Il pesce nella storia polesana

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Il pesce nella storia polesana
Gli gnocchi
Un fossile alimentare trasformatosi nel tempo
Giacomo Basso, cuoco rodigino della metà dell’Ottocento, così prescrive la
confezione degli gnocchi: “P. formare Macheroni – Prendete Pattate l’a quantità che
credete allessatele, e poi pestatte in mortale e poi un poco pane grattato, e biscottini con
buttiro e pignolli on. 3 circa, e si forma un pastone, e formaglio crattato una pocha canella,
e si pone in cassarolla con poco buttiro, e si forma una polentina e poi si cucina bene e si
voda sopra un tavolo e si forma macheroni”. 1 Ma gnocchi o maccheroni? E’ assodato
che il termine maccheroni indicava anche la vivanda da noi chiamata gnocchi, così come
li desciveva Teofilo Folengo ne “Le Maccheronee”: “… qui macarones sunt quoddam
pulmentum farina, caseo, botiro, compaginatum, grossum, rude, et rusticum…”. 2 In
Polesine continuano ad essere conosciuti ancor oggi con entrambi i nomi, gnòchi e
macarùn 3 , giusto l’ambiguità dei testi di cucina fin dal Rinascimento, nei quali
maccherone era sia la pasta secca forata nel mezzo, di provenienza araba, sia lo gnocco.
4
Confezione degli gnocchi
L’origine degli gnocchi è arcaica. Sembra si gustassero fin dai primordi dell’umanità
secondo un rinvenimento archeologico del 1965 nella trentina Val di Ledro, dove sono
stati portati alla luce una decina di “gnocchetti” o “bocconi”, “scoperti allo strato I e
impastati con farina di cereali macinati in modo grossolano con macine di pietra”. 5 A
partire dal XIII secolo, con l’avvento della pasta secca di provenienza araba, per la
maggior fortuna di questa nelle cucine benestanti, anche per la presenza di servitù
1
Accademia dei Concordi di Rovigo, Libro di Cuciniere di Giacomo Basso, 1829, Fondo non catalogato,
Ricetta non numerata, p. 192.
2
M.COCAI, Le Maccheronee in C. CORRAIN - P. ZAMPINI, Considerazioni sopra un’antica vivanda,
Olschki, Firenze, 1965, p. 140.
3
Macarùn sono a tutt’oggi gli stessi grossi bìgoli
4
Si vedano ad esempio C. Messi Sbugo, “ A fare dieci piatti di maccheroni”: “…poi tagliala in pezzi tanto
quanto è una castagna poi fa i tuoi macheroni su il rovescio della gratugia”, C. MESSI SBUGO, Libro
novo…, Per gli Heredi di G. Padoano, in Vinegia, MDLVII (rist anast. Forni, Bologna, 1982), f.52; e B.
SCAPPI “Per fare minestra di macaroni detti gnocchi”, B. SCAPPI, Opera…, Appresso M. Tramezzino, In
Venetia, MDLXX, (rist. anast. Forni, Bologna, 1981), f. 71.
5
Cfr. CORRAIN-ZAMPINI, Considerazioni cit., p. 139. Riferimenti si possono rinvenire in testi di autori
latini col nome di pastilli, cfr. S. LA SORSA, Riviviscenze romane nelle feste, nei riti, nei pregiudizi e
nelle credenze dei nostri volghi, Gioconda, Bari, 1945, p. 90.
