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Il Foglio Letterario
QUINDICI ANNI DI EDITORIA INDIPENDENTE
Il Foglio Letterario dal 1999 - Editore in Piombino dal 2003
EDIZIONE PRIMAVERA 2015 - Anno 16 - Numero 2
Catalogo libri: www.ilfoglioletterario.it
Mail: [email protected]
Una piccola Casa Editrice che ha partecipato 5 volte al
PREMIO STREGA e ha lanciato scrittori
per GUANDA, RIZZOLI, BOMPIANI, NEWTON & COMPTON,
STAMPA ALTERNATIVA, MINIMUM FAX…
Patrocinio del Comune di Piombino dal 1999
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Piombino, tempo di poesia
di Cinzia Demi
A volte la rinascita di un luogo passa da strani percorsi, da strade che si intrecciano con i generi letterari che quel luogo vogliono raccontare o che di quel luogo, in qualche modo, vogliono o possono
diventare parte. Così, se Piombino sembra poter ricominciare una sua fase di rinascita, almeno in
prospettiva, a questo non poteva non legarsi una qualche novità in ambito letterario. Forse è proprio
seguendo quest’idea che Gordiano Lupi e io, che non vivo a Piombino ma che ci sono nata, che ci
torno ogni tanto e che comunque me ne sento parte integrante, abbiamo progettato l’idea di una nuova Collana di Poesia Contemporanea per la Casa Editrice Il Foglio. Così, in questa stessa dimensione
di rinascita, la Collana sta provando a percorrere una linea editoriale di rinnovamento e di ricerca,
che va nella direzione di far emergere nuove forme di poesia che, se pure legate alla tradizione culturale a cui apparteniamo, si contraddistinguano per peculiarità innovative sia di contenuto che di linguaggio. A me il compito non sempre facile di selezionare, tra le tante proposte editoriali che riceviamo, le opere che rispettino queste caratteristiche e che ci siamo imposti come modalità comunicativa
che rigeneri la poesia stessa. Non sto parlando di un ulteriore neo avanguardismo o di astrusità ermetiche incomprensibili ma, di ricerca. La poesia, infatti, a discapito di chi pensa che sia solo ispirazione è, prima di tutto, ricerca, applicazione e disciplina. Richiede una frequentazione costante della
parola e il rispetto della sua sacralità, in quanto portatrice di verità. Se a questo aggiungiamo un’ulteriore ricerca, che è quella del linguaggio, della modulazione della parola stessa che viene piegata alle
intenzioni di chi scrive per costruirne significati complessi e alternativi e se, a questo, aggiungiamo
ancora l’elaborazione di suoni che risultino musicali per tenere su il ritmo dei versi, ecco che possono nascere formule nuove per nuovi itinerari poetici. Certo, non tutto ciò che pubblicheremo magari
andrà in questa direzione, può darsi che se una raccolta ci colpirà per la sua bellezza, al di là dei nostri propositi, potremmo decidere di pubblicarla lo stesso ma, al momento, mi sembrava giusto in
quest’articolo di presentazione della Collana mettere a conoscenza i lettori delle linee guida entro le
quali ci muoveremo. Detto questo, vorrei proporre almeno un paio di giovani autori di cui mi sono
occupata in questo contesto: Fabio Strinati, già edito con il suo primo libro “Pensieri nello scrigno.
Nelle spighe di grano è il ritmo”, e Sabrina Amadori il cui libro “Frammenti d’aria e grafite” è in
corso di pubblicazione.
IL FOGLIO LETTERARIO
Rivista fondata nel 1999
Numero 2 - Anno 16
EDIZIONE PRIMAVERA 2015
Testata Registrata al Tribunale di Livorno
Patrocinio del Comune di Piombino
Direttore Responsabile. Fabio Zanello
Direttore Editoriale: Gordiano Lupi
Redazione: Via Boccioni, 28
57025 Piombino (LI) - CP 66
Sito Internet: www.ilfoglioletterario.it
Mail: [email protected]
Telefono 056545098
La collaborazione è gratuita e per invito.
Manoscritti e materiale inviato (non richiesto) non verrà restituito. Il Foglio Letterario è il bollettino aperiodico della omonima casa editrice, pubblica opere di autori inseriti nella struttura e materiale selezionato dai direttori di collana, ritenuto in
sintonia con il programma editoriale.
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Fabio Strinati: Pensieri nello scrigno. Nelle spighe del grano è il ritmo
"Poesia come pensata sul pentagramma, quella di Fabio Strinati, giovane autore alla sua prima esperienza di
poesia. Poesia pensata come attraverso il respiro delle spighe di grano - sottotitolo del libro stesso. Il suo lavoro
poetico è fatto di una ricerca continua di significato e significante che devono combaciare attraverso metafore e
suoni, immagini e ritmi che colpiscono per la ricchezza di particolari, per quella assonanza tra il reale e l'onirico che diventa poesia. I testi di Strinati non sono di facile lettura, non vi troverete le rime aperte e chiare di un
Penna o di un Caproni, i sentimenti dolorosi di Ungaretti, la poetica della morte di Sereni. Uno zibaldone da cui
trarre linfa per una futura poetica, per una visione - fortunatamente - ancora in divenire". (dalla nota di copertina di Cinzia Demi)
Il vagabondo
Ho incontrato
un derelitto ed era l’alba
il calvario una consonante
s’assomiglia uniforme e stanca
trapassa l’imbuto
granaglie effimere
una maiuscola
il suo anche adoperarsi nella teca
vanga
osa redimere.
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Una dose di circo
Chissà perché la notte
quel suo essere circense
ovunque ruote e tendoni
come malsano afrore
nei pori l’aroma della sorte
la sua stessa tunica?
La notte è girovaga
regista d’un esito
plagiato inverno
coi tamburi le altalene.
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Verso il limbo
Il rumore divide l’infinito frastuono d’onde
incappa l’eterogeneo sguardo,
il dilungarsi ottenebra
erra inerte brulica
il risucchio,
ampio scenario d’uguali vite d’aria
scialacquata che oscilla, incanta:
dormono le regole si gonfia
il petto ombrato: ghermito è
il folto vuoto la sua ciurma sconfinata.
Sabrina Amadori: Frammenti di grafite
“Un libro di frammenti che, già dal titolo, mette l’accento sullo sguardo del poeta che va a raccontare la memoria delle cose per frammenti, appunto, affastellati nei ricordi e nel presente, in un alternarsi di momenti magici
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e pensieri, dove la poesia lega tutto col filo del suo saper entrare dalle finestre affacciate degli occhi e del cuore
sull’immensità del pensiero.” (nota di Cinzia Demi)
Il letto del fiume
Mamma, seduta sul letto
Apriva un libro di fiabe.
Con la camicia di lino
Gonfia di vento e sapone
Le morbide labbra d’uva dolce,
Mi baciava i capelli scuri
Umidi di terra di rane.
Soffiava sui miei occhi a vela
E io andavo lungo il fiume
Dalle lenzuola di seta azzurre,
Dove gli angeli dalle labbra bianche
Si posano sulle corolle dei fiori.
Mamma alitava parole colme di colori
Sulla mia fronte che si sfrangiava
Come un soffione fra i prati e le fronde.
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Azzurro montagna
Bambino che ti volti appena
Con quel profilo di sapone,
Gli occhi azzurro montagna
E il sorriso di sorgente,
Due dita sottili e grinzose
Ti passano sulla fronte
Scansandone via le nubi
Piano come chi toglie
La polvere dalle foglie.
*****
Vite
Mi sforzo di guardare questo luogo
Con gli occhi di un viandante
Di vedervi ogni giorno del nuovo
In quelle persone
Puntini d’esistenze
Che si mescolano e si rimescolano
Su strade senza fine
Che sibilano e palpitano
Son vive;
Nelle vetrine
Che mandano avanti l’economia
Nelle piante
Che soffiano ossigeno
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In queste sigarette che s’accorciano
Tiro dopo tiro
Nelle auto
Che ogni mattina
Accendono gli occhi
Sull’asfalto bagnato
Nelle case
Silenziose e stanche
Che di notte
Socchiudono le persiane
Palpebre dalle ciglia
Umide di mare.
Cerco di non pensare
Che passerò così
Come son già passati tutti
In silenzio
Senza far rumore.
Concludo questa breve presentazione con un mio testo inedito, che entrerà a far parte di una raccolta dal titolo
“In nome del mare” dedicata a Piombino, e che verrà pubblicata entro l’anno – per “affinità elettive” – nella
collana di poesia de Il Foglio.
sabbia, sabbia ferrosa e dorata
profumata di tamerici e gigli di mare
nel Golfo di approdi antichi
e d’acqua che invoglia ai riti
di girotondo il sole
quanto è difficile guardarti
quanto è difficile pensarti
senza averti tra le dita
sentirti scorrere quale
cometa rimata cantata
nei solchi che lasciano
le scorie e il sale
sulle linee della vita
e conchiglie nei capelli
e alghe dove riposa
la medusa spiaggiata
ti ho da poco rivista
con gli occhi del tramonto
sulla linea d’orizzonte
che dal monte scende
a rincorrere i giri d’onda
sulle spalle della pineta
avrei voluto baciarti forse
portare con me il tuo sapore
il coraggio dei tuoi colori
riempire una bottiglia
fino all’orlo rispecchiarmi
nella clessidra
del tempo trascorso
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6 a rincorrere i giri d’onda
sulle spalle della pineta
avrei voluto baciarti forse
portare con me il tuo sapore
il coraggio dei tuoi colori
riempire una bottiglia
fino all’orlo rispecchiarmi
nella clessidra
del tempo trascorso
a giocare con te
ma quale tempo migliore
di adesso fisso nella mano
che trema e getta sui tasti
nel foglio che accoglie
l’impronta del tuo esserci stata
quale tempo peggiore
di adesso vinto nelle battaglie
del volto che non trovano fine
nell’arenile cadenzato dal passo
e il volo basso dell’ambra della sera
22 febbraio 2015
Cinzia Demi
1 – Il giglio di mare (Pancratium maritimum) è una specie di giglio bulboso della famiglia delle Amaryllidaceae, che cresce spontaneamente sui litorali italiani, tra i quali i toscani, ma viene anche coltivato come pianta
ornamentale.
