Le pagine in PDF - L`Osservatore Romano

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Le pagine in PDF - L`Osservatore Romano
L’EDITORIALE
Per ricostruire speranze
Quello della riconciliazione è un tema che affonda le sue radici nel
nostro recente passato, nei genocidi e negli stermini di massa del Novecento, ma anche nel nostro presente non meno angosciato e bisognoso di riannodare legami e ricostruire speranze. Sulla riconciliazione, che è qualcosa di più della pacificazione, essendone la rielaborazione a un livello più alto, e comprende memoria e giustizia, molto si
è lavorato e ancora si sta lavorando, a tutti i livelli: a Yad Vashem come in Ruanda, in Irlanda come nel conflitto israelo-palestinese. È un
tema, inoltre, che coinvolge direttamente le donne. La riconciliazione
è infatti un aspetto della cura, una delle funzioni materne più importanti e significative. Creare la pace, il perdono, consentire la speranza
nel futuro.
In copertina:
«Improvisation 6»
Wassily Kandinsky
D ONNE CHIESA MOND O
Mensile dell’Osservatore Romano
a cura di LUCETTA SCARAFFIA
(coordinatrice)
e GIULIA GALEOTTI
In redazione
CATHERINE AUBIN, ANNA FOA
RITA MBOSHU KONGO
MARGHERITA PELAJA
e SILVINA PÉREZ
Progetto grafico
PIERO DI D OMENICANTONIO
www.osservatoreromano.va
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per abbonamenti:
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D ONNE CHIESA MOND O
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In questo numero affrontiamo alcuni momenti di riconciliazione: il
progetto «per la riconciliazione, la restaurazione e la guarigione»
creato in Irlanda da una donna, il ministro presbiteriano Patterson,
quello per la riconciliazione e l’educazione in Ruanda, animato da
un’altra donna, la sopravvissuta tutsi Yolande Mukagasana, una laica, e infine la creazione di rapporti di affetto e di fiducia fra le diverse religioni vista attraverso l’esperienza di una scuola di suore salesiane a Gerusalemme, in gran parte frequentata da bambini musulmani.
Intorno a questi esempi, in cui abbiamo tentato di cogliere aspetti
diversi di un possibile modello di riconciliazione, ci sono infiniti altri
casi, del passato come del presente, a cui i nostri testi si limitano ad
alludere. E in tutti le donne hanno avuto e hanno un ruolo determinante. Ne possiamo trarre una lezione importante: la rinuncia
all’odio è fondamentale, ma deve essere accompagnata dalla richiesta
di giustizia, di riconoscimento, dall’educazione e dalla conoscenza, e
infine dall’amore, per divenire collettiva e toccare il cuore dei popoli
e non solo quello degli individui. (anna foa)
L’INTERVISTA
La salvezza
per le future generazioni
Yolande Mukagasana, infermiera vittima del genocidio ruandese
spiega perché la riconciliazione nel suo paese è possibile
di CHARLES
P
DE
PECHPEYROU
iù di venti anni sono passati dal genocidio in Rwanda. Dopo un lento lavoro di ricostruzione, la popolazione si è impegnata in quello,
ancora più difficile, della riconciliazione. Infermiera di origine ruandese e belga di adozione, Yolande Mukagasana ha perso tutta la sua
famiglia. Da questo trauma ha attinto la forza per scrivere un libro
di testimonianze dove dà la parola sia alle vittime sia ai carnefici. La
sua preoccupazione principale sono le generazioni future, come testimonia il suo progetto di costruire una scuola in Rwanda, accanto a
un monumento commemorativo, «affinché i bambini conoscano la
storia completa del genocidio, conservandone solo gli aspetti positivi»: una scuola dove ci si definisca innanzitutto ruandesi, senza alcuna distinzione etnica. In questo, Yolande ne è convinta, i giovani
avranno bisogno di essere accompagnati dalle donne, «madri e riconciliatrici». «La donna è come una religione per i bambini», afferma.
«La religione ci tocca nella coscienza, nel cuore, è interna alla persona». Perciò Yolande si rallegra quando «i figli delle vittime si sposano con i figli dei carnefici», prova che il perdono è talmente radicato
nella cultura ruandese da poter addirittura «funzionare con i crimini
di sangue». «Penso che saranno proprio le prossime generazioni a
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salvarci», conclude Yolande Mukagasana, «purché si permetta loro di
crescere con i valori dell’amore, della lotta contro l’odio, del vivere
insieme».
Sono già trascorsi dodici anni dal genocidio in Rwanda. Che cosa ha fatto da
allora?
Non sono rimasta ferma all’epoca del genocidio, ho ricostruito.
Tutti i ruandesi vogliono ricostruire un paese che non esiste più. Tutto è stato distrutto durante il genocidio: le vite umane, le cose materiali, le istituzioni. Non restava più nulla, si è dovuto ricreare tutto.
Le donne sono state davvero le prime a partecipare alla ricostruzione
e questo è per me motivo di orgoglio. È anche uno dei motivi per
cui sono tornata: volevo rendere testimonianza del genocidio in tutto
il mondo, perché vedevo che il mondo non aveva capito che cosa era
accaduto nel mio paese. È chiaro, alcuni non volevano capire. Qualche carnefice ci aveva preceduti per predicare il proprio vangelo. Io
volevo assolutamente che la mia voce prevalesse sulla sua e penso di
esserci riuscita in molti paesi. In Les Blessures du Silence ho fatto testimoniare i carnefici. Volevo che i carnefici parlassero del genocidio,
raccontassero quello che avevano fatto. È stato il motivo principale
per cui ho scritto il libro, che contiene interviste sia alle vittime sia ai
carnefici, e ai giusti.
Che cosa è cambiato dentro di lei?
Dovevo sapere: sono capace di vivere in Rwanda, di guardare in
faccia i carnefici dei miei familiari? All’inizio non credevo nella riconciliazione, perché vedevo quello che i ruandesi si erano fatti gli uni
gli altri. Mi chiedevo come potevo alzarmi la mattina e vedere il volto del boia della mia famiglia. Alla fine mi sono resa conto che la
popolazione ruandese aveva il desiderio di ricostruire e che c’era riuscita. Attenzione, è un cammino non facile, sempre in corso.
Come vivono i giovani quanto è accaduto?
È qui che s’inserisce il ruolo delle donne. La donna è madre, riconciliatrice. Ho costatato una cosa. Ci sono uomini poligami. Da
noi la poligamia non è consentita, lo dice la legge. Ma ovunque ho
visto una donna con figli di padri diversi, quei figli andavano d’accordo. Nel caso invece di un padre con figli di donne diverse, quei
figli non andavano d’accordo.
«Venti anni dopo
il genocidio del Rwanda» è
il titolo del progetto e della
mostra del fotografo Pieter
Higo che ha documentato
il processo di riconciliazione
nel paese africano
affiancando vittime
e carnefici. Nella foto:
Dominique Ndahimana
e Cansilde Munganyinka
È interessante...
Sì, è una constatazione personale, qui come in Belgio, e ovunque
ho vissuto: la donna è più forte dell’uomo, soprattutto nell’educazio-
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ne dei figli. Non è più forte in tutto chiaramente. La donna è come
una religione per i figli. La religione ci tocca nella coscienza, nel
cuore, nel profondo. E la trasmissione dei valori da una madre ai figli avviene in un modo molto interiore, intimo, e dunque agisce di
più sui figli e farà di loro degli adulti con dei valori, soprattutto
nell’amore.
La riconciliazione passa, in qualche modo, per l’educazione...
Yolande Mukagasana
Nata in Rwanda nel 1954,
Yolande Mukagasana è stata
infermiera anestesista per 19
anni nel centro ospedaliero
di Kigali, la capitale, poi caposala nell’ambulatorio che
aveva aperto in quella stessa
città. Vittima dei massacri
che hanno devastato il suo
paese nel 1994, è sopravvissuta al genocidio dei tutsi
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ma ha perso la famiglia e gli
amici. Nei cento giorni del
genocidio, si è nascosta per
la maggior parte del tempo
nella boscaglia. È stata persino ospitata in una casa dove si trovava uno dei carnefici. Rifugiatasi in Belgio, è
stata naturalizzata nel 1999.
Le sue competenze professionali nell’ambito sanitario
non sono state tuttavia riconosciute. Nel 1999 è tornata
in Rwanda, accompagnata
dal fotografo greco Alain
Kazinierakis, per intervistare
sia le vittime sia i carnefici
del genocidio del 1994.
Quel meticoloso lavoro ha
dato vita al libro Les blessures du silence. Ma Yolande
Mukagasana ha scritto anche altri testi sul genocidio
ruandese: opere teatrali, racconti, testi autobiografici.
Nel suo libro La mort ne
veut pas de moi racconta come ha vissuto il fatto di essere sopravvissuta, mentre
suo marito, i tre figli, il fratello, le sorelle e altri familiari sono stati uccisi. Ora si
reca spesso in Rwanda, ma
non vi risiede stabilmente,
perché perseguitata dai ricordi della tragedia.
L’educazione, per me, è una condizione sine qua non affinché un
intero popolo possa evolversi. In Rwanda è stata educata a «vivere
insieme» una popolazione che si è lacerata durante il genocidio. Se
qualcuno che non era un assassino lo diviene è perché qualcosa è accaduto. Che cosa è accaduto? Di fatto, ci si è resi conto che molti
ruandesi sapevano leggere e scrivere, conoscevano la loro storia, la
nostra storia vera, non quella rivista dalla colonizzazione. Ma si è anche constatato che alcune persone non avevano capito. Ascoltavano
radio RTLM [ritenuta complice del genocidio, avendo incitato a sradicare i tutsi] ogni giorno, perché le divertiva, trasmetteva buona musica, ma al tempo stesso le trascinava nell’ideologia del genocidio.
Quanti leggevano giornali di fonti diverse e conoscevano altre lingue
non si sono lasciati condizionare facilmente. Durante il genocidio, si
promettevano anche ricompense a chi uccideva di più. E così è stato.
