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n° 4/4 2015 carne spezie miele il nostro cibo quotidiano la rivista di slow food distillati slow corrente di pagina 02 01 slow Per inserzioni pubblicitarie Slow Food Promozione srl Enrico Bonardo, Sara Ferraiolo tel. 0172 419611-606 fax 0172 413640 [email protected] Prezzo a copia Italia 6,20 euro Europa 9,50 euro Usa e Canada 14 dollari Centro e Sudamerica, Asia Africa, Oceania 17 dollari Australia 18 dollari australiani Direttore editoriale Carlo Bogliotti Caporedattore Camilla Micheletti L’editore garantisce la massima riservatezza dei dati forniti dai destinatari di Slow, la rivista di Slow Food e la possibilità di richiederne gratuitamente la rettifica o la cancellazione scrivendo a Slow Food-Centro servizi via della Mendicità Istruita, 14 12042 Bra (Cn) Fotolito Imagoit.com Marene (Cn) Stampa G. Canale & C. SpA Borgaro Torinese (To) Coordinamento editoriale Chiara Cauda Redazione Giancarlo Gariglio Eugenio Signoroni Art direction e progetto grafico Undesign — Slow Food Editore srl via della Mendicità Istruita, 45 12042 Bra (Cn) tel. 0172 419611 fax 0172 411218 www.slowfood.it [email protected] Presidente Roberto Burdese Amministratore delegato Carlo Bogliotti — 04 Amministrazione via della Mendicità Istruita, 14 12042 Bra (Cn) tel. 0172 419611 fax 0172 411299 — ISSN 1722 7852 ISBN 9788884993786 Copyright Il materiale scritto dalla redazione e dall’associazione Slow Food e pubblicato su questa rivista è disponibile sotto licenza Creative Commons – Attribuzione – Non commerciale – Condividi allo stesso modo 2.5. Significa che può essere riprodotto a patto di citare Slow, la rivista di Slow Food, di non usarlo per fini commerciali e di condividerlo con la stessa licenza. Registrazione Slow 75/2015 Periodico di informazione iscritto al Tribunale di Alba (Cn) Registrazione n. 2/96 Direttore responsabile Grazia Novellini Chiuso in redazione 10/12/2015 Hanno collaborato Alessandra Abbona Collaboratrice Università degli Studi di Scienze Gastronomiche di Pollenzo — Eleonora Bergoglio Collaboratrice Università degli Studi di Scienze Gastronomiche di Pollenzo — Lorenzo Berlendis Vicepresidente Slow Food Italia — Elisa Bianco Collaboratrice CIWF — Andrea Cascioli Collaboratore ufficio stampa Slow Food Italia — Sonia Chellini Vicepresidente Slow Food Italia — Flavio Coffano Collaboratore Università degli Studi di Scienze Gastronomiche di Pollenzo — Ivo Danchev Fotografo e collaboratore Osservatorio sui Balcani e Caucaso — Agnese Del Canto Tecnologa alimentare — Michele Fino Delegato del Rettore alla Laurea Magistrale Università degli Studi di Scienze Gastronomiche di Pollenzo — Francesco Martino Redattore Osservatorio sui Balcani e Caucaso — Francesco Panella Presidente U.N.A.API — Gaetano Pascale Presidente Slow Food Italia Rinaldo Rava Collaboratore Università degli Studi di Scienze Gastronomiche di Pollenzo — Claudio Riva Fondatore Whisky Club Italia — Eugenio Signoroni Curatore Osterie d’Italia — Federica Vizioli Collaboratrice Slow Food Editore ↓ Con la collaborazione degli studenti della Laurea Magistrale dell’Università degli Studi di Scienze Gastronomiche di Pollenzo Gloria Feurra Gennaro Mazzola Stella Ricciardelli Paolo Solinas Cristina Tenino Mara Ventura PP. 17-25 sommario slow Sommario 01. expo 2015 p. 18 p. 22 PP. 81-104 Expo dopo Expo Uomini di mais: custodi di libertà Sul campo / field project p. 82 p. 90 p. 96 p. 102 PP. 27-35 02. terra madre giovani p. 28 p. 32 PP. 37-78 Terra Madre Giovani, un bilancio Chi sono gli eroi del futuro 03. il nostro cibo quotidiano p. 38 p. 44 p. 46 p. 50 p. 56 p. 62 p. 66 p. 74 06 Dop: le dimensioni contano Quanto conta davvero l’origine? Piadina romagnola Igp: un’industria della tradizione Territorio o vitigno? Cosa vuol dire benessere animale? Dalla testa alla coda La scelta vegetariana I mieli, una tavolozza di sfumature da conoscere e apprezzare Un mondo di spezie È il tempo del distillato Destinazione Sile, Mercato della Terra Il nostro cibo quotidiano PP. 107-127 04. mondo slow p. 108 p. 110 p. 114 p. 118 p. 120 p. 124 Agenda Sport e alimentazione L’orizzonte d’Appennino è a sud Slow Wine Tour Usa Assaggi di Cheese Terra Madre indigenous people: the future we want 07 intro slow Intro di Carlo Bogliotti 08 Si chiude il terzo anno della (oggi relativamente) nuova avventura di Slow, la rivista di Slow Food e si chiude il terzo esempio di come questo piccolo ma prezioso prodotto editoriale sia mutato ogni anno, mantenendo una coerenza nell’arco delle sue quattro uscite trimestrali, andando ogni volta a comporre un mosaico che acquista maggior peso concettuale una volta che si è completato l’insieme della sua annata. Il 2015 è stato l’anno del cibo quotidiano, attraversato dagli eventi (Vinitaly, Slow Fish, Cheese, Terra Madre Giovani) e dalla nostra presenza nei sei mesi di Expo. Un bilancio politico e non solo, che non può mancare in questo numero (a firma del presidente Gaetano Pascale e nella sezione dedicata), ci porta a rinforzare quanto mai l’impegno di Slow Food su tutti i temi sin qui sviluppati nella sua lunga storia. Una storia che in Italia il prossimo anno ci porterà a spegnere trenta candeline. Non è stato un caso se il comunicato stampa di chiusura di Expo di Slow Food Italia recitava: «Il nostro Expo inizia oggi, mentre si chiudono i cancelli a Rho». Con la rivista 2015 volevamo lasciare un tesoretto d’idee su questo fronte e intanto offrire un servizio ai soci per orientarsi meglio nei loro consumi di tutti i giorni. Abbiamo affrontato le varie categorie merceologiche del cibo, senza approfondire troppo ma ripartendo sempre dalle basi. Suggerimenti semplici, regole facili da applicare quando si fa la spesa, pareri di esperti che sono alla radice del nostro concetto di qualità declinata secondo il buono, pulito e giusto. È questa la nostra idea di cibo quotidiano. Ai soci più informati potrà anche essere sembrato riduttivo, ad altri invece sarà sicuramente risultato molto utile. L’idea di ripartire dalle basi non deve passare in secondo piano: crediamo che sia strategica e che valga, probabilmente, per tutto il mondo Slow Food. L’esperienza di Expo ci ha insegnato che interagire con un pubblico di massa non è così immediato per il tipo di messaggio di cui ci facciamo portatori e che la percezione media del nostro lavoro è 09 slow 10 Nel 2016 Terra Madre Salone del Gusto uscirà dalla sua storica sede del Lingotto Fiere a Torino per diffondersi nella città, esattamente come avviene per Cheese a Bra e per Slow Fish a Genova viziata ancora da tante incomprensioni, luoghi comuni, inefficienze nella comunicazione. Tutto questo nonostante che la sensibilità potenziale verso i temi del cibo e della sostenibilità sia in forte incremento. Ripartire dalle basi significa riaffermare concetti e buone pratiche che non bisogna mai dare per scontate, farle proprie e raccontarle con pazienza, cercando di distribuire i nostri semi presso un pubblico sempre più mutevole e distratto. Questo tipo di approccio ci sembra vincente e crediamo che possa essere utile tenerne conto anche in vista del prossimo Terra Madre Salone del Gusto. Non abbiamo scritto male: è questa la nuova dicitura del nostro maggiore evento, che nel 2016 (è ufficiale da pochi giorni mentre scriviamo) uscirà dalla sua storica sede del Lingotto Fiere a Torino per diffondersi nella città, esattamente come avviene per Cheese a Bra e per Slow Fish a Genova. Ma in questo caso stiamo parlando di qualcosa di molto più grande, che dovrà entrare nel cuore della città (il parco del Valentino e le belle strutture storiche di una Torino sempre più affascinante e viva) e che soprattutto dovrà vedere la nascita di un progetto nuovo, di nuove modalità di partecipazione e di organizzazione, di tante idee da raccontare al pubblico, a partire dalla centralità che si pone senza esitazioni su Terra Madre, come si evince dal nome ufficiale della kermesse. Oltre alla location anche le date subiranno qualche modifica: abbiamo anticipato l’evento di un mese (dal 22 al 26 settembre 2016) proprio perché si terrà in gran parte en plein air. Naturalmente a Bra, a Torino e anche nei territori si sta già lavorando alacremente e si sono già fatti i primi passi importanti per l’organizzazione di Terra Madre Salone del Gusto 2016. Il prossimo anno da queste pagine non potremo far altro che tenervi informati, sviluppare le narrazioni che poi si manifesteranno concretamente il prossimo settembre e accompagnare il tutto con la solita creatività nel proporvi una rivista che sia anche bella da rigirare tra le mani, sfogliare distrattamente, conservare in casa con un pizzico di orgoglio. In quanto all’oggi, invece, vogliamo augurare a tutto il mondo Slow Food un 2016 meraviglioso, un anno che scommettiamo sarà decisivo per il futuro del movimento, un’avventura che vogliamo affrontare con entusiasmo: (anche) noi ci saremo. Ma l’Esposizione universale ci ha anche confortato sull’efficacia del messaggio di Slow Food, quando parliamo di tutela della biodiversità, di educazione, di equità dei sistemi alimentari a un pubblico di Gaetano Pascale Il 2015 passerà alla storia, per chi si occupa di alimentazione e non solo, come l’anno di Expo. E infatti il cibo non è mai stato così al centro di dibattiti, discussioni e confronti come in questi ultimi mesi. Capiremo più avanti nel tempo se sono stati fatti progressi significativi in direzione di una maggiore sostenibilità sociale e ambientale dei sistemi alimentari globali. Nel frattempo resta forte la convinzione che alcuni schemi proposti da enti, organizzazioni e grandi aziende siano difficili da scardinare. 12 La Carta di Milano, che vuole essere una parte dell’eredità che ci lascia l’Expo, costituisce un esempio calzante di come sia timido l’approccio di chi ha in mano le redini dei processi decisionali. Un documento che, nelle intenzioni di chi lo ha promosso, doveva segnare una svolta nelle politiche alimentari del pianeta finisce per essere l’ennesimo tentativo di conciliare interessi e posizioni che conciliabili non sono. In questo modo si spiega l’assenza (o la presenza appena sfumata) di qualsiasi riferimento ai cambiamenti climatici – pur sapendo che l’agricoltura e i sistemi di produzione del cibo impattano non poco in tal senso –, al land grabbing che impedisce la sovranità alimentare di intere popolazioni o alla proprietà dei semi per le comunità locali dei contadini. Emerge così che anche le multinazionali alimentari discutono di responsabilità sociale e sono disposte perfino a fare delle concessioni in tal senso, a patto che queste consentano di non sacrificare neppure una briciola dei profitti attesi, ma anzi possano diventare una nuova leva di marketing. Perché ormai va così: dal momento che non ci può opporre alla crescente consapevolezza dei cittadini sul fatto che i processi produttivi più vasto e meno specializzato di quello che solitamente già rivolge le proprie attenzioni alle nostre attività. Un messaggio perciò che dobbiamo continuare a trasmettere con convinzione e impegno attraverso i nostri progetti diffusi sui territori, lavorando per migliorare progressivamente il cibo che consumiamo ogni giorno sulle nostre tavole. L’approdo alla qualità del cibo quotidiano è il più naturale possibile per il nostro percorso, noncuranti di chi continuerà ad appiopparci l’etichetta di snob o radical chic, sradicando la convinzione che prodotti di qualità, ottenuti nel rispetto dell’ambiente e dei diritti dei lavoratori, siano soltanto appannaggio di persone benestanti o facoltose. Oggi ci troviamo di fronte a un unico grande sistema alimentare globale che viene calato in maniera dirompente a livello locale ed è governato da pochi colossi in grado di condizionare pesantemente legislatori e consumatori. Bisogna rivoltare come un calzino questo meccanismo e creare sistemi locali del cibo connessi fra loro, per restituire ai popoli sovranità alimentare, uscendo dalla logica competitiva impostata sul prezzo più basso possibile, che finisce inevita- Nel 2016 celebreremo i nostri primi 30 anni di attività e alcuni nostri progetti sono diventati dei riferimenti per tanti addetti ai lavori bilmente per penalizzare i più fragili ma anche i più virtuosi. Un cambiamento di questa portata sarà possibile solo se cambiano le norme che disciplinano i processi produttivi, dalla burocrazia all’etichettatura. Per questo è importante continuare e rinforzare la nostra azione di pungolo nei confronti degli organismi legislativi locali, nazionali e internazionali. Ma questo cambiamento avviene se anche noi di Slow Food facciamo la nostra parte nella costruzione di sistemi locali del cibo, consentendo ai tantissimi agricoltori, allevatori e artigiani che lavorano con serietà e scrupolosità di diventare i nostri fornitori di cibo quotidiano, anziché di materie prime per l’industria alimentare. Ogni condotta, ogni comunità del cibo può diventare il germoglio per la crescita di un sistema locale del cibo, perciò occorre una rete di Slow Food più capillare verso il 2016: slow food compie trent’anni slow debbano fare i conti con la sostenibilità ambientale, si prova almeno a sfruttarla per un tornaconto economico. Verso il 2016 Slow Food compie trent’anni 13 slow 14 e più solida che sappia coniugare l’analisi critica con la capacità di orientare la politica, ma soprattutto sappia sporcarsi le mani attraverso progetti realizzati sul proprio territorio. Del resto nel 2016 celebreremo i nostri primi 30 anni di attività: alcuni nostri progetti sono diventati dei riferimenti per tanti addetti ai lavori – penso ai Presìdi, agli Orti in condotta o ai grandi eventi – e oggi non pecchiamo di immodestia se affermiamo che le dinamiche alimentari del nostro Paese sono in (lento) miglioramento grazie al nostro contributo e che Terra Madre ha ridato speranza a tante comunità rurali in tutto il mondo. Il trentennale, perciò, rappresenta anche una grande occasione per ampliare l’eco della nostra voce sulla tutela della biodiversità, sulla riduzione delle emissioni di CO2 e del consumo di suolo, sulla riduzione degli sprechi, sulla legalità, e portarla anche a un pubblico che non ancora non ci conosce. Ma se vogliamo raggiungere un pubblico nuovo avremo bisogno di un nuovo linguaggio e soprattutto dovremo consentire ai giovani, il motore più potente per qualsiasi cambiamento, di portare la loro energia dentro la nostra rete. Potremo così rispondere nel migliore dei modi alle aspettative, sempre più elevate, che in tanti ripongono in noi. In un momento in cui la società continua a generare squilibri e diseguaglianze su tanti fronti, il nostro lavoro portato avanti con passione, umiltà e determinazione costituisce qualcosa di più di una speranza, per provare a correggere la rotta attraverso il cibo, dalla parte dei più fragili. C M Y CM MY CY CMY K SIAMO CON CHI METTE PASSIONE IN OGNI COSA, CON CHI CREDE CHE IL LAVORO SIA UN MODO PER expo 2015 L’ITALIA CHE LAVORA 01 Expo 2015 REALIZZARSI. SIAMO L’ITALIA CHE LAVORA. Andrea, si sta preparando per accompagnare Chiara al suo primo giorno di scuola materna. «Voi siete il futuro della terra, perché lavorate con la terra e dalla terra prendete questa energia. Chi lavora la terra è il tutto, non la parte, ed è questo messaggio che vogliamo passi. Noi siamo la parte dell’umanità che si fa carico della complessità del vivere, perché il cibo è l’unica cosa che ci rende viventi» La prima multinazionale italiana del lavoro Lavoro temporaneo, permanent staffing, ricerca e selezione, executive search, formazione, supporto alla ricollocazione, amministrazione HR, outsourcing, consulenza HR: scopri in che modo possiamo aiutare aziende e candidati su www.gigroup.com Carlo Petrini, fondatore di Slow Food, ai giovani di We Feed the Planet 17 slow Expo dopo Expo di Lorenzo Berlendis 18 Expo ha chiuso i battenti. La valutazione di quello che l’Esposizione avrà lasciato nelle abitudini individuali e nella coscienza collettiva vorrà tempi e modi congrui. Noi vorremmo ricostruire il senso di questa formidabile occasione planetaria a partire dalla restituzione delle complesse ed eterogenee realtà a cui abbiamo dato voce. Il nostro padiglione era un angolo quieto, accogliente e familiare che ha fatto sentire a proprio agio chi ci è venuto a trovare o si è trovato per caso a passeggiare tra le vasche dell’orto, a sfogliare le tavole del percorso sulla biodiversità, a sedere sulle panche durante questa o quella conferenza. Nel nostro Theater abbiamo ospitato centinaia di esperienze messe in atto dalle nostre comunità in ogni angolo del globo. In più di 700 eventi, agricoltori, allevatori, contadini, pescatori, pastori, chef, ricercatori, artigiani del cibo sono venuti a raccontarci come operano, ogni santo giorno, per fornirci il cibo quotidiano. Decine e decine di soggetti pubblici, istituzioni, associazioni sono venute a confrontarsi con noi. Migliaia di studenti e visitatori hanno apprezzato il nostro percorso educativo, i nostri pensieri, le nostre parole: venivano da noi a cercare il senso vero di questa manifestazione e lì lo hanno trovato, lì hanno avuto l’occasione di contribuire a costruirlo, anche con i migliaia di messaggi lasciati sull’albero della biodiversità. Di tutto quel che è stato, di quegli attori delle filiere agroalimentari che sono venuti a raccontare e raccontarsi vorremo tenere compiuta memoria. Ci eravamo ripromessi, in apertura di Expo, di tenere un “libro di bordo”. Ogni giorno abbiamo pubblicato sui siti traccia del pa- expo dopo expo linsesto. Abbiamo registrazioni, materiali sonori, foto, relazioni, documenti, presentazioni che non vogliamo disperdere, che intendiamo rendere disponibili per la nostra rete. Difficile scegliere quali esempi citare nella messe di conferenze e presentazioni ugualmente significative: — il primo incontro nazionale degli Uomini di mais, i custodi di libertà di cui si narra in questo stesso numero; — la presentazione del docu-film I cavalieri della laguna, con l’appassionata testimonianza di due pescatori di Orbetello, reduci dal disastro ambientale che ha colpito la comunità nello scorso luglio; — la marcia dei 100 cuochi venuti da tutto il mondo, la visita della delegazione toscana dei cuochi dell’Alleanza, con la loro Carta etica; — la sottoscrizione del protocollo con la sezione italiana dell’Alleanza mondiale dei paesaggi terrazzati, per sviluppare azioni comuni per la mappatura e valorizzazione di territori, prodotti e comunità; — l’ospitalità condivisa con un focus group all’interno del congresso della World Association of Agronomists; — gli interventi di scienziati e ricercatori, da Marcello Buiatti a Pier Paolo Poggio, sui temi a noi cari; — la condivisione con i casari, venuti da tutta Italia, dei loro meravigliosi formaggi messi in degustazione allo Slow Cheese; — il racconto di come si stiano costituendo le filiere del cibo quotidiano nelle diverse comunità, dai Monti Lepini del Lazio ai laghi di Lombardia; Migliaia di studenti e visitatori hanno apprezzato il nostro percorso educativo, i nostri pensieri, le nostre parole / Migliaia di studenti e visitatori hanno — le interviste agli alunni delle scuole che gestiscono degli Orti in condotta, le lezioni di cittadinanza attiva con cui quegli stessi ragazzi hanno intrattenuto il pubblico; — le innumerevoli narrazioni delle comunità che fanno capo a questo o quel Presidio; — La pacifica invasione dei ragazzi di Terra Madre Giovani. Un repertorio infinito che abbiamo il dovere di conservare nei nostri “granai”, utilizzare, diffondere. 