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Bar Giuliani
di Gordiano Lupi
Al Bar Giuliani si va per gustare caffè di quello buono, vecchia torrefazione piombinese ancora in armi, luogo dove scorre la piccola storia di provincia, incurante del
tempo. Il bar dei ricordi giovanili resta il Cristallo, piazza Verdi, ritrovo di sportivi
che discutono di calcio come un tempo, dilettanti del Piombino o blasonati juventini
fa lo stesso, ma io mi fermo sempre meno, oserei dire mai, giusto il tempo d’un caffè.
Prendo un caffè al Cristallo quando mi trovo a lavorare da quelle parti, se capita che
vendiamo libri in corso Italia, toccata e fuga, colazione rapida, poco altro da dire,
mentre sbircio il giornale e sento avventori discutere di reti annullate per fuori gioco
incerti. Il mio caffè di mezza mattinata è al Bar Giuliani, via Benvenuto Cellini, poco
fuori dal centro, non solo per motivi economici, ché il caffè costa ottanta centesimi,
unico posto al mondo. Il fatto è che al Bar Giuliani prendeva il caffè mio padre quando veniva in centro, forse per economizzare, ché il risparmio è stata una costante della sua vita, mi ha trasmesso il vizio, anche se c’è di peggio, non è così brutto, tutto sommato. Prendere il caffè dal Giuliani è un modo per ricordare mio padre,
più che andare al cimitero e vedere una lapide con foto, ché il caffè era uno dei gesti
rituali della sua vita fatta di piccole cose. Rammento quando lo rimproveravo, ché lui
beveva il caffè lungo, nel bicchiere di vetro. “Un espresso si gusta ristretto e in tazza, come fanno a Napoli”, dicevo. Lui non era convinto, scuoteva la testa, sorrideva,
mica cambiava idea. Era testardo mio padre. Un elbano di scoglio. Caffè lungo, al
vetro, già che doveva pagarlo - avrà pensato - che si veda, mica posso bere un fondo
di tazzina... Capita che da quando lui non c’è più, sono io che porto avanti il rito e
non solo dal Giuliani; ordino un caffè lungo al vetro e lo sorbisco in silenzio, assaporo il ricordo d’un sorriso e ripenso a tutte le volte che ho detto: “Il caffè buono è ristretto”. Vorrei poterlo ripetere davanti a quel bancone sorseggiando caffè napoletano. Vorrei contraddire mio padre nelle piccole cose, non assecondare il destino e
confondermi nel suo ricordo. Da quanto tempo non bevo un caffè ristretto, caro papà,
forse non ci crederai ma non ne sono più capace. Non mi resta che affidare a quel liquido nero tutta la malinconia del mio tempo perduto.
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Lo gnomo nell’armadio
di Simone Manservisi
Lo gnomo. Lo chiamavo così per comodità, in realtà non era uno gnomo. Era sì piccolo come uno gnomo – o
come si presume debba essere piccolo uno gnomo – ma aveva il volto scimmiesco, il cranio glabro e bitorzoluto, il corpicino minuto di un neonato ricoperto da cicatrici e una lunga coda di ratto. Il sedere era pustoloso,
mentre il pene mi ricordava un ditale da sarta attaccato sopra a due olive all’ascolana. Sembrava più un aborto
di macaco che uno gnomo. Viveva nell’armadio della mia camera, accanto al letto, di fronte alla scrivania. Era
apparso all’improvviso una sera di venti anni prima e dopo un’iniziale difficile convivenza avevamo raggiunto
un compromesso: io lasciavo in pace lui e lui non disturbava me. Passavano giorni, a volte settimane senza che
ci vedessimo. Quasi sempre usciva quando tornavo a casa da una serata al Circolo, ubriaco o fatto; a quel punto
ecco che sbucava prontamente dall’armadio e veniva a tormentare le mie nottate impedendomi di dormire. Col
tempo, non so perché, il tacito accordo di non belligeranza è saltato e lo gnomo è diventato sempre più molesto.
Il Circolo era l’appartamento di Tony, un tugurio dove ci riunivamo spesso per discutere di libri, fare progetti
rivoluzionari e utopistici per cambiare il mondo (progetti che il mattino dopo prontamente non ricordavamo
più) e soprattutto bere, bere, bere (motivo principale della nostra baldanza rivoluzionaria e successivamente
delle nostre amnesie). Rientrato a casa, non appena mi coricavo ecco lo gnomo che saltava sul letto e mi faceva
gli scherzi. Mi tappava le narici, mi faceva solletico con la coda, mi poggiava il culo brufoloso sulla faccia…
Una volta mi svegliò perché si era messo a scoparmi un orecchio.
“Che cazzo fai!” dissi dandogli una manata che lo fece volare giù dal letto.
Lui sorrise in quel modo beffardo che solo lui aveva e venne a sedersi sulla mia pancia.
“Ok, sono ubriaco. Non puoi lasciarmi stare una volta tanto?”
Lo gnomo fece di no con la testa poi salì sulla scrivania e si mise a cagare sul portatile, che fortunatamente era
chiuso. Avevo imparato col tempo che incazzarmi era inutile, anzi controproducente. Se mi fossi alzato dal
letto e avessi cercato di acchiapparlo sarebbe diventato ancor più dispettoso. Magari oltre a cagare sul pc avrebbe imbrattato di merda anche la libreria, mandandomi letteralmente fuori di testa.
“Ok testa di cazzo, mi arrendo. Ti sei divertito? Ora puoi tornare nel tuo armadio.”
Parve deluso dalla mia resa. Pisciò dentro a un cassetto e tornò nell’armadio.
La mattina dopo mi svegliai a mezzogiorno. Non ricordavo granché della serata precedente da Tony al Circolo.
Ma la cagata sul pc e il forte odore di urina proveniente dal cassetto dove tenevo diari e manoscritti mi riportò
alla mente la nottataccia con lo gnomo.
“Grande figlio di puttana!” esclamai rivolgendomi all’armadio chiuso. “Prima o poi ti infilo uno spiedo su per
il culo e ti faccio alla brace. Mi senti lì dentro?”
Pulii la merda e misi quaderni e fogli ad asciugare.
Da qualche tempo lo gnomo aveva cominciato a esagerare. Quando era apparso per la prima volta nel 1996 non
era così stronzo. Sì, si divertiva a farmi incazzare anche allora ogni tanto, ma non oltrepassava mai certi limiti.
Ricordo bene il primo giorno, o meglio la prima notte del nostro incontro: dopo essere tornato ubriaco dal BarCollomanonmollo sbucò improvvisamente dall’armadio e con un “buh!” mi fece prendere quasi un colpo mentre seduto sul letto cercavo a fatica di sfilarmi i Doctor Martens. Tornò subito dentro.
“Cazzo era quel coso?!” feci ad alta voce.
Passato lo stupore mi convinsi di aver avuto un’allucinazione. Trascorsi due giorni, sempre di ritorno un po’
sbronzo dal bar, il fatto si ripeté. Capitò poi ancora, ancora, ancora… Si sono succeduti gli anni e con essi, come ho già detto, è aumentata la sua stronzaggine. Io sono invecchiato mentre lo gnomo ha sempre lo stesso
aspetto strafottente e disgustoso. Ultimamente provo un po’ di disgusto anche nei miei confronti. Tutte le sere
che rincaso ubriaco – e capita sempre più spesso – lo gnomo è già lì davanti all’armadio ad aspettarmi per ricordarmi quanto schifo mi faccio.
Il mese scorso è successo qualcosa. Rientrato dal Circolo avevo sorpreso lo gnomo seduto alla scrivania. Il pc
era acceso e il piccolo essere malefico fissava sullo schermo una pagina bianca di word. Si voltò lentamente e
mi osservò, uno sguardo duro, concentrato, intenso, che non gli avevo mai visto. Mi strizzò l’occhio e in quel
momento ebbi come un’illuminazione. Capii. Provai quasi l’istinto di andarlo ad abbracciare. Lui invece si alzò
sulla sedia, puntò il culo nella mia direzione e dopo aver mollato una lunga e rumorosa scoreggia sparì dentro
all’armadio. Da allora non l’ho più rivisto, nemmeno quando sono tornato ubriaco dal Circolo. Da quel giorno
mi sono seduto al pc e ho cominciato a riempire pagine di word. Forse un giorno ricomparirà, ma sono certo
che non sarà così stronzo. Mi manca quel figlio di puttana. Dopo tutto voglio bene allo gnomo. È una parte di
me.
Simone Manservisi ha pubblicato con Il Foglio : Il fardello (2011), Mondemer (2012), Sull’orlo di un dirupo – storie di calcio e di anarchia (2012), Appunti di un naufrago sentimentale (2014), Far West Lazio – il volo di Uccellino (2014), L’arte della morte (2015).
