Leggi l`elaborato - Fogli di Viaggio

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Leggi l`elaborato - Fogli di Viaggio
Nadie nos detiene
Cartoline di viaggi lungo una frontiera dimenticata
di Roberto Meloni
Alex sembrava pronto per una serata in discoteca. Maglietta rossa aderente, jeans alla
moda e un crocefisso al collo che denotava, più che una sua devozione al Cristo sicuramente molto
sincera, una sua voglia di sentirsi alla moda. Capelli ben pettinati col gel. Alex voleva essere come
quelli che aveva visto nei film. O forse semplicemente come i suoi vicini di casa. Almeno come
coloro che erano ritornati.
Il giorno dopo, di prima mattina, Alex si sarebbe messo in cammino per affrontare l'ultimo
pezzo del viaggio, quello che lo avrebbe portato per la prima volta a varcare la frontiera del
Nicaragua per arrivare nella Svizzera del Centro America: il Costa Rica.
Il suo abbigliamento denotava che non fosse totalmente cosciente di dove sarebbe dovuto passare
per attraversare quella frontiera da irregolare, da clandestino. Eppure conversando con Alex e i
suoi innocenti 19 anni, si, lui conosceva i pericoli che correva. Lo terrorizzava soprattutto che la
barca si potesse ribaltare e per lui, giovane dell’entroterra nicaraguense, sarebbe stato veramente
spaventoso finire in acqua. Io non so nuotare, mi disse. E ho paura dei coccodrilli. In Nicaragua la
stagione delle piogge aveva tardato ad arrivare, ma finalmente ogni giorno, ormai da qualche
settimana, sembrava che enormi secchiate di acqua si riversassero nella regione del Rio San Juan,
la più attraversata dai migranti. Dai viaggiatori. Mi immaginavo Alex, che la mattina dopo avrebbe
dovuto attraversare campi di fango, tutto in fretta e furia, preoccuparsi per la sua maglietta molto
più che della polizia che avrebbe potuto fermarli e metterli qualche giorno in prigione. O ancora
peggio rispedirli indietro distruggendo il sogno di Alex, quello di andare a lavorare dall'altra parte
del confine, mettere da parte qualche soldo e “mettere la luce elettrica nella casa di mia madre”.
Questa era almeno la sua versione ufficiale, quella di fronte al mio registratore. El chele, il ragazzo
bianco, con un registratore che fa l'intervista. Alex però era anche uno dei più giovani migranti che
fosse passato dalla Casa del Migrante di San Carlos durante il periodo che io ho trascorso li. Fra
una sigaretta e un'altra non volevo che sfuggisse alla mia reale domanda: perché vuoi andare
dall'altra parte? Cosa ti spinge veramente ad affrontare un viaggio sconosciuto e pericoloso? Può
essere solo la luce elettrica? Alex aveva visto i suoi vicini di casa che erano tornati, avevano
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migliorato le condizioni di vita ma, in realtà c’era molto di più: aveva ascoltato le loro storie.
Vorrei conoscere cosa c'è in Costa Rica, come sono le persone, come vivono e come si divertono.
Mi ero messo in testa che anche io volevo provarci. Volevo passare il confine senza quel
passaporto che tanto mi pesava dopo aver sentito storie di viaggio così intense. Anche io volevo
emigrare verso Sud come i numerosi migranti che ogni anno passano la frontiera per andare a
raccogliere gli ananas che noi in Europa mangiamo. Più dell'80% di quegli ananas sono raccolte da
migranti irregolari che dall'altra parte della frontiera credono di avere un futuro. O forse ce
l'hanno veramente.
Il lunghissimo Rio San Juan separa il Nicaragua dal Costa Rica. Ma il fiume è nostro! Mi
ripetono i numerosi nicaraguensi che incontro durante i miei viaggi. D'altronde c'è sempre tempo
per del buon sano campanilismo, mi dico sorridendo ogni volta che ascolto quella frase. Scopro
che i migranti hanno dei punti di accesso “magici” per attraversare la frontiera lungo il fiume: los
puntos ciegos, i punti ciechi. La panga, una piccola e, alla mia vista non troppo stabile barca che
attraversa per intero il fiume, porta e trasporta uomini e merci su e giù dal fiume. Molti di quegli
uomini e donne si fermeranno lungo il fiume: un punto cieco li attende per proseguire il cammino.
