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TRA STATO D'EMERGENZA E POLITICHE DELLA FRONTIERA: LO SPAZIO
DEL DISSENSO.
Le vicende che si sono susseguite negli ultimi mesi a Calais sono comprensibili solo
attraverso l’intersezione di diversi ordini di discorso. La crisi umanitaria sta avendo luogo su
una frontiera interna all’Europa su cui convergono molti elementi: i teatri di guerra e
sfruttamento che si moltiplicano in Africa e Medio Oriente costringendo milioni di persone
alla fuga; la gestione comunitaria dei flussi migratori; l’adozione di dispositivi particolari e
inediti da parte di un paese in stato di emergenza in un contesto in cui si riaffermano
prepotentemente partiti e movimenti di estrema destra e neofascisti (alle ultime elezioni,
nella regione Nord-Pas-de-Calais, il Front National ha ottenuto oltre il 50% dei consensi).
È evidente come tale complessa intersezione richieda un’analisi puntuale e una genealogia
che possano essere utili alla critica. Abbiamo scelto qui di circoscrivere lo sguardo ad una
serie di nodi che, seppure parziali, ci sembrano urgenti da affrontare per cominciare una
riflessione che sentiamo sempre più necessario condividere, anche tenuto conto della
rapidità e della drammaticità con cui cambia il contesto in cui agiamo.
La Francia si mostra sempre più ostile nei confronti di chi fa delle proprie voci e dei propri
corpi strumento di disobbedienza e avamposto di resistenza, come ci dimostrano l’arresto,
la detenzione e la minaccia di espulsione che subiscono in questo momento Martina,
Ornella e Valentina. A tutte e tre, e a tutt* gli/le arrestat*, esprimiamo la massima solidarietà
e complicità.
Calais, primo porto passeggeri di Francia, punto di partenza dei collegamenti per il Regno
Unito, è diventata negli ultimi anni l’espressione stabile della violenza della frontiera. Dalla
chiusura del centro di Sangatte nel 2003, gli accampamenti dei migranti vicini all’ingresso
del porto hanno continuato a crescere fino a dare vita a un grande campo denominato
“giungla”. Oggi si stima che ci vivano circa 7000 persone, alcune delle quali anche da anni,
e ogni settimana in centinaia provano a passare il confine mettendo a rischio la propria vita.
Questi tentativi avvengono via mare, quando i migranti riescono a salire sui traghetti in
partenza per il Regno Unito, o attraverso l’Euro Tunnel, nascondendosi nei camion o nei
treni che attraversano la Manica. Il numero dei morti è in continuo aumento: tra giugno e
ottobre 2015 almeno ventidue persone hanno perso la vita nel tentativo di raggiungere le
coste britanniche.
Con l’aumento del numero dei migranti, nelle ultime settimane la violenza della frontiera di
Calais si è fatta ancora più dura: la zona cuscinetto tra porto e campo è stata sgomberata,
mentre la Gran Bretagna ha finanziato le nuove recinzioni e il filo spinato che circondano
l’area del porto. Contemporaneamente, un’altra area del campo è stata evacuata, con
l’obiettivo di iniziare il trasferimento dei migranti nei nuovi centri di accoglienza. Il centro
‘Jules Ferry’ è stato il primo ad essere messo in funzione la settimana scorsa: si tratta di un
campo chiuso, a cui si accede solo dopo aver fornito le impronte alle autorità e dove sono al
momento “ospitate” 1500 persone, in maggioranza donne e bambini.
La politica adottata dalle autorità locali ha il chiaro obiettivo di portare allo sfinimento gli
abitanti della giungla e spingerli ad andarsene. Agli attacchi della polizia, che quasi ogni sera
lancia lacrimogeni sul campo, si accompagnano le violenze dei gruppi neofascisti locali, che
agiscono con la connivenza delle forze dell’ordine e nell’impunità.
Nel quadro della lotta per la libertà di circolazione in Europa, sabato 23 gennaio si sono
tenute manifestazioni sui confini più attraversati negli ultimi mesi: Evros, Lampedusa e
Calais hanno visto sfilare migliaia di persone per rivendicare il libero movimento di tutti gli
individui.