21 22 Il trasparente richiamo all’opera del grande scrittore guatemalteco Miguel Ángel Asturias non è un semplice omaggio alla sua ingegnosa prosa. Prosa capace di restituire l’epopea delle comunità mesoamericane, inestricabilmente intrise di mais; capace di maneggiare con sapienza variegati registri: onirico, grottesco e tragicomico, per trasmettere miti fondativi e grandezza di una cultura. Allude al conflitto profondo che contrappone gli uomini fatti di mais ai maiceros: i coltivatori di mais, coloro che tagliano e bruciano gli alberi per ottenere campi dove seminare il mais, non per alimentarsi ma per farne commercio, spezzando il nesso vitale che lega l’esistenza dell’indio alla terra, privandolo di identità e senso, profanando il sacro cereale di questi uomini e donne generati da «pannocchie di mais giallo e pannocchie di mais bianco... e questo è quel che entrò nella carne dell’uomo creato, dell’uomo fatto…» (Popol Vuh). Anche noi, oggi, siamo fatti di mais, per ragioni opposte e lontane da quelle degli indios del Centro America. È fatta di mais la carne che mangiamo, è fatto di mais il latte, è fatto di mais il formaggio, lo zucchero di merendine, biscotti, salse e bevande, è fatto di mais l’involucro, la borsa in cui stiviamo il cibo, i piattini compostabili in cui lo mangiamo, è fatto di mais il biogas che bruciamo. I maice- uomini di mais: custodi di libertà di Lorenzo Berlendis foto Franco Tanel slow Uomini di mais custodi di libertà ros di un pugno di multinazionali, come sappiamo, hanno riempito il mondo di mais, tantissimo mais, di pochissime varietà, ibride e transgeniche. Un mais che mangia la terra, mangia il suolo, mangia il paesaggio, mangia l’acqua, mangia l’aria, mangia l’uomo. Dentro questo scenario ecco che si rinnova il conflitto raccontato da Asturias. I nostri hombres de maiz sono quegli agricoltori custodi, quei contadini, quei mugnai, quei ricercatori che oggi, in completa controtendenza, cercano di rivalutare il consumo diretto del mais, con un approccio alla nutrizione che sia rispettoso di storia e di storie, di Terra e di terre. Un approccio che li contrappone ai moderni maiceros delle commodities. Il primo incontro italiano dei coltivatori di varietà di mais locali a impollinazione libera ha avuto luogo a ottobre all’interno di Expo, nello Slow Food Theater. Presenti i rappresentanti delle comunità che hanno selezionato nel tempo, conservato e reintrodotto diverse varietà: il pignoletto bianco e rosso, l’ottofile giallo, bianco e rosso in Piemonte; lo spinato di Gandino, il rostrato rosso di Rovetta e lo scagliolo di Carenno in Lombardia; il cinquantino bianco, giallo e rosso o il dente di cavallo in Friuli Venezia Giulia; lo sponcio bellunese, il biancoperla e il marano vicentino in Veneto; l’ottofile della Garfagnana e della valle del Serchio in Toscana; l’agostinella rosso dei monti Imbruini e dell’Aniene in Lazio e lo spugna bianca di Marigliano in Campania; e ancora il quartarana rosso in Abruzzo, e l’ottofile di Roccacontrada delle Marche, e lo spin della Valsugana in Trentino… È, questo, un elenco solo parziale di alcune delle varietà locali presenti in Italia, un enorme patrimonio di biodiversità a rischio di scomparsa. Di fronte a questi rischi, l’intento del progetto, presentato anche in Consiglio nazionale, è la concretezza. Valorizzare le piccole comunità del cibo italiane che continuano a produrre mais tradizionali. Mettere in rete queste esperienze, riconoscere il giusto valore anche economico a queste coltivazioni costituisce azione primaria di presidio del territorio, difesa del paesaggio rurale, diffusione della cultura agricola del nostro Paese. Il successo che stanno riscuotendo farine e trasformati, le irresistibili gallette andate a ruba nello Slow Cheese, sempre in Expo, testimoniano un potenziale capace di saldare bontà gustativa a valore nutrizionale, rispetto dell’ambiente a sostenibilità economica degli attori della 23 Il progetto passo dopo passo · Mappatura delle varietà e popolazioni di mais tradizionali, a impollinazione libera, che insistono sul territorio italiano, in particolare nell’area del Nord Italia storicamente collegata al consumo di mais per alimentazione umana. · Iscrizione al progetto Arca del Gusto delle varietà e popolazioni individuate con il lavoro di mappatura. · Interazione con il Registro delle varietà da conservazione, promosso da Regioni come Lombardia, Veneto… · Approfondimento e valutazione del materiale raccolto, individuazione di particolari varietà legate in modo unico al territorio di riferimento o a consumi specifici di una certa popolazione. · Individuazione di filiere di produzione specifiche che abbiano le caratteristiche per partecipare al progetto di Presidio Slow Food, seguendo il canovaccio del disciplinare del mais bianco perla, per la valorizzazione e tutela della loro realtà. · Creazione di comunità del cibo impegnate nella diffusione e promozione del recupero di varietà non convenzionali di mais ma che presentano specificità diverse rispetto al Presidio Slow Food. · Messa in rete dei produttori, incontri formativi, scambio di esperienze, sviluppo tecnico per il miglioramento di problematiche legate alla filiera produttiva (sostenibilità in campo, riduzione rischi da aflatossine, essiccazione e molitura controllata, miglioramento della qualità dei prodotti finali). · Studio delle possibilità di sviluppo e promozione di mulini a pietra connessi dalla rete dei produttori. · Comunicazione e presentazione dei risultati finali. uomini di mais: custodi di libertà slow filiera. Passaggio, quest’ultimo, indispensabile e strategico perché la contaminazione tra produttori si estenda e si rafforzi, se fondata sulla redditività garantita agli uomini di mais. Per raggiungere i suoi ambiziosi obiettivi il progetto è stato articolato in fasi successive, che potete leggere nel box dedicato. Renato Ballan, consigliere nazionale Slow Food e coordinatore della rete: «Siamo contadini e ricercatori, siamo chef e mugnai a cui non interessano gli ibridi super produttivi, ogm o meno che siano. Per scelta tecnica ed economica oltre che per convinzioni etiche, coltiviamo con pratiche agricole sostenibili varietà locali, a impollinazione libera, di altissima qualità gustativa, con precise e distinguibili caratteristiche organolettiche per rispondere a una crescente domanda di alimenti ben fatti, buoni, adeguatamente remunerativi del lavoro, strettamente ancorati ai nostri territori e alle nostre storie. Siamo ricercatori, anzi cercatori di libertà, siamo uomini di mais!» La controtendenza è innescata, ora serve ampliare la rete: agganciare i moltissimi mais per alimentazione umana che, qui e là, sono disseminati in valli e contrade del nostro Paese. Serve mettere un altro tassello importante nel mosaico di filiere etiche che cercano di cambiare abitudini e consumi alimentari, così come è stato fatto con il Presidio nazionale dell’olio extravergine di oliva, così come si sta facendo per latte e pane, verso un cibo quotidiano buono, pulito e giusto per tutti! Anche noi, oggi, siamo fatti di mais / Anche noi, oggi, siamo fatti di mais / Anche noi, oggi, siamo fatti di mais / Anche noi, oggi, siamo fatti di mais / Anche noi, oggi, siamo fatti di mais / Anche noi, oggi, siamo fatti di mais / Anche noi, oggi, siamo fatti di mais / Anche noi, oggi, siamo fatti di mais / Anche noi, oggi · Implementazione della ricerca fatta con la creazione di Presìdi e comunità del cibo. Coinvolgimento della rete associativa nella campagna di sensibilizzazione al consumo delle varietà tradizionali. · Raccordo con reti distributive e di commercializzazione improntate su trasparenza dei bilanci e rispetto della dignità del lavoro. 24 25 Terra Madre Giovani terra madre giovani 02 «Iniziative come Terra Madre Giovani rappresentano la resistenza alla società dei consumi. Buono, pulito e giusto sono le parole d’ordine della decrescita, Terra Madre l’esempio: un movimento che è partito dal basso ma che va molto lontano. A costo di sembrare passatisti pensiamo di proteggere i tesori locali con un protezionismo buono, da fare a livello nazionale e internazionale, anche per combattere accordi come il Ttip che minacciano i produttori di piccola scala» Serge Latouche 27 terra madre giovani, un bilancio slow Terra Madre Giovani un bilancio di Rinaldo Rava 28 Scegliere di convocare un evento dedicato ai giovani agricoltori e attivisti del cibo è di per sé un atto politico, specialmente nell’anno dell’Esposizione Universale che a questi temi si è legata e dedicata. Il modello con cui il cibo viene prodotto rappresenta infatti una questione profondamente politica perché mette in gioco la nostra idea di mondo e di futuro. Il cibo è ciò di cui tutti hanno bisogno, a ogni latitudine, per essere vivi e per poter condurre una vita degna, e questo è il motivo per cui dal cibo passa anche la giustizia, concetto anch’esso estremamente politico. Il 2015, poi, ha avuto (possiamo parlare al passato visto che si sta chiudendo) e avrà un significato particolare per i temi dell’alimentazione, della nutrizione, dell’ambiente e del futuro della specie umana. Per l’associazione Slow Food, per l’Università di Scienze Gastronomiche e per lo Sfyn rispondere a questi stimoli proponendo Terra Madre Giovani–We Feed the Planet, la grande adunata di contadini e produttori giovani, ha significato sottolineare ancora una volta una posizione chiara, ribadendo in maniera inequivocabile da che parte stiamo. Quello che infatti è stato in gioco e ancora è in gioco, in questa fine di 2015 che vede 195 Stati radunarsi a Parigi per Cop21, per cercare finalmente di intraprendere azioni comuni serie per porre un freno al cambiamento climatico dovuto all’azione umana, è una divergenza tra due modi di vedere il mondo e di conseguenza di considerare l’attività umana e 29 menti più intensi e significativi di tutta l’Esposizione Universale. Slow Food ha riaffermato il senso della propria presenza, sottolineando ancora una volta che l’impegno per la difesa e la promozione dell’agricoltura di piccola scala è al centro dell’attività dell’associazione e che senza questo slancio non possiamo dare futuro al nostro cibo. La rete che a Milano ha mosso i primi passi, come la rete di Terra Madre nata nel 2004, sarà uno strumento potente per il futuro di tutto il movimento, che potrà trarne nuova linfa, nuove idee e nuove pratiche per continuare a lottare per cambiare il sistema alimentare attuale che non funziona. Sono sempre di più, infatti, i giovani che si rendono protagonisti di quelle buone pratiche che in ogni parte del mondo agiscono per un cambiamento che vada verso la sostenibilità ambientale, la giustizia sociale, l’economia partecipativa. È questa la più grande eredità che We Feed the Planet lascia a tutto il movimento per gli anni a venire. Un grande gruppo di giovani che, forse per la prima volta nella storia dell’associazione, si è trovato a partecipare a un momento interamente pensato e strutturato ad hoc, con modalità di interazione e relazione adatte alle esigenze specifiche dei giovani. Già, perché l’evento di Milano è stato anche una palestra di sperimentazione, e i risultati fanno parte del bagaglio di strumenti che Slow Food potrà avere a disposizione da qui in avanti. terra madre giovani, un bilancio slow 30 il suo rapporto con il pianeta Terra. Da questo punto di vista Terra Madre Giovani–We Feed The Planet ha affermato con forza che i giovani della rete di Slow Food hanno le idee chiare e sono pronti a farsi sentire e a difenderle ogni giorno, con la pratica quotidiana sui territori, costruendo relazioni, producendo, trasformando, acquistando e consumando il cibo in maniera attenta, consapevole, ragionata e responsabile. I 2500 partecipanti all’evento provenivano da 112 Paesi del mondo ma erano tutti quanti accomunati da una visione alternativa, che è stata condivisa e ribadita poi negli appuntamenti in programma e dunque nelle conclusioni che da questi sono originate. Ma se bastasse affermare un principio, organizzare una conferenza sul tema della sostenibilità, o scrivere un documento di posizione per affermare le proprie convinzioni, forse non ci sarebbe stato bisogno di Terra Madre Giovani. Ciò che ha fatto la differenza è che i ragazzi e le ragazze che sono venuti a Milano hanno costruito una rete fisica, si sono guardati negli occhi, hanno sentito il suono di lingue differenti, hanno conosciuto pezzi di culture lontane, hanno ampliato la loro visione condividendola con chi, dall’altra parte del mondo, pratica la stessa agricoltura, la stessa pesca, in definitiva la stessa filosofia di vita. All’interno dell’Expo, poi, la moltitudine dei giovani di Terra Madre in marcia lungo il Decumano è stato uno dei mo- 31 di Andrea Cascioli 32 «Cominciate col fare ciò che è necessario, poi ciò che è possibile. E all’improvviso vi sorprenderete a fare l’impossibile»: in questa esortazione di san Francesco, ripresa da Carlo Petrini nella guida alla lettura della Laudato si’, c’è qualcosa dello spirito che ha animato Terra Madre Giovani–We Feed the Planet. Il piccolo gruppo che ha lavorato nei mesi scorsi alla realizzazione dell’evento ha tracciato un sentiero in una terra inesplorata, trovandosi a risolvere di volta in volta le incognite che ogni “prima assoluta” porta con sé. Lavoro ripagato da un successo che va molto al di là dei numeri, quelli dei duemilacinquecento partecipanti da 120 Paesi, dei millecento posti let- to messi a disposizione da istituzioni, enti e famiglie milanesi per i nostri delegati, degli oltre 300 000 euro raccolti con il crowdfunding o delle testate italiane e straniere, più di trecento sui vari media, che hanno seguito i quattro giorni della manifestazione. Le sfide da vincere erano molte: non si trattava soltanto di riempire di contenuti il circo globale di Expo, o di chiamare a raccolta la rete giovanile di Slow Food per il suo primo appuntamento internazionale. Come ha ricordato l’economista Raj Patel dal palco di Superstudio Più, Terra Madre Giovani ha soprattutto contribuito a spazzare via i più radicati pregiudizi contro la campagna e i contadini. A Milano si è radu- parazione dell’evento, la scoperta delle incredibili storie celate dietro ai volti di Terra Madre Giovani è stata una sorpresa continua: c’è chi costruisce impianti a energia solare per realizzare popcorn “a impatto zero” a New York, chi affianca all’attività di pubblicitaria quella di apicoltrice in Austria, chi ha lasciato un impiego da assistente universitario in Sri Lanka per contribuire allo sviluppo agricolo delle regioni Tamil devastate dalla guerra. Dagli urban farmers agli indigeni dell’Amazzonia, quello degli “agricoltori 2.0” nella città dell’Expo è stato molto più di un bazar di vestiti e copricapi dai mille colori. L’energia delle ragazze e dei ragazzi arrivati da ogni angolo del mondo si legge fin dal primo giorno sui volti di chi assiste al discorso inaugurale di Carlo Petrini: «Quando è nata l’idea di Terra Madre – ricorda il fondatore di Slow Food – molti di voi erano bambini. Ma oggi voi siete la testimonianza che questa idea andrà avanti per tanto, tanto tempo». I relatori non hanno mancato di coinvolgere, appassionare, a tratti perfino infiammare le platee, come ha fatto Come ha ricordato l’economista Raj Patel dal palco di Superstudio Più, Terra Madre Giovani ha soprattutto contribuito a spazzare via i più radicati pregiudizi contro la campagna e i contadini Raj Patel invitando il pubblico a un “We Feed the Planet!” collettivo, prima di lanciarsi in una documentata accusa del sistema alimentare. La chef Alice Waters si è spinta ad affermare che «il cibo industriale, il fast food sono un affronto alla democrazia», mentre per il teorico della decrescita Serge Latouche «iniziative come Terra Madre Giovani rappresentano la resistenza alla società dei consumi». Dal procuratore antimafia Nicola Gratteri è arrivato invece un messaggio dirompente sulla «debolezza dell’Unione Europea e dell’Onu» nel regolare il mercato agroalimentare, stroncando il fenomeno del caporalato. I veri protagonisti però sono stati gli chi sono gli eroi del futuro slow Chi sono gli eroi del futuro nato sotto l’insegna della Chiocciola il meglio dell’agricoltura di domani: giovani preparati, consapevoli, entusiasti, lontani dall’idea che la cura della terra sia un mestiere destinato a tramontare assieme alle vecchie generazioni o a confinarsi nel limbo delle professioni più dequalificate e marginali. Anche per chi ha seguito l’intera pre- 33 chi sono gli eroi del futuro slow 34 La marcia dei duemilacinquecento lungo il Decumano, senza dubbio il momento più emozionante dell’evento, ha segnato la degna conclusione di quattro giorni difficili da dimenticare “eroi del futuro”, i delegati che hanno animato gli incontri regionali e i tanti capannelli improvvisati dove si sono strette nuove amicizie e ci si è confrontati su idee e progetti. Tra quelli emersi dall’hackathon (la “maratona di idee” tenutasi il penultimo giorno) i più gettonati sono stati Radish, un servizio di e-commerce per la spesa virtuale tra i banchi del mercato, e Indie farmer, una sorta di “Airbnb contadino” attraverso il quale si possono organizzare visite ed eventi nelle fattorie. L’ultimo atto della grande festa di Terra Madre Giovani non poteva che essere a Expo, per portare nel cuore della più grande manifestazione sul cibo la voce di quei produttori di piccola scala che contribuiscono per il 70% a sfamare il pianeta. «Mai nella mia vita ho provato il senso e la forza di un’energia così straordinaria come in questa riunione» confessa Petrini nel corso della cerimonia di chiusura, alla quale hanno preso parte anche i ministri Gentiloni e Martina, il sindaco di Milano Pisapia e il commissario di Expo Sala. La marcia dei duemilacinquecento lungo il Decumano, senza dubbio il momento più emozionante dell’evento, ha segnato la degna conclusione di quattro giorni difficili da dimenticare. Con Terra Madre Giovani si è chiusa una pagina importante, ma il confronto sul futuro dell’alimentazione nel nostro pianeta è appena incominciato: siamo sicuri che chi ha preso parte a questa esperienza abbia tutti gli strumenti per contribuirvi. 