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Festival della follia
di Roberto Mosi
È una giornata di bel tempo, il cielo azzurro sembra posarsi sulle cime delle montagne ancora innevate, dall’Ortles allo Sciliar. I turisti trovano al Castello gli automi in funzione e, forniti di ipad e cuffie, possono rivivere
l’arrivo del corteo dell’Imperatore e dei principi a cavallo. Dalle mura si colgono bene i contrasti del paesaggio, il restringersi della valle alla Stretta di Salorno, il degradare dei filari delle viti, lo snodarsi sul fondo lungo
del fiume, della ferrovia e delle strade. Arriva fin qui ronzio del traffico autostradale, sovrastato d’improvviso
dallo sferragliare dei treni. Sulle torri del Castello al vento teso che arriva dagli altopiani alpini, sventola la
bandiera dell’Alto Adige e un drappo rosso che annuncia l’avvenimento dell’estate, il Festival della follia. Una
scelta, quella della follia, appropriata per questa terra dove accade che oggetti inanimati parlino fra loro e che
riescano a comunicare con le persone prese da un qualche tasso di follia. Guardando in basso oltre le mura, si
nota la stazione ferroviaria a fianco di un cimitero delle macchine invaso dalle carcasse di auto e di camion.
Nel cimitero le macchine parlano dell’incidente di ieri mattina sull’Autostrada.
- Ti sei infilato sotto l’ultimo camion del Circo. Sono intervenuto io, il più potente fra i carri soccorso, per sollevare il camion e liberarti insieme ai corpi dei due giovani.
- Che tragedia, che dolore perdere due amici meravigliosi, così affezionati a me. “Il nostro Maggiolino d’oro”
dicevano Jo e Mirna. Poveretti. Sull’autostrada è calata improvvisa la nebbia, non si vedeva più nulla.
- Sulla corsia che viene dal Brennero, c’è stato un maxi tamponamento. Il Circo si stava spostando da Monaco
a Verona e il primo camion si è schiantato nella nebbia contro due macchine ferme. Alcuni animali sono scappati dalle gabbie, pare anche una tigre. Ore di lavoro per liberare l’autostrada e far riprendere il traffico.
- Come sei conciato Maggiolino d’oro? Chi ti ha dipinto così a strisce bianche e rosse, con geroglifici, lettere,
omini filiformi?
- Sono stati Jo e Mirna, sono … oh Dio mio, erano artisti di strada a Friburgo, facevano parte dell’Internazionale Graffiti. Seguivano la lezione del maestro Haring da Bristol. Si battevano con le bombolette spray, per un
mondo solidale, pacifico.
- Tipi strani. Dove li stavi portando?
- A Pisa, in Toscana, dove il maestro Haring realizzò in una notte sul fianco di una casa quel pannello sulla
società dei consumi conosciuto in tutta il mondo. Si erano dati appuntamento per la notte passata con altri compagni per disegnare il muro a fianco dei binari, alle porte della stazione di Pisa: disegni sulla violenza che uccide il mondo, sul traffico delle armi, sui fanatismi.
- È bello vivere di sogni. Peccato che sia finita in questo modo.
- Che ne sarà ora di me così accartocciato? Ci vorrebbe un carrozziere in gamba e la mano di un artista.
- Non ti fare illusioni, Maggiolino d’oro. Le macchine nelle tue condizioni sono destinate alla rottamazione,
alla pressa dell’ITALFER di Rovereto e poi al fuoco dell’Altoforno.
- Siete pazzi: io sono un pezzo unico, un’opera d’arte. Sul Giornale dell’Arte c’è la mia fotografia.
- Accidenti, un caso così non c’era mai capitato. Sentiamo domattina il Becchino che rilascia il certificato di
radiazione.
- Io avrei un’idea. Chiediamo al Semaforo della stazione di Salorno, qui accanto, se è possibile deporre questa
carcassa … oh, scusa … quest’opera d’arte nel giardino della stazione. Sarebbe una carta di presentazione eccezionale per la gente che arriverà, fra pochi mesi, per la Festa della follia.
- Bella idea vecchio mio, sempre con idee brillanti. Andiamo a parlare dalla rete con il Semaforo del binario
pari.
I passeggeri che scendono alla Stazione di Salorno sono colpiti dal Maggiolino posato su un piedistallo. Oggi è
tornato l’inverno con una pioggia gelida e la nebbia copre la parte alta della valle. L’acqua fa brillare i fumetti
dipinti sui fianchi e sul tetto dell’automobile. E, sorpresa! Il Maggiolino è al centro di strisce, bianche e rosse, a
centri concentrici che partono dalla macchia per invadere la stazione, i marciapiedi, i muri, i tetti. Anche i Semafori, i binari sono investiti da questo ciclone di colori insieme al parcheggio delle biciclette. L’altoparlante
gracida:
- È in arrivo al binario numero 1 il treno da Bolzano. Prosegue per Trento. Allontanarsi dalla striscia gialla.
Sulla prima carrozza del treno sale un gruppo di giovani, enormi zaini sporchi di colore sulle spalle, e scende
Cristoforo, il vuotacantine di Salorno. Porta una borsa di vimini, attraversa i binari e si dirige verso l’edificio
della stazione. Il Semaforo grida:
- Bravo Cristoforo, hai fatto presto ad andare e tornare dal mercato di Bolzano. Si vede che stamani non hai
ancora bevuto un goccio di vino.
- Certo, amico Semaforo, quando c’è da salvare qualcuno Cristoforo non si tira mai indietro.
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Dall’ultima carrozza del treno scende il Commissario Renon con cinque poliziotti. Sono in tuta antisommossa,
con l’elmetto e i fucili. Avanza sul marciapiede in maniera circospetta.
- Ehi, Cristoforo che ci fai alla stazione così presto? E’ la prima volta che non ti vedo brillo. Che cosa hai in
codesta borsa?
- Bistecche, signor Commissario. Nel paese, vicino al duomo, mi hanno fatto svuotare una cantina piena di
vecchie cose e ora sto portando questo regalo ai padroni. E voi, andate alla guerra?
- In questa stazione, come sempre, succedono cose strane. Vedo là nel giardino, la carcassa di un’automobile
coloratissima. È senz’altro l’auto di un sovversivo. La stazione è tutta imbrattata di colori. Ci hanno segnalato
poi che una tigre è scappata dopo l’incidente di ieri sull’autostrada. E’ ferita, molto pericolosa.
- Brr, che brividi. È forse, però, una tigre di carta? Se la trovo, ve la porto a Bolzano.
- Spiritoso. Se non la troviamo, ritorneremo con i cani e altri uomini. La dobbiamo fare fuori prima che si diffonda il terrore nei paesi e nelle montagne.
- È in arrivo al binario numero 2 il treno regionale da Trento. Prosegue per Bolzano. Allontanarsi dalla striscia
gialla.
Scende Gioia, la cercatricedistorie, subito interrogata dal Semaforo.
- Gioia hai sentito le parole del Commissario Renon? Vuole far fuori la tigre. Tornerà con i cani e un esercito di
uomini e per il nostro animale non ci sarà scampo.
- Come sei buffo, caro il mio Semaforo dipinto di bianco e rosso come un pellerossa. Ora dimmi, che possiamo
fare? La facciamo fuggire?
- No, ora è pericoloso e poi è ferita, si deve riprendere. Dobbiamo disorientare il Commissario, fargli credere
che la tigre è lontana, da un’altra parte. Chiama la tua amica di Santa Giuliana, a Vigo di Fassa. Deve dire che
ha visto la tigre, che l’ha assalita e poi è scomparsa nella foresta di Paneveggio.
- D’accordo, è l’idea giusta. La mia amica è una vera attrice. Vedrai che avrà una bella parte insieme a noi, al
Festival della Follia, fra tre mesi.
Roberto Mosi ha pubblicato con Il Foglio, nel 2013: Elisa Baciocchi e il fratello Napoleone - Storie Francesi da Piombino a Parigi - Pag. 135 - Euro 12. “Raggiungiamo il centro di Piombino. Ci dirigiamo verso piazza Verdi, dove inizia il corso cittadino, corso Vittorio Emanuele II. Su un lato della piazza,
sorge isolata una struttura quattrocentesca dell'antico sistema di difesa, chiamata Rivellino, costruita per difendere una delle porte della città, la porta a Terra, inserita a sua volta in una grande torre del Duecento. Da qui
fece il suo ingresso nella città, la Principessa Elisa accompagnata dal consorte, Principe Felice Baciocchi. La
carrozza dei principi passò sotto l'arco trionfale con iscrizioni di saluto, fra le quali il verso virgiliano Iam redit
et Virgo et redeunt Saturna regna. Al momento del passaggio furono sciolte a festa le campane di tutte le chiese
e le postazioni di artiglieria alla Fortezza e ai due porti spararono a salve, a piena carica, facendo tremare nelle
strade, gli edifici tappezzati con i manifesti per i festeggiamenti”.
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A proposito di fiere
di Vincenzo Trama
Così quando lei mi ha lasciato ho ripreso ad andar fra sterpi d’eventi letterari, correndo forte come da ragazzo,
senza preoccuparmi d’aver le stringhe slacciate. Fossi caduto mi sarei rialzato, tutto qui.
Ed è così che, inciampando qua e là, ho conosciuto Mombu.
Ero andato alla fiera del libro di Chiari. Avevo letto di questo evento sui circa 1500 gruppi di scrittori esordienti o aspiranti tali su Facebook: mi ci ero iscritto nel tentativo di condividere una passione e mi ero invece ritrovato sommerso da pubblicità di zoccole russe, metodi di allungamento del pene e pennivendoli auto pubblicati:
quali di queste tre cose mi orripilava di più non lo so ancora dire. In molti comunque si pubblicizzavano condividendo faccine sorridenti e inviti allo stand della propria casa editrice, da cui avrebbero offerto sorrisi, chiacchiere e strette di mano. A chi comprava il loro libro. Agli altri veniva offerto gratuitamente un sibillino vaffanculo a denti stretti. Ma questo, almeno, non lo condividevano nella loro bacheca.
In uno di questi gruppi, chiamato Il viticcio della penna che verga in solitudine avevo fatto la conoscenza di
Marzia Capocchia, deliziosa ragazzetta dai tratti moldavi che mi aveva stregato più per l’occhietto maliardo
che per la prosa, che non avevo letto nemmeno per sbaglio. Difatti, scoprii con orrore, Marzia Capocchia scriveva poesie. E a me le poesie facevano cagare a spruzzo.
