’unità, non solo attraverso gli impegni della Patterson come oratore e la stretta cooperazione con diverse Chiese, ma anche perché la collega del reverendo a Restoration Ministries, Rose Ozo, è cattolica. In tutti i documenti scritti, Restoration Ministries dichiara di essere non denominazionale; ciò la rende una voce indipendente che mira a parlare da una prospettiva cristiana che non è né cattolica né protestante di per Con lo slogan «Comunità libera» un gruppo di giovani donne curde è scesa in strada pedalando per protestare contro le norme che definiscono indecenti le donne in sella a una bicletta. È successo ad Amuda, città del Governatorato di alHasaka, nel nord-est della Siria, dove la maggioranza della popolazione è curda. Le ragazze, che si fanno chiamare Newroz, (“giorno nuovo”), hanno dichiarato che vogliono sentirsi libere di andare in bici senza per questo rischiare di essere punite. Parte dal linguaggio la lotta alle discriminazioni Dopo numerose proteste, Fiat Argentina ha ritirato dalla circolazione il manuale di guida in dotazione alle auto appena acquistate. Il «Manual del Buen Uso», contiene diverse frasi offensive nei confronti delle donne. Non solo perché dà per scontato che l’auto venga acquistata e >> 21 19 D ONNE CHIESA MOND O >> 19 guidata esclusivamente da un uomo, ma anche perché contiene frasi maschiliste del tipo: «Se il passeggero è una donna e indossa una gonna molto corta, raccomandiamo, al fine di restare concentrati, di farla sedere dietro» oppure «Per comportarti come un gentiluomo, devi sapere che devi portare a casa sane e salve lei e le sue amiche prendendo il ruolo di maschio alfa». Premio della Catholic Press Association Il «selciato del gigante» (Giant’s Causeway) affioramento roccioso naturale sulla costa nordest irlandese D ONNE CHIESA MOND O 20 Nel cammino di restaurazione e di perdono, che fanno ambedue parte del processo di riconciliazione, la Patterson sottolinea l’importanza del ricordare. Spiega che «ricordare significa “ridare sostanza al passato”. Non che dobbiamo dimenticare il dolore o il passato, ma dobbiamo onorarlo attraverso un ricordo profondo». Tuttavia, il solo ricordare non può portare guarigione e non basta a liberarci dall’essere prigionieri del passato. Lo strumento di guarigione e di trasformazione è «il lavoro interpretativo che una persona svolge con la memoria». La memoria spesso ci limita rispetto a ciò che abbiamo sperimentato, buono o cattivo, mentre la speranza ci fa concentrare su Dio, e in lui troviamo infinite possibilità di scoperte sempre nuove nella vita. L’invito a renderci conto che siamo amati da Dio viene spesso ribadito da Ruth Patterson, la quale sostiene che «se lo accettassimo», se davvero credessimo di essere profondamente amati da Dio, «non ci sarebbe bisogno di Restoration Ministries, poiché ci sapremmo amati, in pace con noi stessi e con Dio»; per questo, «in sostanza siamo chiamati a essere un ponte tra i tempi. Tra il mondo come era e come sarà, tra la Chiesa come era e come sarà, tra l’Irlanda come era e come sarà». La Patterson riconosce il bisogno di riconciliazione interiore, che ognuno di noi deve intraprendere nel suo percorso di vita. Sottolinea che «il più grande cammino di pacificazione che compiremo è in noi stessi» e afferma inoltre che «dentro ognuno di noi c’è il desiderio, la fame di significato, di una spiritualità più profonda, di maggiore spazio a Dio. Molto spesso nel nostro cammino terreno ci vengono donati momenti di consapevolezza, di riconoscimento, dove il velo viene sollevato». Attraverso il suo lavoro, Restoration Ministries è anche «preparatore del cammino». Il suo ministero, pur avendo un carattere unico, con l’accento posto sull’ascolto, è radicato nella solida tradizione biblica cristiana; attinge saggezza e incoraggiamento da quanti hanno percorso prima questo cammino. Ciò emerge in modo particolarmente chiaro negli incontri pubblici, dove il reverendo Ruth Patterson condivide le sue riflessioni, di solito illustrando alcuni valori cristiani profondi, grazie all’esame attento dei racconti delle Scritture. sé, ma che invece abbraccia entrambe le prospettive concentrandosi piuttosto su Dio. «Catholic Women Speak: Bringing our gifts to the Table» è il titolo di un libro che raccoglie storie di vita di donne che lottano per portare avanti la famiglia in contesti che non sono sempre in linea con gli ideali della dottrina della Chiesa. È un’antologia di voci di donne cattoliche provenienti da paesi e contesti socioculturali profondamente diversi. Al libro, che è stato presentato all’ultima assemblea del Sinodo dei vescovi dedicata alla famiglia, è stato assegnato il secondo premio dell’edizione 2016 della Catholic Press Association. 