35 03 Il nostro cibo quotidiano Handmade with pride from Valdobbiadene soil. il nostro cibo quotidiano bortolomiol.com «La cucina e i campi sono l’una l’estensione degli altri e viceversa, perciò dobbiamo essere coproduttori, perché l’85% del risultato in cucina è legato all’agricoltura. Avere ingredienti saporiti e nutrienti è fondamentale perché il gusto è ciò che rende il lavoro del cuoco davvero irresistibile per i clienti» Alice Waters, vicepresidente Slow Food Internazionale e chef a Chez Panisse 37 SLOW 38 MACELLATO IN ITALIA SELEZIONATO IN ITALIA CODICE DI RIFERIMENTO NATO IN ITALIA ALLEVATO IN ITALIA IT0531 DA CONSUMARSI ENTRO IL 12/12/2015 di Elisa Bianco Quando ci troviamo davanti al concetto di benessere animale, può capitare di sentirsi spaesati. Sembra un’idea molto intuitiva, eppure non è sempre immediata da esprimere: è difficile darne un’unica definizione e, talvolta, può assumere significati diversi in contesti differenti. Un bovino al pascolo, per esempio, non è necessariamente in una condizione di benessere, così come non è detto che non sia possibile rispettare il benessere dei suini in allevamenti al coperto. Se si cerca una definizione tecnica, si può fare riferimento a cinque libertà (vedi box), ma più in generale il benessere guarda alla qualità di vita così com’è percepita da ogni singolo animale. In altre parole, significa assicurarsi che a ogni animale sia garantito un buon benessere fisico e mentale, e la capacità di esprimere i propri comportamenti naturali (come grufolare per i suini o becchettare per i polli). In termini più semplici, rispettare il benessere degli animali non vuol dire trattarli preventivamente con farmaci o mutilarli perché sopravvivano adattandosi all’allevamento, ma progettare l’ambiente perché si adatti alle loro esigenze. Tenere conto del benessere animale nel fare la spesa è importante perché i prodotti di animali allevati in sistemi estensivi all’aperto hanno una qualità nutrizionale migliore (per esempio un contenuto più alto di omega 3), tutelano di più la nostra salute (per il minore uso di antibiotici), e perché il modo in cui è stato allevato un animale è parte integrante dell’idea di qualità e sostenibilità di un prodotto. Esattamente come, scegliendo un pomodoro, vogliamo sapere da quale coltivazioni proviene, allo stesso modo, comprando un cosa vuol dire benessere animale? slow Cosa vuol dire benessere animale? CONSERVARE IN FRIGORIFERO TRA I +0° E I +2° 39 geografica, cosa che non dice niente sulle condizioni di vita degli animali. Il “100% carne italiana” non dà informazioni sui metodi di produzione, perché gli standard medi di allevamento in Italia sono pressoché gli stessi di Francia o Germania (non particolarmente elevati). Solo per le uova in guscio è obbligatoria l’etichettatura secondo il metodo di produzione e si può conoscere il tipo di allevamento leggendo il cosa vuol dire benessere animale? slow salame, dovremmo sapere com’è stato allevato quel suino. Ma, soprattutto, è importante perché la legislazione italiana ed europea riconosce gli animali come esseri senzienti, capaci di capire e provare emozioni, dolore e paura. Stiparli in spazi angusti e opprimenti, sottoporli a mutilazioni di routine, costringerli in gabbia non vuol dire trattarli come esseri senzienti. Pensare al benessere animale non significa solo CONSERVARE IN FRIGORIFERO TRA I +0° E I +2° 40 tutelare gli animali, ma anche rispettare l’ambiente, l’uomo, la società in cui vive e, soprattutto, la legge. A questo punto arriva la parte difficile: come mettere in pratica tutto questo? Il primo strumento che abbiamo sono le etichette, che però, in molti casi, non forniscono indicazioni utili alla scelta. Nella migliore delle ipotesi, se l’etichetta riporta l’origine del prodotto, farà riferimento alla provenienza codice sulle confezioni (3 per i sistemi in gabbia, 2 per quelli a terra al coperto, 1 per quelli all’aperto, 0 per quelli biologici). Ma se dobbiamo scegliere un prodotto che contiene uova come ingrediente, casca l’asino, perché pasta, biscotti o torte non devono essere etichettati e non possiamo conoscere l’origine delle uova, a meno che l’azienda produttrice non lo specifichi come informazione aggiuntiva. SLOW MACELLATO IN ITALIA SELEZIONATO IN ITALIA CODICE DI RIFERIMENTO NATO IN ITALIA ALLEVATO IN ITALIA IT0531 DA CONSUMARSI ENTRO IL 12/12/2015 Il “100% carne italiana” non dà informazioni sui metodi di produzione, perché gli standard medi di allevamento in Italia sono pressoché gli stessi di Francia o Germania (non particolarmente elevati) 41 Le cinque libertà da soddisfare per dire che un animale è in una situazione di benessere: → libertà dalla fame e dalla sete → libertà dal dolore e dalle malattie → libertà di avere un ambiento fisico adeguato → libertà di esprimere i comportamenti specifici della specie → libertà dalla paura e dal disagio Benessere animale = Livelli più alti di omega 3 cosa vuol dire benessere animale? di allevamento (www.compassionsettorealimentare.it). Ma cosa bisogna chiedere, considerando che ogni animale avrà bisogno di condizioni diverse per garantirne il benessere? L’abc del benessere animale può partire da tre aspetti: Gabbie. Sono state utilizzate gabbie? Non pensiamo solo alle galline, ma anche alle scrofe tenute in gabbia durante l’allattamento, o ai conigli. Mutilazioni. Gli animali hanno subito mutilazioni di routine? Per esempio, i suini in sistemi intensivi standard vengono sottoposti nella prima settimana di vita al taglio della coda, alla castrazione chirurgica e, in alcuni casi, alla troncatura dei denti, senza anestetici o analgesici. Ambienti spogli e mancanza di spazio. Gli animali avevano spazio per muoversi o erano in condizioni di sovraffollamento? Avevano accesso all’aperto, una lettiera per coricarsi o mezzi per esprimere i loro comportamenti naturali? C’erano finestre o gli ambienti erano bui e regolati solo da illuminazione artificiale? All’inizio potrebbe non essere facile avere risposte chiare a queste domande, ma chi lavora bene c’è e con un po’ di pazienza e costanza non è troppo difficile riuscire a trovarlo. La carne derivante da animali allevati in condizioni di benessere contiene una proporzione di grassi omega 3 maggiore rispetto ai prodotti equivalenti dell’industria alimentare * Dati forniti da CIWF - Compassion in World Farming una buona ruminazione. Non sarebbe difficile fornirglielo, basterebbe un’area con lettiera in paglia, ma in molti allevamenti si è scelto di mettere pavimenti fessurati, per facilitare la pulizia all’allevatore, a scapito, però, del benessere degli animali: la paglia cadrebbe nei fori intasando lo scolo dei reflui e, quindi, non viene utilizzata. Un discorso a parte merita l’hamburger, spesso fatto con carne di vacche da latte a fine carriera. Niente di preoccupante per la nostra salute, ma non si può dire lo stesso in termini di benessere animale, dato che non esiste una legge che regoli le condizioni di allevamento delle bovine da latte. Il risultato è che si trova un po’ di tutto: vacche legate alla posta per tutta la vita, vacche legate in inverno ma al pascolo d’estate, o vacche libere di muoversi in stalle nuovissime e modernissime, che però non hanno mai accesso a uno spazio all’aperto. Fortunatamente, oltre alle etichette, un produttore virtuoso fa ricorso ad altri mezzi per raccontare ciò che lo distingue: collaborazioni con Ong, pubblicità, comunicazioni nei punti vendita, sui siti internet, su Facebook eccetera. Il consumatore può fare la differenza, informandosi e chiedendo direttamente alle aziende, ai supermercati o al macellaio come sono stati allevati gli animali. Alcune organizzazioni, come Compassion in World Farming (CIWF), si occupano esclusivamente di benessere animale e collaborano con le aziende alimentari per migliorare gli standard ( ) slow 42 Un’altra indicazione priva di contenuto è carne di “pollo allevato a terra”. In Europa, a differenza delle galline, la legge vieta di allevare polli da carne in gabbia. Tutti i polli sono allevati a terra, quello che cambia è se gli animali hanno vissuto in capannoni illuminati con luce naturale o senza finestre, con balle di paglia da becchettare o trespoli su cui appollaiarsi, se erano ammassati in 20 polli per metro quadrato o allevati a densità inferiori, se avevano a disposizione uno spazio all’aperto. In questo senso i polli sono fortunati, perché tutte queste indicazioni possono essere riportate in etichetta e, di solito, chi lavora meglio ci tiene a farlo sapere anche sulle confezioni. I conigli, al contrario, sono più sfortunati perché non hanno né una legge che ne regoli l’allevamento, né tantomeno l’etichettatura. Come pochi sanno, l’Italia è il secondo produttore mondiale di coniglio dopo la Cina, eppure il “coniglio italiano” è allevato, per la quasi totalità dei casi, in sistemi in gabbia estremamente intensivi. Anche sul bovino da carne bisogna fare un po’ di attenzione. Moltissimi vitelli allevati e ingrassati in Italia arrivano dalla Francia: trasportare animali vivi per tempi lunghi è causa di forte stress, per la fatica e il sovraffollamento durante il viaggio. Inoltre, indipendentemente da dove sono nati, i bovini da carne in Italia vivono in un mondo complicato: spesso sono allevati in ambienti sovraffollati senza un posto confortevole in cui coricarsi, aspetto fondamentale per fino al 565% in più fino al 430% in più fino al 170% in più fino al 185% in più Maggiore benessere = minore quantità di grassi — Scegliendo carne proveniente da animali che hanno vissuto in condizioni di benessere piuttosto che quella che arriva dalla grande industria, i consumatori possono ridurre notevolmente l’assunzione di grassi, inclusi i grassi saturi — Polli bio allevati all’aperto: dal 50% di grassi in meno — Bovini allevati al pascolo: dal 25 al 50% di grassi in meno* 43 di Camilla Micheletti 44 Non di soli filetti e lombate è fatto un manzo, così come non di solo petto è fatto il pollo. Quando di un manzo consumiamo solo i tagli più pregiati, infatti, non impieghiamo che 40 chili dell’animale, e le parti che non si acquistano spesso finiscono tra gli scarti. Imparare a valorizzare tutto l’animale, “dalla testa alla coda”, ci può invece aiutare ad abbattere gli sprechi, a riscoprire interessanti ricette locali, a valorizzare pienamente il lavoro degli allevatori e dei macellai. Del resto tutta la cucina popolare, a qualunque latitudine, prevede ricette che hanno come obiettivo quello di utilizzare l’intera bestia (del maiale non si butta via niente, recita il vecchio adagio) ed evitare gli sprechi. Il consumo dei tagli alternativi di carne mette in moto un circolo virtuoso: proviamo a vedere la portata di questa buona pratica dal punto di vista di tutti i protagonisti della filiera produttiva, traslando il paradigma “dalla testa alla coda” in “dalla stalla alla tavola”. Per quanto riguarda gli allevatori ne guadagnerebbero i tanti produttori che propongono sul mercato carne di qualità e certificata: in questo caso, infatti, ogni parte dell’animale (non solo il filetto!) è ottima. La costante e ingente richiesta degli stessi tagli favorisce l’allevamento industriale e intensivo, un mondo in cui lo scarto è il male minore e inevitabile, un sistema che si situa all’opposto di ciò che intendiamo quando parliamo di buono, pulito e giusto. Scegliere tagli alternativi, in questo caso, dimostrerebbe rispetto non solo per gli animali ma anche per gli allevatori che hanno il diritto di vedere riconosciuto il valore complessivo dell’animale. Per i rivenditori, ovvero i macellai, una maggiore richiesta di tagli alternativi significherebbe una notevole riduzione di merce invenduta. Inoltre, dal momento che nella grande distribuzione non è semplice trovare tagli alternativi – prevalgono invece le solite fettine comodamente impacchettate –, la riscoperta di ricette della tradizione invoglierebbe i consumatori a recarsi nelle piccole macellerie, contribuendo a riattivare quel commercio al dettaglio che a causa del minor tempo che dedichiamo a fare la spesa è uno dei settori che ha sofferto di più questa lunga crisi. Per il ristoratore e per il cuoco, oltre all’evidente risparmio nell’acquisto della materia prima, c’è la sfida di mettersi alla prova e far apprezzare al cliente sia ricette del territorio, sia rivisitazioni che alleggeriscono e rinnovano le preparazioni tradizionali. Basta pensare al grande lavoro compiuto in questo senso dai locali di Osterie d’Italia: sfogliando le pagine della guida non è difficile imbattersi, tra i piatti consigliati, in lingua, guancia, trippa, diaframma, coda, ma anche frattaglie di coniglio e di pollo, collo d’oca, orecchie e piedini di maiale. Fortunatamente la riscoperta delle ricette della tradizione sta investendo non solo la cucina delle osterie, ma anche l’alta ristorazione. Uno degli esempi più evidenti è Damini e Affini, ristorante- macelleria stellato in cui i fratelli Giorgio e Gian Pietro, uno macellaio, l’altro cuoco, scelgono di cucinare con tutte le parti dell’animale, come nel loro celebre piatto, il Damburger, un hamburger all’italiana realizzato con la parte anteriore della bestia macellata. Arriviamo infine al consumatore, che sia in versione cliente del ristorante o cuoco casalingo: il primo e più evidente vantaggio arriva con il gusto. Anche quello dei tagli alternativi e delle frattaglie è un mondo ricco di biodiversità, in cui è possibile assaggiare dai piatti ipersaporiti a quelli molto delicati. L’ultimo aspetto, ma non meno importante, è il prezzo: anche il portafoglio, oltre al palato, ne guadagnerebbe non poco. Una stima effettuata all’inizio del 2015 da Coldiretti Lombardia e Consorzi carni bovine ha messo in evidenza come le famiglie lombarde potrebbero risparmiare quasi 500 milioni di euro acquistando i tagli meno conosciuti o utilizzati. Secondo l’analisi, infatti, a fronte di un consumo annuo di 20 chili di carne bovina a testa, ogni famiglia lombarda potrebbe risparmiare fino a 300 euro se il 50 per cento della spesa di carne fosse riservata a tagli da bollito, trita di qualità, polpa scelta e ossibuchi. «Molto spesso – afferma Ettore Prandini, presidente di Coldiretti Lombardia – c’è una specie di resistenza a utilizzare questi tagli di carne, quasi che fossero di seconda scelta. Invece se l’allevamento è di qualità, tutto il prodotto è di qualità, in ogni sua parte». dalla testa alla coda foto Paolo Andrea Montanaro slow Dalla testa alla coda Sfogliando le pagine della guida Osterie d’Italia non è difficile imbattersi, tra i piatti consigliati, in lingua, guancia, trippa, diaframma, coda 45 di Eugenio Signoroni Sono un carnivoro convinto. È bene dirlo subito. Credo che farei molta fatica a vivere senza il salame nel frigorifero o rinunciando al fegato con le cipolle. Eppure la scelta vegetariana mi intriga, da sempre. E non è una questione di etica o di salute. Sono consapevole che si debba mangiare meno carne e che debba provenire da allevamenti dove gli animali sono felici. Ma non è questo che mi interessa quando penso alla cucina vegetariana. No. La mia attrazione è tutta gastronomica. A interessarmi sono soprattutto i motivi che conducono un cuoco a optare per questa scelta e le strategie per affrontarla senza perdere di vista gusto e sostanza. 