Nonostante questo io e Marzia Capocchia ci eravamo dati appuntamento a Chiari. Dopo qualche messaggio e
qualche scambio privato di foto ci era apparso palese che entrambi cercavamo l’uno dall’altro qualcosa: io se
potevo ancora intrattenermi serenamente con una donna, lei se glielo compravo o no, sto schifo di libro di poesie.
E allora io ero andato a Chiari.
Andare a Chiari è percorrere una strada dritta che non porta a nulla: quando arrivi in quel nulla capisci di essere
arrivato a Chiari.
Il nulla della provincia bresciana però è diverso da quello milanese. Da noi quando è sera vai al parchetto, ci
stan le panchine, due tipi che fumano, quello che porta a spasso il cane, quell’altro che sbuffa perché una pantegana gli ha appena rubato la berretta, male che ti va becchi due cinesi che giocano alla mafia e si rincorrono
con le mannaie in mano, ma è tutto sotto la luce del sole (o del lampione, a seconda delle ore).
Il nostro è un nulla sociale e ideologico.
Il nulla di Chiari è invece denso come la nebbia sul naviglio in ottobre. È il silenzio delle case con le serrande
chiuse e gli immigrati che girano sottovoce fra taeg e simboli neonazisti. È un bar con l’insegna degli anni ’70
della Campari e i vecchi a guardar dai vetri se passa per strada qualcosa di insolito. È la stazione buia e silenziosa anche se sono le 21 e ti aspetteresti almeno dei ragazzini a fare un po’ di sano, adolescenziale casino.
Il loro è un nulla civile e politico.
La fiera della microeditoria si svolge da sempre a Villa Mazzotti, una struttura antica tenuta bene, con capitelli,
fontane e brecciolino che profumano di primo novecento.
Alla Villa ci si accede costeggiando un viale parecchio lungo, costellato da grossi alberi che riparano appena
dallo sfrecciare psicotico di macchine, motorini e apecar: nel bresciano si corre come matti per hobby. Comunque nel caso veniate spiaccicate come moscerini tranquilli: sul lato opposto c’è l’ospedale Mellino Mellini. Se
non siete morti fateci un salto e vi curano lì.
Con Marzia Capocchia mi ero dato appuntamento proprio all’ingresso della Villa. Pensavo di sapere come fosse fisicamente, ma avevo sottovalutato i prodigi delle recenti applicazioni per fotocamere che permettono di
snellire fianchi, ingrossare seni, sbiancare denti e diminuire drasticamente l’età.
Così non m’ero accorto che la lungagnona di 40 anni circa, piatta, smunta e con i capelli di stoppa che mi fumava accanto come una ciminiera da mezz’ora fosse lei. Il riconoscimento avvenne nel più banale dei modi:
lei chiamò al mio numero di cellulare ed io risposi. Quando ci accorgemmo che ci stavamo parlando a mezzo
metro di distanza una risata provò a spezzare l’imbarazzo. Ciò che si spezzò realmente però fu solo l’eccitazione di un mese passato a elucubrare porcate notturne con la procace poetessa. Procace un cazzo: un tasso squartato era più seducente di lei.
Decisi così di concentrami il più possibile sulle innumerevoli case editrici presenti alla Fiera. E il pomeriggio
scorse piacevole, Marzia Capocchia a parte che cercava di infilare la sua mano nella mia.
Poi mi imbattei in Mombu: la presentazione dei suoi racconti aveva inizio alle 14 e, vinte le resistenze di Marzia Capocchia che pressava perché andassimo al suo albergo a rotolarci nelle lenzuola, mi accomodai nella
saletta semivuota che ospitava l’evento.
Mi aveva attirato il titolo del suo lavoro. Si chiamava Mi hai rotto i coglioni, stronzo e, leggendo perlomeno la
quarta di copertina, era una feroce invettiva contro il mondo dell’editoria tutta. Mombu, a quanto pareva, aveva
deciso di dar sfogo a tutte le aspre critiche che aveva accumulato nel corso degli anni. Peccato che di questo
suo aspro risentimento ci interessassimo davvero in pochi: in tutto eravamo in quattro, compresa Marzia Capocchia che sonnecchiava sbavante appoggiata mortifera sulla mia spalla.
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L’editore accanto a Mombu guardava quella sconsolata platea come il comandante che osserva il campo di
battaglia: brandelli di resti umani, gemiti sommessi e bava (quella di Marza Capocchia).
Mombu però aveva questa espressione fiera, da rustico bardo incosciente, da cavaliere solitario che regge con
orgoglio la sua daga mortale.
Parlò per 20 minuti, nel silenzio totale.
Cominciò spalando merda sulla recente invasione editoriale dei libri di cucina. Augurò letteralmente a Carlo
Cracco di finire squagliato nell’acido insieme al suo cazzo di scalogno, poi si disse convinto che la P2 di Gelli
comunicava via satellite con le cosche mafiose newyorchesi tramite le ricette di Antonino Cannavacciuolo e
Benedetta Parodi.
Passò poi a maltrattare l’editoria a pagamento, di cui anche Chiari era zuppa. Ribattezzò la Fiera della Microeditoria in Fiera della Merdaeditoria, al che l’assessore alla cultura passando di lì gli chiese come si permetteva e
lui gli rispose di farsi i cazzi suoi, che sennò gli piallava il grugno. Concluse scagliandosi contro i premi letterari, specie quelli più noti. Il Bagutta e il Campiello perché cronologicamente fascisti, il Bancarella perché ogni 5
anni premia gente come Bruno Vespa e Vittorio Sgarbi, il Grinzane Cavour perché è andato letteralmente a
puttane con i soldi dello stato e lo Strega perché com’è possibile premiare lo Stabat mater di Tiziano Scarpa,
su, dai.
L’assessore alla cultura ne ebbe abbastanza e spense l’impianto audio. Mombu non perse l’aplomb e, gridando
il titolo della sua raccolta di racconti, si scagliò con tutti i suoi 125 chili contro l’irrispettoso politicante di provincia.
Fu in quel momento che decisi che io il suo libro lo avrei comprato a scatola chiusa.
L’editore telò via portandosi dietro il suo scarno banchetto, l’assessore gridò di essere stato vittima di uno stupro e le sirene della polizia non tardarono a farsi sentire.
Smollai Marzia Capocchia lì sul posto e fui subito accanto a Mombu.
- Secondo me tira una brutta aria, è meglio se filiamo via.
Lui mi squadrò accigliato.
- Sei culo, per caso?
- No.
- Allora è ok. Le autorità giudiziarie mi fanno schifo.
Rombammo sulla mia macchina, fuggiaschi come Bonnot e Platano, rifugiandoci nel primo pub della zona.
Dopo la prima birra Mombu mi rivolse finalmente parola.
- Ma tu - mi disse - l’hai letto il mio libro?
- No - risposi candido io.
- Bravo - fece lui - fa cagare.
Ed è così che ho cominciato a frequentarlo.
Di Marzia Capocchia non ho più saputo niente, se non che quella stessa notte partecipò a un’orgia massonica
con 17 editori di case editrici a pagamento, 3 carpentieri bresciani e una nota giornalista del quotidiano locale.
Adesso è finalista al premio nazionale Viareggio con un libro di ricette vegane. Mi sa che Mombu ha proprio
ragione.
Vincenzo Trama, nato nel 1981, contemporaneamente alla festa dei babbi, lo è pur senza aver figli. Autore di
due raccolte di racconti per il Foglio Letterario e di un saggio sul Black metal negli anni '90, è attualmente alle
prese con la stesura di due romanzi di formazione e di stampo stilnovistico. Quello che avete letto è il capitolo
cinque di uno dei due romanzi.
Quando ci sono dei ragazzi in un casolare in vacanza è molto probabile che si tratti di un film horror di serie Z (e altri racconti) —
di Vincenzo Trama - Pag.254 – Euro 15,00 – ISBN 978 – 88 – 7606 – 285 - 8
Tarocco il cartomante is still alive. È ancora nel bar di Mario, al suo solito posto, il tavolo più in fondo, perso nei fumi delle sue Camel,
lieto di narrarvi le gesta paraboliche degli eroi di periferia, novelli Prometei che anziché portare il fuoco sacro della ragione vi donano
l’amaro amore della follia, della degenerazione, della insanità mentale. Skater e b-boy melanconici, tamarroni figli di papi con Suv al seguito, patinate ragazzine ad uso e consumo del più ricco, l’eroe dei libri game, Tano il meccanico, Strudel il poeta tossico, panchine e nebbia, caffè e birra, Mario il barista, il vecchio col bianchino, voci narranti sprezzanti, critica sovversiva e anarchica alla società moderna,
deliri contemporanei, sano splatter da film Troma, humour nero e le solite quattro cazzate da bar. Questo e quello che troverete in Quando
ci sono dei ragazzi in un casolare in vacanza è molto probabile che si tratti di un film horror di serie z e altri racconti.
Black Metal – Il sangue nero di Satana - di Vincenzo Trama - Pag. 390 -Euro 18 - ISBN 9788876064081
Ma in fondo cos’era l’Helvete? Di certo non un negozio di dischi. O almeno non solo. Euronymous voleva fare di più: ecco perche il suo
seminterrato divenne il luogo in cui ragazzi poco più che maggiorenni cominciarono a scrivere la storia di questo genere, il black metal.
Ragazzi i cui nomi erano It, All, Fenriz, Nocturno Culto, Hellhammer, Dead, Necrobutcher, Demonaz, Abbath, Prime Evil, Faust, Samoth,
Ihsahn, Burzum. Ragazzi che passarono presto dalla musica ad altro. Ragazzi che diedero fuoco a chiese, seminarono inquietudine, terrorizzarono i media. Ragazzi che parlavano di Satana, inneggiando ad esso. Ragazzi che uccisero e di cui anche lo stesso Euronymous fu
vittima. Il black metal che nacque all’interno dell’ Helvete non era solo figlio di un’idea sorta in un negozio di dischi. O almeno non solo.