Di fronte a tutto ciò, ci si è resi conto che l’educazione era veramente
basilare.
Ci parli del progetto che le sta a cuore...
Oggi lo Stato ruandese si è dotato di un progetto che si chiama Je
Suis Rwandais. Io aprirò una scuola materna che avrà lo stesso nome. All’epoca della colonizzazione venivamo identificati come hutu o
tutsi. Quella carta d’identità è stata abolita da tempo e ora veniamo
identificati con la nostra vera identità: io sono ruandese prima di
qualunque altra cosa. Desidero quindi che i bambini crescano in questo spirito, perché ho capito l’importanza dell’educazione. I bambini
che hanno imparato la divisione, la sera in cucina con la madre o discutendone tra loro, sono diventati poi artefici del genocidio. Adesso
bisogna fare in modo che i bambini abbiano la forza di dire «no,
non è questo che ci insegnano a scuola». Perché allora a scuola ci veniva insegnata proprio la divisione. Oggi sono altri i valori con cui
vorrei che i bambini crescessero: l’amore, la lotta contro l’odio, il «vivere insieme». Io sono ruandese.
A pagina 6, l’incontro
di Yolande con Patrice
colpevole dell’uccisione
di cento persone
raccontato nel libro
«Les blessures du silence»
realizzato con il fotografo
Alain Kazinierakis
Negli anni che sono seguiti al genocidio, lei ha riflettuto molto sul tema della
riconciliazione. Si è recata in Sud Africa, al Yad Vashem a Gerusalemme, per riflet-
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Mi interessano sia il perdono sia la riconciliazione. Non capivo come si poteva perdonare quanto era accaduto, come le persone avrebbero potuto vivere nuovamente insieme e riconciliarsi. Ma alla fine
mi sono resa conto che tutto ciò fa parte della nostra cultura, da
molto prima della colonizzazione. Tutto parte dalla verità, dalla confessione. È la prima cosa. Che il colpevole voglia chiedere perdono.
Se qualcuno che vi ha fatto un torto non vi vuole chiedere perdono,
è perché non ama l’idea della vostra ricostruzione. Ebbene, finché tu
non ti ricostruirai, lui stesso non si ricostruirà, resterà bloccato in
quell’odio.
nata io, a Butare. Si diceva che Butare era la città intellettuale del
paese perché era lì che la Chiesa cattolica si era sviluppata e perché
c’era un’università. Credo sia questo il motivo per cui il genocidio è
iniziato molto tardi a Butare, dopo il 20 aprile. Il presidente
dell’epoca vi si è dovuto recare di persona per incitare la gente a uccidersi. Penso tuttavia che sia stato anche uno dei motivi per perdonarsi. Perché? Ammettiamo che tuo cognato sia venuto per uccidere
tuo marito... I vostri figli sono cugini: come si potrebbe impedire loro di vivere insieme? Impossibile. Per me è molto bello vedere che
ancora oggi figli di vittime si sposano con figli di carnefici. Abbiamo
dunque un punto da cui partire proprio grazie ai nostri figli. Penso
che saranno proprio le prossime generazioni a salvarci.
Tutto ciò per quel che riguarda la richiesta di perdono. Ma per perdonare?
Il ricordo del bene è più forte di quello del male?
Non è difficile perdonare quando qualcuno te lo chiede. Nella nostra cultura, quando si faceva un torto a qualcuno, si chiedeva perdono, davanti alla famiglia prima di tutto, e confessava il male commesso. L’altro aveva il diritto di perdonare o meno. Ma si perdonava
sempre. L’unica differenza è che non c’erano ancora stati crimini di
sangue, crimini orribili come il genocidio. Anch’io pensavo che tutto
ciò non poteva funzionare con i crimini di sangue. Allora, come si
poteva fare? Mi sembra — ma potrei sbagliarmi — che i punti siano
due. Il primo è la presenza del perdono nella nostra cultura, come
ho spiegato. Il secondo è che i ruandesi si erano sposati tra loro, senza preoccuparsi del fatto di essere hutu o tutsi, soprattutto dove sono
Certo. Il ricordo del male distrugge, mentre quello del bene costruisce. Là dove vorrei aprire la mia scuola, c’è un monumento commemorativo che permetterebbe ai bambini di capire la storia di quel
genocidio. Non voglio che ne serbino l’orrore. Vorrei che ne conservassero solo gli aspetti positivi. Perciò vorrei creare lì il primo giardino dei giusti. I giusti verranno a rendere la loro testimonianza ai
bambini, seduti in quel giardino. Il giardino del bene, appunto, là
dove si parlerà delle persone che hanno rifiutato il male, a rischio
della propria vita, che hanno fatto il bene. Così i bambini conosceranno la storia completa del genocidio, serbandone solo il bene. Cercheranno di essere come i buoni, non come i cattivi.
tere sulle modalità, non per arrivare al perdono, ma per andare al di là del
genocidio...
Due ritratti ripresi dal libro
«Les blessures du silence»:
a sinistra Clémence K.
22 anni, sopravvissuta;
a destra
Jean-Damascène M.
18 anni, recluso
in un centro di rieducazione
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SPIRITUALITÀ
di ANNA FOA
Una palma
tra mondi ostili
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a casa delle suore salesiane di Gerusalemme è nel quartiere di Musrara, sorto fuori dalle mura della Città Vecchia alla fine dell’O ttocento.
La casa si erge alla cerniera fra tre mondi, quello cristiano, quello
ebraico (è proprio accanto al quartiere ortodosso di Mea Shearim) e
quello musulmano (è a pochi metri dalla Porta di Damasco). Essa è
oggi, oltre che sede delle salesiane, scuola materna e residenza per
pellegrini e studiosi. L’asilo ha circa settanta bambini. Nella residenza, da undici anni si tengono anche corsi di aggiornamento biblico
per suore che vengono da tutto il mondo. Nel cortile si erge una palma altissima, che rappresenta una grande preoccupazione per le suore: è così alta e si piega tanto al vento che temono possa cadere sulle
case accanto, degli israeliani. Hanno tentato di ottenere il permesso
di tagliarla, ma non ci sono riuscite.
Parliamo con le suore — sono in tutto sette, di diversa età — in una
stanza accogliente. Il clima è disteso e caldo: sono Sabina, Caterina,
Lina, Giuliana, Margherita, Milena, Silvia. Alcune di loro sono italiane, altre provengono dalla Slovenia, dall’Ungheria, da Betlemme.
Anche loro parlano italiano, la lingua del convento, ma conoscono
tutte l’arabo e l’ebraico. Si raccontano con apertura fiduciosa non
priva di una certa civetteria. E dai loro racconti vengono fuori, oltre
ai problemi della gestione dell’asilo, i loro percorsi di donne energi-
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Haifa. Avevo un po’ di paura ma poi l’impiegato mi ha detto “Vada,
sorella, vedrà che potrà fare il bene”». È venuta a Gerusalemme, nella Casa di Musrara, nel 1966. «Qui era l’ultima strada, al di là c’era
la Cisgiordania, ma noi non passavamo da questa strada per andarci,
ma dalla Porta di Mandelbaum e sempre con il passaporto. Per le cerimonie religiose andavamo a Notre Dame, che era molto più piccola
di ora». Avevano di nuovo per loro tutta la casa, dopo che l’Università Ebraica, che aveva preso in affitto per alcuni anni le due ali,
l’aveva lasciata. «Ma avevamo molti ladri, io alle volte gli correvo
dietro ma avevo un po’ paura. Erano gli ebrei marocchini e i poveri.
Ci tiravano pietre, ma il governo israeliano e la polizia ci difendevano». Siamo negli anni immediatamente precedenti la guerra dei Sei
giorni, che avrebbe radicalmente trasformato il panorama politico
della zona. «Qui c’era tanta povertà, tutto era rotto, le altre suore
avevano iniziato ad aggiustare, ma insomma c’era ancora tanto da fare. Eravamo noi due, suor Caterina e io: ci siamo tirate su le maniche
e avanti! Sono partita due mesi prima della guerra dei Sei giorni,
mandata in Egitto, al Cairo, dove sono rimasta sedici anni. Poi sono
tornata a Gerusalemme». Interviene suor Caterina. È nata nel 1933 in
Piemonte in un paesino in provincia di Asti, è in Medio oriente dal
1964 e ha vissuto la guerra del 1967 nel monastero salesiano di Cremisan, a Betlemme, che allora era in Giordania. Ricorda le novizie
arabe, siriane, libanesi ed egiziane, sei o sette, obbligate dalle loro fa-
DAL MOND O
Gioca a favore
della vita
La Rete internazionale
della vita consacrata
contro il traffico di
persone lancia una
campagna invitando
tutti i turisti che si
recheranno a Rio per
le olimpiadi a
denunciare ogni forma
di sfruttamento di cui
verranno a conoscenza,
soprattutto lo
sfruttamento sessuale
di bambini e
adolescenti. 100 è il
numero telefonico
gratuito da chiamare.
Possono essere
presentate denunce
anche in forma
anonima, precisa suor
Gabriella Bottani,
coordinatrice di
Talitha Kum.
@UISGRoma
www.uisg.org
Tante donne
nel Parlamento
iraniano
In tutta la storia della
Repubblica Islamica
dell’Iran è la prima
volta che le donne
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che e appassionate, insieme a spaccati di rapporti tra i cristiani e gli
arabi e gli ebrei. Solo a Gerusalemme poteva esistere una mescolanza
di questo genere, viene subito da pensare ascoltando i loro racconti e
soprattutto lasciando che, dietro le parole, emerga la percezione di
questo mondo affascinante e complesso. Tutte sono passate, prima di
fermarsi a Gerusalemme, da altre sedi del Medio oriente, Siria, Libano, Egitto. Sedi difficili, teoricamente definite sedi missionarie, anche
se a una mia domanda specifica le suore mi dicono di non aver mai
avuto conversioni, né spontanee né tanto meno da loro sollecitate, e
di aver sempre rispettato la religione dell’altro. Nella scuola, ora come in passato, ci sono lezioni di religione cattolica per i bambini cattolici e lezioni di religione islamica per quelli musulmani. Tutte le
suore hanno attraversato periodi di guerra, hanno vissuto sotto i
bombardamenti, hanno costruito e ricostruito dopo le distruzioni.