46 Negli ultimi anni poche cose sono state cool come il dichiararsi (e magari diventare) vegetariani, vegani, macrobiotici o deliberatamente gluten free. Per questo credo sia interessante indagare il perché della scelta vegetariana soprattutto quando essa è stata condotta da cuochi che optando per erbe, semi, frutta e verdura andavano davvero controcorrente. Uno di questi, probabilmente il primo in Italia a farlo in modo così estremo, è stato Pietro Leemann. Leemann è un cuoco svizzero. Allievo di Gualtiero Marchesi, apre il suo ristorante Joia a Milano nel 1989 dopo avere intrapreso la scelta vegetariana già alla fine degli anni Settanta e avere viaggiato per il mondo lavorando in alcune delle cucine più prestigiose dell’epoca. Per lui l’essere vegetariano non è solo una questione di gusto o di ingredienti, ma ha a che fare con una precisa impostazione della propria vita. Non solo nel suo ristorante non vengono cucinati carni e pesci e l’utilizzo di prodotti animali è molto limitato, ma ogni piatto è studiato per essere in assoluto equilibrio tra chi lo cucina, chi lo consuma e il mondo che gli sta intorno. Mi ha colpito molto in tal senso ciò che mi ha detto uno dei sous-chef di Leemann. Fabrizio Marino (questo il suo nome) mi ha confessato che tra quei fornelli non ci sono tensione e ner- la scelta vegetariana slow La scelta vegetariana 47 vosismo e questo ha probabilmente a che fare con l’assenza di sangue. Non ricordo esattamente le sue parole, ma il concetto era che il sangue rende aggressivi e nervosi. Averci a che fare significa trattare elementi morti e che hanno subìto violenza, mentre la frutta e la verdura sono vive e donano tranquillità. È questa tranquillità che poi lo chef riesce a trasferire nei piatti e nel rapporto con i suoi cuochi e che gli consente anche di avere piatti equilibrati nei sapori. È molto significativo che lo stesso concetto sia alla base della scelta fatta nel 2000 da un maestro della cucina francese come Alain Passard (chef dell’Arpège di Parigi) che, notissimo per i suoi arrosti, decide all’improvviso di smettere di cucinare carne per concentrarsi sulle verdure. Il suo pensiero è raccolto in un bel pezzo sull’ultimo numero di Cook.inc dove Passard dichiara: «L’orto mi ha salvato. Non trovavo più alcuna ispirazione nella cucina animale. Lavorare la materia che con il gusto. Ciò che questi due fuoriclasse riescono a fare con i loro piatti è far dimenticare le proteine animali. Leemann mette talmente tanta vita nelle sue creazioni – che spesso si ispirano ai principi della filosofia orientale e dell’ayurveda, piuttosto che a stagioni e momenti della giornata – da non aver bisogno di altro che di verdure e spezie. Ovviamente diventa centrale la qualità del prodotto utilizzato e non è un caso quindi che Passard non appena intrapresa questa via abbia deciso di coltivarsi un suo orto (scelta che oggi condivide con molti colleghi). Allo stesso modo condivide con altri la capacità di trattare questi elementi vegetali come fossero proteine animali dando loro consistenze e profumi del tutto nuovi. È questo il lavoro che, per esempio, da qualche tempo segue Piergiorgio Parini, enfant prodige della cucina italiana, che tratta le verdure come fossero tagli di carne per ottenerne il massimo dell’intensità. In questo modo anche a un carnivoro convinto come me parlando di zucca, carote e cipolle viene l’acquolina e una certa tranquillità. → Un ricettario unico nel suo genere, che riunisce 400 ricette vegetariane e vegane, suddivise per regione e accompagnate da bellissime fotografie Con le ricette di cuoche e cuochi delle Osterie d’Italia la scelta vegetariana morta mi sfiniva». Anche in Passard il problema non è legato tanto ai sapori quanto piuttosto al rapporto tra l’uomo e la materia che cucina, quasi che questa riesca a trasmettere le proprie energie al cuoco e quindi alle sue creazioni. La scelta vegetariana, quando è autentica, accetta pochi compromessi e ha a che fare con il sentimento oltre Ricette vegetariane d’Italia € 20,00 slow 48 Avere a che fare con il sangue significa trattare elementi morti, mentre la frutta e la verdura sono vive e donano tranquillità Una cucina equilibrata e gustosa che è all’altezza delle sfide di un mondo più sostenibile Seguendo la stagionalità, scopri assieme a noi quante preparazioni tipiche della nostra tradizione sono perfette sia per chi desidera ridurre il consumo di carne e pesce, sia per chi ha scelto l’alimentazione vegetariana. 49 di Francesco Panella 50 Il miele è una delle poche derrate nel commercio mondiale con grande richiesta e quotazioni stabilmente sostenute. La crescita delle monocolture e dell’agricoltura intensiva, con pesticidi sempre più tossici, impedisce che si riesca a produrre miele a sufficienza. Un solo paese, la Cina, è stato in grado di fare il miracolo: incrementare dell’80%, in poco più di un decennio, la sua capacità produttiva e le esportazioni. Come l’olio extravergine di oliva, il miele è caratterizzato allo stesso tempo sia da grandi picchi di eccellenza e biodiversità, sia da una sempre più vistosa banalizzazione, se non addirittura adulterazione. Gran parte del miele consumato in Europa, e anche in Italia, è infatti di origine asiatica e frequentemente presenta fenomeni di adulterazione evidenti al palato, ma difficilmente accertabili per via analitica. Le più semplici ed efficaci precauzioni da adottare per l’acquisto sono: · Non limitarsi a confrontare il prezzo. · Acquistare sempre e solo prodotti che abbiano la dignità di presentare in etichetta la loro carta d’identità d’origine. ·Diffidare delle definizioni d’origine confuse, come “Miscele di …”. ·Non confondere l’indirizzo del produttore con l’origine geografica effettiva del miele. Il passo successivo è addentrarsi nella tavolozza di colori, sapori e aromi che va a comporre il prodotto finale. i mieli, una tavolozza di sfumature da conoscere slow I mieli, una tavolozza di sfumature da conoscere e apprezzare 51 La grande varietà, in Italia, di specie mellifere consente la produzione di molti mieli monofloreali – circa 50 – oltre a infinite variazioni di mieli millefiori presenza rilevante su un territorio di una fioritura attraente per le api, ma in parte anche dalla maestria dell’apicoltore, che eventualmente trasporta appositamente le api sulla fioritura ed estrae il miele monofloreale evitando la contaminazione con raccolti che provengono da specie diverse. Un miele è monofloreale quando proviene principalmente da un’unica origine botanica e ne risulta sufficientemente caratterizzato dal punto di vista della composizione e delle caratteristiche organolettiche e microscopiche (cioè la presenza significativa, nel miele, di granuli del polline corrispondente a quel fiore in particolare). Il miele monofloreale può essere identificato da un colore, da un profumo e da un sapore caratteristici, a sePiante diverse danno nettari diver- conda che provenga da fiori di robinia, si. Questa è la ragione per cui si par- di castagno, di cardo, di tiglio, di trifoglio la di mieli al plurale, piuttosto che eccetera. La grande varietà, in Italia, di di miele generico. La suddivisione specie mellifere consente pertanto la in mieli monofloreali è data da una produzione di molti mieli monoflore- i mieli, una tavolozza di sfumature da conoscere Prodotto animale o vegetale? Miele o mieli? slow 52 Il miele ha una natura duplice. Il ruolo delle api è fondamentale nell’elaborazione del prodotto: solo a loro è possibile compiere l’incredibile lavoro di raccolta di minuscole goccioline per assemblare quantità significative di nettare, da trasformare poi con un processo altrettanto minuto e paziente. La materia prima di partenza, però, è di origine vegetale e il miele finito deve le sue caratteristiche, più che a ogni altro passaggio, alle caratteristiche e alla provenienza della materia iniziale. Il nettare è una sostanza zuccherina che le piante producono proprio per attirare gli insetti, che si fanno così vettori inconsapevoli dei polline, l’elemento fecondante che viene trasportato su altri fiori. Anche il polline viene raccolto dalle api: non serve per l’elaborazione del miele, ma come alimento proteico per l’alveare. Nel miele il polline è presente solo in piccolissima quantità, come componente accidentale. Altro materiale di partenza per la formazione del miele è la melata: si tratta della linfa stessa delle piante, della quale si nutrono insetti quali gli afidi e le cocciniglie. Il surplus di sostanza zuccherina non utilizzata da questi insetti viene riciclata dalle api. 53 “Miele bio” — L’indicazione «da agricoltura biologica» indica speciali processi di ottenimento del prodotto, basati su tecniche particolarmente rispettose della salubrità del prodotto, dell’ambiente e del benessere degli animali utilizzati. 54 no: molto comune, in tutto l’arco alpino, il miele misto di castagno e tiglio, che coniuga due aromi diversi e molto forti in un millefiori speciale. Altre volte le componenti del miele sono davvero inali – circa 50 – oltre a infinite variazio- finite, come capita per il prodotto delle ni di mieli millefiori, che si ottengono fioriture di alta montagna o come certi quando le api si trovano in presenza di mieli primaverili della macchia medipiù fioriture contemporaneamente. Il terranea: dire da che cosa dipende quel millefiori, quindi, non è una miscela. Il certo aroma è impossibile, ma il risultatermine si associa a un ambiente mul- to è comunque straordinario. tifloreale e serve a indicare il miele che deriva dall’attività naturale dalle api. Qual è il vino più buono? L’olio più Tale termine non può invece essere utibuono? Impossibile rispondere. Tra lizzato per un miele ottenuto dalla mii diversi prodotti non può essere fatscelazione artificiosamente prodotta ta una graduatoria di qualità: anche dall’uomo. In questo caso è obbligatorio ogni amante del miele sceglie il preusare il termine “miscela…”, che implica ferito secondo il gusto e le abitudini l’intervento dell’uomo nel formare un alimentari personali. Generalmente prodotto finale. Ogni millefiori possiei mieli poco aromatici, neutri e delide proprie caratteristiche che si ripetocati (acacia, sulla, leguminose in geno di anno in anno con variazioni più o nere) piacciono a tutti, come pure i meno importanti, ma che non nasconmieli con aroma floreale leggero (rodono la base: il paragone con le annate dodendro) o intenso (agrumi). I miedel vino è il più appropriato. A volte i li con aroma deciso non piacciono a mieli millefiori sono caratterizzati da tutti, ma il consumatore che sceglie una presenza botanica che prevale e un miele fortemente aromatico (come che costituisce il nucleo del miele, ma castagno o corbezzolo) generalmente che è accompagnata da una flora con- lo preferisce a tutti gli altri. i mieli, una tavolozza di sfumature da conoscere comitante che ne costituisce la specificità, e nello stesso tempo non permette la denominazione monofloreale. Per esempio, il miele dell’Emilia-Romagna a base di erba medica è più corposo di quello che sarebbe il miele di erba medica in purezza. In altri casi può succedere che due fioriture in grado di dare anche raccolti separati si sovrapponga- Qual è il miele monofloreale più buono? Leggere l’etichetta slow Da consumarsi preferibilmente entro… — Il termine minimo di conservazione è la data fino alla quale il prodotto alimentare conserva le sue proprietà specifiche in adeguate condizioni di conservazione; è espresso dalla dicitura «da consumarsi preferibilmente entro…». Per il miele tale termine non è definito e va deciso sotto la responsabilità di chi lo mette in commercio. Abitualmente, si ritiene valido per il miele un T.M.C. di 18 mesi (in questo caso va indicato con mese e anno); alcuni però preferiscono un T.M.C. di due anni (in questo caso può essere indicato con il solo anno). Va ricordato che il miele si conserva molto a lungo. Ad accelerarne l’invecchiamento possono essere le temperature elevate e la luce diretta, ma non diventa mai nocivo per la salute, pur perdendo le caratteristiche organolettiche del prodotto fresco. Tra i diversi prodotti non può essere fatta una graduatoria di qualità: anche ogni amante del miele sceglie il preferito secondo il gusto e le abitudini alimentari personali 55 per la loro capacità di conferire gusti e profumi ai piatti, sia per la loro azione sulla salute e sull’umore. Le erbe e le spezie usate in cucina, infatti, possiedono principi attivi in grado di agire su alcune funzioni corporee, la digestione prima di ogni altra, oltre che sullo stato d’animo. Le spezie rappresentano un grande patrimonio di biodiversità e conoscenze che oggi stiamo perdendo, nonostante si trovi ogni tipo di prodotto esotico proprio nel supermercato sotto casa, e si possa disporre di centinaia di aromi pronti per l’uso. liberano polverizzando la parte vegetale che contiene questi composti; a questo punto il profumo si sparge per l’aria ma la spezia s’impoverisce. È dunque preferibile acquistare le spezie in pezzi interi, siano essi semi o altre parti vegetali, in pezzi possibilmente grandi, da macinare all’occorrenza. La temperatura i conservazione deve essere fresca e il luogo di stoccaggio buio. La luce e la temperatura, infatti, possono ossidare e alterare le pregiate caratteristiche di questi prodotti. Prima di ridurre in polvere nel mortaio, o in un più comodo macinino elettrico, è meglio tostare le spezie in padella a fuoco moderato per il tempo necessario allo scopo di privarle dell’umidità interna naturalmente residua. Preparate in questo modo le spezie esprimono al meglio le caratteristiche di aroma e gusto. Si aggiungono al cibo durante la cottura, si usano per le conce della conservazione in salamoia e ancora per l’affumicatura e nelle bevande. Tra i prodotti dei Presìdi Slow Food numerose sono le spezie: vaniglia, zafferano, cardamomo, peperoncino, di cui potete leggere storia e origine nelle pagine seguenti. un mondo di spezie foto Marco Del Comune di Agnese Del Canto Un mondo di spezie slow 56 La conoscenza delle spezie e delle erbe aromatiche spesso si ferma ai pochi vasetti di prodotti in polvere che acquistiamo quando decidiamo di preparare un piatto esotico. È tuttavia un argomento che merita di essere approfondito, perché cela un mondo interessante, remoto ed esotico, talvolta sconfinante nel magico. Basta pensare ai viaggi dei navigatori dei secoli scorsi, che avevano come fine la scoperta di nuove rotte più veloci per le terre da cui provenivano i carichi di spezie: si parla di sostanze o prodotti tenuti sempre in grande considerazione, sia foto Paola Viesi CONSIGLI PER L’ACQUISTO E LA CONSERVAZIONE Le spezie hanno la caratteristica di emanare profumo e di conferire gusto ad altri alimenti grazie alle specifiche sostanze che contengono. Queste molecole, parzialmente volatili, sono racchiuse all’interno di particolari compartimenti delle cellule. Gli aromi si 57 un mondo di spezie foto Paolo Andrea Montanaro slow 58 no), la piperade (pomodoro, peperoncino dolce e cipolla) e come ripieno delle I Presìdi Slow Food omelette, ma è ottimo anche fresco in delle spezie insalata, in agrodolce e addirittura confit. Il suo sapore è vario, a seconda che lo si degusti crudo o cotto. A differenza ACQUA DI FIORI DI ARANCIO di altre varietà non è piccante e ha un AMARO LIGURIA sapore dolce e delicato, ma allo stesso Fino a pochi decenni fa le terrazze di tempo amarognolo. Vallebona, in provincia di Imperia, erano coltivate a aranceti: l’economia del ZAFFERANO DI SAN GAVINO paese e della valle si basava proprio sul- MONREALE la raccolta dei fiori di arancio amaro da Lo zafferano di San Gavino Monreale distillare. Nel 2004 Pietro, giovane erede nel Campidanese in Sardegna è una della famiglia Guglielmi, proprietaria spezia eccezionale, di particolare intendi una storica distilleria, ha deciso di sità per quanto riguarda sia i profumi riaprire l’azienda e riproporre l’acqua di sia il colore. Questo zafferano, come gli fiori di arancio amaro insieme ad altre altri a denominazione di origine, viene essenze. L’olio, conosciuto come nerolì, venduto in stimmi, la formula che ci dà è preziosissimo nella cosmesi: occorre più garanzie contro le tante contraffauna tonnellata di fiori per estrarne un zioni che purtroppo fanno dello zaffesolo chilogrammo. Di acqua di fiori so- rano uno dei prodotti a più alto rischio litamente si ottengono circa due litri adulterazioni che si trovino in commerogni chilogrammo di fiori distillato. La cio. Certo, avere garanzie costa più caro, vendita dell’acqua avviene perlopiù lo- almeno otto o dieci euro per confezioni calmente: la gente del posto la usa anco- da 0,20 o 0,30 grammi, ma visto l’utilizra, in casa, per la preparazione dei dolci zo parco che possiamo farne si tratta di tradizionali, le bugie. una spesa abbordabile, per procurarsi un prodotto di assoluta qualità e bontà, PEPERONCINO DOLCE DEI PAESI e sostenere così anche il lavoro manuale BASCHI E DEL SEIGNANX di tanti piccoli agricoltori. Coltivato e consumato da tempo immemorabile soprattutto nel Sud dell’Aqui- VANIGLIA DI MANANARA tania e nella provincia delle Landes, è Una delle produzioni migliori del monun ingrediente fondamentale della ga- do di vaniglia si trova in Madagascar, stronomia basca e landese, utilizzato in nella Riserva della Biosfera Mananara ricette come l’axoa (un tipico spezzati- Nord, dove i produttori del Presidio lano di vitello con pomodoro e peperonci- vorano all’ombra delle piante della fore- 59 slow sta pluviale, a pochi metri sul livello del mare. La vaniglia di Mananara cresce appoggiata a tutori vivi costituiti da un insieme di piante forestali autoctone. Una volta raggiunta l’altezza d’uomo, le liane vengono piegate (bouclage) per innescare lo sviluppo dei fiori nella parte discendente della liana. Dal momento dell’essiccazione fino al termine della trasformazione, i produttori lavorano manualmente i singoli baccelli, massaggiandoli con le dita per distenderli. CARDAMOMO DI IXCÁN Una delle zone in cui la coltivazione del cardamomo si è radicata maggiormente è il municipio di Ixcán, nella regione del Quiché, in Guatemala, dove si ottiene un prodotto di eccellenza. La produzione copre circa il 32% dell’area agricola e coinvolge poco meno del 50% della popolazione contadina di Ixcán, costretta a vendere il proprio