esotica, 6 gli gnocchi si sedimentarono come piatto rustico, pasta la più vile tra le nobili,
composti principalmente da miglio e melica 7 , e tali si mantennero sino alla contrazione
colturale, dovuta alla introduzione del mais, quando negli gnocchi entrarono a poco, a
poco, prodotti succedanei e complementari ai cereali minori quali castagnaccio, zucca,
naturalmente farina di frumento che resistette e, abbastanza tardi, patate e patate dolci. 8
Una seconda questione è rappresentata dal condimento che nel passato
consisteva in burro, zucchero e cannella, prima di giungere agli attuali sughi di carni
diverse. La presenza delle spezie e la dolcificazione ha indotto in errore più di uno
studioso polesano che ha attribuito tale costume alla dominazione austriaca o a influssi
tedeschi. In realtà, come ormai la storiografia ha ampiamente dimostrato, la speziatura e
la dolcificazione appartenevano a gusti ed abitudini alimentari, imperanti sin dal Medio
Evo, che non avevano nulla a che fare con la necessità di restituire sapore ai cibi
conservati. 9 Anche il burro ci offre un segnale della natura del piatto in quanto gli gnocchi
erano cibo di vigilia, carnis priva, che nel bianco del cibo richiamava la purezza ascetica
della penitenza. Erano vivanda calendariale e propiziatoria per eccellenza che scandiva le
stagioni, gli equinozi e i solstizi, la fine e l’inizio dei lavori campestri, la morte o la
resurrezione del sole e della luna. Si consumavano, e ancora si consumano, ritualmente
in scadenze fisse: il Giovedì Grasso, la zobia gnocolara, che celebrava la morte di
Carnevale; la vigilia di S. Giovanni, nel solstizio d’estate, contrassegnato dal sacrificio del
grano; il 29 settembre, per S. Michele, il santo pesatore delle anime; per il ciclo dei Morti;
la vigilia di Natale.
Come cibo iniziatico di passaggio si
imbandivano quando un maschietto era
battezzato o quando faceva la Cresima,
insieme al bussolà del padrino. Erano
cibo di festa che si connotava per
l’esagerazione alimentare. Infatti, quando
gli gnocchi si confezionavano, si facevano
sempre in abbondanza. Ne restavano
certamente per la sera, una terrina veniva
mandata ai vicini, si scambiavano tra
parenti e conoscenti come fossero piatto
del sacrificio ridistributivo per l’agape
comunitaria.
Gnocchi dolci alla cannella
6
Nel 1454, nel vescovado di Adria, avviene la registrazione di un atto testamentario che elenca , fra i vari
altri beni lo schiavo Ambroxius, il quale “debeat stare in domo Domini” sino a quando al padrone non
piacesse “eum sclavum Ambroxium franchum facere”, F.A. Bocchi, Annali Pollicinensi, Archivio Antico del
Comune di Adria, Busta 401, f. 174.
7
“Il pane di miglio che indurito non si può mangiare, scrive il bolognese Vincenzo Tanara ai primi del ‘700, si
pesta di nuovo, e ridotto in polvere setazzato si torna a impastare, poi fattone maccheroni per quella forma
che chiamano strozzapreti, da noi gnocchi… Altri grattano una pagnotta, e le fanno pigliar corpo come pasta
mediocre, un poco di farina e acqua, fattone poi bocconcini, li calcano con un dito sulla grattacaccia
roversa, e li chiamano strozzapreti, macaroni, e noi gnocchi”, V. TANARA, L’economia del cittadino in
villa, Appresso Giuseppe Bortoli, Venezia, MDCCIII, pp.388-389.
8
Ancora alla fine dell’Ottocento, al tempo dell’Inchiesta Agraria, le patate erano considerate cibo infimo e
offensivo, indegne persino di essere date in elemosina: “…materiali che, se offerti, sarebbero rifiutati, quasi
offesa alla umana dignità, come cibi da bestie (in certi luoghi così si giudicano, per esempio, le patate)”, Atti
della Giunta per l’Inchiesta Agraria…, Vol. II°, fasc. I°, Forzani & C, Tipografia del Senato, Roma, 1881,
p.251.
9
Cfr. M. MONTANARI, L’Europa a tavola, Laterza, Bari, 1997, pp. 59-61; T. SCHULLY, L’arte della
cucina nel Medioevo, trad. it. Gozzini Giacosa, Piemme, Casale Monferrato, pp. 93-96.