21 D ONNE CHIESA MOND O IL FILM intitola ’71 un bel film inglese sulla guerra in Irlanda — si svolge nella Belfast divisa in due parti, quella cattolica e quella protestante, in aspro conflitto tra loro — in cui un soldato inglese ferito viene accolto e salvato da una famiglia cattolica, e anche curato dal padre medico. In un contesto di estrema violenza, nel quale entrambe le parti sembrano avere perduto ogni traccia di umanità, un primo passo di riconciliazione si S’ Lezione di perdono al femminile di LUCETTA SCARAFFIA realizza attraverso un rapporto personale con il nemico. Sono gli incontri, il contatto umano, infatti, l’unica arma possibile contro la violenza, l’unica che ha la forza di portare alla riconciliazione. E sappiamo tutti che nel contatto umano, nel rapporto empatico, le donne sono maestre ineguagliabili. Il cinema l’ha raccontato più volte, ma forse nulla è più toccante della storia di riconciliazione tessuta da donne al cuore del bellissimo documentario The Heart of a Murderer (2012) girato in India dalla regista italo-australiana Catherine McGilvray. In un’ora, il film racconta la storia di Samundar Singh, il giovane fanatico indù che nel 1995, a ventidue anni, uccise suor Rani Maria, missionaria francescana originaria D ONNE CHIESA MOND O 22 del Kerala. Dopo averla accoltellata per 54 volte, la abbandonò sul ciglio della strada. Una morte lenta, lentissima nella solitudine. La sorella di Rani, anch’essa suora, insieme alla madre, ha saputo trovare una strada di perdono e quindi di riconciliazione, riuscendo anche nella difficile impresa di tradurre concetti cristiani nella cultura indù, per farsi capire dall’assassino. Arrestato e condannato all’ergastolo, Samundar viene quindi perdonato dalla famiglia di Rani, che non solo chiede (e ottiene) per lui la grazia, ma che arriva ad accoglierlo come un figlio e come un fratello. Nel film la regista racconta quindi una strada femminile, una capacità di ricucire rapporti lacerati dalla violenza, la creatività di chi sa costruire relazioni ricche di umanità dove c’è odio, di mettere il bene al posto del male, rompendo l’abitudine di rispondere con violenza alla violenza. La forza di questa proposta femminile di riconciliazione si è percepita circa un anno fa quando il documentario è stato proiettato alla moschea di Roma, per iniziativa del centro culturale islamico, alla presenza della regista e della sorella di Rani, protagonista vera della vicenda. Di fronte a un pubblico quasi esclusivamente composto da uomini, la dolcezza mescolata alla forza delle loro parole ha aperto nuovi scenari possibili di convivenza, ha fatto capire come si può cercare una riconciliazione anche dopo violenze atroci. Ha insegnato anche che è indispensabile farsi capire entrando con rispetto nel linguaggio dell’altro. È un modo di ammettere che anche in campo nemico esiste un anelito alla pace, esiste la volontà di riconoscere l’umanità profonda di ciascuno, indipendentemente dalla sua religione, razza o sesso. All’inizio solo un sogno FO CUS di SILVINA PÉREZ A ll’inizio erano appena una decina. Poi sono diventate migliaia. Si riunivano nel mercato perché era lì che le truppe dell’allora presidente Charles Taylor reclutavano bambini per portarli al fronte. I camion partivano pieni. E tornavano vuoti. È il 2002 in Liberia quando, dopo tredici anni di una sanguinosa guerra civile che aveva spezzato più di 150.000 vite, Leymah Gbowee fece un sogno. Sognò di presiedere una riunione in una chiesa e d’iniziare a lottare per la pace nel suo paese. Al risveglio decise che era ora di fare ciò che aveva solo sognato. L’assistente sociale liberiana cristiana, madre di sei figli, riunì allora un gruppo di donne in un mercato e, insieme con un’altra donna, la musulmana Asatu BahKenneth, diede avvio a un movimento che portò alla pace in Liberia e alla storica elezione del primo presidente africano donna, Ellen Johnson Sirleaf. Nacque così il Movimento delle Donne per la Pace e la Riconciliazione in Liberia. All’inizio nessuno dava peso a queste donne. Dice- 23 D ONNE CHIESA MOND O vano loro di starsene a casa. Ma quelle niente. Anzi, cominciarono a intensificare le riunioni e le marce, mentre la guerra continuava. Alla fine decisero uno sciopero matrimoniale, rifiutando rapporti sessuali con i mariti. Per mesi Leymah Gbowee incoraggiò le donne del suo paese a fare pressione sugli uomini perché ponessero fine alla guerra civile. E dopo tre mesi, le donne ottennero un incontro con Taylor obbligandolo a promettere che avrebbe avviato un dialogo con i gruppi ribelli in Ghana. La loro lotta riportò la pace nel paese spianando la strada verso l’elezione a presidente di Ellen Johnson Sirleaf. In Africa la maggior parte delle donne vive in contesti politici poco o per nulla democratici, dove la disuguaglianza di genere si perde tra altri problemi più gravi. Le donne sono vittime di culture tribali che le relegano a un ruolo di secondo piano. Non hanno voce nelle loro comunità. Così come non possono ricevere eredità o avere una proprietà. In nome di tradizioni e credenze religiose ancestrali subiscono la poligamia e sono sottoposte alla brutale mutilazione genitale. E sono sempre loro a perdere il treno dell’educazione, della salute e della politica, e a diventare il bersaglio unico della violenza di genere e dello stupro come arma di guerra, con tutte le conseguenze di orrore, malattie sessuali e gravidanze indesiderate. Ma questo quadro così duro e desolante non sarebbe completo se non venisse sottolineato anche che quelle stesse donne stanno lottando con tutte le loro forze per non essere più considerate vittime, per ottenere visibilità sociale, economica e giuridica, e recuperare il controllo del proprio corpo e della propria vita. «Le africane dicono “no” all’afro-pessimismo — scrive nel suo blog Nestor Nongo, sociologo e professore congolese residente in Spagna — e restaurano la speranza in tutto il continente. Cacciano dittatori, risollevano il proprio paese, influenzano le agende politiche, lottano per i diritti Tawakkul Karman, Leymah Gbowee e Ellen Johnson Sirleaf durante la cerimonia di assegnazione del