Vncenzo Trama nasce nel 1981. Ritiene l’arte libera espressione della creatività umana, ecco perché detesta i bigotti, i moralisti e tutti
coloro che si scandalizzano di fronte all’eccesso. Se siete tra questi fuori dalle balle e andate al Multisala
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Madame
di Simone Giusti
Safiyah ricordava ancora il sole caldo di Gombe. In Nigeria il sole è sempre a picco sopra il capo, le giornate
durano tanto quanto le notti, sempre. E poi non ci sono stagioni. Safiyah era una ragazzina quando gli uomini
armati di machete l’avevano rapita nel villaggio dove abitava. Aveva visto uno di loro contrattare con suo padre, sua madre in disparte che guardava senza volerla fissare. No. Non aveva mai voluto credere che i genitori
l’avessero venduta. Era ancora una ragazzina quando l’avevano portata nel capanno e sulla stuoia stracciata in
tre l’avevano violentata. Quello era stato il suo approccio col concetto d’amore. Mesi di segregazione in quella
catapecchia abbandonata a Lagos. Pareti di cemento sgretolato e attorno la giungla a far capolino dai grandi
finestroni senza vetri. Lontano, anche se non lo vedeva, sapeva che c’era il mare. Nella sua mente si immaginava la foto che aveva visto una volta di quella lunga distesa blu. L’organizzazione che l’aveva rapita, o meglio,
comprata, era “Le Asce Nere”. Un’organizzazione umanitaria anche se ormai era appurato che fosse la potente
mafia nigeriana. Ma allora lei non lo sapeva. Durante il rito voodoo a cui la sottoposero, di notte, tra i fuochi
accesi, la stesero per terra, le lanciarono la cenere addosso, una donna nuda con le mammelle pendule le tagliò i
peli pubici e li consegnò al capo. Lo chiamavano “pastore”. E mentre i calcagni battevano per terra nel ritmo
indiavolato, gli uomini attorno, con le maschere sul volto, la violentarono ancora, e ancora. Le dissero che se si
fosse ribellata, anche solo col pensiero, i demoni sarebbero venuti a prendersela e succhiandole l’anima l’avrebbero trasformata in un non-morto. E la sua famiglia sarebbe stata sterminata a colpi di machete.
Il mare lo vide attraverso l’oblò di un mercantile che sapeva di ruggine e olio bruciato. La distesa blu era arrivata dopo il viaggio nel deserto, giallo che accecava, e dopo le sevizie subite dagli aguzzini prima di potersi
imbarcare. L’Italia, il paese della speranza, la terra dove tutti stavano bene, lei la conobbe solo come le quattro
pareti di un appartamento dove fu picchiata e violentata, ancora. E dove le fu insegnato l’uso della droga per
tenerla legata come una catena invisibile al suo sfruttatore. Solo dopo alcune settimane conobbe l’Italia di fuori, la conobbe coi colori sbiaditi della notte, e gialli dei lampioni sui marciapiedi, e al neon dei distributori di
benzina, e screziati dei fuochi accesi lungo la strada. Colori di tutti quei luoghi dove gli uomini che si approfittavano di lei la portavano a svolgere la professione. Lei faceva la puttana.
Ogni uomo che aveva, lei semplicemente aspettava. Imparò a staccare la mente, a trascendere, e a ripensare al
sole d’Africa e a quando era stata ragazzina. Ma ogni volta le tornava alla mente quella scena, dell’uomo che
contrattava dollari americani con la madre. E allora piangeva. Qualche cliente si impietosiva, qualcuno la
schiaffeggiava, qualcuno se ne infischiava e portava a conclusione quello per cui aveva pagato e che pretendeva di avere. Rimase incinta due volte. La prima volta che le strapparono il figlio, pianse per settimane. La seconda volta non ebbe neanche la forza per negare. Che fine avessero fatto i figli, non lo volle sapere. Tra le
altre segregate con lei c’era una ragazza che faceva da più tempo la professione. Diceva che i marmocchi venivano usati per riti voodoo propiziatori e di potere. Diceva che gli venivano tagliate braccia, gambe e testa, e
che i torsi venissero gettati nei corsi d’acqua. Il resto spariva. Un’altra disse che gli espiantavano gli organi e li
vendevano ai facoltosi italiani ed europei. Safiyah non immaginava neanche il concetto dell’adozione. Lei si
era chiusa nell’apatia e neanche parlava. Le dissero che il suo debito per il viaggio in Italia era di sessantamila
euro. Avrebbe dovuto ripagarli col suo mestiere. Tutto questo era accaduto molti anni prima, eppure Safiyah lo
ricordava ancora. Safiyah adesso era ingrassata, aveva qualche ruga sul volto, assieme alle cicatrici. Ricordava
tutto molto bene, come un album fotografico fatto scorrere rapidamente, come tante diapositive, dai colori vivi
africani, verdi come quelli di Gombe dove era nata, fino a quelli sbiaditi del paese che adesso la sfruttava. Tutta
la sua vita le corse davanti agli occhi mentre pagava duemila euro sul palmo all’uomo delle Asce Nere per
comprare una ragazzina, una ragazzina come lo era stato lei molti anni prima, in quella stanza dalle pareti
sbrecciate, la lampadina che ondeggiava dal soffitto facendo muovere le ombre come tanti fantasmi neri. Adesso lei si era riscattata, adesso lei era una mami, o una madame, come la chiamavano. Adesso lei aveva smesso
di soffrire e poteva mettere a frutto la sua esperienza per rimpinguare il suo misero patrimonio, e forse tornare
in Africa, e forse tornare a essere libera. L’uomo delle Asce Nere contò i soldi, poi sogghignando le dette il
capo di una corda. All’altra cima terminava con un nodo stretto attorno al collo della ragazzina. Era nera come
la pece, aveva il labbro spaccato, gli occhi arrossati e sgranati di paura, tremava. Indossava solo una maglietta
logora fino a metà cosce. Non la smetteva di sfregare insieme i piedi nudi, come se volesse trovare un tocco
amico, che non c’era. Safiyah conosceva bene quella faccia, era la stessa che aveva indossato lei anni prima.
Era cosa certa che l’avessero già violentata, seviziata, e ancora era niente rispetto a quello che l’aspettava. Poteva venderla, sfruttarla insieme alle altre, e riscattare il suo passato, o poteva rompere l’anello come un colpo
di maglio che spezza la catena e interrompere il circolo vizioso che si era creato. E se lei aveva sofferto, non
per questo altre dovevano soffrire. Poteva dare a lei la vita che non aveva avuto. Poteva.
Strattonò la corda e se la trascinò dietro.
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Charlie
di Nicola Pèra
Charlie è qui intorno, lo sento muoversi. E se io lo sento anche lui sa che sono qui.
Non so come faccia, sembra che avverta nell’aria la nostra presenza, come fanno i serpenti con la lingua. Lo
dicono tutti.
È arrivato a piedi. Avevo capito che qualcuno camminava velocemente sul sentiero alle mie spalle e mi sono
buttato in mezzo al fogliame. Quando è stato a pochi metri dal mio nascondiglio si è fermato anche lui per un
attimo, prima di muoversi di nuovo in modo più cauto, provocando uno scricchiolio lento delle foglie, seccate
dal calore martellante di questo paese.
Mi hanno detto al campo che, se voglio cavarmela, devo restare immobile. Qualsiasi cosa succeda intorno, devo restare immobile e aspettare.
Una di quelle cose che, quando le senti, ti viene da sorridere. Le ascolti perché lo devi fare, ma dentro pensi che
non ti succederà. Non a te. Perché non te ne andrai mai a spasso per la jungla da solo e, quindi, in qualche modo, non ti riguardano quelle raccomandazioni.
Infatti non mi hanno mai riguardato. Sono al campo da molti mesi e, in questo periodo, ho pensato solo a rendermi la vita meno difficile, non certo a mettermi nei casini.
Poi, forse, ti rilassi. Se non succede nulla inizi a pensare che non succederà mai nulla. E quando entri in questo
meccanismo, cominci a fare delle cazzate come questa e trascuri le raccomandazioni. Solo per correre dietro a
una delle infermiere del campo vicino.
Che poi io non ho mai ammazzato nessuno. Il mio lavoro è un altro e l'idea di dovere iniziare ad ammazzare
oggi, mi terrorizza. Lo so che in guerra può succedere, Cristo Santo, ma non l'ho voluta io questa guerra! Mi ci
hanno mandato loro.
Calmo, stai calmo. Il panico è il tuo nemico. Non è successo nulla fino a oggi e non succederà nulla neanche
oggi. Forse lui non è armato, forse non mi ha sentito. Oppure non si fida di venirmi a cercare. Devi solo stare
qui, tranquillo, appoggiato a un albero con il cuore in gola e la pistola in mano e lui se ne va. Non può sentirlo
il tuo cuore, al massimo la tua brillantina.
Quando lo penso mi metto le mani in testa e le annuso. L'odore è forte, troppo forte. Merda.
Giuro che non la metto più. E giuro anche di comportarmi meglio con Francine. Lei mi ama davvero, non se lo
merita uno come me.
Le gocce di sudore mi scendono dalla fronte, entrano negli occhi e mi danno un gusto salato in bocca, mentre
mi sforzo di respirare più piano possibile. Poi fermo anche il respiro e inghiotto la saliva con lentezza, per non
fare rumore.
È qui, lo sento. È intorno a me, da qualche parte, avverto un alito vicino. Si è fermato anche lui, e aspetta. Forse
non ha capito dove sono esattamente, ma è qui.