Ma la festa era pure tempus terribile, tempo critico ed incerto durante il quale le porte
infere rimanevano aperte e i defunti ritornavano sulla terra, nostalgicamente assetati del
sapore della vita, e così per l’occasione erano ammessi alla tavola dei vivi. 10 Non è caso
fortuito, ma una delle etimologie di maccherone, viene dal greco e significa pasto
funebre. 11 Per tale motivo possono essere ritrovati nelle tombe, perché i defunti
conservassero nell’Aldilà lo specchio gioioso della festa terrena.
Nella variegata realtà polesana gli gnocchi si tramandano con nomi originali e singolari: i
màneghi, che non erano passati sulla grattugia ed avevano semplice forma di bastoncello,
simili perciò ad ossi da morto; i rufiòi, da ravioli; i pìn, i pieni della vigilia di Natale, o
probabilmente così chiamati dalla forma della “pigna” che era investita di significati magici
e religiosi sin dall’antichità; gli stropèi, forse da stropa, vimine, dalla forma di falce lunare
che nell’iconografia accompagnava le divinità notturne e lunari; i pan cuchi, pani dei
cuculi, che si consumavano il 25 marzo, festa della Nunziata. I cuculi, come l’araba fenice,
erano uccelli della rinascita del tempo e della vita: “Cuco, bel cuco dala péna gentile,
quanti me dato prima da murire?”; gli gnochi d’istà, di S. Giovanni, e gli gnochi con la
saba 12 nel tempo autunnale, conditi con la sapa. Di seguito compaiono alcune ricette che
non possono ovviamente contenere il dosaggio degli ingredienti perchè la cucina
contadina era consacrata da norme consuetudinarie dove tutto era parcellizzato e
miniaturizzato: aggiungi un fia’, un fiato, di zucchero, uno spìssego, pizzico, di sale, un
cincinìn d’aceto, una làgrema, lacrima, d’olio…
Gli gnocchi di S. Michele
Dopo aver lessato le patate nostrane, che devono essere come si dice “da gnocchi”, non
farinose cioè, le schiaccio e impasto con fior di farina, un uovo che unisca la
composizione perché gli gnocchi restino morbidi. Manipolo per bene e, quando l’impasto
ha raggiunto la consistenza opportuna, faccio tanti rotoli. Poi li taglio alla lunghezza di
due-tre centimetri e li passo sui rebbi di una forchetta o sulla gratusa perché così
prenderanno meglio il condimento. La cottura è molto semplice: li butto nella pentola in
bollore e, quando sono saliti in superficie, sono pronti. Per il sugo procedo nel modo
seguente: trito una cipolla, una carota, una costa di sedano, alcune foglioline di usumarìn,
rosmarino, e di sàvia, salvia, un po’ di pepe e di noce moscata, e faccio soffriggere con
burro. Poi aggiungo carne di coniglio in pezzetti, sì perché il sugo di coniglio per gli
gnocchi è speciale… Il coniglio ha una carne dolce… Da noi era tradizione che questi
gnocchi si preparassero il 29 settembre, nel giorno di S. Michele 13 quando le famiglie
10
Cfr. M. ELIADE. Il mito dell’eterno ritorno, trad. it. G. Cantoni, Borla, Torino, 1968, pp. 87-121
Cfr. M. CORTELLAZO – P. ZOLLI, Dizionario etimologico della lingua italiana, VI°, Zanichelli,
Bologna, 1988-89, sub voce
12
La sapa, ampiamente documentata in testi latini, era una marmellata d’uva ottenuta dalla bollitura del
mosto d’uva, ridotto sino ad un terzo. Si condivano gli gnocchi e si facevano tortelli ripieni, chiamati sabadun
nella zona di Stienta. Di seguito compaiono alcune ricette degli gnocchi, omettendo il nome dell’informatore
per evidenti motivi.