Nobel per la pace (2011) Il nuovo capo dello Stato ereditò una Liberia annientata da una guerra civile lunga e crudele che aveva distrutto l’economia, il tessuto sociale e il futuro di una generazione di giovani: oltre 25.000 guerriglieri smobilitati, ai quali il conflitto aveva rubato l’infanzia e l’educazione. L’impegno di Johnson Sirleaf è stato quello di promuovere la riconciliazione, di gettare le basi per un paese in pace, di ripristinare l’autorità degli anziani, della legge e di lasciarsi alle spalle personaggi tanto sinistri come Charles Taylor, ex guerrigliero ed ex presidente liberiano giudicato dal tribunale dell’Aja per i suoi crimini nella vicina Sierra Leone. La Liberia è un esempio del lento ma inesorabile progresso delle donne in Africa e del ruolo decisivo che stanno avendo nella costruzione di un continente più pacifico, equo e riconciliato. In quattordici anni questo piccolo paese ha vissuto due guerre civili. La determinazione delle donne è stata così ferma che, quando il dialogo tra le diverse fazioni in guerra è entrato in una fase di stallo, hanno barricato la sala dove si tenevano i colloqui di pace, non permettendo agli uomini di uscire prima di aver raggiunto un accordo. Finalmente, nell’agosto del 2003, l’accordo fu firmato. D ONNE CHIESA MOND O 24 Dopo tredici anni di una sanguinosa guerra civile Leymah Gbowee fece un sogno Sognò di presiedere una riunione in una chiesa e d’iniziare a lottare per la pace nel suo paese. Al risveglio decise che era ora di farlo umani e si occupano delle persone abbandonate e degli orfani. E riconciliano la società, innovano e creano, dirigono imprese, e tutelano l’ambiente». Ellen Johnson Sirleaf e Leuman Gbowee nel 2011 hanno ricevuto il premio Nobel per la pace per il ruolo decisivo svolto per porre fine alla guerra civile nel loro paese. Con loro, il riconoscimento è stato assegnato anche a una giovane yemenita, Tawakkul Karman, capo del gruppo Donne Giornaliste senza Catene creato nel 2005. Loro il merito di aver lottato con tutte le forze per i diritti delle donne, di aver difeso i diritti umani e di continuare a rappresentare l’anima femminile di un’Africa che aspira alla pace e alla giustizia. 25 D ONNE CHIESA MOND O Mosaico absidale della chiesa di Santa Prassede A pagina 26 «Santa Prassede» dipinto attribuito a Jan Vermeer (1655 circa) LA SANTA DEL MESE Martire come Prassede di BENIAMINO BALDACCI ravamo i “diversi” in un gruppo organizzato che aveva appena terminato la visita guidata alle quattro basiliche maggiori. Lei era nera, ma proprio nera, col viso gradevolmente regolare e un bel corpo coperto da una semplice polo bianca e da una gonna celeste. Io il solo romano, forse in cerca di sé. L’avevo notata e mi ero chiesto come fosse capitata in mezzo ai soliti turisti, tutti uguali e tutti diversi, grondanti di sudore nell’estate romana. E Terminata la visita in Santa Maria Maggiore con mio stupore si rivolse a me per chiedere dove fosse la chiesa di Santa Prassede. La pronuncia incerta e la mia ignoranza mi fecero chiedere «Santa chi? Scusi». «Prassede» ripeté scandendo bene. «Ah, quella dei Promessi Sposi». «Non sposa, no! Vergine e martire! Martire molto giovane. La sua chiesa qui vicino. Scusa, se non sai chiedo...». «Aspetta chiediamo al bar mentre beviamo qualcosa: è il 21 luglio e fa caldo». Accettò e scambiammo qualche parola. Era nativa del Biafra e lì insegnava al liceo. Cattolica e forte di una fede profonda venerava come modello la santa romana ed era qui a sciogliere un voto. Chiese di me: «Cosa fai e perché sei qui?». «Sono un medico e non so perché oggi sono qui. Curiosità o noia, anche D ONNE CHIESA MOND O 26 perché non credo in niente». Mi guardò con commiserazione. «Andiamo, vieni in chiesa con me». Le sorrisi: «Grazie ma devo montare di guardia, mi convertirai un’altra volta». A due passi si trova un portone insignificante che introduce a una inattesa meraviglia. Non entrai «Vado in clinica, la lascio alla sua santa». Mi fissò con dolcezza e al mio «addio» rispose «arrivederci» ed entrò in chiesa. In clinica cercai la suora di guardia: «Suor Maria, sa qualcosa di santa Prassede?». «Certo, è oggi e qui c’è tutto scritto, persino che forse non è mai esistita. Se vuole può leggerlo, poi me lo ridà». «Ok sorella, grazie. Qualche paziente grave?». «No, la notte si presenta bene, dormirà tranquillo». Cominciai a leggere. Figlia di Pudente, senatore romano convertito al cristianesimo, visse nel secondo secolo durante le persecuzioni dell’imperatore Antonino Pio... Leggevo, dormivo, sognavo, vivevo. «Timoteo ha scritto che possiamo utilizzare l’eredità di nostro padre e dividerla col prete Pastore e con il Papa. Per prima cosa faremo un fonte battesimale nella chiesa dei nostri genitori. Che ne dici fratello?». Novato annuì. «Continueremo a predicare il Vangelo e a dividere il pane. L’imperatore Antonino crede di sconfiggere la nostra fede uccidendo i santi fratelli in Cristo. Per ogni martire sono decine le conversioni! Hanno ucciso nostra sorella Pudenziana, una bambina ancora. La seppelliremo vicino a Pudente nel cimitero di Priscilla. Chi mai potrà spiegare il perché di tanto odio e di tanto accanimento?». Prassede, che vuol dire donna d’azione, lo era di fatto oltre che di nome. Somigliava a Savinella, sua madre, che aveva trasformato la pro- 27 D ONNE CHIESA MOND O NELL’ANTICO TESTAMENTO pria casa in una chiesa dove anche Papa Pio celebrava e