Io comunque non mi muovo, resto con la schiena appoggiata a questo tronco e la pistola stretta in pugno. E il
primo che si mostra gli faccio saltare la testa.
Poi una figura compare tra il fogliame, davanti a me, scopre i denti e il mio dito, sul grilletto, si contrae. Da
solo.
Cazzo, era Francine.
Acque sporche di Nicola Pèra. Euro 10. Un tascabile in uscita. “Cosa accade nella provincia Toscana? Più o
meno quello che succede in tutte le periferie del mondo. Al centro della corrente la vita scorre, ma ai lati si
raccoglie in mulinelli che ristagnano pigramente lungo le rive e finiscono per riempirsi di avanzi e di foglie.
Come nelle 13 storie, in bilico tra follia e rassegnazione, che si occupano di queste Acque Sporche”.
Nicola Pèra, nato a Livorno nel 1961, dopo il diploma all’Accademia di Belle Arti di Firenze, ha studiato informatica e web design e collaborato con la casa editrice Editions Mille et Une Nuits. Ha ripreso a scrivere da un
paio d’anni, frequentando il laboratorio di scrittura QWERTY a Livorno e ha pubblicato in Galileo vs Modì
(2013 edizioni Historica), RisoMare (2013 edizioni Erasmo) e Scritto Misto (2014 edizioni Erasmo). Nel 2014
ha vinto il concorso ObiettivoLibro e pubblicato con Edizioni SensoInverso il suo primo romanzo (La fine del
tempo).
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Romolo, l’autista del ministro
di Ernesto Gastaldi
Roma dorme. La calura del meriggio brucia i ruderi milionari, calcinati dal sole. È l’ora in cui l’aria sembra
stagnare immobile sui ricordi della civiltà passata. Forse è il flato dei cesari, quello dei milioni di cives. Forse è
l’aria pregna del sudore delle legioni quella che pesa nostalgica sulle colonne smozzicate dei Fori. E’ un cimitero di ricordi. Come un formicaio distrutto, con i corridoi e le celle scoperchiate, in quest’ora muta Roma mostra le aride ferite che, barbari scomparsi le hanno inflitto lungo tutte le ere. E come in un formicaio seccato dal
sole si aggirano fra gli inutili resti instancabili e stupidi coleotteri. La luce penetrante dell’astro scalda pavimenti costruiti per essere sfiorati dai passi segreti delle vestali, pietre calcate dal piede vittorioso del gladiatore,
consunte dal sandalo dei sacerdoti. Sfacciatamente illumina muri di celle eternamente buie, arti marmorei di dei
caduti in disgrazia. Come coleotteri grattano fra i ruderi sudati anglosassoni. Gambe arrossate dal sole, fazzoletti sui riccioli biondi, scomposti. E piedi. Enormi piedi di barbari inciviliti che riportano a Roma un po’ della
sua civiltà ruminata per dieci secoli tra le nebbie del nord. Per i romani di oggi è l’ora sacra quella della pennichella. Possono ben dormire, non avere fretta, in questa città dove il tempo si ferma sulle piazze e nelle strade.
Dove si respira eternità.
MANCANO VENTI MINUTI ALLA FINE
Io sono Romolo, l’autista di Sua Eccellenza il Ministro degli Affari Esteri. Sono solo al mondo e vecchio. Non
mi attirano più né il vino né le donne. II mio animo è placido e inoffensivo come una pozza d’acqua ferma. Mi
sembra di essere sempre stato così: solo, placido e inoffensivo. Roma è la mia sola amica. Le voglio bene anche quando, come adesso, il Ministro mi manda in giro all’ora della pennichella. Roma sbadiglia con me: sola,
placida
e inoffensiva. Non m’interessano le cose degli uomini, non mi piacciono le loro lotte, non capisco i loro vizi. Il
Ministro vuole che gli porti la moglie e la figlia davanti alla porta del ministero. Ci vuole tutta 1’autorità del
mio berretto con la greca per indurle a vestirsi e venire con me. La moglie del Ministro è nervosa per l’assurda
chiamata del marito. La figlia brontola perché aveva un appuntamento col suo ragazzo. Io non so niente e non
posso rispondere alle loro domande. Io sono Romolo, l’autista del Ministro degli Affari Esteri Primo Ministro
degli Affari Propri.
MANCANO QUINDICI MINUTI ALLA FINE
L'ampio piazzale, accecato dal sole, sembra una grande tovaglia candida. Sopra, una grossa mosca nera: la
Mercedes del Ministro. Dentro alla Mercedes un uomo e due donne sudate. Romolo suda in pace con se stesso
e il mondo, le due donne sudano lottando con specchietti e eyeliner contro il liquefarsi dei loro volti falsi. Un’altra mosca nera corre rapida sulla tovaglia, affiancandosi alla Mercedes. Frena con un lamentoso stridio e lascia nell’aria puzza di gomma bruciata. Dalla nuova auto scendono tre signori anziani dall’aria stravolta. Gridano aRomolo di accompagnarli nell’ufficio del Ministro. La moglie e la figlia del Ministro, lanciano le loro domande stridule e scortesi, ma i tre non rispondono. Afferrano Romolo e se ne vanno verso il grande palazzo.
Nei loro occhi c’è un riflesso allucinato. Io, Romolo, mi lascio spingere e faccio strada ai tre nel labirinto del
Ministero. Ognuno di loro ha un tesserino azzurro e nessuno ci ferma. Qualche usciere sonnolento ci lancia
un’occhiata apatica e poi torna al suo oblio. Il Ministro è in piedi davanti a un telefono rosso posato sul grande
tavolo intorno a cui siedono altri uomini. Nessuno riesce a staccare gli occhi dal telefono. Sudano e le gocce di
sudore colano dentro i colletti della camicie. Il Ministro alza il volto all’ingresso mio e dei signori dall’incredibile fretta. Scuote il capo e torna a fissare il telefono. I tre che ho guidato restano rigidi ad attendere. Anche i
loro occhi si fermano sul telefono. Tutta la stanza, tutto l’universo sembra aver trovato il suo centro in quel
telefono rosso. Il Ministro guarda l’ora e sospira. Anche gli altri tre guardano i loro orologi. Il mio fa le due e
tredici minuti.
MANCANO DODICI MINUTI ALLA FINE
Parlano fra loro di cose che capisco solo a tratti. Dicono che l’ultimatum è stato trasmesso da Dubai ma che il
governo dell’emirato sostiene di non saperne nulla. L’ultimatum è sconvolgente: le grandi metropoli dell’Occidente sono state minate con bombe atomiche da cento megatoni. Le bombe sono state portate e montate un po’
alla volta e ora basta un impulso radio per innescarle. Inutili i missili antimissili, inutili i satelliti, inutile lo scudo stellare . Il dictat è chiaro: disarmo mondiale completo e la legge della sharia in tutto il mondo. La scelta è
caduta su Roma. La distruzione di Roma avrà uno scopo dimostrativo come Hiroshima. A meno che Russia,
America, Francia, India, Pakistan, Israele e tutte le altre nazioni che hanno armi nucleari non disarmino. L’ora
zero per Roma è 2,25 PM, ossia le quattordici e venticinque di oggi.
MANCANO DIECI MINUTI ALLA FINE
Non c’è stato tempo neppure per riunire le Camere. Il presidente americano e gli altri governanti si parlano da
due ore. Il destino di Roma è nelle loro mani. Qui nessuno sa niente. Ora capisco perché il Ministro mi ha fatto
portare qui sua moglie e sua figlia. I romani vivranno l’ultimo secondo della loro storia bimillenaria senza sapere che è l’ultimo, sorpresi e cancellati nei pensieri e nei gesti più quotidiani. Non c’è altra soluzione: un’eva21
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cuazione. della città è impossibile nei pochi minuti che mancano allo scoppio. Io sono solo al mondo e ho vissuto, ma mi dispiace per Roma, tanto. I tre che ho portato dal Ministro devono essere scienziati perché adesso
stanno parlando di megatoni e di strappo nel continuum spaziotemporale. Mi pare di capire che al posto di Roma ci sarà un buco radioattivo profondo trecento metri di largo quindici chilometri. Loro continuano a parlare e
a sudare. Io mi avvicino alla finestra e guardo fuori: voglio godermi questo spicchio di panorama col Tevere
che cola biondastro sotto i ponti. Chissà se sparirà anche lui. Voglio guardare tutto bene, ficcare tutto nel cervello, anche se sarà bruciato anch’esso con tutto il resto. Suona il telefono rosso.
MANCANO OTTO MINUTI ALLA FINE
Nessuno si muove, poi il Ministro allunga una mano sul ricevitore e lo alza. Con voce tremante ammette: Hello…. - Ascolta quello che gli dicono dall’altra parte del filo. Pochi secondi. Gli occhi gli si riempiono di
lacrime. Molla il ricevitore e grida : -Vogliono vedere se è un bluff! Scoppierà! Viaaa!- Tutti si danno alla fuga
verso gli ascensori e le scale. Il Ministro mi afferra per un braccio. Mi mette sotto il naso il suo orologio: - Otto
minuti -sibila- Otto minuti per salvare la pelle! - Mi spinge brutalmente verso la porta. Attraversiamo il corridoio correndo e ci precipitiamo lungo le scale fino di sfociare nel piazzale assolato. Un usciere cerca di fermarci, ma il Ministro tira fuori una pistola e il poveretto spalanca gli occhi più per l’assurdità del gesto di Sua Eccellenza che per la paura. Saltiamo sulla macchina. Le due donne l’aggrediscono con cento voci. II Ministro
zittisce la figlia con uno schiaffo e la pistola che tiene in pugno fa tacere la moglie: il suo terrore è contagioso :
-Via! - mi urla. -Per dove?- chiedo. -Dove vuoi. Vai via da Roma!- Innesto la marcia e parto a cento all’ora.