13
Era tradizione consolidata che il 29 settembre, nel giorno di S. Michele, quando le famiglie facevano
patine, traslocavano, ed iniziavano i nuovi contratti agrari, si imbandissero gli gnocchi per la convinzione
che un tal piatto portasse felicità, fortuna, guadagno. E così i vicini accoglievano i nuovi venuti nella corte
offrendo gnocchi fumanti, di patate stando all’informatore, come segno augurale per il futuro, tanto che il
proverbio diceva: “Chi ca magna gnòchi par San Michièle, el gavrà schèi in bissaca tut’ l’ano.” Il proverbio
trova conferma in Riccardo Bacchelli: “Chi ha da mangiare per san Michele, avrà in tasca quattrini per tutto
l’anno”, R. BACCHELLI, Il mulino del Po, II, Milano, Mondadori, 1975, p. 376. Gli gnocchi di patate,
comunque, erano d’obbligo già dal 16 agosto, nei paesi in cui si festeggiava S. Rocco. Ma già quando la
maturazione delle patate era imminente, le nonne ingolosivano i bambini con la promessa degli gnocchi:
11
facevano patine, traslocavano, chiudevano i vecchi ed iniziavano i nuovi patti agrari. Era
convinzione che un tal piatto portasse felicità, fortuna, guadagno. E così i vicini
accoglievano i nuovi venuti nella corte offrendo un bel piatto fumante di gnocchi come
segno augurale per il futuro, tanto che il proverbio diceva : “Chi ca magna gnochi par San
Michièle, el gavrà schèi in bissaca tut’ l’ano”.
FONTE: ***, Papozze
Gnocchi di San Michele
Gli gnocchi di zucca
Si deve cuocere per prima cosa la zucca che deve essere bella gialla e stagna, soda. Da
gnocchi o cappelletti tanto per intenderci. Quando la zucca s’è raffreddata, la si disfa con
una forchetta e si fa un pastone aggiungendo tutti gli ingredienti del caso: uova, pane
grattugiato e fior di farina, noce moscata e formaggio, sale, pepe ed un pizzico di lievito.
Si tirano tanti rotoli come per fare gli gnocchi di patate, si tagliano e si passano sui rebbi di
una forchetta. Poi si cuociono un po’ alla volta in abbondante acqua. Man mano che
salgono in superficie si pongono nella terrina e si condiscono con burro fuso, zucchero,
cannella e naturalmente formaggio. Ora si adopera il grana, ma un tempo andava molto il
pecorino salato. Gli gnocchi di zucca s’usavano nei mesi di settembre, ottobre e
novembre… C’era chi li faceva per l’8 settembre, festa di Maria di Bambina, oppure per i
Morti, altri per S. Martino, altri ancora per la vigilia di Natale… Infatti da noi il proverbio
dice: “ Parchè le sia bòne, le suche le ga da èsre tra le dỏ Madone”, cioè “Perché le
zucche siano buone, devono essere mangiate tra le due Madonne, quella dell’8 settembre
e quella dell’8 dicembre”.
FONTE: ***, Villanova Marchesana
“Mia nonna che ha 80 anni, ancora adesso sebbene io non sia più una bambina, mi telefona: Vieni a
trovarmi che ti preparo gli gnocchi!”, FONTE: ***, Ariano Polesine. E così si cavavano alcune patate, una a
testa, per tastare, verificare cioè se fossero adatte per gli gnocchi.
Gli gnocchetti dei Morti
Erano gnocchi di di fior di farina, o di
pane come diciamo noi, che si
preparavano per il giorno dei Morti. Si
mangiavano nel pomeriggio, con tutta
la famiglia riunita, al ritorno dalla
visita al cimitero, perchè quella sera
si rimaneva in casa in quanto c’erano
i defunti che giravano per le strade. Si
fa sbollentare della farina in acqua, si
aggiunge pane grattato, si sala e si
fanno gnocchi che devono risultare
un po’ più piccoli del solito… 14 Intanto
si è preparato il condimento. Si fanno
bollire dei fagioli portandoli a mezza
cottura e poi si pongono in un soffritto
di lardo, cipolla, aglio che va tolto.