predicava. Insieme a Pio I e con l’aiuto dei preti Pastore e Demetrio, Prassede fece costruire altre due chiese. Per due anni si visse a Roma una tregua dalle persecuzioni durante la quale l’attività pastorale era tollerata e dava buoni frutti. La persecuzione riprese con durezza contro migliaia di cristiani. Prassede pur in preda a un immenso dolore per tanto scempio non smise l’opera di conversione. Quel giorno Novato, già malato, entrò di corsa e urlò concitato: «Fuggiamo, corri, stanno venendo a catturarti. Antonino in persona ha dato l’ordine. Torturano prima di ucciderti. Ricordi Pudenziana, dai, andiamo via. Qualcuno ha tradito e Demetrio è già morto! Ma che fai, ti metti in ginocchio? Levati orsù...». «Va’ fratello, fuggi subito, scampa la sofferenza e la morte! Io non pavento torture e Beniamino Baldacci Beniamino Baldacci è medico di famiglia a Roma da molti decenni, amato dai suoi pazienti come difficilmente accade nelle grandi città. Tutti gli riconoscono, accanto a un alto livello professionale, la capacità di comprendere l’anima dei malati, la pazienza di avvicinarsi a ciascuno con la disponibilità di ascoltarlo, di vedere il suo fardello di dolore, le sue sconfitte e le sue stanchezze, che spesso sono alla base delle malattie. Ha sei figli e sei nipoti, ha scritto vari articoli di medicina e un romanzo storico Leone. Donne e tradimenti (2014) premiato al Spoleto Festival Art nello stesso anno. D ONNE CHIESA MOND O 28 tantomeno la morte. Possono seviziare il corpo e straziarlo fino a toglierne la vita. Otterranno l’esaltazione dell’anima mia nell’unione con le sofferenze di Cristo e dei fratelli martiri della fede. La più orribile delle morti diviene santificazione eterna nell’abbraccio di Dio e nella comunione dei santi. Vai e lascia ch’io preghi per costoro perché come accadde a Paolo siano illuminati e salvati». Entrano con i gladi in mano gridando. Qualcuno indica Prassede. La ragazza si alza, apre le braccia e porge il petto all’arma che vi si infigge. Vedo il suo viso bello e radioso mentre muore. Un viso, che vedo? Non capisco, è il viso della donna del Biafra e poi, poi vedo il volto di chi ha tradito e l’ha uccisa. Mi sento urlare e fremere contratto come uno stoccafisso e non riesco a svegliarmi. «Dottore la smetta! Si svegli!». Suor Maria accompagna alle parole un sonoro schiaffo che mi riporta alla realtà. Ancora urlo, ma smetto e mi alzo. «Grazie sorella, sto bene e davvero non l’ho uccisa. Ero io ma non l’avrei mai tradita. Ucciderla poi...». «I dottori qualcuno ammazzano sempre!». «Non mi irrida, ho vissuto in un incubo». Per giorni non riuscii ad applicarmi a nulla. Il cervello era occupato dal mio braccio col gladio infisso nel petto di una donna di colore. Mi resi conto di quanti «femminicidi» avvengano con cadenza continua. Decisi di rivolgermi ad uno psichiatra. Non feci in tempo. La notizia mi colpì come un fulmine. Attaccata una scuola cattolica in Biafra. Uccisi alcuni insegnanti, fra le foto la sua. Martire come Prassede. Nell’animo fu come uno squarcio che mi aprì un orizzonte infinito. Mi trovai in chiesa, a Santa Prassede. In ginocchio piangevo e pregavo preghiere che neanche conoscevo. Pregavo Prassede che prega per chi ogni giorno l’uccide e per chi di fronte alla strage si copre d’indifferenza. Betsabea Politica, potere e ambiguità di SUSAN NIDITCH 29 D ONNE CHIESA MOND O etsabea appare tre volte nella narrativa biblica. In 2 Samuele 11, Betsabea, moglie del servo di Davide Uria, viene ritratta come bella e proibita fonte di attrazione per il re Davide, il quale passeggia nella sua reggia mentre i suoi uomini sono in guerra. Dalla terrazza la vede fare il bagno, la fa chiamare, giace con lei. Betsabea rimane incinta e glielo fa sapere. Davide si assicura che Uria non torni più dalla battaglia, e quindi la sposa. In 1 Re 1, 11-22, dopo aver appreso dal profeta Natan delle pretese al trono di Adonia, Betsabea parla a Davide a favore di suo figlio Salomone, ricordandogli la promessa di fare di lui il prossimo re. In 1 Re 2, accetta di chiedere a re Salomone, a nome di Adonia, la giovane vedova di Davide, Abisag, in sposa. Salomone è consapevole che chi controlla la donna del re precedente ne eredita il potere. Si affretta quindi a eliminare il suo rivale. La posizione inizialmente marginale di Betsabea si trasforma così in quella di una regina e madre di re influente. Come dobbiamo immaginare il suo ruolo? È ingenua, passiva, fa quel che vogliono Davide, Natan e Adonia, o è manipolatrice e potente, attira di proposito un re lascivo, inserendosi nel processo di successione e ponendo fine alle possibili pretese di un rivale proprio facendo esattamente ciò che lui le chiede? Esaminando da vicino questi importanti passaggi nel loro contesto, si possono capire lo stile letterario, l’orientamento politico e i modi in cui s’immagina che le donne esercitino il potere. B «Bethsabée», Marc Chagall (1962-1963 collezione privata) D ONNE CHIESA MOND O 30 Il contesto nel quale si comprende meglio il ruolo di Betsabea è quello delle relazioni di Davide con le diverse mogli. Gli eventi che circondano tali relazioni segnano punti di passaggio fondamentali nel racconto in stile epico della sua ascesa, del suo governo e della sua senescenza. Ogni donna serve da chiave di comprensione all’eroe stesso, al suo carisma come anche ai suoi difetti caratteriali. Mikal, figlia di re Saul, che il giovane guerriero Davide corteggia e