Sembrano molto serene.
Parla suor Sabina, arrivata dall’Italia in Israele nell’agosto del 1957:
«Al porto di Napoli mi hanno detto che c’era stato un attentato a
Vedevamo gli Scud sparati su Tel Aviv dall’Iraq
Abbiamo promesso alla Madonna
che se ci fossimo salvate saremmo andate
in pellegrinaggio in un santuario
miglie a lasciare il convento per la guerra. Gli arabi avevano molta
paura degli israeliani, racconta, c’era vivo il ricordo della guerra del
1948.
È arrivata a Gerusalemme nel 1988, quindi alla fine della prima intifada: «Allora c’era solo una piccola scuola di bambini, un asilo, cinque bambini arabi, avevano paura di mandarli, poi si sono tranquillizzati, non è mai successo niente in tutti questi anni». Più tardi,
hanno creato una scuola di computer e una di sartoria e ricamo. È
ancora suor Sabina a parlare: «Le ragazze che uscivano di qua dopo
tre anni col diploma firmato dal patriarcato andavano nei laboratori
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ebraici dove, quando vedevano la tessera della nostra scuola salesiana, le prendevano senza fare esami. Era una scuola di avviamento
professionale con diploma. Ma poi, quando i vestiti hanno cominciato ad arrivare a minor prezzo dalla Cina e in tutte le scuole si sono
introdotte le lezioni di computer, abbiamo chiuso. Abbiamo dato incremento all’asilo, che già c’era, e siamo andate avanti. Siamo arrivate ad avere centoquaranta bambini. Abbiamo anche iniziato lezioni
di inglese e di lingua ebraica».
All’epoca, avevano delle interne, ragazze arabe che studiavano
all’Università di Gerusalemme. Il fatto che potessero restare nella casa di Musrara era una protezione non da poco, come riconobbe lo
stesso vicesindaco, l’italiano David Cassuto, venuto a visitare la Casa.
La sensazione è che il governo israeliano non si limitasse a proteggere le suore ma tenesse anche in alta considerazione il ruolo che svolgevano.
Molto vivi anche i ricordi della guerra del Golfo, nel 1991. Avevano tre sirene a destra, a sinistra e al piano superiore, e due stanze sigillate in preparazione di un attacco chimico: «Ci hanno dato tutti i
numeri di telefono e le maschere, abbiamo anche fatto le foto con le
maschere. Il governo ci proteggeva, ci telefonava per sapere come andava, ci avevano avvisato di far provviste per alcuni mesi. Vedevamo
gli Scud sparati su Tel Aviv dall’Iraq. Abbiamo promesso alla Ma-
Le famiglie erano poverissime
a volte i bambini sotto il grembiule erano quasi nudi
anche d’inverno
donna che se ci fossimo salvate saremmo andate in pellegrinaggio in
un santuario della Madonna, siamo andate a Rafat (santuario mariano a metà strada tra Gerusalemme e Tel Aviv). Non ci è mai capitato
niente» racconta suor Sabina.
Suor Giuliana è ungherese e ha lasciato il suo paese nel dopoguerra. Anche lei ha errato, prima di venire a Gerusalemme, in tutto il
Medio oriente, in particolare in Siria. «Il mio cuore è ancora a Damasco» ci dice. Suor Lina ha vissuto la guerra del 1982 in Libano. È
nata in provincia di Padova nel 1937, si è fatta suora a Novara ed è
partita nel 1978 per il Libano, nella valle della Bekaa, dove c’era una
scuola di 800 e 900 bambini, solo il 10 per cento dei quali cristiani. I
genitori si presentavano a iscrivere i figli a scuola armati, e bisognava
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dir loro di lasciar fuori le armi. Le famiglie erano poverissime, a volte
i bambini sotto il grembiule erano quasi nudi, anche d’inverno. Una
volta, nella guerra, la loro automobile è stata bombardata. Rispetto
all’esperienza della guerra del Libano, Gerusalemme, dove suor Lina
è arrivata nel 2008, le sembra un’oasi di pace.
Negli anni la vita continua a Musrara senza danni, nonostante le
guerre, le intifade, e il fatto che, in teoria almeno, le suore si trovino
accanto a mondi che potrebbero essere loro ostili, il quartiere ebraico
ultraortodosso di Mea Shearim e quello musulmano. Con Mea Shearim, naturalmente, non ci sono stati mai veri rapporti. Prima della
guerra del 1948 nella scuola c’erano 700 ragazze, musulmane, ebree e
cristiane. C’era tra loro una buonissima relazione. Dopo l’indipendenza, mi raccontano, i bambini ebrei smisero di venire, vennero invece molti più bambini musulmani, oltre a quelli cristiani. A Gerusalemme come in Siria e in Egitto, i bambini delle salesiane sono più
musulmani che cristiani. Le suore non sembrano avere mai avuto difficoltà con le famiglie dei bambini musulmani, anzi appaiono molto
amate. La casa delle salesiane si presenta come un’oasi di tolleranza e
questo aiuta a proteggerla.
Quali sono oggi le vostre difficoltà? domando. Le suore hanno
fatto una scelta, quella di far pagare una retta molto bassa per la
scuola. Una scelta dettata dalla tradizione educativa salesiana e
dall’amore e dal senso di solidarietà che accompagna il loro lavoro.
Ciò nonostante, i bambini sono diminuiti. «La cosa dipende dal fatto che il governo israeliano sovvenziona le scuole con classi da un
certo numero in su e nelle altre scuole cristiane ci sono tutte le classi,
prendono i piccoli per portarli dall’asilo alla fine del liceo». Invece a
Musrara c’è solo l’asilo, anche se le suore stanno pensando di mettere anche le elementari. Ora hanno settanta piccoli. Sono bambini di
famiglie modeste o povere, a volte poverissime.
«C’erano dei padri, racconta una delle suore, che insistevano per
iscrivere i figli alla scuola, e non c’era posto, ma loro insistevano, dicevano che avrebbero portato loro il banco». Non è questione di
banco ma di numero, rispondevano le suore. «Portatelo alla grande
scuola musulmana qui accanto». «No perché là mettono nel bambino il suss, il vermiciattolo dell’intolleranza» risposero. Le scuole cattoliche come quella delle salesiane si caratterizzano per la loro apertura: «Ognuno cammini per la strada che vuole, nel rispetto di una
religione verso l’altra religione» dicono le suore. È un insegnamento
importante, che spiega l’amore e il rispetto che le circonda, e che
può rappresentare un seme di speranza per il futuro.
superano addirittura il
numero degli ayatollah
presenti in Parlamento.
Alle 14 deputate elette
al primo turno si sono
aggiunte le quattro che
hanno conquistato un
seggio alla seconda
tornata elettorale
portando il numero a
18 su 290
parlamentari. Gli
ayatollah sono soltanto
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Nuova legge contro
la prostituzione
in Francia
Dopo Svezia,
Norvegia, Islanda e
Regno Unito, la
Francia diventa il
quinto Paese
dell’Unione europea
ad adottare la linea
dura contro i clienti
delle prostitute.
La legge riafferma
il principio di
non-patrimonialità
del corpo umano,
prevedendo a carico
del cliente
una contravvenzione
di 1.500 euro, che,
in caso ripetizione
del reato, può
trasformarsi in multa
di 3.750 euro. L’uomo
recidivo viene
costretto, a sue spese,
a frequentare un corso
di rieducazione
sessuale.
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IN NOVEMILA CARATTERI
di IVA BERANEK
Una donna
di pace
nalizzando la situazione attuale in Irlanda del Nord,
David Stevens, già leader della Corrymeela Community, ha osservato che c’è una prevalenza della pace di
tregua sulla più profonda pace di trasformazione, cioè la
situazione in cui gli atteggiamenti e le relazioni
possono essere cambiati. La prima si può realizzare attraverso gli
strumenti politici del processo di pace, mentre invece la fede e la
spiritualità possono aiutare a passare dalla pace di tregua alla pace di
trasformazione. Secondo il reverendo dottor Ruth Patterson, direttore
di Restoration Ministries, «qualsiasi processo di pace diventerà una
realtà solo quando cambieranno gli atteggiamenti». Gli atteggiamenti
possono cambiare in modo graduale, costruendo relazioni con quanti
sono diversi da noi, accettando il rischio di essere aperti e vulnerabili.
A
Il dottor Patterson è un ministro presbiteriano, prima donna
nell’isola irlandese a essere ordinata per una qualunque denominazione, nonché persona di grande profondità e intuito. All’inizio di quest’anno ha celebrato quarant’anni di ministero. L’Irlanda del Nord ha
alle spalle un passato tormentato, ma ci sono state persone e organizzazioni che hanno incarnato la speranza e sono state strumento di
guarigione.
Una di queste persone è proprio il reverendo Patterson, il cui cammino di fede e la cui vocazione sono stati fondamentali per l’avvio di
Restoration Ministries, gruppo cristiano nato in Irlanda del Nord,
che opera per la pace, la restaurazione e la guarigione sin dal 1988.
Prima di allora, Ruth Patterson era ministro in una parrocchia pre-
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In bicicletta
sfidano l’Isis
in quel particolare momento, desidera andare lontano e in profondità
nel suo cammino di guarigione e di riconciliazione.