prodotto al prezzo di costo nonostante la sua buona qualità. Coltivato in zone tropicali tra i 600 e i 1500 metri, il cardamomo si presenta come una serie di piccoli semi scuri racchiusi in gusci verdi. L’aroma è agrodolce, simile a quello del limone. Antisettico e digestivo, è considerato un vero e proprio antidoto contro i malanni legati all’età. 60 È preferibile acquistare le spezie in pezzi interi, siano essi semi o altre parti vegetali, in pezzi possibilmente grandi, da macinare all’occorrenza Mali. Le donne delle tribù trasformano i fiori, i frutti e le foglie di ogni pianta in un condimento (somé, in lingua dogon). Il Presidio riunisce più prodotti: il kamà (polvere ottenuta macinando le foglie di acetosella essiccate), il pourkamà (polvere ottenuta macinando le foglie essiccate di neré, un albero locale), il djabà pounan (polvere ottenuta macinando le palline di scalogno essiccate e tostate leggermente in olio di arachidi), il gangadjou pounan (polvere di gombo essiccato), l’oroupounnà (polvere di foglie di baobab), il wanguesomè (polvere a base di un peperoncino SOMÉ DEI DOGON locale, aglio e sale) e il keberoupounnà L’antica etnia dei Dogon è ancorata da (solo peperoncino). Questi condimenti millenni al suo territorio aspro e ma- sono la base della cucina dogon: sono gnifico: le rocce rosse di falesia lungo usati nelle salse, nelle zuppe, sulle verBandiagarà, tra Mopti e Timbuctu, nel dure o sulle carni. di Claudio Riva 62 Era il 2004 quando durante la mia prima visita a una distilleria scozzese di whisky mi sono sentito raccontare da una fanciulla un po’ impacciata la storiella che lo scotch è fatto con tre soli ingredienti, acqua, orzo e lievito. Da allora è passato molto spirito nelle serpentine e la storiella è sempre rimasta la stessa. A dire il vero è così – immutata – da alcuni secoli. Di quelle prime esperienze è rimasto davvero tanto, i primi racconti, la crescente consapevolezza di trovarsi di fronte a un “qualcosa” che ha al suo interno un concentrato di tutta la storia del mondo. Non è mai solo un’esperienza tecnica. Capire cosa è la distillazione è davvero un gioco da bambini, l’alcol che evapora a una temperatura più bassa rispetto a quella dell’acqua è un fatto chimico e stupisce scoprire come si possa essere arrivati solo 400500 anni fa a un consapevole uso della sua arte. Le esperienze in Egitto di 5000 è il tempo del distillato slow È il tempo del distillato anni fa, quelle in Cina nel 2000 a.C. e l’arrivo nell’Europa Centrale occupano poche righe nei libri di testo. Quello che è successo dal 1500 d.C. in poi ha, invece, riempito intere enciclopedie. Eppure visiti una qualsiasi delle distillerie tradizionali e ti accorgi che la rappresentazione dei piccoli alambicchi presente sui vecchi libri di scuola è rimasta intatta e si manifesta davanti ai tuoi occhi solo con una scala più grande. Acqua, orzo e lievito. Il resto è magia. Per quanto la scienza riesca oggi a interpretare cosa accade dentro questa grande pentola di rame, la sensazione è che solo il passaggio di consegne tra le varie generazioni – spesso tra padre e figlio – possa aver contribuito all’evoluzione di questa arte. In 500 anni si è davvero capito molto. Si è capito che per un’azienda agricola la produzione di acquavite era – nelle annate di elevata disponibilità di cereali – un ottimo metodo per procurarsi una preziosa moneta di baratto. Si è capito che si poteva fare questa attività come primaria e non come secondaria a quella della fattoria. Si è capito che ci si poteva fare del business e sono iniziate le concentrazioni in distillerie sempre più grandi. Evoluzione che ha portato alla situazione di oggi; in Scozia ci sono poco più di 100 distillerie di whisky, così come circa 100 sono le distillerie di grappa in Italia, un numero irrisorio se confrontato con quello dei produttori di vino o (in era contemporanea) di birra, ma più che sufficiente per difendere la biodiversità dello spirito. 63 Si è infine capito che c’era un quarto ingrediente nascosto, che neppure la timida ragazzina del 2004 si è ricordata di citare con il necessario entusiasmo. Il tempo. È solo qui che il pungente spirito bianco acquisisce tutte le qualità che lo portano a diventare un prodotto da meditazione e quindi da apprezzare con moderazione. E non è sempre stato così. Il distillato è stato, sino a poco più di un secolo fa, prevalentemente consumato bianco e senza affinamento, poco dopo essere stato prodotto. Solo qualche incidente di percorso ha portato a scoprire il piacere della maturazione in botte e a renderla obbligatoria per disciplinare molti tra gli spiriti più nobili. L’alcol grezzo, spigoloso, solo dopo pochi anni diventava un piacevole e gustoso nettare. È tutto merito del legno di rovere? Fortunatamente no, la parte più importante la fa ancora oggi l’uso sapiente del tempo. È sufficiente fare una visita in Normandia per scoprire come la maturazione del favoloso Calvados avvenga in grandi tini con talmente tanti anni di attività alle spalle da essere diventati dei contenitori inerti. I pregiati vintage dell’Armagnac dopo la botte vengono trasferiti in contenitori di vetro dove continuano il loro lento affinamento. È la micro-ossigenazione a fare la parte più affascinante del lavoro. Infine vai a visitare Capovilla, il Capo, e scopri che i suoi distillati di frutta riposano per anni, tanti anni, in piccoli fusti di acciaio. Se si desidera consumare oggi un distillato di qualità si deve obbligatoriamente passare da questa consapevolezza: non è possibile trovare qualità in uno spirito che passi direttamente dall’alambicco alla bottiglia, e il prezzo basso ne è un chiaro indicatore. Bisogna anche essere consapevoli che il buon distillato non deve necessariamente essere ricercato solo tra i blasonati brand imposti dal mercato: in questo caso il problema può essere il prezzo alto, talvolta proibitivo, sapientemente gonfiato dal marketing. La situazione attuale in Scozia non è facile da raccontare. Oltre due terzi del mercato sono nelle mani di due soli gruppi multinazionali, gruppi che poi sono gli stessi proprietari di altri famosi brand tra rum e brandy. È possibile che in un così agguerrito schieramento ci sia ancora spazio per soddisfare la nostra curiosità? Sì, eccome. Nello scotch, fortunatamente, la tradizione è ancora vincente e ogni volta che si è ritoccato il disciplinare lo si è fatto per render- lo più rigoroso. È possibile incrociare distillati che siano ancora accessibili come rapporto qualità/prezzo? Provate a elencare tutti i marchi che conoscete di scotch whisky, probabilmente arriverete a 10, 15, 20, non di più. E di questi molti saranno nomi commerciali, non corrispondenti a una vera e propria distilleria. Vi resteranno da esplorare almeno altre 80-90 distillerie, distillerie non conosciute perché producono whisky per i più famosi blended e non hanno avuto la forza per farsi conoscere come single malt. Ognuna di queste distillerie potrà trasmettere in modo autentico il proprio terroir, dove con terroir non intendo l’origine delle materie prime ma quello indotto dal luogo della maturazione, quello che rende semplicemente impossibile pensare di poter produrre quel tipo di whisky in qualsiasi altra parte della Scozia e del mondo. Perfetto traghettatore in questo oceano di preziose novità è una figura che non esiste nel mondo del vino o della birra, dove il rapporto è sempre diretto con il produttore. Sto parlando dell’imbottigliatore indipendente, colui che seleziona tra le briciole dimenticate dai giganti, alla scoperta dell’incredibile. Colui che apre tutte le porte verso i distillati meno conosciuti e, fidatevi, dove la curiosità paga sempre. I più vecchi imbottigliatori indipendenti sono vecchi tanto quanto lo solo le distillerie e oggi, sempre più frequentemente, costituiscono la vera memoria storica dello scotch whisky. Nello scotch, fortunatamente, la tradizione è ancora vincente e ogni volta che si è ritoccato il disciplinare lo si è fatto per renderlo più rigoroso è il tempo del distillato slow 64 Il tempo. È solo qui che il pungente spirito bianco acquisisce tutte le qualità che lo portano a diventare un prodotto da meditazione e quindi da apprezzare con moderazione 65 di Francesco Martino 66 «Per noi il mercato era, è e resta innanzitutto il luogo del muhabbet». Tumay Imamoglu, animatore del Mercato della Terra di Sile, piccola città portuale sulla costa turca del Mar Nero, poche decine di chilometri a nord di Istanbul, utilizza una parola antica, che riassume in poche sillabe sonore tutto il senso turco della convivialità. Muhabbet: il conversare leggero che presuppone il piacere dello stare insieme, ma anche lo scambio di emozioni, idee e naturalmente – trattandosi di un mercato – di prodotti. «L’idea di creare un Mercato della Terra a Sile è nata nel 2011. Allora i produttori locali, provenienti soprattutto dai villaggi della municipalità, offrivano i prodotti in strada, in condizioni rudimentali», racconta Tumay mentre passeggiamo lungo il molo di pietra che protegge il porto da onde sorde e ostinate, all’ombra di un castello costruito dai genovesi nel XIV secolo su un aguzzo sperone di roccia a picco sul mare. «Il nostro obiettivo era creare uno spazio organizzato per la vendita, ma soprattutto dare un senso nuovo, che permettesse al mercato di rinnovarsi e conservare allo stesso tempo il suo spirito profondo. Per cogliere le nuove opportunità e per rispondere alle nuove sfide». Opportunità e sfide, a Sile, portano lo stesso nome: Istanbul. La città sul Bosforo negli ultimi anni si è trasformata in una megalopoli tentacolare che si perde all’orizzonte per decine di chilo- destinazione sile, mercato della terra foto Ivo Danchev slow Destinazione Sile Mercato della Terra 67 «D’estate Sile viene invasa dai turisti che vengono a godersi le sue spiagge per una gita domenicale. E quando dico invasa, non uso un eufemismo» I consumatori ricevono la sicurezza di acquistare prodotti creati e offerti secondo un protocollo severo, che tutti i produttori del mercato hanno accettato di sottoscrivere. In poche parole, sanno quel che mangiano», dice sorridendo Fatma. «D’altro lato, maggiori entrate per i produttori significano più terreni coltivati, meno campi invasi dal cemento. E, fattore importantissimo, meno giovani tentati dalla fuga verso la grande città, in un contesto di forte spopolamento dei villaggi». Saliamo lungo la la strada che s’inerpica ripida verso l’interno, lasciandosi alle spalle la sagoma scura e tempestosa del Mar Nero, scosso da un inizio d’autunno carico di piogge torrenziali e vento destinazione sile, mercato della terra slow 68 metri, allargandosi a macchia d’olio su due continenti. E Sile, che oggi si ritrova a essere “periferia esterna” di un centro che supera i 15 milioni di abitanti, non può non fare i conti con Istanbul. Una legame reso ancora più evidente dalla recente costruzione di una superstrada – terminata cinque anni fa – che permette di arrivare a Sile in non più di una mezz’ora, traffico infernale di Istanbul permettendo. «D’estate Sile viene invasa dai turisti che vengono a godersi le sue spiagge per una gita domenicale. E quando dico invasa, non uso un eufemismo: parliamo anche di due milioni di presenze in un giorno solo», spiega Fatma Denizci, produttrice biologica e altra colonna portante del mercato. «Sempre più istanbulioti, poi, acquistano terreni nell’area per costruire ville e seconde case per le vacanze, rubando così terra all’agricoltura. Il rischio è quello di spezzare il rapporto millenario della nostra gente con le sue radici». Il Mercato della Terra è parte centrale della strategia perché questo non avvenga. Col contributo dell’amministrazione locale una nuova area attrezzata nel centro cittadino ospita ora bancarelle e stand. E i risultati non hanno tardato ad arrivare: la migliore organizzazione, assieme alla decisione di tenere il mercato sia di venerdì (come da tradizione) sia di domenica (quando è fortissima la presenza turistica), ha alzato in modo importante le entrate per i produttori. «Il processo porta benefici su più piani. 69 senziale e saporita, è capace. Ci sono il borek alle patate e quello agli, spinaci, la versione ripiena di lor, una varietà locale di ricotta, e quella che combina cipolle, carne macinata e bulgur, grano integrale cotto a vapore e poi essiccato. Al borek seguono le forme tondeggianti e piene del pane, che sprigionano subito un aroma intenso e familiare. «Il Mercato della Terra per noi è stato un’opportunità importante. Vendere in uno spazio organizzato e riconoscibi- destinazione sile, mercato della terra slow di tramontana. Dopo pochi chilometri, del mare non resta che un aroma di salsedine nell’aria sottile. Il paesaggio si riempie di verde: quello luminoso dei prati, più in basso, e quello accigliato dei boschi che ornano i crinali. Entriamo a Yazimanayir: poche case basse e quadrate raccolte intorno alla sagoma sottile di un minareto, e circondate dal disordine apparente e vivace della campagna. Qui vivono Metin ed Elif Ozdemir. Oggi è sabato: l’ampio forno di mattoni è stato già Per la gente dei 57 villaggi della municipalità di Sile, la sostenibilità economica della piccola agricoltura familiare è un elemento fondamentale 70 acceso e preparato per accogliere i prodotti che, domani, faranno bella mostra sui banchi del mercato. È Elif, minuta, ma dai gesti rapidi e decisi, a dirigere le operazioni. A entrare per prime nella bocca scura e ardente sono le sagome basse e succose di borek: piatto simbolo della tradizione culinaria turca a base di sottilissime sfoglie di pasta, qui nota come yufka. Assieme a sua madre Guler, Elif ha impastato tutta la varietà di cui questa ricetta, es- le è una garanzia sia per noi sia per i clienti», racconta Metin sorseggiando un tè scuro e denso, in Turchia imprescindibile lubrificante di ogni evento sociale. «Abbiamo migliorato le vendite e, grazie alle maggiori entrate, abbiamo potuto creare spazi più igienici e confortevoli per preparare e confezionare i prodotti che offriamo». Per la gente dei 57 villaggi della municipalità di Sile, la sostenibilità economica della piccola agricoltura familiare è un 71 sia per chi produce sia per chi acquista». Intorno a noi, sui banchi disposti a quadrato su quattro ampi gradoni, che assecondano il degradare naturale del terreno verso il mare, i colori e i sapori della stagione si offrono nella loro semplicità e immediatezza. Melograni verdi accatastati con cura, lattuga che traspira la freschezza delle piogge abbondanti appena cadute, castagne turgide affastellate in grossi cestini di vimini, zucche polpose e di un giallo vivo, sacchetti gonfi di eriste, la pasta spezzata della tradizione turca, lunghe file di barattoli di tursu, sottaceti colorati e fragranti immancabile elemento della tavola nella stagione fredda, vasetti di yogurt candido e cremoso. Nei progetti di Tumay e Fatma, il mercato avrà presto anche un’area di degustazione: chef rinomati e semplici produttori si metteranno ai fornelli per offrire a visitatori e clienti ricette nuove e tradizionali, proprio a partire da quanto si trova esposto sui banconi. In attesa che l’idea si trasformi in realtà, nel mercato di Sile ci si organizza in modo spontaneo e informale. Ecco comparire, quasi per magia, una larga padella ricolma di mihlama, sorta di polenta di farina di granturco, formaggio fuso e burro. Tutto il mercato si anima d’improvviso: si mangia, si sorseggia tè, si chiacchiera e si chiacchiera ancora. «Lo dicevo, no?», ride allegro Tumay, mentre allunga il pane fragrante nel giallo fumante della mihlama. «Dove c’è il muhabbet, lì c’è il mercato». destinazione sile, mercato della terra slow 72 elemento fondamentale. Fino a pochi anni fa buona parte della popolazione integrava le proprie entrate con un mestiere faticoso e antico, quello dei carbonai. Un’attività che però oggi è stata proibita dalle autorità a causa del forte impatto ecologico su un ecosistema reso fragile da crescita economica ed espansione delle aree urbane. Il tempo passa lento accanto al tepore del forno, tra sfoglie di borek fragrante e tè che borbotta allegro nel samovar argentato degli Ozdemir. Quando il cielo a oriente si stria di venature scure, è però tempo di tornare a Sile. Domenica mattina, il mercato si anima con calma: la stagione “forte”, quella estiva, è ormai passata, e la città ha assunto i ritmi lenti dei mesi più freddi. La partecipazione però resta alta, sia di pubblico sia di produttori: dai quindici lasciatisi coinvolgere nella prima fase, oggi il mercato di Sile ne ospita più di cinquanta. «Convincere produttori e consumatori non è stato facile, soprattutto all’inizio. È un processo che continua, e che richiede pazienza e capacità di ascoltare», ci dice Fatma mentre degustiamo una selezione di miele di castagno, forse il prodotto più celebrato della costa turca del Mar Nero. «In Turchia i mercati come il nostro sono ancora una novità e la consapevolezza nell’importanza di concetti come locale, sostenibile e biologico muove ancora i primi passi. Il mercato della terra, quindi, non è solo uno strumento di scambio economico, ma anche e soprattutto di educazione, 73 Pesce — Pane — Vino — Olio — Antonella Massia ha intervistato Beppe Gallina e Nando Fiorentini, che ci hanno spiegato come la pescheria possa diventare un luogo per educare alla sostenibilità Dalla farina al forno, abbiamo percorso insieme le varie fasi della panificazione, per imparare come anche quello del pane sia un mondo ricco di biodiversità Fabio Pracchia ci ha spiegato come riallacciare il contatto tra vino e terra sia un passo fondamentale per tornare a un consumo consapevole del vino quotidiano La crisi del 2014 ha contribuito a una riflessione sull’olio che va al di là della qualità e dei sentori: il 2015 è stato l’anno del primo Presidio dell’olio extravergine di oliva il nostro cibo quotidiano slow Il nostro cibo quotidiano Siamo davvero in grado di fare una scelta buona pulita e giusta nella nostra quotidianità?» Questa è la domanda che ci ponevamo all’inizio dell’anno; con il passare dei mesi abbiamo provato a rispondere, scandagliando, in ogni numero, diverse categorie merceologiche. Ecco alcune suggestioni tra le tante che abbiamo raccolto. 