ottiene per cento prepuzi di filistei, è una delle molte ammiratrici che egli usa per fare carriera. Davide sa che l’uomo che controlla le donne legate al re investito da Dio, siano esse mogli o figlie, eredita un po’ dello spirito e dell’autorità del suo predecessore. Mikal, da parte sua, è profondamente infatuata del rivale del padre e lo aiuta a sfuggire all’ira di Saul quando quest’ultimo comprende la misura della vera ambizione di Davide. Per intenderci, colui che tramanda questo racconto, di certo schierato con Davide, insiste sul fatto che Dio ha respinto Saul e scelto Davide al posto suo, ma comunque non può fare a meno di rendere vivi i personaggi descrivendo emozioni umane, dubbi su se stessi e recriminazioni. Una Mikal un po’ più anziana forse si dispiace della sua complicità nel tradimento della casa paterna e nella morte del padre e del fratello. All’improvviso sembra ren- 31 D ONNE CHIESA MOND O L’autrice vide sia il figlio di questa donna, la cui relazione iniziale con Davide è illegittima. Il modo in cui viene rappresentata e in cui prende forma la sua personalità rispecchia gli atteggiamenti verso la dinastia di Davide e Salomone. I ritratti di Betsabea sollevano questioni più ampie sul genere e sulle forme di azione femminile. «Betsabea al bagno» Francesco Hayez (1834) dersi conto che Davide la considera appena, e che è piuttosto innamorato delle groupies infatuate che lo accolgono quando ritorna dalla battaglia. Lei lo rimprovera e lui la respinge (2 Samuele 6). Un’altra moglie importante, Abigail, viene descritta come donna saggia che conquista l’affetto di Davide durante la fase da bandito della sua carriera, dicendogli esattamente ciò che vuole sentirsi dire sul suo carattere e sul suo futuro (1 Samuele 25). Davide ha minacciato suo marito Nabal e la sua casa quando questi gli ha rifiutato il suo aiuto. Abigail si reca da Davide di nascosto dal marito, portando cibo per i suoi uomini e parole di incoraggiamento per lui. Ammalia il futuro re, tradendo suo marito Nabal, un ricco e indipendente proprietario terriero, che considera Davide un arrivista illegittimo. Diversamente dalla saggia moglie, Nabal non riesce a capire che il futuro d’Israele sta in Davide, un pericoloso nemico che è meglio corteggiare piuttosto che allontanare. Opportunamente, Dio fa morire Nabal permettendo a Davide di prendere Abigail per moglie. L’ultima figura femminile menzionata dettagliatamente è Abisag, una giovane donna che serve Davide nella sua vecchiaia, uomo impotente contro cui i figli tramano per sostituirlo. Abisag riscalda Davide, poiché sembra che a questo punto non è in grado di fare altro con lei a letto (1 Re 1, 1-4). La giovane badante in seguito diventerà una pedina nelle questioni riguardanti il potere del figlio di Davide Adonia, rivale di Salomone. Nel contesto più ampio delle altre mogli di Davide, citiamo Betsabea per suggerire che tutte queste donne servono al narratore per commentare le pretese di Davide, la conquista o la perdita del potere, il suo vigore e il suo carisma immensi, e la sua complicata caratterizzazione come eroe epico. Betsabea entra nei racconti di Davide quando egli è al culmine della sua carriera e poi di nuovo in prossimità della sua morte, in relazione a eventi che riguardano la successione di suo figlio Salomone, per assicurargli il regno. In un mondo tradizionale in cui la stirpe materna è una importante demarcazione di status, lignaggio e diritti, è importante che l’erede al trono di Da- D ONNE CHIESA MOND O 32 Un primo problema nell’interpretazione riguarda la disponibilità o il possibile interesse di Betsabea ad attirare l’attenzione del re. È innocentemente inconsapevole del fatto che la terrazza del palazzo del re gli permette di vedere quello che lei fa? Sa che lui è nella sua reggia e che gli piace salire sul tetto nel tardo pomeriggio? Fa il bagno nella speranza di attirare la sua attenzione? Viene descritta come molto bella. Il fatto che Davide sia al sicuro nel suo palazzo a sbirciare una donna nuda che fa il bagno mentre i suoi uomini sono esposti al pericolo sul campo di battaglia non sfugge ai lettori e serve a ritrarre il re in una luce meno favorevole. Questa scena illumina dunque il personaggio di Davide, creando l’impressione di un voyeur indulgente verso se stesso ma forse, in un’ottica di genere, suggerisce anche che l’avvenenza di Betsabea è estremamente potente, una sorta di canto delle sirene. I lettori dovrebbero forse immaginare Betsabea che usa il suo corpo come un prezioso capitale? Alcuni commentatori hanno suggerito che ha progetti di carriera propri. In culture tradizionali dominate dall’uomo, la via del successo per una bella donna è il matrimonio, e un matrimonio reale è particolarmente vantaggioso, come affermano comunemente i racconti popolari. Oppure Betsabea, come Mikal, trova Davide irresistibile? Il meno che possiamo dire è che il suo ruolo nella vicenda è ritratto in modo ambivalente. Il bambino nato dall’adulterio di Davide e Betsabea muore da piccolo per punizione, ma anche il futuro re, il grande Salomone, è figlio dell’unione che inizia con un atto adultero. Salomone succede al padre sul trono, ma non senza l’intervento di una Betsabea matura. Ancora una volta il suo operato può avere diverse interpretazioni. Il narratore descrive l’intrigo che circonda la successione all’anziano re Davide. Sono emersi due partiti politici, uno in appoggio a Salomone e