Il fine di Restoration Ministries è di aiutare le persone a compiere
almeno un passo avanti e un passo più in profondità nel loro cammino di vita e di fede. Ruth Patterson insegna che «è nell’ambito
dell’anima, ovvero nella nostra mente, nelle nostre emozioni e nella
nostra volontà che sorge la maggior parte delle nostre difficoltà». È
ben consapevole della necessità di riconciliazione tra diverse comunità in Irlanda del Nord: «Sono pochissime — sempre che ci siano — le
situazioni conflittuali nel mondo, la cui causa deriva dal momento
presente. Quasi sempre proviene da un battito di tamburo ancestrale,
dove un senso di offesa, ingiustizia o abuso, reale o immaginato, è rimasto lì, non affrontato o represso, per molto tempo. In Irlanda del
Nord, e in tutta l’isola nel suo insieme, non siamo estranei a simili
scenari».
La pace duratura, frutto della pazienza è anche «frutto dell’amore,
il quale va oltre quanto può apportare la semplice giustizia» come
dice la Gaudium et spes. Se, come ha detto Thomas Merton, «la radice della guerra è la paura» è chiaro che non si possono riparare in
tempi rapidi lunghi secoli di inimicizia. Nel promuovere la pace serve invece impegno verso la speranza, che alla fine favorirà e preparerà un futuro comune per ogni cittadino del paese: «Penso che si potrebbe affermare che il 99 per cento delle persone che vengono da
noi a Restoration House hanno un problema con il perdono».
A pagina 16, la scultura
di Maurice Harron
«Hands Across
the Divide» inaugurata
nel 1992 a Derry
in Irlanda del Nord
Qui sopra
«Le temps d’une pause»
di Odile Escolier
e a pagina 19 il logo
di Restoration Ministries
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sbiteriana, e la decisione di lasciare la parrocchia per lavorare a tempo pieno a Restoration Ministries è stata, come dice lei stessa, la
scelta più importante della sua vita.
A Restoration Ministries viene posta grande enfasi sull’ospitalità,
la preghiera e l’ascolto; in altre parole, l’approccio si basa su una tradizione spirituale cristiana profonda. L’aspetto pubblico del ministero della Patterson è assorbito dai suoi impegni come oratrice, quello
privato, invece, dal ministero dell’ascolto. Il suo ministero di ascolto
e di preghiera, grazie al quale le persone possono affrontare ricordi
dolorosi in un ambiente confidenziale, ha aiutato molti a rivedere e,
in una qualche misura a guarire, parti esiliate di se stessi. Il suo approccio di ascolto, preghiera e perdono favorisce la speranza e alimenta la vita interiore. Come afferma Ruth Patterson, «le persone
non riusciranno ad andare oltre fino a quando qualcuno non avrà
ascoltato la loro storia». L’approccio di Restoration Ministries è sensibile e non assertivo: si lascia ogni persona libera di stabilire quanto,
Ruth Patterson ha scritto diversi libri, che fondano l’impegno per
la riconciliazione di Restoration Ministries nel ministero di riconciliazione di Gesù stesso, in una spirituale che supera le divisioni confessionali. Affinché un incontro possa essere definito «ecumenico», deve
esserci un’intenzione riconciliatrice, e spesso questo è implicito in ciò
che il reverendo Ruth Patterson fa e in ciò che
Restoration Ministries rappresenta. Questi
incontri favoriscono la chiamata all’unità,
non solo attraverso gli impegni della Patterson come oratore e la stretta cooperazione con diverse Chiese, ma anche perché la collega del reverendo a Restoration Ministries, Rose Ozo, è cattolica.
In tutti i documenti scritti, Restoration Ministries dichiara di essere non
denominazionale; ciò la rende una
voce indipendente che mira a parlare
da una prospettiva cristiana che non
è né cattolica né protestante di per
Con lo slogan
«Comunità libera» un
gruppo di giovani
donne curde è scesa in
strada pedalando per
protestare contro le
norme che definiscono
indecenti le donne in
sella a una bicletta. È
successo ad Amuda,
città del
Governatorato di alHasaka, nel nord-est
della Siria, dove la
maggioranza della
popolazione è curda.
Le ragazze, che si
fanno chiamare
Newroz, (“giorno
nuovo”), hanno
dichiarato che
vogliono sentirsi libere
di andare in bici senza
per questo rischiare di
essere punite.
Parte
dal linguaggio
la lotta
alle discriminazioni
Dopo numerose
proteste, Fiat
Argentina ha ritirato
dalla circolazione il
manuale di guida in
dotazione alle auto
appena acquistate. Il
«Manual del Buen
Uso», contiene diverse
frasi offensive nei
confronti delle donne.
Non solo perché dà
per scontato che l’auto
venga acquistata e
>> 21
19
D ONNE CHIESA MOND O
>> 19
guidata esclusivamente
da un uomo, ma anche
perché contiene frasi
maschiliste del tipo:
«Se il passeggero è
una donna e indossa
una gonna molto
corta, raccomandiamo,
al fine di restare
concentrati, di farla
sedere dietro» oppure
«Per comportarti come
un gentiluomo, devi
sapere che devi portare
a casa sane e salve lei
e le sue amiche
prendendo il ruolo di
maschio alfa».
Premio
della Catholic Press
Association
Il «selciato del gigante»
(Giant’s Causeway)
affioramento roccioso
naturale sulla costa
nordest irlandese
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20
Nel cammino di restaurazione e di perdono, che fanno ambedue
parte del processo di riconciliazione, la Patterson sottolinea l’importanza del ricordare. Spiega che «ricordare significa “ridare sostanza
al passato”. Non che dobbiamo dimenticare il dolore o il passato, ma
dobbiamo onorarlo attraverso un ricordo profondo». Tuttavia, il solo
ricordare non può portare guarigione e non basta a liberarci dall’essere prigionieri del passato. Lo strumento di guarigione e di trasformazione è «il lavoro interpretativo che una persona svolge con la
memoria».
La memoria spesso ci limita rispetto a ciò che abbiamo sperimentato, buono o cattivo, mentre la speranza ci fa concentrare su Dio, e
in lui troviamo infinite possibilità di scoperte sempre nuove nella vita. L’invito a renderci conto che siamo amati da Dio viene spesso ribadito da Ruth Patterson, la quale sostiene che «se lo accettassimo»,
se davvero credessimo di essere profondamente amati da Dio, «non
ci sarebbe bisogno di Restoration Ministries, poiché ci sapremmo
amati, in pace con noi stessi e con Dio»; per questo, «in sostanza
siamo chiamati a essere un ponte tra i tempi. Tra il mondo come era
e come sarà, tra la Chiesa come era e come sarà, tra l’Irlanda come
era e come sarà».
La Patterson riconosce il bisogno di riconciliazione interiore, che
ognuno di noi deve intraprendere nel suo percorso di vita. Sottolinea
che «il più grande cammino di pacificazione che compiremo è in noi
stessi» e afferma inoltre che «dentro ognuno di noi c’è il desiderio, la
fame di significato, di una spiritualità più profonda, di maggiore spazio a Dio. Molto spesso nel nostro cammino terreno ci vengono donati momenti di consapevolezza, di riconoscimento, dove il velo viene sollevato».
Attraverso il suo lavoro, Restoration Ministries è anche «preparatore del cammino». Il suo ministero, pur avendo un carattere unico,
con l’accento posto sull’ascolto, è radicato nella solida tradizione biblica cristiana; attinge saggezza e incoraggiamento da quanti hanno
percorso prima questo cammino. Ciò emerge in modo particolarmente chiaro negli incontri pubblici, dove il reverendo Ruth Patterson
condivide le sue riflessioni, di solito illustrando alcuni valori cristiani
profondi, grazie all’esame attento dei racconti delle Scritture.
sé, ma che invece abbraccia entrambe le prospettive concentrandosi
piuttosto su Dio.
«Catholic Women
Speak: Bringing our
gifts to the Table» è il
titolo di un libro che
raccoglie storie di vita
di donne che lottano
per portare avanti la
famiglia in contesti
che non sono sempre
in linea con gli ideali
della dottrina della
Chiesa. È un’antologia
di voci di donne
cattoliche provenienti
da paesi e contesti
socioculturali
profondamente diversi.
Al libro, che è stato
presentato all’ultima
assemblea del Sinodo
dei vescovi dedicata
alla famiglia, è stato
assegnato il secondo
premio dell’edizione
2016 della Catholic
Press Association.
21
D ONNE CHIESA MOND O
IL FILM
intitola ’71 un bel film inglese
sulla guerra in Irlanda — si
svolge nella Belfast divisa in
due parti, quella cattolica e
quella protestante, in aspro conflitto tra loro — in cui un soldato inglese ferito
viene accolto e salvato da una famiglia cattolica,
e anche curato dal padre medico. In un contesto di estrema violenza, nel quale entrambe le
parti sembrano avere perduto ogni traccia di
umanità, un primo passo di riconciliazione si
S’
Lezione di perdono
al femminile
di LUCETTA SCARAFFIA
realizza attraverso un rapporto personale con il
nemico. Sono gli incontri, il contatto umano,
infatti, l’unica arma possibile contro la violenza,
l’unica che ha la forza di portare alla riconciliazione. E sappiamo tutti che nel contatto umano,
nel rapporto empatico, le donne sono maestre
ineguagliabili.
Il cinema l’ha raccontato più volte, ma forse
nulla è più toccante della storia di riconciliazione tessuta da donne al cuore del bellissimo documentario The Heart of a Murderer (2012) girato in India dalla regista italo-australiana Catherine McGilvray. In un’ora, il film racconta la
storia di Samundar Singh, il giovane fanatico
indù che nel 1995, a ventidue anni, uccise suor
Rani Maria, missionaria francescana originaria
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del Kerala. Dopo averla accoltellata per 54 volte, la abbandonò sul ciglio della strada. Una
morte lenta, lentissima nella solitudine.
La sorella di Rani, anch’essa suora, insieme
alla madre, ha saputo trovare una strada di perdono e quindi di riconciliazione, riuscendo anche nella difficile impresa di tradurre concetti
cristiani nella cultura indù, per farsi capire
dall’assassino. Arrestato e condannato all’ergastolo, Samundar viene quindi perdonato dalla
famiglia di Rani, che non solo chiede (e ottiene) per lui la grazia, ma che arriva ad accoglierlo come un figlio e come un fratello.