Alcuni reputano sia più opportuno arrivare quasi alla foce, lì, nei pressi del piccolo pueblito
chiamato San Juan del Norte, ai piedi della foce e dell'immenso Oceano Atlantico. Altri
preferiscono passare dal monte, come mi dicono in tanti, ovvero piccole collinette al di là delle
quali c'è la frontiera.
Il mio primo viaggio decido che deve essere di esplorazione. Fermata El Castillo, meta di
tanti turisti che certamente non salgono nella panga delle sei del mattino. E nemmeno io dovrei
essere li, a detta dei responsabili della barca. Devi andare via, quella per i turisti salpa alle otto.
Sono solo le sei e io devo salire su questa, ribatto con fermezza. La prima persona a sorprendesi di
quella fermezza sono io stesso. Le barche oggi sono due, di cui una decisamente più nuova e
veloce dell'altra. Il posto c'è. Io devo salire, mi dico. Fino a El Castillo la fermata è solo una per
“caricare” gli ultimi ritardatari. Fra questi c'è José. Lui in realtà di ritardatario ha ben poco. È
partito dalla sua isola, la Isla de Ometepe al centro del Lago Nicaragua con ben due vulcani in
mezzo alla più grande distesa di acqua dolce del Centro America, il giorno prima, con la stessa
nave, se così si può chiamare, che, attraversando l'intero lago, mi aveva portato a San Carlos
qualche settimana prima. San Carlos è una minuscola capitale di frontiera. Tutto dritto per il
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supermercato? Si tutto dritto! Se lo dicono tre persone diverse sarà pur vero. No, non lo era. San
Carlos è troppo povera per un supermercato. Troppo lontana dal resto del mondo. San Carlos era
semplicemente troppo.
Quando tiro fuori il mio registratore José si irrigidisce. Lo vedo dai suoi occhi e lo sento
dalla sua voce che cambia tono come se passasse dal parlare da un amico ad un estraneo. Ritorna
il gradevole tono amicale solo quando ci fermiamo, ormai arrivati a El Castillo, e gli offro un caffè.
Per lui sarà l'unica fermata di un lunghissimo viaggio che terminerà solo l'indomani mattina. Nadie
nos detiene! Nessuno ci può fermare, mi dice orgoglioso José. Lui quel viaggio lo ha fatto decine di
volte. Questo è il nostro paese, sono i nostri viaggi, la nostra frontiera. Li per li lo interpreto come
un atto di ribellione alle autorità. Forse però era il suo atto di ribellione a delle regole che lui non
ha scritto e non avrebbe mai voluto. I miei compagni di viaggio sono pronti a proseguire il loro
cammino lungo la frontiera, io invece mi fermo. Questa è la mia prima tappa e le parole di José mi
lasciano un sorriso sulle labbra che li saluta quando, tornando sulla panga, riprendono l'unica
strada possibile della regione, quella fluviale.
Non era ancora arrivato il mio turno di passare il confine. Volevo contarli quei famosi punti
ciechi da dove si “brucia la frontiera”, come si dice nel gergo dei migranti irregolari. Avevo ancora
mille dubbi e mille paure, ma volevo trovare il coraggio da chi quel viaggio lo intraprendeva per
necessità o per voglia. Più semplicemente per un sogno. A volte quello di avere un futuro migliore,
altre volte quello di conoscere cosa c'è dall'altra parte.
E rieccomi alle quattro e mezza in fila nuovamente per la solita panga in direzione Mar dei Caraibi.
Questa volta la panga che salpa è solo una. Provo a confondermi fra la sparuta folla di migranti,
ma dico a me stesso di non essere poi così credibile con la mia pelle così bianca e questi nordici
occhi azzurri. Le scomodissime sedie azzurre in plastica non danno molto spazio al riposo e dopo
essermi accomodato mi accorgo che due poliziotte, poco più che ventenni ma con un'arma alla
cinta, si siedono dietro di me. E i migranti? Scenderanno senza problemi per proseguire il loro
viaggio o si sentiranno intimoriti? Al primo punto cieco mi accorgo che le due donne in divisa non
battono ciglio. Commentano quasi sconfortate le ragioni del viaggio di cotante persone. È il mio
momento, mi dico. Faccio il simpatico e mi presento. Inizio a fare discrete domande sul viaggio dei
migranti. La mia mente è ancora incapace di accettare che la polizia stia a guardare. Tutto questo,
almeno in teoria, non dovrebbe funzionare così. La genuinità delle persone latinoamericane mi
riporta alla realtà: se una persona vuole passare la frontiera lo fa, regolarmente o no. Non c'è forza
pubblica che tenga. Siamo tutti esseri umani e figli di Dio infondo. Risposta ineccepibile. Amen!