l’altro in appoggio ad Adonia, figlio di Agghit, un’altra moglie di Davide menzionata in relazione ad Adonia, ma non sviluppata come personaggio. È interessante che il suo nome completo, «Adonia figlio di Agghit» indichi la stirpe materna, un importante identificatore. Si potrebbe però suggerire che Agghit sia una figura meno influente a corte rispetto a colei che presto diventerà regina madre, Betsabea. Natan il profeta, parte della cricca che cerca di con- Susan Niditch è titolare della cattedra Samuel Green di religione all’Amherst College. Formata ad Harvard, si è laureata in lingue e civiltà del Vicino oriente. Tra i suoi campi d’interesse: la letteratura dell’antico Israele soprattutto dal punto di vista del folklore e della tradizione orale; l’etica biblica, con particolare attenzione alla guerra, al genere e al corpo; la storia della recezione della Bibbia e il materiale simbolico dei testi rituali scritturistici. Di recente ha pubblicato The Responsive Self: Personal Religion in Biblical Literature of the Neo-Babylonian and Persian Periods (Yale 2015). 33 D ONNE CHIESA MOND O madre, Betsabea. Natan il profeta, parte della cricca che cerca di consacrare Salomone, mette in guardia Betsabea contro le macchinazioni a corte, dove alcuni sono pronti a sostenere Adonia, un bel principe che è il prossimo nella linea di successione dopo il defunto Assalonne. Betsabea va dal re nelle sue stanze, dove è assistito da Abisag, e gli fa sapere che Adonia sta per essere proclamato re. Con molta diplomazia, come la vincente Abigail, s’inchina e fa la riverenza, chiedendo a Davide quali sono i suoi desideri per la successione, continuando però a ricordargli la promessa che ha fatto a lei e a suo figlio che avrebbe regnato dopo di lui. Allude al grande potere del re e lo esorta a nominare Salomone, per evitare che dopo la sua morte lei e Salomone siano «trattati da colpevoli», letteralmente da «peccatori», nemici dello Stato (1 Re 1, 21). È chiaramente rimasta un personaggio influente a corte. Dobbiamo vederla come una figura tipo Rebecca, devota al proprio figlio, o come una donna che preserva ed estende il proprio status politico, o magari le due figure sono intrecciate nella monarchia? Salomone viene incoronato secondo il desiderio di sua madre e continua a consolidare il suo potere. Ancora una volta, Betsabea svolge un ruolo ambiguo a corte, che solleva domande circa le ambizioni per se stessa e per il figlio, sul ruolo delle mogli e le madri del re negli scambi politici di potere e sul modo in cui le donne, così come vengono descritte, rivelano e aiutano a inquadrare la caratterizzazione di uomini potenti. L’autore ritrae Betsabea come una donna che usa le astuzie femminili e il potere erotico nel suo interesse La sua bellezza fisica attira verso di lei il potente Davide In una serie finale di interazioni, Adonia, al quale viene negato di diventare re, chiede a Betsabea di intervenire presso suo figlio, il nuovo re, perché gli permetta di sposare Abisag, la giovane badante che ha condiviso con il re una qualche sorta di intimità muliebre. Questa proposta di Adonia solleva dubbi sul suo acume politico. Avrebbe dovuto sapere che sarebbe stata considerata una sfida diretta al potere di Salomone, poiché la moglie o la vedova del re era considerata un bene politico e spirituale, un legame con il precedente regnante consacrato, un mezzo per affermare potere e status. Così, il figlio ribelle Assalonne prende pubblicamente in moglie le concubine di Davide, lasciate indietro durante la rivolta quasi riuscita che co- D ONNE CHIESA MOND O 34 stringe suo padre a fuggire. Questa presa di donne è un’affermazione di potere (2 Samuele 16, 22). I rivali, o coloro che desiderano conservare il proprio potere, naturalmente non rispondono mai con approvazione a simili preludi. Nel testamento di Giacobbe, Ruben viene maledetto per questo tipo di autoaffermazione (Genesi 49, 3-4). Abner, generale di Saul, suscita le ire di Isbaal, il figlio di re Saul, per essersi unito a Rispa, una delle concubine del padre, avanzando così delle pretese sul potere (2 Samuele 3, 6-10). Tuttavia, Adonia in qualche modo ritiene di poter utilizzare Betsabea per mediare tra lui e il re, come se il suo aiuto potesse in qualche modo convincere il nuovo sovrano a condividere in qualche modo il suo potere o come se lei non fosse consapevole delle implicazioni politiche di tale richiesta. Il narratore biblico descrive solo raramente i pensieri o le motivazioni intime; i personaggi vengono rappresentati per tipologie e compiono delle azioni. Al lettore non viene spiegato perché Betsabea fa quanto gli chiede Adonia, ma non stupisce che Salomone reagisca con forza, utilizzando questa richiesta come scusa per eliminare il rivale. Certamente Betsabea sapeva che sarebbe stato questo il risultato di chiedere “innocentemente” Abisag per conto di Adonia. Questa interazione è un altro dei tanti esempi biblici di donne che influenzano rapporti di potere in modo velato, indiretto. Queste azioni, di fatto, rappresentano l’essenza della saggezza delle donne nella Bibbia ebraica, delle quali Betsabea è un esempio. La personalità di Betsabea è quindi disegnata con tratti brevi e sottili, testimonianza della straordinaria maestria dell’autore dei racconti dell’ascesa della monarchia davidica. L’autore è favorevole al regno davidico e ritrae Betsabea come una donna che usa le astuzie femminili e il potere di