Nel film la regista racconta quindi una strada
femminile, una capacità di ricucire rapporti lacerati dalla violenza, la creatività di chi sa costruire relazioni ricche di umanità dove c’è odio,
di mettere il bene al posto del male, rompendo
l’abitudine di rispondere con violenza alla violenza.
La forza di questa proposta femminile di riconciliazione si è percepita circa un anno fa
quando il documentario è stato proiettato alla
moschea di Roma, per iniziativa del centro culturale islamico, alla presenza della regista e della sorella di Rani, protagonista vera della vicenda. Di fronte a un pubblico quasi esclusivamente composto da uomini, la dolcezza mescolata
alla forza delle loro parole ha aperto nuovi scenari possibili di convivenza, ha fatto capire come si può cercare una riconciliazione anche dopo violenze atroci. Ha insegnato anche che è indispensabile farsi capire entrando con rispetto
nel linguaggio dell’altro. È un modo di ammettere che anche in campo nemico esiste un anelito alla pace, esiste la volontà di riconoscere
l’umanità profonda di ciascuno, indipendentemente dalla sua religione, razza o sesso.
All’inizio solo un sogno
FO CUS
di SILVINA PÉREZ
A
ll’inizio erano appena una decina. Poi sono diventate migliaia. Si riunivano nel mercato perché era lì che le truppe dell’allora presidente
Charles Taylor reclutavano bambini per portarli al fronte. I camion
partivano pieni. E tornavano vuoti.
È il 2002 in Liberia quando, dopo tredici anni di una sanguinosa
guerra civile che aveva spezzato più di 150.000 vite, Leymah Gbowee
fece un sogno. Sognò di presiedere una riunione in una chiesa e
d’iniziare a lottare per la pace nel suo paese. Al risveglio decise che
era ora di fare ciò che aveva solo sognato. L’assistente sociale liberiana cristiana, madre di sei figli, riunì allora un gruppo di donne in un
mercato e, insieme con un’altra donna, la musulmana Asatu BahKenneth, diede avvio a un movimento che portò alla pace in Liberia
e alla storica elezione del primo presidente africano donna, Ellen
Johnson Sirleaf.
Nacque così il Movimento delle Donne per la Pace e la Riconciliazione in Liberia. All’inizio nessuno dava peso a queste donne. Dice-
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D ONNE CHIESA MOND O
vano loro di starsene a casa. Ma quelle niente. Anzi, cominciarono a
intensificare le riunioni e le marce, mentre la guerra continuava. Alla
fine decisero uno sciopero matrimoniale, rifiutando rapporti sessuali
con i mariti. Per mesi Leymah Gbowee incoraggiò le donne del suo
paese a fare pressione sugli uomini perché ponessero fine alla guerra
civile. E dopo tre mesi, le donne ottennero un incontro con Taylor
obbligandolo a promettere che avrebbe avviato un dialogo con i
gruppi ribelli in Ghana. La loro lotta riportò la pace nel paese spianando la strada verso l’elezione a presidente di Ellen Johnson Sirleaf.
In Africa la maggior parte delle donne vive in contesti politici poco o per nulla democratici, dove la disuguaglianza di genere si perde
tra altri problemi più gravi. Le donne sono vittime di culture tribali
che le relegano a un ruolo di secondo piano. Non hanno voce nelle
loro comunità. Così come non possono ricevere eredità o avere una
proprietà. In nome di tradizioni e credenze religiose ancestrali subiscono la poligamia e sono sottoposte alla brutale mutilazione genitale. E sono sempre loro a perdere il treno dell’educazione, della salute
e della politica, e a diventare il bersaglio unico della violenza di genere e dello stupro come arma di guerra, con tutte le conseguenze di
orrore, malattie sessuali e gravidanze indesiderate.
Ma questo quadro così duro e desolante non sarebbe completo se
non venisse sottolineato anche che quelle stesse donne stanno lottando con tutte le loro forze per non essere più considerate vittime, per
ottenere visibilità sociale, economica e giuridica, e recuperare il
controllo del proprio corpo e della propria vita. «Le africane dicono
“no” all’afro-pessimismo — scrive nel suo blog Nestor Nongo,
sociologo e professore congolese residente in Spagna — e restaurano
la speranza in tutto il continente. Cacciano dittatori, risollevano il
proprio paese, influenzano le agende politiche, lottano per i diritti
Tawakkul Karman, Leymah
Gbowee e Ellen Johnson
Sirleaf durante la cerimonia
di assegnazione del Nobel
per la pace (2011)
Il nuovo capo dello Stato ereditò una Liberia annientata da una
guerra civile lunga e crudele che aveva distrutto l’economia, il tessuto
sociale e il futuro di una generazione di giovani: oltre 25.000 guerriglieri smobilitati, ai quali il conflitto aveva rubato l’infanzia e l’educazione. L’impegno di Johnson Sirleaf è stato quello di promuovere
la riconciliazione, di gettare le basi per un paese in pace, di ripristinare l’autorità degli anziani, della legge e di lasciarsi alle spalle personaggi tanto sinistri come Charles Taylor, ex guerrigliero ed ex presidente liberiano giudicato dal tribunale dell’Aja per i suoi crimini
nella vicina Sierra Leone.
La Liberia è un esempio del lento ma inesorabile progresso delle
donne in Africa e del ruolo decisivo che stanno avendo nella costruzione di un continente più pacifico, equo e riconciliato. In quattordici anni questo piccolo paese ha vissuto due guerre civili. La determinazione delle donne è stata così ferma che, quando il dialogo tra le
diverse fazioni in guerra è entrato in una fase di stallo, hanno barricato la sala dove si tenevano i colloqui di pace, non permettendo agli
uomini di uscire prima di aver raggiunto un accordo. Finalmente,
nell’agosto del 2003, l’accordo fu firmato.
D ONNE CHIESA MOND O
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Dopo tredici anni di una sanguinosa guerra civile
Leymah Gbowee fece un sogno
Sognò di presiedere una riunione in una chiesa e d’iniziare a lottare
per la pace nel suo paese. Al risveglio decise che era ora di farlo
umani e si occupano delle persone abbandonate e degli orfani. E
riconciliano la società, innovano e creano, dirigono imprese, e tutelano l’ambiente». Ellen Johnson Sirleaf e Leuman Gbowee nel 2011
hanno ricevuto il premio Nobel per la pace per il ruolo decisivo
svolto per porre fine alla guerra civile nel loro paese. Con loro, il
riconoscimento è stato assegnato anche a una giovane yemenita, Tawakkul Karman, capo del gruppo Donne Giornaliste senza Catene
creato nel 2005. Loro il merito di aver lottato con tutte le forze per i
diritti delle donne, di aver difeso i diritti umani e di continuare a
rappresentare l’anima femminile di un’Africa che aspira alla pace e
alla giustizia.
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D ONNE CHIESA MOND O
Mosaico absidale della
chiesa di Santa Prassede
A pagina 26
«Santa Prassede»
dipinto attribuito
a Jan Vermeer (1655 circa)
LA SANTA DEL MESE
Martire
come Prassede
di BENIAMINO BALDACCI
ravamo i “diversi” in un gruppo organizzato che aveva appena terminato la visita guidata alle quattro
basiliche maggiori. Lei era nera,
ma proprio nera, col viso gradevolmente regolare e un bel corpo coperto da una
semplice polo bianca e da una gonna celeste. Io
il solo romano, forse in cerca di sé. L’avevo notata e mi ero chiesto come fosse capitata in
mezzo ai soliti turisti, tutti uguali e tutti diversi,
grondanti di sudore nell’estate romana.
E
Terminata la visita in Santa Maria Maggiore
con mio stupore si rivolse a me per chiedere dove fosse la chiesa di Santa Prassede. La pronuncia incerta e la mia ignoranza mi fecero chiedere
«Santa chi? Scusi». «Prassede» ripeté scandendo bene. «Ah, quella dei Promessi Sposi».
«Non sposa, no! Vergine e martire! Martire
molto giovane. La sua chiesa qui vicino. Scusa,
se non sai chiedo...». «Aspetta chiediamo al bar
mentre beviamo qualcosa: è il 21 luglio e fa caldo». Accettò e scambiammo qualche parola.
Era nativa del Biafra e lì insegnava al liceo.
Cattolica e forte di una fede profonda venerava
come modello la santa romana ed era qui a
sciogliere un voto. Chiese di me: «Cosa fai e
perché sei qui?». «Sono un medico e non so
perché oggi sono qui. Curiosità o noia, anche
D ONNE CHIESA MOND O
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perché non credo in niente». Mi guardò con
commiserazione. «Andiamo, vieni in chiesa con
me». Le sorrisi: «Grazie ma devo montare di
guardia, mi convertirai un’altra volta». A due
passi si trova un portone insignificante che introduce a una inattesa meraviglia. Non entrai
«Vado in clinica, la lascio alla sua santa». Mi
fissò con dolcezza e al mio «addio» rispose «arrivederci» ed entrò in chiesa.
In clinica cercai la suora di guardia: «Suor
Maria, sa qualcosa di santa Prassede?». «Certo,
è oggi e qui c’è tutto scritto, persino che forse
non è mai esistita. Se vuole può leggerlo, poi
me lo ridà». «Ok sorella, grazie. Qualche paziente grave?». «No, la notte si presenta bene,
dormirà tranquillo».
Cominciai a leggere. Figlia di Pudente, senatore romano convertito al cristianesimo, visse
nel secondo secolo durante le persecuzioni
dell’imperatore Antonino Pio... Leggevo, dormivo, sognavo, vivevo. «Timoteo ha scritto che
possiamo utilizzare l’eredità di nostro padre e
dividerla col prete Pastore e con il Papa. Per
prima cosa faremo un fonte battesimale nella
chiesa dei nostri genitori. Che ne dici fratello?».