Adesso la moglie del Ministro piange. La figlia supplica il padre, rigido come una statua, ripetendo sempre la
stessa inutile domanda: -Perché? - Col clacson premuto imbocco 1’Aurelia a centottanta all’ora. San Pietro è
già lontano. I pochi vigili fermano il traffico per darmi via libera.
MANCANO SEI MINUTI ALLA FINE
Verde, giallo, rosso. Avanti, avanti, avanti. Niente ha più senso. Quelli che vedo dai finestrini non sono persone, sono spettri di morti. Anche noi siamo spettri. Vorrei gridare a quella donna con un bambino in braccia di
abbracciarlo forte. E a quel meccanico di smetterla di affannarsi. E a quel mendicante di non chiedere più. Orologi. Dappertutto orologi. Si fermeranno tutti alla stessa ora. Una vecchia attraversa la strada. Non faccio in
tempo a scansarla. Il suo corpo vola a una decina di metri di distanza e il suo sangue mi schizza sul parabrezza.
Il Ministro mi urla nelle orecchie e mi preme il revolver contro la nuca:-Non rallentare! Via! Via! Non hai ucciso nessuno! aveva solo quattro minuti di vita… quattro maledetti minuti! Via!- Ho ucciso una donna. Io che
non mangio carne perché voglio bene alle bestie. Eppure sono calmo ma sento le guance bagnate di pianto.
Continuo la fuga pazza urlando dal finestrino a tutti quelli che passano:- Siete tutti morti! Siete tutti morti!!!Qualcuno mi fa le corna. Qualcuno ride. Accelero ma il fungo ci prenderà lo stesso. E sento che è meglio così,
non voglio sopravvivere a Roma. Cinque milioni di gradi han detto, non ce ne accorgeremo neppure. Un garzone su un triciclo mi urla di andare a morire ammazzato. E quel che sto facendo ma l’urlo così romano mi accende una speranza: è se fosse tutto un bluff?
MANCANO TRE MINUTI ALLA FINE
Cominciano i campi. Guido sempre alla massima velocità rischiando cento volte di sbattere contro le auto che
mi incrociano. Dei contadini lavorano. Piantano qualcosa. Grido loro che non è più tempo di semi. Non capiscono, ma non sarà mai più tempo di semi. Le due donne frignano e piangono. Sua Eccellenza ha gli occhi iniettati di sangue. Fissa l’orologio e poi si volge indietro, verso Roma che si allontana. E’ diventato un altro: un
uomo disperato, spaventato che vuole solo salvare la pelle.
MANCANO DUE MINUTI ALLA FINE
Tutto sta per finire. La mia Roma, io, tutto ciò che conosco. Tutto. Chissà se in Campidoglio il Marcaurelio sta
diventando d’oro? Vorrei essere lì per controllare l’antica profezia. E poi mi piacerebbe morire in Campidoglio.
Ma non c’è più tempo. Non c’è più tempo per niente.
MANCA UN MINUTO ALLA FINE
La palina stradale dice che siamo al settimo chilometro dell’Aurelia. Siamo sull’orlo del buco. Il Ministro trema enon stacca più gli occhi dalla lancetta dei secondi. Moglie e figlia si aggrappano a lui terrorizzate. Sfioro il
pulsante di accensione della radio: c’è musica. Poi una voce invita a comprare un sapone che lava più bianco
del bianco.
MANCANO DIECI SECONDI ALLA FINE
Un ultimo sorpasso e imbocco in piena velocità un tratto rettilineo. Sono le 14,25. La terra vibra e sussulta. La
voce della radio muore con uno sfrigolio orribile. Il ministro bestemmia. le due donne urlano. Il manto stradale
si raggrinzisce e si solleva. Una luce accecante annulla l’universo. Freno, istintivamente e sento l’auto che vola
via.
È LA FINE
Per una frazione d’attimo non esisto più. Ma ora sono di nuovo vivo, credo. Sono in piedi al centro di un forno
crematorio, il cielo è nero e c’è cenere ovunque. Poi il cielo sembra staccarsi dalla cenere e alzarsi, torna la luce
del sole. Mi guardo: sono nudo ma illeso. La Mercedes è scomparsa. Anche la strada è scomparsa. I contadini
sono scomparsi e non vedo traccia del Ministro e delle sue donne. Sono al centro di una grande area bruciata e
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l’orizzonte è chiuso da alcune colline. Ma c’è qualcuno al somme delle colline che mi spia. Faccio un segno di
richiamo con un braccio e un gruppetto di uomini si muove verso di me. Gente strana però. L’uomo che li capeggia ha una spada in pugno e una pelle di pecora intorno ai fianchi. Si avvicina guardandomi negli occhi, non
pare sorpreso. Anche i suoi compagni, pur tenendosi indietro, sembrano tranquilli. Sono tutti armati di bastoni
e vestiti con pelli d’animale. Se sono i sopravvissuti si sono riorganizzati presto. Il capo si ferma a due passi da
me e mi chiede: - Signum ex Albalonga vidimus venimusque. Hic meam urbem condeam. Quisquis es?- -Ma
come parli, sembri il mio parroco. Io sono Romolo, l’autista del ministro. -Autista? - ripete come chi non ha
capito la parola. -Sì, guido… - mimo il gesto di chi guida la macchina. Non sembra capire. -Ducis?- chiede. Proprio duce no, ti ho detto autista, sono l’autista del ministro.- L’uomo alza la spada, ostile, e dice con voce
dura: -Hic dux sum. Impero. - Indica tutta l’area bruciata con un ampio movimento del braccio: -Hic meam
urbem condeam, cui nomen erit Rema universumque tenebit. - Ho paura di cominciare a capire. Trattengo il
fiato e chiudo gli occhi. Ma quando li riapro l’uomo seminudo e con la spada è sempre lì. - Rema? Hai detto
“nomen Rema” e “dominerà il mondo”? No, ah Remo, io la so ‘sta storia… guarda che non finisce come dici
tu…- Guardo Remo con paura.
Ormai ho capito ma mi rifiuto di crederci. Io dovrò ammazzare quell’uomo! Prima che possa cercare di fuggire,
mi agguantano e mi aggiogano a un rozzo aratro di legno costringendomi a tirarlo per tracciare il solco della
futura città. Di tanto in tanto il capo grida: -Porta! – e gli altri alzano il vomere interrompendo il solco. Nessuno
ascolta il mio lamento. Mi bastonano, obbligandomi a tirare l’aratro. Sono sporco di cenere e bagnato di pianto
e di sudore. Il perimetro è tracciato, su e giù per sette colli, sotto un sole che accende bagliori dalla cenere calda. Remo si avvicina con la spada in pugno e la alza per chiedere la benedizione degli dei a cui vuole sacrificarmi in onore di Rema. Mi si lancia addosso con la spada sguainata per sventrarmi. Istintivamente scarto sulla
destra. Remo, sbilanciato, perde l’equilibrio e finisce sulla lama del vomere. È suo il sangue che cola copioso
nel solco appena tracciato. I pastori si buttano a terra avanti a me. Gli dei mi hanno scelto. Alzo il mio volto al
sole, facile profeta: -Si chiamerà Roma e dominerà il mondo.- I pastori, proni, sussurrano: - Hic meam urbem
condeam, cui nomen erit Roma universumque tenebit. - Mi adorano. Io, Romolo, il semidio.
Il lodo Alfa di Ernesto Gastaldi—Euro 10 - pag. 100 - ISBN 9788876062117
Illustrazioni di copertina e vignette interne a cura di Marco Bamba Zorzan. Libro satirico,
scritto grande e con figure. Il racconto grottesco di quattro impuniti con la licenza di uccidere nella chiassosa Repubblica di Bananas si snoda con improbabili colpi di scena, dando vita
a personaggi fantastici che mai potrebbero calpestare il sacro suolo d’Italia. Se qualche malpensante dovesse malignare su alcune vaghe somiglianze con la realtà nel nostro Paese, non
dategli ascolto: si tratta certamente di comunisti o di magistrati, gente antropologicamente
diversa dalla razza umana. Lodo Alfa non e satira politica! È un’epopea western moderna,
con i grandi eroi del nostro tempo. Sergio Leone nel film Il buono, il brutto, il cattivo fece
un triello, ma col Lodo Alfa siamo al quadriello: buoni non ce ne sono, ma brutti e cattivi si
sprecano! Continuando coi titoli del grande Sergio, più che Il mio nome è nessuno, che confonde troppo perché si attaglia a tutti i politici di destra e di sinistra, andrebbe bene Un genio, due compari e un pollo! Ma chi e il genio? C’e del thriller nel western moderno del
Lodo Alfa! Libro alla portata di qualsiasi elettore perche scritto grosso e con figure. Quattro
impuniti impunibili si aggirano per la Repubblica di Bananas. Possono commettere qualsiasi
crimine. Non sono processabili. Hanno quindi licenza di uccidere. La domanda non è se la
useranno, ma come e quando la useranno? Lodo Alfa azzarda un’ipotesi travolgente.
Ernesto Gastaldi è uno sceneggiatore che ha scritto più di cento film, autore anche di romanzi gialli e di fantascienza. Ha scritto copioni di ogni genere, dal brillante al western: da
La pupa del Gangster con Sofia Loren e Marcello Mastroianni al film di Sergio Leone diretto da Tonino Valerii Il mio nome è nessuno, con Henry Fonda e Terence Hill. Laureato in
Economia, diplomato in regia al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma, ha fatto il
produttore realizzando fra gli altri il film cult LIBIDO in cui esordirono Giancarlo Giannini
e la bella Mara Maryl, diventata poi la compagna di tutta la sua vita. Il Foglio Letterario sta
pubblicando le sue sceneggiature nella collana La Cineteca di Caino, cominciando da I giorni dell’ira e Il mio nome è nessuno.