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Penso sorridendo.
Tredici ore sulla stessa sediolina di plastica, caldo tropicale e piogge che vanno e vengono.
Il mio secondo viaggio volge quasi a destinazione e io ho contato undici punti ciechi differenti. Il
più incredibile è una casa che sta proprio fra i due paesi. Fanno pagare loro un pedaggio e li fanno
passare dall'altra parte, ma non sempre è sicuro, mi racconta Don Omar che non può far a meno di
intervenire. Indubbiamente chi viaggia cerca di avere prima delle informazioni sul punto in cui sia
più opportuno scendere, ma ciò che conta di più è la buena vibra, le buone sensazioni. E un pizzico
di fortuna. Don Omar ci crede veramente alla buena vibra. Lui, compañero sandinista, è ormai da
anni un funzionario del comune di Masaya, oggi in trasferta a San Juan del Norte per questioni
lavorative. Don Omar, mi dice, normalmente non beve. Ma oggi è la Festa di San Juan, il paese è in
festa e gli fa piacere stare in mia compagnia. Nella mia personalissima gara a chi beve più birre, la
nostra discussione sulla fedeltà alla lotta e al governo sandinista ci porta nelle vie impervie della
politica nicaraguense. Don Omar è alla terza birra quando mi racconta che il governo ormai si è
dimenticato di “loro”. Loro, coloro che la rivoluzione l'hanno fatta. Ormai ci convocano solo per
ratificare le decisioni che prendono i potenti del partito, mi dice con un filo di evidente nostalgia. Le
rivoluzioni sono fatte per essere dimenticate, penso con rammarico nell'ascoltare questo uomo
così fedele tanto ai suoi ideali come al partito e al governo del suo paese. Non c’è partita, io bevo
più birre di Don Omar e ne estrapolo le informazioni più interessanti sulla politica del suo paese.
Il viaggio del ritorno corre rapido verso San Carlos. La pioggia è finalmente arrivata e il
fiume si è ingrossato in modo da non impedire di fermare la crociera ogni poco tempo; la panga è
quella più nuova che corre dritta verso il ritorno e li mi aspetterà l'ultima ripartenza. Quella
definitiva.
Questo paese sembra tremendamente segnato dal viaggio. Chiunque io abbia incontrato
ha un amico o parente che è o è stato migrante. E tantissimi sono coloro che sono stati essi stessi
migranti, viaggiatori. I tassisti sono i miei migliori informatori e Marcos ce le ha tutte le
caratteristiche per essere il mio tassista di fiducia. Mi racconta che lui in Costa Rica c'è stato, ma
non sopportava il livello di sfruttamento e razzismo che si ha nei confronti dei Nicaraguensi
dall'altra parte della frontiera. Lui ha rinunciato al suo stipendio in Costa Rica per ritornare nel suo
paese. Mi racconta la sua storia mentre mi accompagna alla frontiera. Crede che sia un pazzo a
voler passare la frontiera da irregolare. Proprio io che un passaporto “facile” ce l'ho, dovrei
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attraversare la frontiera come tutti gli altri. Ma perché deve proprio essere così scontato che il mio
viaggio debba essere così semplice? Perché deve essere come il viaggio di tutti gli altri? Il primo
punto cieco del Rio San Juan mi attende, oggi la frontiera la brucio anche io.
Quasi sorpresa di vedermi ritornare da quelle parti, al confine ritrovo Yiulia, una signora
sulla quarantina che avevo incontrato qualche giorno prima in un primo sopralluogo del
famosissimo punto cieco del Ponte Santa Fé, quello da dove passano la maggior parte dei migranti
irregolari, anche se questo non lo rende affatto il più sicuro. Yiulia è la cambia valute del Ponte
Santa Fè. Mi sorride; è realmente contenta di vedermi e vuole aiutarmi. Come si arriva dall'altra
parte del fiume? Le chiedo. Tranquillo, ti procuro io il passaggio gratuitamente. Il primo passo è
fatto, dunque. Mi spiega che dall'altra parte ci sono i coyotes, i trafficanti. Credo che non si fidi per
nulla di loro e decide di accompagnarmi per parlare direttamente con loro. Yiulia mi racconta che
da tanti anni ormai fa quel lavoro. Le piace e le permette di risparmiare soldi per poter mandare
all'università i figli. Voglio che i miei figli studino e diventino medici e avvocati. Che bel e genuino
sogno, penso. A lei non è mai interessato andare dall'altra parte, mi racconta. Ha ascoltato così
tante storie di migranti che è come se ci fosse stata anche lei. Ammette di avere un po' di paura
all'idea stessa di affrontare i tanti problemi che affrontano i viaggiatori nicaraguensi dall'altro lato
della frontiera e lei in Nicaragua, in fondo, ci vive bene. Yiulia vuole che i coyotes ci vedano
insieme e così ridiamo e scherziamo fra noi due, in modo da far capire loro che siamo in
confidenza. D'un tratto si allontana e va verso di loro. Ritorna con un passaggio per me gratis fino
alla frontiera. Dopo toccherà a me decidere cosa fare, se proseguire il viaggio con gli altri migranti
oppure fermarmi alla prima città della frontiera del Costa Rica.