Novato annuì. «Continueremo a predicare il
Vangelo e a dividere il pane. L’imperatore Antonino crede di sconfiggere la nostra fede uccidendo i santi fratelli in Cristo. Per ogni martire
sono decine le conversioni! Hanno ucciso nostra
sorella Pudenziana, una bambina ancora. La
seppelliremo vicino a Pudente nel cimitero di
Priscilla. Chi mai potrà spiegare il perché di
tanto odio e di tanto accanimento?».
Prassede, che vuol dire donna d’azione, lo
era di fatto oltre che di nome. Somigliava a Savinella, sua madre, che aveva trasformato la pro-
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D ONNE CHIESA MOND O
NELL’ANTICO TESTAMENTO
pria casa in una chiesa dove anche Papa Pio celebrava e predicava. Insieme a Pio I e con l’aiuto dei preti Pastore e Demetrio, Prassede fece
costruire altre due chiese. Per due anni si visse a
Roma una tregua dalle persecuzioni durante la
quale l’attività pastorale era tollerata e dava
buoni frutti.
La persecuzione riprese con durezza contro
migliaia di cristiani. Prassede pur in preda a un
immenso dolore per tanto scempio non smise
l’opera di conversione. Quel giorno Novato, già
malato, entrò di corsa e urlò concitato: «Fuggiamo, corri, stanno venendo a catturarti. Antonino in persona ha dato l’ordine. Torturano prima di ucciderti. Ricordi Pudenziana, dai, andiamo via. Qualcuno ha tradito e Demetrio è già
morto! Ma che fai, ti metti in ginocchio? Levati
orsù...». «Va’ fratello, fuggi subito, scampa la
sofferenza e la morte! Io non pavento torture e
Beniamino Baldacci
Beniamino Baldacci è medico di famiglia
a Roma da molti decenni, amato dai suoi
pazienti come difficilmente accade nelle
grandi città. Tutti gli riconoscono, accanto
a un alto livello professionale, la capacità
di comprendere l’anima dei malati, la
pazienza di avvicinarsi a ciascuno con la
disponibilità di ascoltarlo, di vedere il suo
fardello di dolore, le sue sconfitte e le sue
stanchezze, che spesso sono alla base delle
malattie. Ha sei figli e sei nipoti, ha
scritto vari articoli di medicina e un
romanzo storico Leone. Donne e tradimenti
(2014) premiato al Spoleto Festival Art
nello stesso anno.
D ONNE CHIESA MOND O
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tantomeno la morte. Possono seviziare il corpo
e straziarlo fino a toglierne la vita. Otterranno
l’esaltazione dell’anima mia nell’unione con le
sofferenze di Cristo e dei fratelli martiri della fede. La più orribile delle morti diviene santificazione eterna nell’abbraccio di Dio e nella comunione dei santi. Vai e lascia ch’io preghi per costoro perché come accadde a Paolo siano illuminati e salvati».
Entrano con i gladi in mano gridando. Qualcuno indica Prassede. La ragazza si alza, apre le
braccia e porge il petto all’arma che vi si infigge. Vedo il suo viso bello e radioso mentre
muore. Un viso, che vedo? Non capisco, è il viso della donna del Biafra e poi, poi vedo il volto di chi ha tradito e l’ha uccisa.
Mi sento urlare e fremere contratto come uno
stoccafisso e non riesco a svegliarmi. «Dottore
la smetta! Si svegli!». Suor Maria accompagna
alle parole un sonoro schiaffo che mi riporta
alla realtà. Ancora urlo, ma smetto e mi alzo.
«Grazie sorella, sto bene e davvero non l’ho
uccisa. Ero io ma non l’avrei mai tradita. Ucciderla poi...». «I dottori qualcuno ammazzano
sempre!». «Non mi irrida, ho vissuto in un
incubo».
Per giorni non riuscii ad applicarmi a nulla.
Il cervello era occupato dal mio braccio col gladio infisso nel petto di una donna di colore. Mi
resi conto di quanti «femminicidi» avvengano
con cadenza continua. Decisi di rivolgermi ad
uno psichiatra. Non feci in tempo. La notizia
mi colpì come un fulmine. Attaccata una scuola
cattolica in Biafra. Uccisi alcuni insegnanti, fra
le foto la sua.
Martire come Prassede. Nell’animo fu come
uno squarcio che mi aprì un orizzonte infinito.
Mi trovai in chiesa, a Santa Prassede. In ginocchio piangevo e pregavo preghiere che neanche conoscevo. Pregavo Prassede che prega per
chi ogni giorno l’uccide e per chi di fronte alla
strage si copre d’indifferenza.
Betsabea
Politica, potere e ambiguità
di SUSAN NIDITCH
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D ONNE CHIESA MOND O
etsabea appare tre volte nella narrativa biblica. In 2 Samuele 11, Betsabea, moglie del servo di Davide Uria, viene ritratta come bella e proibita fonte di attrazione per
il re Davide, il quale passeggia nella sua reggia mentre i
suoi uomini sono in guerra. Dalla terrazza la vede fare
il bagno, la fa chiamare, giace con lei. Betsabea rimane incinta e glielo fa sapere. Davide si assicura che Uria non torni più dalla battaglia, e quindi la sposa. In 1 Re 1, 11-22, dopo aver appreso dal profeta Natan delle pretese al trono di Adonia, Betsabea parla a Davide a
favore di suo figlio Salomone, ricordandogli la promessa di fare di
lui il prossimo re. In 1 Re 2, accetta di chiedere a re Salomone, a nome di Adonia, la giovane vedova di Davide, Abisag, in sposa. Salomone è consapevole che chi controlla la donna del re precedente ne
eredita il potere. Si affretta quindi a eliminare il suo rivale. La posizione inizialmente marginale di Betsabea si trasforma così in quella
di una regina e madre di re influente. Come dobbiamo immaginare il
suo ruolo? È ingenua, passiva, fa quel che vogliono Davide, Natan e
Adonia, o è manipolatrice e potente, attira di proposito un re lascivo,
inserendosi nel processo di successione e ponendo fine alle possibili
pretese di un rivale proprio facendo esattamente ciò che lui le chiede? Esaminando da vicino questi importanti passaggi nel loro contesto, si possono capire lo stile letterario, l’orientamento politico e i
modi in cui s’immagina che le donne esercitino il potere.
B
«Bethsabée», Marc Chagall
(1962-1963
collezione privata)
D ONNE CHIESA MOND O
30
Il contesto nel quale si comprende meglio il ruolo di Betsabea è
quello delle relazioni di Davide con le diverse mogli. Gli eventi che
circondano tali relazioni segnano punti di passaggio fondamentali
nel racconto in stile epico della sua ascesa, del suo governo e della
sua senescenza. Ogni donna serve da chiave di comprensione all’eroe
stesso, al suo carisma come anche ai suoi difetti caratteriali. Mikal, figlia di re Saul, che il giovane guerriero Davide corteggia e ottiene
per cento prepuzi di filistei, è una delle molte ammiratrici che egli
usa per fare carriera. Davide sa che l’uomo che controlla le donne legate al re investito da Dio, siano esse mogli o figlie, eredita un po’
dello spirito e dell’autorità del suo predecessore. Mikal, da parte sua,
è profondamente infatuata del rivale del padre e lo aiuta a sfuggire
all’ira di Saul quando quest’ultimo comprende la misura della vera
ambizione di Davide. Per intenderci, colui che tramanda questo racconto, di certo schierato con Davide, insiste sul fatto che Dio ha respinto Saul e scelto Davide al posto suo, ma comunque non può fare
a meno di rendere vivi i personaggi descrivendo emozioni umane,
dubbi su se stessi e recriminazioni. Una Mikal un po’ più anziana
forse si dispiace della sua complicità nel tradimento della casa paterna e nella morte del padre e del fratello. All’improvviso sembra ren-
31
D ONNE CHIESA MOND O
L’autrice
vide sia il figlio di questa donna, la cui relazione iniziale con Davide
è illegittima. Il modo in cui viene rappresentata e in cui prende forma la sua personalità rispecchia gli atteggiamenti verso la dinastia di
Davide e Salomone. I ritratti di Betsabea sollevano questioni più ampie sul genere e sulle forme di azione femminile.
«Betsabea al bagno»
Francesco Hayez (1834)
dersi conto che Davide la considera appena, e che è piuttosto innamorato delle groupies infatuate che lo accolgono quando ritorna dalla
battaglia. Lei lo rimprovera e lui la respinge (2 Samuele 6). Un’altra
moglie importante, Abigail, viene descritta come donna saggia che
conquista l’affetto di Davide durante la fase da bandito della sua carriera, dicendogli esattamente ciò che vuole sentirsi dire sul suo carattere e sul suo futuro (1 Samuele 25). Davide ha minacciato suo marito
Nabal e la sua casa quando questi gli ha rifiutato il suo aiuto. Abigail si reca da Davide di nascosto dal marito, portando cibo per i
suoi uomini e parole di incoraggiamento per lui. Ammalia il futuro
re, tradendo suo marito Nabal, un ricco e indipendente proprietario
terriero, che considera Davide un arrivista illegittimo. Diversamente
dalla saggia moglie, Nabal non riesce a capire che il futuro d’Israele
sta in Davide, un pericoloso nemico che è meglio corteggiare piuttosto che allontanare. Opportunamente, Dio fa morire Nabal permettendo a Davide di prendere Abigail per moglie. L’ultima figura femminile menzionata dettagliatamente è Abisag, una giovane donna che
serve Davide nella sua vecchiaia, uomo impotente contro cui i figli
tramano per sostituirlo. Abisag riscalda Davide, poiché sembra che a
questo punto non è in grado di fare altro con lei a letto (1 Re 1, 1-4).
La giovane badante in seguito diventerà una pedina nelle questioni
riguardanti il potere del figlio di Davide Adonia, rivale di Salomone.