74 75 Latte — Frutta e verdura — — Il curatore della Guida alle birre d’Italia Eugenio Signoroni ci ha portato alla scoperta di un mondo affascinante quanto sconosciuto: quello della birra nella ristorazione Un percorso nella molteplici varietà dei latti, dalla vacca alla caldaia, è stato il punto di partenza per interrogarsi su che cosa significhi per questo mondo la fine delle quote latte Che cosa c’è dietro lo scaffale? L’intervista a Sergio Fessia ci ha permesso di scoprire le storie che stanno dietro alla frutta e alla verdura che arrivano sulle nostre tavole, facendo chiarezza, inoltre, sulle certificazioni che non sempre indicano prodotti buoni, puliti e giusti Aceto — Formaggi — Gelati — Legumi — Gabriele Rosso ha indagato su un prodotto di uso quotidiano, a cui poniamo sempre troppa poca attenzione: l’aceto di vino artigianale Nel mese di Cheese il formaggio è stato il protagonista, tra reportage su produzioni semisconosciute e le storie dei giovani pastori e affinatori che si sono riversati a Bra Come trovare un buon gelato slow, senza coloranti, conservanti e addensanti? Con gli indirizzi di Fare la spesa con Slow Food, naturalmente! Un percorso tra legumi nutrienti e sostenibili, una valida fonte di proteine, perfetti per tutti coloro che intendono ridurre il consumo di carne il nostro cibo quotidiano slow 76 Birra — 77 slow Carne — Distillati — Miele — Spezie — Che cosa vuol dire benessere animale? E perché è importante considerarlo ogni volta che decidiamo di acquistare carne? Claudio Riva ci accompagna alla scoperta delle distillerie tradizionali, luoghi in cui si è fatta la storia di un prodotto diffuso e declinato in centinaia di modi diversi Quello del miele (o dei mieli) è un mondo ricco di biodiversità: i consigli di un operatore del settore su come sceglierlo, conservarlo e consumarlo Prodotti dalla storia millenaria e affascinante, che sono in grado di trasformare radicalmente i piatti che cuciniamo: impariamo a conoscere spezie ed erbe aromatiche PARTNERSHIP CON Giovanni Ferrari Spa, che da sempre traduce l’amore per la tradizione nella selezione di prodotti che recuperano sapori autentici della nostra terra, realizza una partnership con i Presìdi Slow Food, che sostengono le produzioni tradizionali che rischiano di scomparire, valorizzano territori e recuperano antichi mestieri e tecniche di lavorazione. La partnership con i Presìdi Slow Food si concretizza in una linea di prodotti unici, confezioni speciali per una degustazione da gourmet dove i formaggi della grande tradizione casearia Ferrari vengono proposti in abbinamento ai prodotti dei Presìdi Slow Food. Tra i formaggi abbinati i prodotti dei Presidi Slow Food, Ferrari propone l'eccellenza del Parmigiano Reggiano Prodotto di Montagna prodotto nel caseificio Ferrari di Bedonia nell'AltaValtaro (Parma) utilizzando esclusivamente latte montano. Grazie a Ferrari e al suo caseificio, viene valorizzata una produzione di nicchia e di alta qualità, quella del Parmigiano Reggiano DOP Prodotto di Montagna, preservando l’economia montana della zona e salvaguardando il territorio e l’attività delle persone che ci lavorano, da chi conferisce il latte e chi lo lavora da sempre con amore. Le linea si arricchisce grazie alla confezione con il Grana Padano Riserva: occorrono oltre 20 mesi di stagionatura e tutto il talento di Ferrari per ottenere questo protagonista assoluto della tavola. 78 Ferrari Giovanni Industria Casearia S.p.A. Strada Provinciale 107 - 26816 Ossago Lodigiano (LO) www.ferrariformaggi.it | Seguici su: L’Università degli Studi di Scienze Gastronomiche ha, ormai da otto anni, una laurea magistrale che guarda oltre i confini di Pollenzo. Frequentata in larga maggioranza da studenti che arrivano da differenti percorsi universitari, la laurea magistrale è spiccatamente dedicata all’imprenditoria alimentare e all’innovazione di quest’ultima. Nel quadro delle attività didattiche, un posto importante spetta ai field project: lavori di ricerca che gli studenti conducono, per l’Università o uno dei suoi partner, concentrandosi su un problema specifico. I quattro articoli che seguono, sono il risultato del lavoro di sei studenti che hanno affrontato in modo critico alcuni aspetti, spesso negletti, delle certificazioni Dop e Igp. Nella cultura di massa, la protezione comunitaria è spesso vista in modo informe: senza che ci sia un’adeguata riflessione sulle differenze che invece esistono tra sul campo / field project Sul campo / field project singole Dop e Igp; senza soffermarsi sulle scelte operate, al momento di decidere che cosa proteggere; senza nemmeno dubitare che una Dop o una Igp possano essere addirittura un’arma a doppio taglio per le tradizioni gastronomiche di un territorio. Infine, non manca una riflessione sul significato stesso della parola “origine” che, come risulta apprezzabilmente dimostrato, non ha il significato comune, ma uno convenzionale, nel quadro teorico che sorregge la Denominazione di origine protetta, e, per di più, tra singole Dop, questo significato convenzionale muta, in maniera che riteniamo sia tanto più significativa per chi è attento a ciò che mangia e al cibo vero. Buona lettura! — Michele A. Fino Delegato del Rettore alla Laurea Magistrale Università di Scienze Gastronomiche 81 di Gloria Feurra e Gennaro Mazzola Un confronto critico tra denominazioni di una stessa regione, molto diverse per entità produttiva 82 È il 1992 quando, sulla scia del fermento di un vecchio mondo che si veste di nuovo sposando la filosofia del libero scambio, i prodotti europei agricoli di qualità mostrano la necessità di una disciplina unica e specifica che li governi e li tuteli all’interno degli Stati Membri. È il 1992 quando il Consiglio della Comunità Europea adotta il Regolamento Cee 2081/92, dando vita al sistema delle denominazioni d’origine e delle indicazioni geografiche protette. I fiori all’occhiello della produzione agroalimentare sbarcano oltre i confini nazionali, bussando alle porte dei consumatori europei e finalmente viene offerta la possibilità di acquistare eccellenze che portano i nomi dei luoghi originari in totale trasparenza: i produttori ci mettono la faccia, la Comunità pure (e il bollino). Passano quattordici anni e nel 2006 l’Ue approva il Regolamento Cee n.510/2006. Rispetto al precursore il nuovo regolamento sottolinea con maggiore in- dop: le dimensioni contano slow DOP: le dimensioni contano 83 Una diversa riflessione viene offerta dell’aceto balsamico emiliano. Esistono tre consorzi: due Dop – che portano il nome di aceto balsamico tradizionale, rispettivamente uno di Modena e uno di Reggio Emilia – e un’Igp, dove la qualifica “tradizionale” viene depennata riducendosi ad aceto balsamico di Modena. Più antiche le due Dop, che rispondono perfettamente all’istanza della tutela di una tipicità irripetibile quando viene Si può iniziare a dibattere di Dop a partire dall’EmiliaRomagna, una regione che da sola conta 41 tra Dop e Igp portata fuori dai confini di casa. Anche in questo caso, peraltro, l’idea di export è relativa: nel caso modenese, in effetti, il prodotto esce dall’acetaia per finire sui mercati esteri internazionali, mentre le preziose bottiglie del Reggiano diventano prevalentemente souvenir gourmet dopo le visite turistiche nelle soffitte ospitanti le batterie di famiglia. In entrambi i casi, produttori e consorzi mirano a una modifica del disciplinare rispetto al formato del confezionamento, sostenendo che formati più ridotti agevolerebbero le vendite di un prodotto dal costo ovviamente proibitivo. Accanto alle due realtà, che si portano dietro un’eredità di autentica tradizione intergenerazionale, sta il colosso dell’aceto balsamico di Modena. Un’Igp che non nasconde la sua fisionomia industriale e che s’impone nel mercato mondiale con un’immagine non troppo distante dalle prime due, sebbene con prezzi finali drasticamente inferiori grazie a una tecnica produttiva semplicemente incomparabile con quella tradizionale. Riduttivo assegnare le parti del buono o del cattivo, ma doverosa è invece l’anali- dop: le dimensioni contano che assorbe oltre l’80% della produzione regionale del settore. L’ex presidente del Consorzio, Giovanni Tiberio, parla di una situazione borderline: la produzione è di per sé un terno al lotto e, oltre alle condizioni territoriali complicate per l’olivicoltura, si addizionano oggi fattori climatici inediti che colgono impreparate le azioni dei produttori. Si può agire solo in una prospettiva a brevissimo termine e la Dop non risulta ancora uno scudo efficiente per muoversi sul panorama europeo; così il prodotto finisce per ancorarsi a una commercializzazione su scala locale-regionale o al massimo nazionale. Due esempi e un primo bilancio: risulta lecito chiedersi se abbia senso sostenere alti costi per ottenere una protezione diffusa su tutto il territorio dell’Unione Europea quando poi, a conti fatti, quei beni non avranno alcun competitore sugli scaffali inglesi, danesi o polacchi, semplicemente perché su quegli scaffali non arriveranno. Aceto Fonte d’entusiasmo e successo così come, talora, di scandalo e chiasso, oggi le Dop italiane sono 277. Delle decantate gioie e dei commisurati dolori si può agevolmente dibattere a partire da un’area per certi versi omogenea dello Stivale, limitata in modo non casuale, quella dell’Emilia-Romagna. Una regione che da sola conta 41 tra Dop e Igp, molte delle quali bene si prestano a calibrare sui piatti della bilancia gli effetti potenzialmente discordanti che una tutela comunitaria può comportare, quando applicata a “taglie” molto diverse tra loro. Procediamo per categorie merceologiche e cominciamo con un’analisi che calza a pennello con la stagione: quella dell’olio. Sono due le Dop attive nel territorio ed entrambe insistono nella stessa porzione di Romagna: le province di Forlì-Cesena, Ravenna e Rimini. L’olio di Brisighella, dal comune da cui la cultivar prende il nome, vanta il primato di riconoscimento in Italia della denominazione per l’olio. È probabilmente sul concetto di “piccolo” che fa leva la denominazione: i produttori sono stabilmente 120 e la produzione si aggira dai 200 ai 100 ettolitri l’anno, a esclusione dell’ultima, disastrosa annata: un 2014 che conta solo 18 ettolitri prodotti. La rarità di un bene è per certo uno dei primi fattori deputati a far lievitare i costi e Brisighella Dop si aggiudica regolarmente un secondo primato: quello dell’olio più caro d’Italia. D’altra parte, è piuttosto complicato mappare le tavole che Brisighella Dop presidia: si parla di un export del solo 10% contro un 60% consumato esclusivamente a livello locale. Tuttavia, il presidente del Consorzio mostra di ritenere che «l’olio sia in realtà molto più internazionale di quanto i dati dimostrino», infatti «il turista assaggia e compra qui il prodotto per poi portarlo a casa in Usa, Germania e Giappone». Diverso ma accomunabile è il discorso relativo alla seconda Dop olio, Colline di Romagna, una realtà più giovane ma Olio slow 84 tensità l’idea che una denominazione d’origine sia il frutto di un legame imprescindibile con il territorio, un territorio che si arricchisce di significati semantici molto vicini a quelli di terroir, dove i fattori umani hanno peso tanto quanto quelli ambientali. Un complesso da cui discende l’irripetibilità del prodotto finale, intrinsecamente limitato, quantitativamente finito e quindi meritevole di essere riconosciuto, supportato e tutelato in tutta l’Unione. Nella triade prodotto-territorio-qualità, le Denominazioni di origine protetta (Dop), molto più delle sorelle Igp (Indicazione geografica protetta) e Stg (Specialità tradizionale garantita) incarnano compiutamente questo legame sinergico: l’espressione finale del bene è frutto esclusivo di quel territorio, in cui allora si circoscrivono tutte le fasi di produzione, elaborazione e trasformazione. 85 dop: le dimensioni contano L’ultimo confronto si pone come eccezione alla regola del “chi prima arriva meglio alloggia”. Ancora due Dop: la prima del prosciutto di Parma, la seconda quella del prosciutto di Modena. Data d’iscrizione ai registri? Il 21 giugno 1996, per entrambe, ovviamente, vale a dire il primo giorno in assoluto in cui furono registrate delle Dop a livello comunitario. Se vogliamo divertirci con il gioco del “trova le differenze”, noteremo che nei due disciplinari, a esclusione dell’area di trasformazione e del più dettagliato elenco dei parametri chimico-fisici contemplati per le cosce parmensi, i punti sovrapponibili sono parecchi. Ciò che cambia drasticamente sono invece gli esiti commerciali: il prosciutto modenese, con 9 aziende consorziate, conta una produttività media che si aggira attorno alle 80 000 unità annue prodotte e vendute per il 90% all’interno dell’areale; il prosciutto di Parma, con 153 consorziati, raccoglie nel 2014 vendite attorno alle 8 800 000 unità, con un export del 30% e un fatturato di 250 milioni di euro. Curioso però come l’espressione delle diversità territoriali si rintracci esclusivamente nelle fasi di elaborazione – e l’aria per la stagionatura, a Modena, sarà poi così diversa da quella di Parma? – mentre, rispetto alla materia prima, le cosce giungono in entrambi i casi da un raggio di distanza dall’areale piuttosto notevole. Prosciutto slow 86 si di questioni di natura prima legislativa e poi comunicativa. Il quadro normativo europeo prevede una pubblicizzazione delle procedure di registrazione in modo tale che ogni soggetto interessato abbia la possibilità di esprimersi in accordo o disaccordo durante l’iter e, molto spesso, il diritto di manifestare un dissenso discende da una logica che mira a evitare che un prodotto vada a insistere sulla stessa zona geografica o immediatamente limitrofa a quella in cui avviene la produzione di un’altra denominazione con le medesime caratteristiche. Come è possibile che non sia nata alcuna opposizione da parte delle antecedenti Dop rispetto all’avanzare della registrazione di un’Igp che tanto aveva in condivisione con loro? Come mai le istituzioni competenti non hanno storto il naso dinanzi alle richieste di registrazioni di prodotti così prossimi in senso tanto territoriale quanto merceologico, come nel caso dei due aceti balsamici tradizionali? A giochi fatti ciò che palesemente emerge è l’esigenza delle due Dop di riuscire a comunicare le proprie differenze e di esprimere con forza il valore aggiunto del prodotto di cui si fanno carico. Ciò che è invece inutile è lamentarsi di uno scivolamento nel cono d’ombra dove agli occhi del consumatore medio l’aggiunta in etichetta dell’aggettivo “tradizionale” non giustifica la moltiplicazione del prezzo rispetto al vicino e accessibile fratello Igp. 87 www.slowfoodeditore.it goglio e campanilismi per raggiungere lo scopo di una visibilità internazionale? Ciò che emerge dalla nostra analisi è che non necessariamente una denominazione d’origine risponde puntualmente alle esigenze di un’area e di un prodotto e che, conseguentemente, non sempre è auspicabile riadattarsi (prostrarsi?) alle logiche delle protezioni comunitarie. 1.917 cantine segnalate in guida 23.000 vini degustati Ma soprattutto: se le performance devono limitarsi ai palcoscenici più prossimi, perché attrezzarsi per tour continentali? Ovvero: il prosciutto modenese ha davvero necessità di corazzarsi con una Dop se il campionato si riduce ad amichevoli giocate in casa? 88 Interrogativi profondi e risposte che richiedono onestà intellettuale Si può alla luce di queste evidenze ragionare su alcune questioni: Ha senso richiedere una certificazione comunitaria se poi i prodotti prescelti avranno un mercato unicamente nazionale, o addirittura locale, per via dei minimi volumi produttivi? Ha senso creare sullo stesso territorio denominazioni d’origine differenti per prodotti produttivamente molto simili e per di più con un’origine della materia prima che non li differenzia? Non avrebbe senso lasciare da parte or- 188 chiocciole le cantine che interpretano lettici, al meglio i valori (organo territoriali, ambientali) in sintonia con Slow Food slow wine a, icolo ci parla di cultur Il nostro patrimonio vitivin i e donne e di quel lavoro di uomin ia Realtà micro che resterannodichestoria tali, per della propr ci rende un Paese fiero e quest’anno oltre tradizione agricola. Anch o camminato nelle vigne hann ri orato collab 200 unico. ragioni fisico-geografiche, difficilmente ntarvi questo tesoro di tutta Italia per racco potranno sfruttare appieno gli strumenti offerti dalle protezioni per competere sui mercati esteri, finendo per gravitare nell’orbita commerciale più prossima e più modesta e giustificando gli incrementi di prezzi con costi e controlli che forse, in tutta onestà, non Slow Food Editore sono necessari. Tornare sui propri passi e aprire i propri orizzonti per contemplare forme di tutela e pubblicizzazione alternative – come potrebbero per esempio essere marchi collettivi, i Presìdi Slow Food o ancora i marchi De.Co – non necessariamente cancella gli sforzi pregressi, ma può piuttosto risultare una nuova, più efficiente leva per risultati soddisfacenti. Allo stesso modo, ammettere la possibilità di una fusione tra disciplinari e consorzi che insistono nella stessa area geografica, o in assoluta contiguità territoriale, può configurarsi come una soluzione per abbattere gli oneri e aumentare i volumi, consentendo una maggiore visibilità a prodotti che nascono con la pretesa di rivolgersi a un panorama più vasto dell’attuale. 