persuasione nel suo interesse. La sua bellezza fisica attira verso di lei il potente Davide, e in base a quanto narrato la sua fiducia in lei o il suo desiderio di compiacerla perdurano fino in tarda età. Serve da mediatrice tra uomini nel caso di Davide e Salomone. Adonia, a proprio rischio, le chiede di svolgere il ruolo di mediatrice nel suo rapporto con Salomone. È una regina madre che dà un degno erede al trono e una madre protettiva che favorisce e aiuta a consolidare il regno di suo figlio. Viene compresa al meglio in relazione alle altre donne della narrativa davidica, che non sono solo personaggi a sé stanti, ma rivelano importanti aspetti del carattere e dello sviluppo di Davide, in punti centrali della narrazione complessiva. Tutti i ruoli di Betsabea, però, fanno presagire un’intrigante ambiguità, sicché non si è mai certi della sua motivazione o del suo operato. Come in molte delle tradizioni narrative più ricche della Bibbia, il lettore ha dunque una considerevole libertà di reimmaginarla. 35 D ONNE CHIESA MOND O ARTISTE La via pulchritudinis delle benedettine di Orselina di SERGIO MASSIRONI enite e vedrete» (Giovanni 1, 39) ripetono spesso le suore di Orselina, in Canton Ticino: non basta un’occhiata a un sito web, occorre venire, entrare, fermarsi. Quella che Gesù offrì ai primi discepoli è condivisione di un’intimità domestica, che colpisce l’intelligenza e i sensi, inizio generativo di molte cose nuove. Continua ad accadere: astrarre forme e colori dalla vita di una casa è molto difficile, specie se l’ora et labora et noli contristari ne fa una fucina di carismi spirituali, artistici, artigianali. Il lavoro delle benedettine di Santa Ildegarda sorge da una stabilitas loci che solo in seguito inonda di bellezza la liturgia di chiese e cattedrali d’Europa. «La nostra occupazione quotidiana è di distaccarci dall’effimero e di lasciarci guidare verso Dio. Solo così la vita è interessante, quando diventiamo consapevoli che essa ci conduce a Dio. Se nella preghiera siamo con Cristo, sappiamo intuitivamente che tutto ciò che in noi è «V D ONNE CHIESA MOND O 36 disordinato differisce da Cristo. Egli farebbe tante cose in un altro modo». Fraternità, canto, impegno quotidiano tra seta, cucito, telai. Vestire il “fatto a mano” rinvia chi presiede l’eucaristia a corpi impegnati giorno e notte col mistero: la via pulchritudinis è diversa dalle rotte commerciali, estranea alle logiche “usa e getta” arrivate fin sull’altare. Ne parlo con don Nicola Zanini, rettore del Seminario e direttore del Centro liturgico diocesano di Lugano. «Giunte a Orselina, piccolo centro sopra Locarno, a metà degli anni Cinquanta, le benedettine si trovarono immediatamente inserite in un contesto favorevole. La sensibilità artistica e il carisma religioso della fondatrice, la tedesca Hildegard Michaelis, si sposò perfettamente con l’attività di riforma, nello spirito del movimento liturgico, animata dal grande precursore don Luigi Agustoni. Professore di liturgia in seminario, in stretti rapporti con le abbazie di Solesmes e Maria Laach, raffinatissimo maestro di gregoriano, fu promotore di un congresso liturgico internazionale a Lugano nel 1953 e divenne, poi, parroco a Orselina, villaggio che gli consentiva di proseguire studi e ricerca. Fu lui a favorire il lascito di un terreno e di una piccola casa, perché dal 1957 trovassero posto in Ticino madre Michaelis e le sue sorelle: nasceva la Fondazione Orsa Minore, poi riconosciuta come Monastero di Santa Hildegardis». Quella che don Nicola tratteggia è l’atmosfera vivace del concilio, partecipata da una Chiesa locale che, pur mantenendosi popolare e fedele alla tradizione, osava percorrere vie di rinnovamento, complice la posizione strategicamente singolare di crocevia tra nord e sud delle Alpi. «Il rapporto tra la comunità monastica e la diocesi è stato interessantissimo. Per quanto le suore sviluppassero con- 37 D ONNE CHIESA MOND O tatti e collaborazioni con mezza Europa, in Ticino si giocava una partita decisiva per la loro stessa sensibilità. Attente ai bisogni locali, venivano elaborando uno stile che sempre più piaceva sia loro sia al territorio. Grazie a don Valerio Crivelli, successore di Agustoni, divenne fortissimo il rapporto col liturgista della diocesi: per decenni, le benedettine hanno garantito alle grandi celebrazioni il meglio che si potesse cercare; a ogni cambio di vescovo intervenivano a offrire casula e mitra dell’ordinazione; parroci e comunità parrocchiali hanno conosciuto e accolto il loro lavoro. Un servizio reso pressoché gra- D ONNE CHIESA MOND O 38 tuitamente, come gratuito è il bello. Erano inizialmente gli anni di Paolo VI, quando l’apertura all’arte e a nuove forme espressive era davvero totale. Le suore si sono sentite confermate dalla Chiesa nella loro coraggiosa ricerca. Contemporaneamente, in molte parrocchiali della diocesi si provvedeva all’adeguamento dei poli liturgici col medesimo spirito, optando per soluzioni di notevole qualità». Chiedo a don Zanini se i tempi non siano però cambiati, anche ai piedi delle Alpi: correnti fredde hanno ovunque smorzato il fervore conciliare, spesso per reazione a molti abusi o eccessi, proprio in campo liturgico. Oggi, poi, con un Papa della sobrietà, che sospinge verso le periferie e relativizza le forme e i riti, è ancora plausibile una proposta in continuità con quegli anni? «Le vesti liturgiche create negli atelier del monastero