A Calais quattromila persone hanno manifestato contro le politiche xenofobe
dell’Unione Europea. Alla fine del corteo un folto gruppo di migranti ha deciso di
riappropriarsi del diritto ad attraversare la frontiera, dirigendosi verso il porto: dopo aver
divelto le grate che difendevano la zona securizzata degli imbarchi, alcuni tra manifestanti
europei e migranti sono riusciti a salire su un traghetto, occupandolo per diverse ore,
resistendo nonostante il tentativo violento dei marinai stessi di cacciarli. Durante gli scontri
che hanno seguito quest’azione, almeno 35 persone tra solidali e migranti sono state
arrestate. Gli altri manifestanti sono stati respinti a colpi di lacrimogeni e cariche dall’uscita
del porto fino alla giungla.
I fermati hanno subito sorti differenti, ma il dato politico che ci sembra rilevante è che sono
tuttora detenuti soltanto i non francesi. Tra i fermati, tre studentesse italiane da tempo
residenti a Parigi, Martina, Ornella e Valentina, non sono state rilasciate allo scadere del
fermo e sono state trasferite al Centre de Rétention Administrative di Lille. L’imputazione è di
trouble à l’ordre publique (turbamento dell’ordine pubblico), che si è concretizzata in un
OQTF (Obligation à Quitter le Territoire Français), ovvero un decreto di espulsione.
L'uso dell' OQTF contro Martina, Ornella e Valentina ci sembra l'ultimo grave episodio
in cui strumenti repressivi e prassi giuridiche concepite contro i migranti non
comunitari, vengono rivolte verso l'interno dell’unione europea, definendo nuovi
scenari di inagibilità politica. In particolare, in Francia questo avviene utilizzando lo stato
d'emergenza introdotto dopo gli attentati del 13 novembre(1) e in via di
costituzionalizzazione: nello stato d'eccezione permanente, il "laboratorio frontiera" può
essere portato ovunque. L'azione delle forze di polizia è sempre meno soggetta a vincoli
democratici e le possibilità di espressione e di azione conflittuale si restringono
enormemente.
Ma è tutto il quadro europeo che si orienta a una moltiplicazione dei confini interni e delle
forme di controllo: è di lunedì 25 gennaio la notizia(2) che alcuni stati del Nord Europa hanno
chiesto alla Commissione Europea di poter prolungare i controlli alle frontiere interne fino a
due anni, sospendendo Schengen e segnando di fatto la fine del trattato di libera
circolazione.
Si direbbe che la sovrapposizione tra stato d'emergenza e politiche di frontiera determini una
doppia ipotesi.
Da una parte si sfruttano le nuove possibilità permesse dallo stato d'eccezione di aumentare
le espulsioni, intensificando le strategie di sgombero, invisibilizzazione(3) e dispersione
(come avviene contemporaneamente a Evros, a Ceuta e Melilla, sulle rotte libiche verso
Lampedusa, sul confine fra Serbia e Ungheria ecc.). Dall’altra, l’arbitrarietà continua del
regime di frontiera si estende, nel clima dell’état d’urgence, a spazi politici quali la gestione
delle periferie e dei movimenti sociali. Le linee della differenza (siano esse
etniche/razzializzate, di classe, di genere,...) già esistenti nel corpo sociale, segmentato e
gerarchizzato, sono riprodotte da questo dispositivo, trasformandosi in linee di
demarcazione tra un dentro ed un fuori dal potere.
La proposta, dibattuta al momento, di déchéance de nationalité(4) ci sembra a questo
proposito l’espressione massima di una tendenza a privare di soggettività politica sulla base
dell’isolamento di una cittadinanza “pura”. Anche la proposta del primo ministro Manuel Valls
all’indomani degli attentati è particolarmente indicativa: l’idea, non approvata, era di istituire
particolari centri di detenzione destinati a persone classificate come “pericolose per la
sicurezza nazionale” (la famosa fiche S), bypassando le vie giuridiche e ricorrendo
semplicemente a segnalazioni dei prefetti. Questa proposta dimostra che dispositivi come il
campo, tipicamente usati per il controllo e la gestione dei flussi migratori, possano trasferirsi
a una gestione complessiva del territorio, ridefinendo l’“altro” rispetto al quale lo Stato deve
mantenersi in sicurezza.
La morfologia di tale potere securitario rischia di costituire un modello riproducibile di
conservazione politica in fase di crisi economica e sociale. Nella pratica si presenta di fatto
come strategia di progressivo restringimento dello spazio del dissenso.