249 Vini Slow oltre all’ottima qualità organolettica, riescono a caratteri condensare nel bicchiere ambiente legati a territorio, storia e 156 Grandi Vini eccellenti sotto il profilo organolettico AT L A N T 244 Vini Quotidiani le migliori bottiglie 174 bottiglie in enoteca esprimere a non più di 10 euro i produttori che sanno a in più un’ottima qualità per ciascun ità 456 aziende con possibil delle etichette presentate di ospitalità e ristoro 132 monete lo sconto le realtà che garantiscono 704 cantine che offrono un buon rapporto tra la qualità e del 10% sull’acquisto dei vini recensit e il prezzo per le bottiglie 65379L guida E Slow Food de R E G IO NA L I IT i P R O D OT T I A L IA N di Ivita Storie e nasce di paesag i in Italia da lla strne, gi e tradiz vig aordinavin ria ion Un repe osterie d’Italia w slon wi e 16 rtorio ch i; un volum varietà per mano e chcant recensite e lo e prenine 1.917 de il letto facendo guida conduce tra bo re ti gli scovar rgat00 e, vavini degusta e piccole lli e alp 23.0 Un viagg eggi, e grandi io tra le pr od regioni ita uzioni di i segreti qu lia ali ne tà che perm . di casari, ette di sc norcini, pastai, pa Una racc A IN rireCANTINA GUIDop PORTA nettierLA olta che i e sticc10% SUI VINI descrive gastronom DEL ieri. 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Un breve confronto fra i disciplinari di produzione di due eccellenze della gastronomia italiana, con un focus sul peso e sulla vacuità del concetto di origine all’interno degli stessi. http://food24.ilsole24ore.com/2015/09/ il-parma-sbarca-in-cina-e-trova-tutela/ (ultima visita: 18-11-15) (1) 90 Nell’ultimo secolo il prosciutto di Parma è riuscito a imporsi sul mercato nazionale1, e non solo, grazie al suo caratteristico sapore dolce e piacevole. Anche la componente edonistica del suo consumo ne ha facilitato la diffusione, soprattutto all’estero, fino a trovare protezione addirittura in quel di Gansu. Il suo Consorzio di tutela riunisce circa 150 aziende, 4000 allevamenti e 3000 addetti alla lavorazione e la sua reputazione è ottima, nonostante i guai con il traffic light system britannico e la campagna pubblicitaria sul tenore di sale che è da poco costata al Consorzio una segnalazione da parte dell’associazione di consumatori Altroconsumo, in seguito a una rivendicazione pubblicitaria ritenuta troppo laudativa. Parma #1: il prosciutto crudo Un confronto fra crudo di Parma e parmigiano reggiano mercato e verso investimenti in campagne pubblicitarie. A questo ha senz’altro contribuito il nome dell’origine: Parma, polo gourmet tanto affermato da avviare recentemente l’iter per ottenere un riconoscimento Unesco. I numeri parlano chiaro: grazie al solo settore food, la città ottiene ricavi per 7,7 miliardi, esportando in tutto il mondo per 1,3 miliardi e dedicando al mercato estero il 52% della produzione. La carne del Parma deriva da suini normati a livello di zona di provenienza, età di macellazione e alimentazione: essi debbono essere nati, allevati e macellati in una delle regioni indicate dall’art. 3 del Decreto Ministeriale 15 febbraio 1993 n. 253. In passato tuttavia sono stati avanzati dubbi sulla provenienza delle cosce e sulla trasparenza di alcune aziende all’interno del Consorzio, questione su cui si era espresso lo stesso ex-presidente del Consorzio Paolo Tanara. Il processo di trasformazione – come risulta chiaro dalle considerazioni effettuate e dal disciplinare stesso – è il protagonista della descrizione: l’obiettivo è ottenere quelle caratteristiche fisiche e organolettiche, raggiungibili attraverso un’economia legata al territorio di provenienza, in stretta interdipendenza con l’industria lattiero-casearia del Parmigiano-Reggiano, storicamente fornitrice di siero di latte, un tempo essenziale per l’alimentazione dei suini. Altro prodotto di punta dell’italianità a tavola, il parmigiano reggiano Dop è un formaggio «a pasta dura, cotta e a lenta maturazione, prodotto con latte crudo, parzialmente scremato, proveniente da vacche la cui alimentazione è costituita prevalentemente da foraggi della zona d’origine. Il latte non può essere sottoposto a trattamenti termici e non è ammesso l’uso di additivi». Il Consorzio, che lo scorso luglio ha compiuto 80 anni, vanta 345 caseifici e una produzione annua di oltre 3 milioni di forme (di cui circa un milione dirette all’estero) il cui canale prevalente è la Gdo italiana (65-70% delle vendite). Anche in questo caso l’origine ha un ruolo preponderante nel successo ottenuto e anche qui, per mezzo dell’aggettivo “parmigiano”, il riferimento è, almeno in parte, alle stesse terre: un punto sanci- quanto conta davvero l’origine? di Paolo Solinas un alimentazione accurata, del suino pesante, tipico della pianura padana. Questa viene delineata come unità singola che si afferma come modello di allevamento del suino, garantendo quel continuum necessario alla protezione (e alla rinomanza) europea. La produzione del prosciutto di Parma va ciononostante considerata nel più ampio contesto di Parma #2: il Parmigiano Reggiano slow Quanto conta davvero l’origine? La razionalizzazione del processo produttivo ha permesso l’ottimizzazione della procedura di salagione e affinamento, assieme al successo crescente che il prosciutto e il territorio hanno avuto grazie anche ad altri prodotti. Tutto questo ha influito sull’affermazione delle aziende del settore più disposte verso l’internazionalizzazione dei propri sbocchi di 91 tavolo temi scottanti. Su questo piano, anche questo prodotto non è sempre stato esente da critiche, in questo caso da parte di una Ong come Greenpeace. Solo un problema semantico? Dai due esempi trattati brevemente, emerge forse già nettamente, ma ci pare valere un’ulteriore specificazione, come occorra cautela quando si parla di origine. Nei due esempi citati, conosciuti peraltro a livello mondiale, essa si appunta innanzitutto a un know-how, un savoir faire, che al tempo stesso sembra nascondere in parte l’origine. Nascondere, beninteso, non in senso proprio, in quanto i disciplinari di produzione sono appannaggio di chiunque, facilmente consultabili su internet. Emerge chiaramente dal disciplinare del prosciutto di Parma che il concetto stesso di origine viene legato principalmente al processo produttivo, alla particolare tecnica di salagione e all’affinamento nei locali deputati. Questo peraltro è un elemento comune, caratterizzante molti prodotti protetti a livello europeo, soprattutto fra i salumi. Tuttavia non si può negare una certa debolezza nel legame con il territorio se si pone mente al fatto che le cosce possono giungere da diverse regioni dell’Italia centro-settentrionale, mentre il nome della Dop identifica “solo” la fase di trasformazione. È chiaro poi che ci sono aziende all’interno della Dop che utilizzano maiali allevati in zone di prossimità maggio- re al nome indicato nella protezione, ma ciò non significa che non si possa dare la giusta rilevanza al fatto di legare così tanto al processo produttivo una protezione la cui ratio è quella di «designare con il nome della regione, o del luogo d’origine, un prodotto agroalimentare originario della regione o del luogo medesimo». La provenienza emerge così, in tutta evidenza, come una scelta convenzionale: ci si muove su una linea immaginaria che va dalle componenti più elementari del cibo al territorio in cui è nata e si è sviluppata una tecnica. A seconda di dove si stabilisce (appunto: convenzionalmente) l’origine, si sarà più vicini o meno a uno degli estremi. A riprova di ciò, nel disciplinare del parmigiano reggiano, il concetto di territorio è apparentemente più forte, in forza al fatto che tutti i capi bovini provengono da una zona meno dispersiva rispetto al Parma Dop. Tuttavia, i mangimi di cui gli animali si nutrono devono provenire solo in una determinata percentuale dalla stessa azienda e dal territorio che la Dop circoscrive. Quindi, anche in questo caso, non è all’inizio della filiera che si fa risalire l’origine. Possiamo così scorgere, analizzando la provenienza disciplinare per disciplinare, un fenomeno di diluizione, con diverse concentrazioni, del corredo semantico della parola “origine”. Se il concetto di origine viene fatto risalire al luogo dove nascono i vegetali che nutrono gli animali, si può af- quanto conta davvero l’origine? slow 92 to anche da una celebre sentenza della Corte di giustizia dell’Unione Europea. Il disciplinare insiste molto sulla provenienza e afferma che «la zona di produzione comprende i territori delle province di Bologna alla sinistra del fiume Reno, Mantova alla destra del fiume Po, Modena, Parma e Reggio nell’Emilia». Le forme sono regolamentate da parametri chimico-fisici, come aspetto esterno, struttura, caratteristiche olfattive. Il disciplinare è in fase di rinnovamento, e uno dei problemi trattati risiede nell’uso del martello e dell’ago nella verifica di congruità delle forme. L’alimentazione dei capi bovini deve mirare al raggiungimento degli standard, apportando diverse sostanze in dosi ben prescritte. Si insiste «sull’impiego di foraggi del territorio di produzione del formaggio» e altre specifiche, per esempio che «almeno il 50% della sostanza secca dei foraggi utilizzati deve essere prodotta sui terreni aziendali» e che «almeno il 75% della sostanza secca dei foraggi deve essere prodotta all’interno del territorio di produzione del formaggio». Non devono inoltre essere somministrati «alimenti che possono trasmettere aromi e sapori anomali», «rappresentano fonti di contaminazione» e «alimenti in cattivo stato di conservazione». Non è poi permesso l’uso di insilati di ogni tipo. Tuttavia, proprio il discorso dei mangimi, dei cereali e legumi utilizzati nella razione fornita a suini e bovini meriterebbe un approfondimento, perché analizzando questo campo si possono portare sul 93 La comunicazione del prodotto – a partire dal suo nome di presentazione – dovrebbe basarsi su un messaggio dimostrativo, non evocativo. Spesso, invece e purtroppo, l’evocazione viene recepita come una tautologia, che chiude il discorso a ogni tipo di approfondimento e riesce a creare un’assenza di stimoli verso un pensiero critico. Esempio ne sia ogni circostanza in cui si consideri ciò che è italiano come necessariamente salubre o eticamente inattaccabile. Nulla di più infondato, in quanto l’ambiente Italia va considerato comprensivo di tutti gli scandali, le violenze al paesaggio, e le regolamentazioni europee in materia di “cibo del nostro cibo”. Ma, soprattutto, esso include questioni ambientali irrisolte che continuiamo a non voler guardare in faccia, e che dovrebbero farci riflettere su noi stessi prima ancora di renderci paladini di istanze che in realtà rappresentia- Questione di scelte e di equilibrio slow fermare che nessuno dei due prodotti summenzionati corrisponda all’origine che rivendica. Qualora invece l’origine venga legata al luogo di allevamento degli animali, il parmigiano reggiano presenta una circoscrizione geografica (e dunque un concetto di origine) più forte del Parma. Se invece consideriamo l’origine come il luogo della trasformazione della materia prima, tutti e due i prodotti considerati sono definibili come ugualmente rappresentativi di tale concetto di origine. 94 mo ben poco, o che non conosciamo. Tornando alla domanda iniziale: l’origine è certo importante. Tuttavia, per evitare che la consapevolezza scivoli verso la paranoia, dovremmo avere una visione più ampia, frutto di una sincera volontà di informarci su tutti gli elementi più o meno coinvolti nella filiera, nella sua interezza, al di là di ciò che succintamente l’origine ci dice. Ulteriormente, poi, dobbiamo alzare la guardia quando il concetto di terroir – come abbiamo visto – viene identificato maggiormente nella tecnica di produzione e nei parametri fisico-chimici, invece che nei fattori umani e naturali che, regolamentazione alla mano, dovrebbero essere il fondamento di una Denominazione di origine protetta. Certamente, la ratio delle denominazioni è quella di essere una garanzia per il consumatore, oltre che un meccanismo di recupero dei costi per il produttore. A 23 anni dal primo regolamento europeo che istituiva le Dop e le Igp, abbiamo certo assistito a una crescita esponenziale dei riferimenti all’origine geografica, soprattutto nei Paesi che si affacciano sul Mediterraneo. Questo tuttavia ha creato una “selva” di Dop, con il risultato di imporre nella mente del consumatore l’equazione “prodotto + denominazione d’origine = qualità” e d’altra parte non ha superato l’ambiguità che abbiamo individuato rispetto al significato della parola “origine”, per cui l’equivalenza risulta doppiamente, tragicamente infondata. Vai in vacanza con la nuova app di Slow Food di Mara Ventura e Stella Ricciardelli 96 Un prodotto, un territorio Quanti, passando per la Romagna, hanno deliziato le loro papille gustative con la vera piadina romagnola, impastata e stesa a mano con l’arte antica delle piadare dei chioschi? Ma quanti di loro conoscono l’esito paradossale cui ha portato il percorso verso l’ottenimento della certificazione Igp della piadina? Oggi la piadina romagnola è una Igp, ma siamo sicuri che l’aver ottenuto questo importante riconoscimento europeo garantisca l’autenticità di quella che oggi viene venduta, con tanto di logo identificativo, nei supermercati o nei negozi? Innanzitutto è da chiarire il perché la piada romagnola sia diventata una Igp e non una Dop. L’indicazione geografica protetta infatti, a differenza della Dop, rende sufficiente che una sola delle tre fasi (produzione, trasformazione ed ela- borazione) venga svolta nell’area geografica che ogni disciplinare definisce, ma richiede che una determinata qualità, la reputazione o un’altra caratteristica, dipenda da una specifica origine geografica. Ed è principalmente di questa seconda caratteristica che si avvantaggia la piada romagnola, dal momento che, quella vera e tradizionale, ha con il suo territorio di produzione un legame forte e consolidato da anni di esperienze e pratiche culinarie. Ed è proprio in questa tradizionalità delle pratiche – attestate, niente meno, che dal poeta romagnolo Giovanni Pascoli – che s’inserisce la rivendicazione di una certificazione, riconosciuta a livello europeo, per la piadina romagnola, richiesta però non, come è legittimo pensare, dai piccoli produttori artigianali ma, al contrario, dalle grandi industrie manifatturiere del settore. della gente della Romagna1» e il prodotto che ne esce si allontana irrimediabilmente dal dialettale romagnolo “piè2”. Chiunque abbia voglia di scorrere il disciplinare di produzione, definitivamente registrato dall’Unione Europea il 4 novembre 2014, potrà costatarlo da sé. Noi l’abbiamo fatto con Gianpiero Giordani, coordinatore dell’Associazione per la valorizzazione della piadina romagnola. Un disciplinare industriale A partire dall’articolo 2 “Descrizione del prodotto” si comprende subito quanto il prodotto in questione sia profondamente diverso da quello realizzato dalle piadare: il consumo immediato, caposaldo della piadina romagnola, viene solo eventualmente previsto, così come il confezionamento in involucri di carta non sigillati. È chiaro quindi come gran parte di questi pani saranno realizzati a livello industriale, perché un piadaro non sigillerebbe mai la sua creazione. Scendendo lungo il disciplinare anche l’articolo 5, “Metodo di ottenimento del prodotto”, desta un po’ di perplessità. Qui, infatti, i membri del Consorzio non dimenticano di elencare gli ingredienti – con le rispettive dosi – previsti e consentiti per la preparazione della piadina romagnola. Tuttavia nulla specifica in modo puntuale ingredienti che riman(1) Articolo 6 del “Disciplinare di produzione della indicazione geografica protetta Piadina Romagnola” — (2) Ibidem piadina romagnola igp: un’industria della tradizione slow Piadina romagnola Igp: un’industria della tradizione Un iter inarrestabile nonostante un difetto di origine La vicenda da cui ha inizio il riconoscimento Igp di questa prelibatezza tutta italiana sconta un peccato originale: l’aver messo sullo stesso piano la piadina artigianale, dal caratteristico profumo del pane appena sfornato, e quella realizzata a livello industriale, laminata meccanicamente e successivamente surgelata per un consumo differito. È mai possibile che i mattarelli delle piadare vengano sostituti da laminatrici meccaniche e che si continui a parlare degli stessi dischi fragranti che hanno fatto sognare il Pascoli e anche molti di noi? Il consumo differito infatti, come tengono a sottolineare i piccoli produttori artigiani, veri detentori di quella manualità esperta rivendicata dalle industrie per ottenere la certificazione Igp, non può suscitare lo stesso entusiasmo al palato di quello provocato da una piadina ancora fumante. Oggi, la preparazione è minuziosamente regolata da un disciplinare di produzione. In tale disciplinare, sulla cui stesura gli industriali dell’Associazione promotrice la certificazione hanno faticosamente trovato un accordo, non senza litigi e controversie, si descrivono in maniera puntuale le condizioni e i requisiti cui il prodotto deve rispondere perché si possa spendere il nome dell’indicazione geografica protetta “piadina romagnola” o “piada romagnola”. Ma paradossale è che, rispettando le rigide regole prescritte dal disciplinare, non si racconta più autenticamente «la storia 97 La storia scippata Ma non finisce qui. Nell’articolo 6, “Elementi che comprovano il legame con l’ambiente”, viene descritto attentamente e con dovizia di particolari il legame con il territorio di quella piadina artigianale, realizzata sul momento e prodotto quindi sempre fresco, che ha caratteristiche inscindibilmente legate al territorio e all’abilità artigiana dei piccoli produttori. Un elemento in stridente contrasto con il resto del disciplinare, interamente dedicato a «un prodotto industriale di panetteria che di certo con la storia richiamata all’art. 6 non ha nulla da spartire, salvo alcune caratteristiche esteriori»3. Così si consuma la somma ingiustizia: le piadare, che da anni preparano la piadina romagnola secondo la loro ricetta autentica, risultato di un’esperienza e di un savoir faire vecchi di secoli, non possono più chiamarla col suo nome, pena una multa insostenibile per le loro tasche, a meno di ricorrere, pagando i controlli, alla stessa certificazione che premierà le piadine romagnole industriali con la Igp. Non ci vuol molto a domandarsi come potrebbe fare un piccolo piadaro a pagare una quota pensata non per gli artigiani ma per le grandi industrie. Ma, soprattutto, perché un artigiano dovrebbe pagare un ente terzo per certificare la sua piadina come tradizionale, quando sono già gli anni di pratiche a farlo? E infine: perché affrontare spese e controlli per essere equiparato a un anonimo prodotto industriale a lunga conservazione? È quindi ovvio come questo tipo di tutela sia e sarà sempre più prerogativa, tendenzialmente esclusiva, di grandi industriali che, grazie a una produzione su larga scala che rende il costo necessario quasi irrisorio, hanno la possibilità di rivendicare un nome di così grande valore da esportare in tutto il mondo. (3) Parere pro-veritate “Osservazioni in merito alla proposta di Disciplinare della Indicazione Geografica Protetta Piadina Romagnola”, Pollenzo, 20 Marzo 2013 La battaglia per il diritto e la speranza per il futuro A conferma della contraddittorietà che piadina romagnola igp: un’industria della tradizione gono mere commodities: farina, non importa prodotta da chi né dove, ma solo che sia di grano tenero; grassi, di origine vegetale (olio extravergine di oliva) e animale (strutto); sale. Nessun cenno viene fatto al latte né al miele, possibili golose varianti tipiche di alcune zone della Romagna che rimangono fiere della loro specificità, benché proprio per queste peculiarità tali ricette, senz’altro storiche, non possano più rientrare in un disciplinare che davvero finge di tutelare le autentiche piadine romagnole. Per non parlare poi delle sottosezioni contenute nell’articolo 5, “Raffreddamento” e “Confezionamento”, che affiancando queste due pratiche di conservazione al consumo fresco, confermano l’ingiustificata confusione tra la piadina romagnola e il prodotto industriale che, appare evidente, a questa vorrebbe essere ricollegato. 