rispondono perfettamente alla riforma del concilio Vaticano II, che chiede: “i riti splendano per nobile semplicità”. Una riforma, quella conciliare, per molti versi ancora da attuare. È vero: si è tornati a cercare spesso, sull’altare, più nobiltà che semplicità. Si fanno coincidere, equivocamente, gusto ottocentesco e solennità dei segni. D’altra parte, molto male fa la trasandatezza, la confusione tra sobrietà e bruttezza. Invece, il lavoro delle monache sui colori, la genuina attenzione ai materiali, un rigoroso attenersi al non banale, la risonanza d’intuizioni maturate in preghiera: tutto conduce a un’essenzialità che rende nobili i loro manufatti innovativi. Non solo un’educazione al bello, ma un’offerta di teologia attraverso i paramenti: dietro alle immagini e ai colori ci sono studio e meditazione, non mero estetismo. Si tratta di icone, dentro i loro tessuti». Ogni pezzo unico può richiedere da alcuni giorni a diversi mesi di dedizione, in un concerto di competenze che vede oggi, fianco a fianco, anziane religiose e giovani laiche: comunque donne, a servizio di una Chiesa colma di luce e di colore, riflesso della bellezza di Dio. MEDITAZIONE a cura delle sorelle di Bose Mite e umile di cuore MATTEO 11, 25-30 e parole con cui Gesù rende grazie al Padre per aver rivelato la buona notizia ai piccoli e non ai sapienti nel testo greco sono introdotte in modo strano e oscuro: «In quel tempo Gesù rispondendo disse...». Non essendoci alcuna domanda la nostra traduzione ha eliminato il verbo rispondere, ma noi ci chiediamo lo stesso a chi e come risponde Gesù. Risponde agli eventi della vita che interpellano la sua fede e lo fa pregando. E la preghiera diventa risposta a quell’amarezza, a quel fallimento e a quell’incomprensione della sua opera — lui, il Figlio dell’uomo, è considerato alla stregua di un mangione e beone amico di pubblicani e peccatori — che sono testimoniati pochi versetti prima, e che terminano con l’invettiva contro le città che avevano visto i suoi miracoli e non avevano creduto (cfr. Matteo 11, 19-24). L «Christ et pauvres», Georges Rouault (1935) A pagina 40: «Christ dans la banlieue», Georges Rouault (1920-1924) Il mettersi di Gesù davanti al Padre gli dà la possibilità di assumere ciò che è accaduto, per 39 D ONNE CHIESA MOND O ro di una vocazione, ci generano giorno dopo giorno alla mitezza; essa produce pazienza e la pazienza una virtù provata, la perseveranza, e la virtù provata la speranza (cfr. Romani 5, 3-4). Infine, con parole di grande consolazione, Gesù chiede di andare a lui con fiducia perché è quel maestro che non carica alcuno di pesi insopportabili: «Prendete il mio giogo e troverete ristoro per le vostre vite». Dove sono la gioia e il riposo? Dove questa leggerezza e soavità promesse? quanto amaro e contraddittorio esso sia, e la capacità di riconoscervi una via d’amore e obbedienza che spezza ogni recriminazione e lamento. Solo così egli può riscoprire il segno dell’agire di Dio e ringraziare. La preghiera come risposta impegna Gesù in un rapporto, in una relazione di obbedienza, e connota la sua persona come mite e umile di cuore. Non si tratta tanto di una sua caratteristica personale, quanto di una rivelazione dell’agire e dell’essere di Dio. E Gesù, il mite e l’umile, desidera plasmare allo stesso modo quei piccoli che accorrono a lui da ogni parte per ascoltarlo. Con grande forza Gesù trasmette ciò che gli è stato dato dal Padre affinché siano suoi discepoli. Prima di tutto li chiama a una rinuncia alla volontà propria e a una disponibilità a seguirlo, a stare dietro a lui nella pesantezza e stanchezza della vita: «Venite a me voi tutti affaticati». Poi li invita a mettersi alla sua scuola: «Imparate da me che sono mite e umile di cuore». Il mite non è tale in partenza: la vita umana-cristiana, la vita comunitaria nel suo movimento di portare l’altro guardandolo in grande, nel miste- D ONNE CHIESA MOND O 40 In uno scritto di Guglielmo di Saint-Thierry a commento di questo testo leggiamo, con parole messe in bocca al Signore: «Tu gemi e ti lamenti sotto il mio giogo, ti affatichi sotto il mio fardello, ma è l’amore che dà al mio giogo la dolcezza e al mio fardello la leggerezza (...). Vuoi l’amore? Ebbene tu hai imboccato il cammino che conduce alla vita: se non abbandonerai questo cammino arriverai al fine desiderato. Io cammino davanti a te, tu devi soltanto mettere i tuoi passi nei miei. Io ho faticato, ho resistito: anche tu fa lo stesso, anche per te è necessario fare fatica. Io ho sopportato molte sofferenze: anche a te occorre soffrire qualcosa. Il cammino che conduce all’amore è l’obbedienza. Tieni saldo questo punto e arriverai. Sappi che l’amore è un immenso tesoro, val la pena che si spenda tutto il prezzo necessario per acquistarlo. Sì, Dio è amore: quando sarai giunto all’amore allora non farai più fatica. (...) Io ti aiuterò a portare la tua fatica, sono io che finora e fin qui l’ho portata, sono io che la porterò ancora». (Dalla meditazione alla preghiera, Edizioni Qiqajon). Nell’obbedienza, nella pazienza che nasce dalla fiducia, si può sperimentare il riposo al cuore stesso della fatica che c’è e che resta; si può arrivare a sperimentare l’innegabile leggerezza e dolcezza anche quando si è sottomessi a un giogo scelto liberamente e per amore, il giogo che il Signore stesso ha portato, e si può assaporare la beatitudine da lui promessa: «Beati i miti perché erediteranno la terra».