Salare, pepare e lasciar rosolare.
Si cuociono gli gnocchetti e si condiscono spolverandoli di abbondante formaggio. Ora
naturalmente, io arricchisco il sugo con altri ingredienti. Ci metto pomodoro, carota ed
anche della carne di lugànega. Quello era il pranzo dei Morti di una volta... Poi a casa
nostra facevamo due polente: una con la zucca e una infasolà con fagioli. Mangiavamo
gnuchiti e polenta e poi andavamo a letto. Sulla tavola lasciavamo i lumini accesi, una
zuppiera di gnocchi e alcune fette di polenta perché i nostri morti venivano a mangiare…
FONTE: ***, Bellombra
I màneghi
Lessa delle patate americane. Cotte che siano, lasciale raffreddare. Poi sbucciale e
schiacciale per bene con le mani. Aggiungi fior di farina e pane grattugiato, doma con
vigore l’impasto e prepara tanti bastoncini della grossezza di un dito. Poi tagliali della
lunghezza di 5 centimetri circa e dai loro forma ricurva proprio come fossero dei piccoli
manici di un secchio o lasciali pure diritti, come più ti piace, che così somigliano agli ossi
14
Sembrano ricordare la forma della fava, le fave dei Morti ovviamente
da morto. Non passarli sulla grattugia come si fa con gli gnocchi dolci perché i màneghi
devono restare lisci. Passali poi nel fior di farina e cuocili, pochi alla volta, in acqua
bollente, facendo attenzione che non si attacchino tra di loro. Raccoglili con un mestolo
forato e disponili in una terrina; condiscili successivamente con burro fuso, zucchero,
miele e cannella. Spolvera di abbondante formaggio e servi. C’è da dire che an, una volta,
lo zucchero costava ed allora le famiglie che avevano minori possibilità, al posto dello
zucchero ricorrevano alla melassa. Inoltre, nell’impasto dei màneghi, si mettevano
melassa, uvetta e pure canditi. I màneghi si preparavano nel periodo autunnale, quando
c’erano le patate americane, ma si mangiavano soprattutto nel periodo dei Morti e per
Carnevale… La zobia grassa in ogni famiglia c’erano gli gnocchi dolci, con zucchero e
cannella, fossero di pane, di patate americane o nostrane…
FONTE: ***, Bellombra
I rufiòi
15
La sera precedente la confezione dei rufiòi, prendi alcune pagnotte di pane imassì,
raffermo, e mettile a mollo nel latte. Il mattino seguente aggiungi fiore a sufficienza e fa
cuocere a fuoco lento sino ad ottenere una polenta densa. Togli allora dal fuoco e
aggiungi due uova come legante, al piacere una grattugiata di noce moscata, lievito e del
fiore per renderli consistenti. Un tempo si mettevano nell’impasto due cucchiaiate di
melassa, ma ora non si usa più. Amalgama bene il tutto, fa bastoncini della dimensione di
un dito e ponili a bollire. Raccoglili con il mescolo forato e disponili nella terrina. Fa uno
strato di rufiòi ed uno di zucchero, cannella in polvere e formaggio, alternando sino a
conclusione. Poi ci versi sopra del burro fuso, poni il tutto nel forno a rosolare e servili
caldi. I rufiòi erano il piatto della fiera di S. Carlo, il 4 novembre. Si preparavano per i
parenti che in quel giorno traghettavano il Po e venivano dal Ferrarese a far visita ai
defunti in cimitero. Poi si fermavano a mangiare di qua.
FONTE: ***, Papozze
Paolo Rigoni
(Grafica:Giorgia Stocco)
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Il termine deriva da ravioli, di cui si accettano due etimologie. La prima indicherebbe un impasto di rape;
la seconda li fa derivare da raviggiolo, un tipo di formaggio fresco di capra o di pecora. Rape e formaggio
tra gli ingredienti connoterebbero i ravioli come piatto di vigilia.