Nel contesto più ampio delle altre mogli di Davide, citiamo Betsabea per suggerire che tutte queste donne servono al narratore per
commentare le pretese di Davide, la conquista o la perdita del potere, il suo vigore e il suo carisma immensi, e la sua complicata caratterizzazione come eroe epico. Betsabea entra nei racconti di Davide
quando egli è al culmine della sua carriera e poi di nuovo in prossimità della sua morte, in relazione a eventi che riguardano la successione di suo figlio Salomone, per assicurargli il regno. In un mondo
tradizionale in cui la stirpe materna è una importante demarcazione
di status, lignaggio e diritti, è importante che l’erede al trono di Da-
D ONNE CHIESA MOND O
32
Un primo problema nell’interpretazione riguarda la disponibilità o
il possibile interesse di Betsabea ad attirare l’attenzione del re. È innocentemente inconsapevole del fatto che la terrazza del palazzo del
re gli permette di vedere quello che lei fa? Sa che lui è nella sua reggia e che gli piace salire sul tetto nel tardo pomeriggio? Fa il bagno
nella speranza di attirare la sua attenzione? Viene descritta come molto bella. Il fatto che Davide sia al sicuro nel suo palazzo a sbirciare
una donna nuda che fa il bagno mentre i suoi uomini sono esposti al
pericolo sul campo di battaglia non sfugge ai lettori e serve a ritrarre
il re in una luce meno favorevole. Questa scena illumina dunque il
personaggio di Davide, creando l’impressione di un voyeur indulgente
verso se stesso ma forse, in un’ottica di genere, suggerisce anche che
l’avvenenza di Betsabea è estremamente potente, una sorta
di canto delle sirene. I lettori dovrebbero forse immaginare
Betsabea che usa il suo corpo come un prezioso capitale?
Alcuni commentatori hanno suggerito che ha progetti di
carriera propri. In culture tradizionali dominate dall’uomo,
la via del successo per una bella donna è il matrimonio, e
un matrimonio reale è particolarmente vantaggioso, come
affermano comunemente i racconti popolari. Oppure Betsabea, come Mikal, trova Davide irresistibile? Il meno che
possiamo dire è che il suo ruolo nella vicenda è ritratto in
modo ambivalente. Il bambino nato dall’adulterio di Davide e Betsabea muore da piccolo per punizione, ma anche il
futuro re, il grande Salomone, è figlio dell’unione che inizia
con un atto adultero. Salomone succede al padre sul trono, ma non
senza l’intervento di una Betsabea matura. Ancora una volta il suo
operato può avere diverse interpretazioni.
Il narratore descrive l’intrigo che circonda la successione all’anziano re Davide. Sono emersi due partiti politici, uno in appoggio a Salomone e l’altro in appoggio ad Adonia, figlio di Agghit, un’altra
moglie di Davide menzionata in relazione ad Adonia, ma non sviluppata come personaggio. È interessante che il suo nome completo,
«Adonia figlio di Agghit» indichi la stirpe materna, un importante
identificatore. Si potrebbe però suggerire che Agghit sia una figura
meno influente a corte rispetto a colei che presto diventerà regina
madre, Betsabea. Natan il profeta, parte della cricca che cerca di con-
Susan Niditch è
titolare della cattedra
Samuel Green di
religione all’Amherst
College. Formata ad
Harvard, si è laureata
in lingue e civiltà del
Vicino oriente. Tra i
suoi campi d’interesse:
la letteratura
dell’antico Israele
soprattutto dal punto
di vista del folklore e
della tradizione orale;
l’etica biblica, con
particolare attenzione
alla guerra, al genere e
al corpo; la storia della
recezione della Bibbia
e il materiale
simbolico dei testi
rituali scritturistici. Di
recente ha pubblicato
The Responsive Self:
Personal Religion in
Biblical Literature of the
Neo-Babylonian and
Persian Periods (Yale
2015).
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D ONNE CHIESA MOND O
madre, Betsabea. Natan il profeta, parte della cricca che cerca di consacrare Salomone, mette in guardia Betsabea contro le macchinazioni
a corte, dove alcuni sono pronti a sostenere Adonia, un bel principe
che è il prossimo nella linea di successione dopo il defunto Assalonne. Betsabea va dal re nelle sue stanze, dove è assistito da Abisag, e
gli fa sapere che Adonia sta per essere proclamato re. Con molta diplomazia, come la vincente Abigail, s’inchina e fa la riverenza, chiedendo a Davide quali sono i suoi desideri per la successione, continuando però a ricordargli la promessa che ha fatto a lei e a suo figlio
che avrebbe regnato dopo di lui. Allude al grande potere del re e lo
esorta a nominare Salomone, per evitare che dopo la sua morte lei e
Salomone siano «trattati da colpevoli», letteralmente da «peccatori»,
nemici dello Stato (1 Re 1, 21). È chiaramente rimasta un personaggio influente a corte. Dobbiamo vederla come una figura tipo Rebecca, devota al proprio figlio, o come una donna che preserva ed estende il proprio status politico, o magari le due figure sono intrecciate
nella monarchia? Salomone viene incoronato secondo il desiderio di
sua madre e continua a consolidare il suo potere. Ancora una volta,
Betsabea svolge un ruolo ambiguo a corte, che solleva domande circa
le ambizioni per se stessa e per il figlio, sul ruolo delle mogli e le
madri del re negli scambi politici di potere e sul modo in cui le donne, così come vengono descritte, rivelano e aiutano a inquadrare la
caratterizzazione di uomini potenti.
L’autore ritrae Betsabea come una donna che usa le astuzie femminili
e il potere erotico nel suo interesse
La sua bellezza fisica attira verso di lei il potente Davide
In una serie finale di interazioni, Adonia, al quale viene negato di
diventare re, chiede a Betsabea di intervenire presso suo figlio, il
nuovo re, perché gli permetta di sposare Abisag, la giovane badante
che ha condiviso con il re una qualche sorta di intimità muliebre.
Questa proposta di Adonia solleva dubbi sul suo acume politico.
Avrebbe dovuto sapere che sarebbe stata considerata una sfida diretta al potere di Salomone, poiché la moglie o la vedova del re era
considerata un bene politico e spirituale, un legame con il precedente
regnante consacrato, un mezzo per affermare potere e status. Così, il
figlio ribelle Assalonne prende pubblicamente in moglie le concubine
di Davide, lasciate indietro durante la rivolta quasi riuscita che co-
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stringe suo padre a fuggire. Questa presa di donne è un’affermazione
di potere (2 Samuele 16, 22). I rivali, o coloro che desiderano conservare il proprio potere, naturalmente non rispondono mai con approvazione a simili preludi. Nel testamento di Giacobbe, Ruben viene
maledetto per questo tipo di autoaffermazione (Genesi 49, 3-4). Abner, generale di Saul, suscita le ire di Isbaal, il figlio di re Saul, per
essersi unito a Rispa, una delle concubine del padre, avanzando così
delle pretese sul potere (2 Samuele 3, 6-10). Tuttavia, Adonia in qualche modo ritiene di poter utilizzare Betsabea per mediare tra lui e il
re, come se il suo aiuto potesse in qualche modo convincere il nuovo
sovrano a condividere in qualche modo il suo potere o come se lei
non fosse consapevole delle implicazioni politiche di tale richiesta. Il
narratore biblico descrive solo raramente i pensieri o le motivazioni
intime; i personaggi vengono rappresentati per tipologie e compiono
delle azioni. Al lettore non viene spiegato perché Betsabea fa quanto
gli chiede Adonia, ma non stupisce che Salomone reagisca con forza,
utilizzando questa richiesta come scusa per eliminare il rivale. Certamente Betsabea sapeva che sarebbe stato questo il risultato di chiedere “innocentemente” Abisag per conto di Adonia. Questa interazione
è un altro dei tanti esempi biblici di donne che influenzano rapporti
di potere in modo velato, indiretto. Queste azioni, di fatto, rappresentano l’essenza della saggezza delle donne nella Bibbia ebraica,
delle quali Betsabea è un esempio.
La personalità di Betsabea è quindi disegnata con tratti brevi e
sottili, testimonianza della straordinaria maestria dell’autore dei racconti dell’ascesa della monarchia davidica. L’autore è favorevole al
regno davidico e ritrae Betsabea come una donna che usa le astuzie
femminili e il potere di persuasione nel suo interesse. La sua bellezza
fisica attira verso di lei il potente Davide, e in base a quanto narrato
la sua fiducia in lei o il suo desiderio di compiacerla perdurano fino
in tarda età. Serve da mediatrice tra uomini nel caso di Davide e Salomone. Adonia, a proprio rischio, le chiede di svolgere il ruolo di
mediatrice nel suo rapporto con Salomone. È una regina madre che
dà un degno erede al trono e una madre protettiva che favorisce e
aiuta a consolidare il regno di suo figlio. Viene compresa al meglio in
relazione alle altre donne della narrativa davidica, che non sono solo
personaggi a sé stanti, ma rivelano importanti aspetti del carattere e
dello sviluppo di Davide, in punti centrali della narrazione complessiva. Tutti i ruoli di Betsabea, però, fanno presagire un’intrigante ambiguità, sicché non si è mai certi della sua motivazione o del suo
operato. Come in molte delle tradizioni narrative più ricche della
Bibbia, il lettore ha dunque una considerevole libertà di reimmaginarla.
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ARTISTE
La via
pulchritudinis
delle benedettine
di Orselina
di SERGIO MASSIRONI
enite e vedrete» (Giovanni 1, 39) ripetono spesso
le suore di Orselina, in
Canton Ticino: non basta
un’occhiata a un sito web,
occorre venire, entrare, fermarsi. Quella che Gesù offrì ai primi discepoli è condivisione di
un’intimità domestica, che colpisce l’intelligenza
e i sensi, inizio generativo di molte cose nuove.