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The Unemployed Comic Strip - di Samuele De Marchi
Pagine: 82, b/n - Euro 12 - Formato: Comic Book 24X17
The Unemployed è la prima esilarante comic strip di Samuele De Marchi. Le storie ruotano
intorno a Sam e al suo coinquilino, lo scarabeo Yoko. Alla perenne ricerca di un impiego
come i suoi amici, Sam vive nel limbo a cui sono condannati i trentenni di oggi, troppo
“vecchi” per fare ancora parte del mercato, del mondo del lavoro e per vivere con i genitori e
troppo “giovani” per farsi una famiglia, guadagnare l’indipendenza, avere prospettive chiare
per il futuro. Surreale, volutamente sopra le righe e con riferimenti al mondo del fumetto
americano. The Unemployed parla di tutto e niente allo stesso tempo, prendendosi gioco della natura umana con cinico umorismo. Il progetto è nato a novembre 2013 ma ha già ottenuto consensi e riconoscimenti ed e’seguito da un numero di lettori in costante crescita. Attualmente e’ in fase di realizzazione la serie animata ispirata alla strip.
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Ma perché non mi crede nessuno?
di Gianluca Morozzi
Commissario, glielo giuro: è andata così, proprio come le ho raccontato. Perché avrei dovuto ucciderla? Io la
amavo. Va bene, aveva le sue manie…
Mi vede, no? Non sono proprio un fuscello. Anzi. E lei, la povera Caterina, pesava cinquanta chili. Per cui i
primi tempi, nell’intimità, cercavo di usare dei riguardi, di non schiacciarla. Invece no: lei voleva proprio che le
stessi sopra, nella posizione - mi scusi - del missionario, e che le facessi sentire tutto il mio peso.
Il sesso le piaceva solo se era accompagnato da un senso di soffocamento, vai a capire perché. E allora lo facevamo a quel modo, io sopra, lei sotto. Ma dopo qualche mese, ahimè, non era più stato sufficiente. Allora era
iniziata la storia della sciarpa.
Il letto era proprio sotto la finestra dell’abbaino. Era piuttosto romantica come collocazione, perché dopo potevamo guardare la luna, o le stelle, o la pioggia. C’era un maniglione di metallo per aprirla manualmente, e a
quel maniglione avevamo iniziato a legare una sciarpa di seta. Fissavamo un capo alla finestra dell’abbaino, e
l’altro lo stringevo intorno al collo di Caterina in modo che, sdraiandosi, la sciarpa stringesse un poco. Non
tanto da farle male, ma quanto bastava a procurarle un senso di soffocamento ulteriore. Gli effetti, glielo garantisco, erano strepitosi.
Il problema era il cd. Nel suo rituale, Caterina doveva avere in sottofondo sempre la stessa musica per potersi
abbandonare nel buio: My Sweet Prince dei Placebo, Angie dei Verdena, Goodbye degli Archive, Quando passa lei di Paolo Benvegnù, Labbra blu dei Diaframma cantata da Cristina Donà…
Il problema era quella dannata canzone degli Atoms for Peace. Before Your Very Eyes. A lei piaceva. A me
no. Cercavo sempre di finire prima di arrivare a quel punto del cd, perché la voce di Thom Yorke, a me, fa insorgere un desiderio di morte. Che non favorisce, come dire, la qualità della prestazione.
Allora: eravamo nella solita situazione di sempre, io sopra di lei, la sciarpa legata all’abbaino, la musica, la luce
spenta. Solo che le cose, be’, andavano più lente del solito. E quella maledetta canzone, lo sapevo, stava arrivando. L’odiata voce sarebbe calata sul mio desiderio come una doccia gelata, mozzandolo e lasciando Caterina insoddisfatta e delusa.
Poi avevo avuto un’idea: il telecomando dello stereo era lì, accanto al letto, sul comodino. Bastava premere
skip e saltare avanti di un pezzo…
Avevo allungato la mano un po’ alla cieca, cercando i tasti al tatto.
Purtroppo, sul comodino c’erano due telecomandi. L’altro era quello che apriva a distanza l’abbaino.
No, non mi ero accorto di niente: l’avevo sentita dibattersi, sì, ma credevo che fossero le convulsioni dell’orgasmo. Col buio e la testa affondata nel cuscino non avevo notato quella finestra che si apriva inesorabilmente e
tendeva la sciarpa…
Glielo giuro, commissario. È andata così. Caterina è morta soffocata per via di un tragico incidente.
Ma perché, perché non mi crede nessuno?
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La ranocchia vanitosa
di Aldo Zelli
(dal n. 9 del Foglio Letterario storico - Novembre 2000)
Un giorno la ranocchia Cra-Cra, che abitava in uno stagno non lontano dal paese di Passaperlorto, ed era stanca di portare sempre la solita pelle verde a macchie giallastre, pensò di
farsi un bel vestito nuovo. Senza perdere tempo, si recò da una talpa, merciaia di professione
e acquistò due palmi di lanetta azzurra, sette centimetri di velluto rosso e quattro dita di pelliccia di bruco. Il prezzo era ragionevole: dodici larve di maggiolino e un guscio di noce pieno di miele selvatico. Tutta soddisfatta la ranocchia Cra-Cra andò dalla signora Riccia, la
sarta più rinomata dei dintorni. Questa le prese le misure e, per la piccola somma di sette larve di cavolaia, cinque corbezzoli e sette fragoline di bosco, le cucì un bel vestitino mezzo
azzurro e mezzo rosso con le bordature di pelliccia. Felicissima, madamigella Cra-Cra, indossò il suo bell’abitino. Con una mora si tinse le labbra, si mise una campanula azzurra per
cappellino e andò tutta giuliva a passeggiare per il prato. Passeggiò a lungo, avanti e indietro, su e. giù, qua e là. Ma la sua speranza di essere ammirata e complimentata da tutti gli
abitanti del prato fu delusa. Incontrò un vecchio talpone e lo salutò molto gentilmente, ma
questi, che era miope e aveva fretta, borbottò: “Beata te che hai tempo di passeggiare”, e
scappò via per i fatti suoi senza nemmeno accorgersi del bel vestito. Vide un bengalino fuggito dalla gabbia: un grazioso uccelletto con il piumaggio variopinto, che saltellava sui rami
di un arbusto. “Com’è elegante! - pensò la ranocchia Cra-Cra - e chissà quanto apprezzerà il
mio bel vestito nuovo”. Gli si avvicinò per farsi ammirare, ma quello non la degnò nemmeno
di uno sguardo. Anzi, timoroso forse che quello strano essere tutto agghindato fosse venuto
per rimetterlo in gabbia spiegò le ali e volò via. La ranocchia Cra-Cra ci rimase proprio male, ma continuò imperterrita a passeggiare in lungo e in largo per il prato. Incontrò un leprotto, una chiocciola, una famiglia di lombrichi, una cutrettola e una processione di formiche
rosse. Ma tutti erano presi dalle proprie faccende e non vi fu nessuno che si avvedesse del
bel vestitino bordato di pelliccia di bruco. Indispettita e stanca per il continuo passeggiare,
madamigella Cra-Cra pensò di riposarsi su uno dei grossi sassi che erano sulla riva dello stagno. Di lì, in bella vista, chissà, qualcuno avrebbe potuto anche complimentarla per il vestito
nuovo. Ma vi si era appena sistemata quando una grossa biscia d’acqua le si avvicinò strisciando silenziosamente tra l’erba umida. “Toh! - pensò l’ingorda bestia - una ranocchia rossa e turchina. Non ne avevo mai viste prima. Chissà come sarà squisita”. Spalancò la bocca
per mangiarla, quando… “Attenta, ranocchietta! La biscia vuole divorarti!” gridò un Martin
Pescatore dalle ali azzurre. La povera Cra-Cra, spaventatissima, schizzò con un gran balzo
nel mezzo del pantano. Subito dopo lanciò un urlo di raccapriccio. “Oh! Il mio bel vestitino!”. Uscì dallo stagno in tutta fretta; ma ormai l’acqua melmosa le aveva irrimediabilmente
sciupato l’elegante abitino. Rammaricata se lo tolse e lo gettò dietro un cespuglio, dove più
tardi una lucertola freddolosa lo trovò e se lo portò via.
Aldo Zelli (Arezzo, 1918 - Piombino 1996) è vissuto per quarant’anni in Libia, dalla prima infanzia fino al
1964 quasi ininterrottamente. La sua vita romanzata si può leggere in Mal d’Africa, contenuto in Alla ricerca
della Piombino Perduta, libro di Gordiano Lupi. Ha pubblicato: Kaslan, storia di un dromedario intelligente,
Il marinaio zoppo e altre storie, Il magnifico corsaro, Le avventure di Sinforiano, gatto vegetariano, Lo
schiavo di Tunisi, Diecimila anni fa, La stirpe di Horo (La Fortezza, 1981), Il gatto robot (Comune di
Piombino, 1981), Le storie di Abu Bakr, Buffe storie di animali, La tartaruga a rotelle, La carota ballerina, Larthi, principessa etrusca, Flaviano il longobardo, Roma primo secolo, Sotto le insegne di Colombo,
Il primo panda, Schiava in Babilonia, Il sogno di Settimio Severo, Avventura nel futuro, Il tempo all’indietro, Cronache della Staggetta, Bartolomeo d’Alviano, La bertuccia malandrina, Putifarre e Serafino.
Nonostante questa lunga lista ci sono decine di opere inedite che meriterebbero di essere pubblicate. Per sapere
tutto sull’opera del Maestro consigliamo il saggio di Gordiano Lupi: Per conoscere Aldo Zelli - vita e opere
di un grande scrittore per ragazzi (Il Foglio, 2003). Il Foglio Letterario è nato anche per lui...
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