Il gruppo si forma pian piano. La prima pioggia della giornata sta arrivando, siamo già in
quattro e bisogna partire il più in fretta possibile. Si sale su una Jeep decisamente poco stabile, ma
pochi chilometri ancora e ci sarà la frontiera. Si fa tutto di fretta: si sale, si preme forte
l'acceleratore, gli altri pagano una parte del dovuto e si è pronti a scendere. La pioggia nel
frattempo è arrivata. Eccoci arrivati alla prossima tappa: un aranceto. Dove siamo? Chiedo.
Indicano al di là del campo di arance la frontiera meta del nostro viaggio. Un mio compagno di
viaggio scivola nel fango, io tengo stretta a me la macchina fotografica, curandomi di rimanere
sempre l'ultimo della fila, almeno fintanto che cerco di scattare un paio di foto. Ma che mi passa
per la testa? Dico a me stesso, attento a non scivolare fra il fango. Il ritmo lo detta il nostro coyote.
Siamo quasi arrivati, ci fa segno con le mani. La pioggia è sempre più forte e noi siamo già
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piuttosto sporchi di melma che dall'altra parte, mi assicurano, ci renderà riconoscibili proprio
come migranti nicaraguensi. E questo non è poi così consigliabile, né per gli altri, né tanto meno
per me. Ecco il coyote dell'altro paese che si avvicina a noi ed è pronto a dare il cambio al suo
collega del paese vicino. Ehi tu, chele! Che fai? Vieni con noi? Esito un momento. Si vengo!
Parlottano fra di loro preparando una risposta congiunta. Sono 20 mila colones. Stanno cercando
di fregarmi, ma poco male, io vado! Letteralmente me li strappano di mano e adesso sta a me non
rimanere indietro. Si corre ancora. Bisogna arrivare fino alla strada principale, poche centinaia di
metri e li una macchina ci aspetterà.
Il momento dopo aver passato la frontiera, il mio pensiero è andato alle centinaia di
migliaia di persone che questo viaggio lo fanno perché il mondo ingiusto ha consegnato loro un
passaporto sbagliato. A volte un passaporto inutile.
Si monta in macchina alla velocità della luce, non so neanche io come. Noi quattro
viaggiatori migranti saliamo dietro, i due coyotes vanno davanti. Si parte. La prossima fermata è
prevista fra duecento chilometri, con rischi annessi e connessi. Tre macchine della polizia
incrociano il nostro percorso. Due di loro ci riconoscono. Sono amici, dicono i due coyotes. La terza
macchina invece li spaventa. Forse non c’è neanche motivo, ma i pochi secondi in cui le due
macchine si incrociano, ci fanno raggelare il sangue. Il respiro si fa lento. Le scene sono quasi da
film. Quando passano avanti la tensione è ancora viva fra di noi. Superiamo la curva ed anche
questa è fatta. Siamo arrivati a destinazione, Ciudad Quesada. Con i coyotes ci si saluta come se ci
si conoscesse da tempo. Gli altri tre viaggiatori invece corrono via, sanno che è rischioso farsi
vedere insieme a loro. Io non riesco a controllare più l'adrenalina nel mio corpo. Mi fermo ad un
comedor e decido di prendere un caffè. Finalmente espresso. La cameriera con la pelle colore della
terra mi dice due parole, anche lei è nicaraguense e da molti anni vive da questa parte della
frontiera. Il mio viaggio è già oltre. Una telefonata e tutto sarà già passato. Mamma, il viaggio è
finito. Sono arrivato.
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