Continua ad accadere: astrarre forme e colori
dalla vita di una casa è molto difficile, specie se
l’ora et labora et noli contristari ne fa una fucina
di carismi spirituali, artistici, artigianali. Il lavoro delle benedettine di Santa Ildegarda sorge da
una stabilitas loci che solo in seguito inonda di
bellezza la liturgia di chiese e cattedrali d’Europa. «La nostra occupazione quotidiana è di distaccarci dall’effimero e di lasciarci guidare verso Dio. Solo così la vita è interessante, quando
diventiamo consapevoli che essa ci conduce a
Dio. Se nella preghiera siamo con Cristo, sappiamo intuitivamente che tutto ciò che in noi è
«V
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disordinato differisce da Cristo. Egli farebbe
tante cose in un altro modo». Fraternità, canto,
impegno quotidiano tra seta, cucito, telai. Vestire il “fatto a mano” rinvia chi presiede l’eucaristia a corpi impegnati giorno e notte col mistero: la via pulchritudinis è diversa dalle rotte commerciali, estranea alle logiche “usa e getta” arrivate fin sull’altare. Ne parlo con don Nicola Zanini, rettore del Seminario e direttore del Centro liturgico diocesano di Lugano. «Giunte a
Orselina, piccolo centro sopra Locarno, a metà
degli anni Cinquanta, le benedettine si trovarono immediatamente inserite in un contesto favorevole. La sensibilità artistica e il carisma religioso della fondatrice, la tedesca Hildegard Michaelis, si sposò perfettamente con l’attività di
riforma, nello spirito del movimento liturgico,
animata dal grande precursore don Luigi Agustoni. Professore di liturgia in seminario, in
stretti rapporti con le abbazie di Solesmes e
Maria Laach, raffinatissimo maestro di gregoriano, fu promotore di un congresso liturgico internazionale a Lugano nel 1953 e divenne, poi,
parroco a Orselina, villaggio che gli consentiva
di proseguire studi e ricerca. Fu lui a favorire il
lascito di un terreno e di una piccola casa, perché dal 1957 trovassero posto in Ticino madre
Michaelis e le sue sorelle: nasceva la Fondazione Orsa Minore, poi riconosciuta come Monastero di Santa Hildegardis». Quella che don Nicola tratteggia è l’atmosfera vivace del concilio,
partecipata da una Chiesa locale che, pur mantenendosi popolare e fedele alla tradizione, osava percorrere vie di rinnovamento, complice la
posizione strategicamente singolare di crocevia
tra nord e sud delle Alpi. «Il rapporto tra la comunità monastica e la diocesi è stato interessantissimo. Per quanto le suore sviluppassero con-
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tatti e collaborazioni con mezza Europa, in Ticino si giocava una partita decisiva per la loro
stessa sensibilità. Attente ai bisogni locali, venivano elaborando uno stile che sempre più piaceva sia loro sia al territorio. Grazie a don Valerio Crivelli, successore di Agustoni, divenne fortissimo il rapporto col liturgista della diocesi:
per decenni, le benedettine hanno garantito alle
grandi celebrazioni il meglio che si potesse cercare; a ogni cambio di vescovo intervenivano a
offrire casula e mitra dell’ordinazione; parroci e
comunità parrocchiali hanno conosciuto e accolto il loro lavoro. Un servizio reso pressoché gra-
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tuitamente, come gratuito è il bello. Erano inizialmente gli anni di Paolo VI, quando l’apertura all’arte e a nuove forme espressive era davvero totale. Le suore si sono sentite confermate
dalla Chiesa nella loro coraggiosa ricerca. Contemporaneamente, in molte parrocchiali della
diocesi si provvedeva all’adeguamento dei poli
liturgici col medesimo spirito, optando per soluzioni di notevole qualità». Chiedo a don Zanini
se i tempi non siano però cambiati, anche ai
piedi delle Alpi: correnti fredde hanno ovunque
smorzato il fervore conciliare, spesso per reazione a molti abusi o eccessi, proprio in campo liturgico. Oggi, poi, con un Papa della sobrietà,
che sospinge verso le periferie e relativizza le
forme e i riti, è ancora plausibile una proposta
in continuità con quegli anni? «Le vesti liturgiche create negli atelier del monastero rispondono perfettamente alla riforma del concilio Vaticano II, che chiede: “i riti splendano per nobile
semplicità”. Una riforma, quella conciliare, per
molti versi ancora da attuare. È vero: si è tornati a cercare spesso, sull’altare, più nobiltà che
semplicità. Si fanno coincidere, equivocamente,
gusto ottocentesco e solennità dei segni. D’altra
parte, molto male fa la trasandatezza, la confusione tra sobrietà e bruttezza. Invece, il lavoro
delle monache sui colori, la genuina attenzione
ai materiali, un rigoroso attenersi al non banale,
la risonanza d’intuizioni maturate in preghiera:
tutto conduce a un’essenzialità che rende nobili
i loro manufatti innovativi. Non solo un’educazione al bello, ma un’offerta di teologia attraverso i paramenti: dietro alle immagini e ai colori ci sono studio e meditazione, non mero
estetismo. Si tratta di icone, dentro i loro tessuti». Ogni pezzo unico può richiedere da alcuni
giorni a diversi mesi di dedizione, in un concerto di competenze che vede oggi, fianco a fianco,
anziane religiose e giovani laiche: comunque
donne, a servizio di una Chiesa colma di luce e
di colore, riflesso della bellezza di Dio.
MEDITAZIONE
a cura delle sorelle di Bose
Mite e umile
di cuore
MATTEO 11, 25-30
e parole con cui Gesù rende grazie
al Padre per aver rivelato la buona
notizia ai piccoli e non ai sapienti
nel testo greco sono introdotte in
modo strano e oscuro: «In quel
tempo Gesù rispondendo disse...». Non essendoci alcuna domanda la nostra traduzione ha
eliminato il verbo rispondere, ma noi ci chiediamo lo stesso a chi e come risponde Gesù. Risponde agli eventi della vita che interpellano la
sua fede e lo fa pregando. E la preghiera diventa risposta a quell’amarezza, a quel fallimento e
a quell’incomprensione della sua opera — lui, il
Figlio dell’uomo, è considerato alla stregua di
un mangione e beone amico di pubblicani e
peccatori — che sono testimoniati pochi versetti
prima, e che terminano con l’invettiva contro le
città che avevano visto i suoi miracoli e non
avevano creduto (cfr. Matteo 11, 19-24).
L
«Christ et pauvres», Georges Rouault (1935)
A pagina 40:
«Christ dans la banlieue», Georges Rouault (1920-1924)
Il mettersi di Gesù davanti al Padre gli dà la
possibilità di assumere ciò che è accaduto, per
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ro di una vocazione, ci generano giorno dopo
giorno alla mitezza; essa produce pazienza e la
pazienza una virtù provata, la perseveranza, e la
virtù provata la speranza (cfr. Romani 5, 3-4).
Infine, con parole di grande consolazione, Gesù
chiede di andare a lui con fiducia perché è quel
maestro che non carica alcuno di pesi insopportabili: «Prendete il mio giogo e troverete ristoro
per le vostre vite». Dove sono la gioia e il riposo? Dove questa leggerezza e soavità promesse?
quanto amaro e contraddittorio esso sia, e la capacità di riconoscervi una via d’amore e obbedienza che spezza ogni recriminazione e lamento. Solo così egli può riscoprire il segno
dell’agire di Dio e ringraziare. La preghiera come risposta impegna Gesù in un rapporto, in
una relazione di obbedienza, e connota la sua
persona come mite e umile di cuore. Non si
tratta tanto di una sua caratteristica personale,
quanto di una rivelazione dell’agire e dell’essere
di Dio. E Gesù, il mite e l’umile, desidera plasmare allo stesso modo quei piccoli che accorrono a lui da ogni parte per ascoltarlo.
Con grande forza Gesù trasmette ciò che gli
è stato dato dal Padre affinché siano suoi discepoli. Prima di tutto li chiama a una rinuncia alla volontà propria e a una disponibilità a seguirlo, a stare dietro a lui nella pesantezza e stanchezza della vita: «Venite a me voi tutti affaticati». Poi li invita a mettersi alla sua scuola: «Imparate da me che sono mite e umile di cuore».
Il mite non è tale in partenza: la vita umana-cristiana, la vita comunitaria nel suo movimento di
portare l’altro guardandolo in grande, nel miste-
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In uno scritto di Guglielmo di Saint-Thierry
a commento di questo testo leggiamo, con parole messe in bocca al Signore: «Tu gemi e ti lamenti sotto il mio giogo, ti affatichi sotto il mio
fardello, ma è l’amore che dà al mio giogo la
dolcezza e al mio fardello la leggerezza (...).
Vuoi l’amore? Ebbene tu hai imboccato il cammino che conduce alla vita: se non abbandonerai questo cammino arriverai al fine desiderato.
Io cammino davanti a te, tu devi soltanto mettere i tuoi passi nei miei. Io ho faticato, ho resistito: anche tu fa lo stesso, anche per te è necessario fare fatica. Io ho sopportato molte sofferenze: anche a te occorre soffrire qualcosa. Il
cammino che conduce all’amore è l’obbedienza.
Tieni saldo questo punto e arriverai. Sappi che
l’amore è un immenso tesoro, val la pena che si
spenda tutto il prezzo necessario per acquistarlo. Sì, Dio è amore: quando sarai giunto
all’amore allora non farai più fatica. (...) Io ti
aiuterò a portare la tua fatica, sono io che finora e fin qui l’ho portata, sono io che la porterò
ancora». (Dalla meditazione alla preghiera, Edizioni Qiqajon).
Nell’obbedienza, nella pazienza che nasce
dalla fiducia, si può sperimentare il riposo al
cuore stesso della fatica che c’è e che resta; si
può arrivare a sperimentare l’innegabile leggerezza e dolcezza anche quando si è sottomessi a
un giogo scelto liberamente e per amore, il giogo che il Signore stesso ha portato, e si può assaporare la beatitudine da lui promessa: «Beati i
miti perché erediteranno la terra».