Formalmente, lo stato di emergenza è uno strumento temporaneo di salvaguardia della
ragion di stato, che costituendo uno spazio extra-giudiziario (eccezionale) investe il potere
politico di una nuova sovranità, che diventa essa stessa prima fonte di diritto(5). In questa
eccedenza del politico sul giuridico lo stato si propone (o si impone?) come garante della
sicurezza chiedendo in cambio la rinuncia a libertà fondamentali. In questo scenario, e in
particolare nel caso francese, i dispositivi polizieschi e i provvedimenti citati si materializzano
come esperimenti politici di controllo e di annichilimento di ogni movimento. Infatti, la loro
applicazione nel caso di COP21 e di Calais nulla ha a che vedere con la lotta al terrorismo,
terreno sul quale l’eccezione fonda la sua legittimità.
La normalizzazione di un regime di eccezionalità da parte di uno stato membro
dell’Unione Europea ci sembra quindi un laboratorio, che disegna a tutti gli effetti
nuove forme di governance per l’intero spazio europeo.
Le migliaia di persone presenti a Calais hanno manifestato un’indisponibilità radicale al
tentativo di silenziare ogni dissenso. La minaccia di rimpatrio per le nostre compagne
italiane rientra nell’attacco alle condizioni di possibilità di un’azione politica europea e
transnazionale. In quest’ottica, la lotta per la libertà di circolazione ed installazione ci
sembra paradigmatica e, nella misura in cui la sottrazione di soggettività politica e le forme
di repressione accomunano europei e migranti extra-europei, mentre si estendono e
generalizzano i processi di creazione di confini, essa si pone definitivamente oltre la mera
solidarietà, affermandosi come una battaglia per i diritti di tutt*.
Mentre l’Europa che innalza muri e versa in un’emergenza democratica vede nella Francia
di Holland-Valls-Le Pen la sua avanguardia autoritaria, difendere e costruire questo
terreno di lotta è una delle principali poste in gioco contro lo scenario di guerra che si
sta configurando.
Alcune compagne e alcuni compagni da Parigi
(1) La detenzione nei CRA di cittadini comunitari è permessa dall’état d’urgence ed è avvenuta anche durante le proteste
contro il vertice sul clima COP21. Si tratta della prima volta che dei cittadini europei sono colpiti da questa misura fuori da un
grande evento/incontro internazionale.
(2)http://www.internazionale .it/notizie/2016/01/25/ gli-stati-dell-unione-europea-chiedono -di-prolungare -i-controlli-alle-frontiere
e anche http://greece.greekreporter .com/2016/01/25/ europe-gives-greece-6-weeks-to-stop-migrant-flow/
(3)quando si parla di invisibilizzazione crediamo che la giungla di Calais offra un esempio che è al contempo concreto e
simbolico e particolarmente indicativo: se cercate lo spazio del campo su Google Maps non lo troverete. Al suo posto, un
terreno vuoto in una foto precedente alla costruzione di baracche e tende.
(4)ovvero, di ritirare la cittadinanza francese a individui condannati per terrorismo in possesso di doppia nazionalità
(5) Nel caso specifico, la proposta di costituzionalizzazione dell’état d’urgence permette un fondamento costituzionale di misure
eccezionali, che altrimenti sarebbero prive di giustificazione dal punto di vista giuridico. Questi provvedimenti sono, nella
proposta di legge, ancora più restrittivi rispetto a quelli contenuti nella legge del 1955.
-controllo d’identità senza bisogno di circostanze particolari che lo giustifichino e perquisizione dei veicoli se si stabilisce che la
situazione attenti all’ordine pubblico;
-possibilità di detenzione amministrativa senza necessità di previa autorizzazione della persona presente nel luogo di una
perquisizione amministrativa;
-sequestro di oggetti – computer - durante una perquisizione (la legge attuale non prevede altro che il sequestro di armi e
l’accesso ai sistemi informatici e loro copia, ma non il sequestro).
- le perquisizioni possono svolgersi a qualsiasi ora del giorno e della notte, mentre ora la legge impedisce che esse abbiano
luogo tra le 21 e le 6 del mattino.
Il risultato di una tale manovra è che le sole forze di polizia sono responsabili della messa in atto di queste misure
straordinarie, sottoposte al controllo di un giudice solo a posteriori. I prefetti diventano dunque depositari di un potere
discrezionale enormemente accresciuto, con la possibilità ad esempio di dichiarare il coprifuoco in qualsiasi momento, di
chiudere edifici a funzione pubblica (teatri, cinema, impianti sportivi..), di interdire al traffico alcune zone, qualora questi
provvedimenti fossero giustificati da una situazione di “pericolo” per lo Stato.
N.B. La legge non prevede alcun limite temporale alla fine dell’état d’urgence!