99 slow 100 abbiamo menzionato, nel maggio 2014, il Tribunale amministrativo regionale (Tar) del Lazio ha accolto il ricorso di un’azienda di Modena, dichiarando illegittimi il disciplinare di produzione che Regione Emilia-Romagna e Ministero delle Politiche Agricole avevano presentato alla Commissione Europea nel 2012 e i relativi decreti ministeriali di riconoscimento della tutela provvisoria. La motivazione, che trova le sue radici in un parere pro-veritate dell’Università degli Studi di Scienze Gastronomiche di Pollenzo, si fonda sul fatto che se esiste la possibilità di riconoscere una reputazione tutelabile, deve esistere solo per la piadina prodotta in maniera tradizionale e manuale, che è quella cui si riferiscono gli elementi d’irripetibile collegamento territoriale elencati all’articolo 6 del disciplinare. Malauguratamente, nonostante una prima opposizione da parte dei produttori artigianali e una censura da parte del Tar del Lazio, il Consiglio di Stato ha infine confermato la possibilità di chiamare piadina romagnola solo quella prodotta all’interno della “Romagna storica”, come delimitata da disciplinare, senza nulla fare a favore dell’artigianalità, avendo lasciato inalterato il documento. In conclusione Il consorzio di industriali che ha richiesto il riconoscimento della Igp per la piadina romagnola lo ha fatto per avere un legittimo tornaconto economico, collegandolo però a tradizionalità e au- tenticità di cui questo nome è portatore con riferimento a un prodotto diverso da quello industriale. Gli industriali sono, quindi, riusciti a “piegare la storia” a loro favore. Oggi la piadina romagnola Igp non è più quella dei chioschi e ristoranti né quella delle piadare, ma solo quella che si trova nei supermercati, sigillata e talvolta persino congelata per garantirne un consumo differito nel tempo a norma di legge. La ritrosia da parte dei piadari nel piegarsi a un disciplinare che non li tutela non solo sta nell’onere economico imposto dall’ente di controllo ma soprattutto nella consapevolezza che l’unico modo per tutelare la tradizionalità e artigianalità della piadina romagnola è opporsi all’omologazione dell’artigianalità all’industrialità. Perché, come saggiamente afferma Carlo Petrini: «Nel momento in cui una Igp o una Dop non proteggono il prodotto che davvero ha un legame con la storia e le tradizioni di un territorio, allora l’utilizzo di questi strumenti, che la legislazione europea mette a disposizione, è scorretto e lesivo della leale concorrenza». Solo la sentenza del Tar del Lazio lascia un barlume di speranza in questa che è la storia di una sconfitta: quella di un prodotto detentore di una tradizione che non gli è più permesso raccontare, perché usurpata da chi di questa tradizione non fa non un racconto bensì un mero business. Non resta che augurarci che il sacrificio della piadina romagnola possa servire a meglio difendere da analogo spoglio altre storie e altri territori. Slow Food Educa ringrazia chi sostiene i progetti educativi I PA RTN E R I PA RTN E R ¨ I SO STE N I TO R I SP O N SO R TE C N I C I Distilleria Invitti Arcoiris Kulmbacher Vita in Campagna Birrificio Agricolo Baladin Trappeto di Caprafico Azienda Agricola Tommaso Masciantonio Scopri tutte le nostre attività didattiche su: www.slowfood.it/educazione di Cristina Tenino Un’analisi della più ardua dicotomia, partendo dal caso del Nizza Docg 102 Eppure, nelle etichette del nuovo Nizza Docg la parola Barbera non farà parte della denominazione. Il difficile è dover scegliere Un amore, dicevamo, per il territorio; ma questo di sicuro non è il primo caso in cui a livello di tutela si predilige la geografia al vitigno: si pensi, restando in Piemonte, al caso del Roero, diventato Doc nel 1985, anch’esso dopo una lunga traversata, e allora capace – come fa il Nizza oggi – di rinunciare alla parola magica “Nebbiolo”. Una scelta a favore del terroir, in cui l’elemento vitigno svanisce. Ma allora cosa significa terroir e perché altrove la scelta è ed è stata diversa? Si pensi a Primitivo di Manduria, Brunello di Montalcino, Barbera d’Alba e Sagrantino di Montefalco, per fare esempi noti a tutti, dove si è scolpito il legame vitigno/luogo nella denominazione d’origine. Terroir è un termine da non dare per scontato, sebbene chiarire esattamente cosa s’intenda quando lo si cita sia molto complesso: non è un semplice riferimento al territorio ma è qualcosa da interpretare in un senso tanto ampio che, se chiedessimo a un produttore cosa indichi la parola, probabilmente ci direbbe semplicemente che è ciò che rende il suo vino differente da quello degli altri viticoltori, quello che quindi gli dona un valore aggiunto. Semplice e al tempo stesso sfuggente. Il terroir è la sintesi di uomo, ambiente, vitigno, storia ed economia. Una sintesi dinamica, continuamente plasmata e impercettibilmente in evoluzione: come l’idea stessa di identità. Ma in presenza di tale indeterminatezza, perché allora preferire il nome del territorio e non del vitigno? La parola ai protagonisti Parlando con Gianluca Morino, già presidente dell’Associazione Produttori del Nizza, la risposta a questa domanda pare molto semplice: lavorare sul nome del territorio non vuol dire solo comunicare un vino, ma anche le tecniche e le persone che ci lavorano, soprattutto se il vitigno, in questo caso il barbera, è stato in passato comunicato male ai consumatori, tanto da essere frainteso, confuso, reputato pregiudizialmente “minore”. È stato scelto per questo il nome Nizza (e non Barbera di Nizza), nella consapevolezza che una denominazione di questo tipo comporta complicazioni nella commercializzazione e nella comunicazione del prodotto, ma con il desiderio di creare una netta divisione rispetto al passato e alle scelte metodologiche precedenti. La volontà dichiarata è quella di far diventare questo vino “la” Barbera per eccellenza. Volontà che viene condivisa da molti produttori, anche importanti, che hanno deciso di aderire all’Associazione Produttori del Nizza e iniziare così un nuovo cammino, lontano dalla Barbera d’Asti, ma anche chiaramente orientato a garantire la qualità finale. Divieto di impianti oltre una certa altitudine, divieto di arricchimento dei mosti: solo il meglio può venire dalle vigne per produrre il Nizza. territorio o vitigno? slow Territorio o vitigno? Nizza Monferrato, è il 20 dicembre 2013 quando nasce una nuova Docg. Il “Nizza”, prima sottozona tradotta in etichetta come menzione geografica aggiuntiva alla Barbera d’Asti Docg, diventa ora una vera e propria Denominazione di origine controllata e garantita, con un disciplinare nuovo di zecca. È la fine di un percorso iniziato negli anni Novanta, che ha visto impegnati molti protagonisti e la loro passione per questo vitigno, il Barbera. Una passione scolpita nel payoff della nuova denominazione: Nizza è Barbera. Nel riconoscimento di questa denominazione non vi è solo il desiderio di riuscire a camminare da soli sganciandosi finalmente dal Barbera d’Asti Superiore forse un po’ svilito negli ultimi anni, ma anche l’intento di proteggere un territorio e i suoi viticoltori. 100% Barbera (a differenza del disciplinare del Barbera d’Asti, che ammette diverse possibilità di taglio) ha pienamente senso perché in questa zona l’uva barbera – spesso un po’ trascurata nelle vicine Langhe per privilegiare il nebbiolo – la fa da padrona. Da tempo immemore, nell’Astigiano le uve barbera si coltivano su un solo versante, perché la tipologia di esposizione ne decreta la buona riuscita o meno. Tutto ciò ha creato un connubio terra/vitigno che nel moscato trova il suo alter ego bianco e aromatico. 103 slow 104 Il barbera è il vitigno a bacca nera più piantato del Piemonte: la sua variabilità è certo incomparabile rispetto a vitigni molto meno diffusi Nome nuovo e nuovo disciplinare non devono però farci pensare a un vino appena nato e privo di storia: il Barbera d’Asti Superiore Nizza divenuto semplicemente Nizza è un vino che l’adolescenza se l’è lasciata alle spalle, che già prima della nascita della nuova denominazione aveva un’alta quotazione ed era considerato emblema di qualità nella categoria dei Barbera. I produttori hanno trovato in Gianluca Morino un fiero oppositore all’inserimento del nome del vitigno all’interno della denominazione di origine, soprattutto quando si tratta di vitigni importanti come barbera o nebbiolo. Non solo perché il loro utilizzo è esteso in varie località diverse tra loro, ma soprattutto perché luoghi differenti danno vita a vini con caratteristiche incomparabili, dipendenti da quello che abbiamo appunto chiamato terroir. E il barbera è il vitigno a bacca nera più piantato del Piemonte: la sua variabili- tà determinata dalla geografia è certo incomparabile rispetto a vitigni molto meno diffusi, come grignolino, pelaverga piccolo o ruché. Solo un’anticipazione? A questo punto possiamo capire un po’ meglio la propensione del legislatore (è di questi giorni la proposta della Commissione Europea di eliminare ogni vincolo all’utilizzo dei vitigni e dei loro nomi, di fatto togliendo un pezzo di tutela alle denominazioni che li includono) e dei produttori più illuminati nel preferire il terroir rispetto al vitigno. Il terroir infatti è qualcosa che garantisce una fusione luogo/vitigno/cultura ed è quindi qualcosa che va rispettato e curato in maniera speciale. Certo, nella sintesi è l’aspetto geografico ad assumere poi anche i connotati qualitativi, nell’ideale del consumatore, che spesso sentiamo affermare cose oggettivamente poco fondate come «da quell’area viene/non viene del vino buono» (trascurando il vitigno e il savoir faire umano) e d’altra parte rimane il problema di vendere un vino che porti il nome di un territorio poco conosciuto. Sicuramente sono necessari grandi investimenti per comunicare il prodotto a partire dalla sua origine, rinunciando a sfruttare la riconoscibilità dell’uva, ma appare evidente come si tratti di un investimento potenzialmente più redditizio sul lungo periodo, non solo per la filiera del vino ma per l’intera economia, se non per il futuro di una terra. SCOPRI IL NUOVO NEGOZIO ONLINE www.slowfoodeditore.it EN GRE DIVENTA SOCIO SLOW FOOD EN GRE EN GRE I soci sono la forza di Slow Food. Educare a una corretta alimentazione, sostenere produttori agricoli virtuosi, tutelare cibi a rischio di estinzione sono gli obiettivi di Slow Food. Con la tessera green sostieni Slow Food e i progetti a tutela dell’olio extravergine di qualità, come l’Extravergine del Presidio: oliveti antichi, cultivar autoctone, niente fertilizzanti di sintesi e diserbanti chimici. Riduci le emissioni di CO2 e il consumo di carta Diminuisci spedizioni, traffico e inquinamento La tua tessera e molto altro sempre a portata di mano con SlowFood IT, l’app di servizio al socio (iOS e Android) DIVENTA SOCIO GREEN CON LA APP SLOW FOOD IT 04 mondo slow IL SOCIO GREEN DIFENDE L’OLIO VERO Mondo slow «Ogni condotta, ogni comunità del cibo può diventare il germoglio per la crescita di un sistema locale del cibo, perciò occorre una rete di Slow Food più capillare e più solida che sappia coniugare l’analisi critica con la capacità di orientare la politica, ma soprattutto sappia sporcarsi le mani attraverso progetti realizzati sul proprio territorio» Gaetano Pascale, presidente Slow Food Italia 107 Agenda Eventi, incontri, manifestazioni, presentazioni di libri: il mondo slow giorno per giorno 4 gennaio 2016 Nuova edizione di Farm City di Novella Carpenter disponibile su slowfoodeditore.it 20 gennaio 2016 Nuova edizione della Guida ai vitigni d’Italia disponibile su slowfoodeditore.it 15-16 gennaio 2016 “Siamo stufi!” — Postdamer Plaz, Berlino 14 febbraio 2016 Incontro nazionale del network mais antichi: Uomini di mais - Custodi di libertà — Arcevia, Ancona Come ogni anno, Slow Food sarà in prima linea nella grande protesta contro l’agro-industria che si tiene nella capitale tedesca. Per prepararsi, la sera precedente si terrà una grande Disco Soup. 17 gennaio 2016 Presentazione Slow Food Planet Usa — Herbst Pavilion, Fort Mason Center, San Francisco All’interno del Good Food Awards Marketplace Carlo Petrini, Alice Waters e il responsabile del progetto Eugenio Signoroni presenteranno l’app Slow Food Planet, il nuovo strumento che permette di avere sempre a portata di mano i consigli di Slow Food. Per l’occasione verrà lanciata la nuova area di San Francisco. 18 gennaio 2016 Formazione regionale su Biodiversità e Filiere locali del cibo — Rescaldina, Milano 108 agenda slow gennaio - marzo 2016 17 febbraio 2016 A tavola con i cereali - In cucina con Slow Food disponibile su slowfoodeditore.it Appuntamenti Unisg 13 gennaio Inizio Master in the Slow Art of Italian Cuisine 21 gennaio Inizio Executive Master in Cibo e salute 23 gennaio Open Day 20 febbraio Open Day Buono, pulito e giusto di Carlo Petrini 26 febbraio disponibile su slowfoodeditore.it Inaugurazione dell’anno accademico 20-21 febbraio 2016 Incontro della rete nazionale Slow Food Svezia — Goteborg 31 marzo - 1 aprile 2016 Slow Food Fair — Stoccarda 1 marzo Inizio Master in Cultura del vino italiano 7 marzo Inizio Master in Alto Apprendistato per panettieri e pizzaioli e mastri birrai Il principale evento di Slow Food in Ger- 10 marzo mania: una mostra-mercato in cui le Inizio Master in Food Culture aziende avranno la possibilità di vende- and Communications re i propri prodotti ed entrare in contatto con un pubblico privato interessato a 11 marzo prodotti artigianali di alta qualità. Graduation Day 109 Interventi raccolti da Alessandra Abbona e Flavio Coffano L’atleta e il nutrizionista a confronto — Simone Moro, alpinista, e Andrea Pezzana, medico, convergono sulla relazione profonda tra cibo e salute 110 Si fa tanto parlare dell’importanza dell’alimentazione nella vita dello sportivo, e spesso si considerano solo gli aspetti strettamente nutrizionali e medici di questo soggetto, mentre più raramente i concetti di gusto e di prodotti di qualità vengono analizzati. Fortunatamente la sensibilità sta mutando e ce lo testimonia Simone Moro, alpinista e aviatore, uno degli sportivi italiani più noti a livello internazionale. Bergamasco, classe 1967, Moro è l’unico alpinista della storia ad avere raggiunto tre cime di 8000 metri in completa stagione invernale: il Shisha Pangma (8027 m), il Makalu (8463 m) e il Gasherbrum II (8035 m). Inoltre è salito sulla vetta di sette dei quattordici 8000 metri ed è arrivato quattro volte in cima all’Everest. Pilota di elicottero mosi, soprattutto in America, hanno iniziato a creare integratori e barrette bio e organic. Quindi è assolutamente una strada percorribile, anzi, auspicabile. nutrizione e attività sportiva. organi. Può aiutare una scelta antiageing con alimenti adeguati? Quali consigli ci puoi fornire? La miglior dieta anti-ageing consiste nell’avere uno stile di vita sano che comprenda sì un’alimentazione adeguata, ma anche tanto sport. Il nostro corpo è come una caldaia, brucia tutto quello che ci buttiamo dentro, ma per fare questo dobbiamo muoverci. Non sono gli integratori o le diete a mantenerci in forma, siamo noi che dobbiamo cambiare marcia, rivoluzionare il nostro stile di vita; gli integratori, come dice la parola stessa, integrano il nostro profilo alimentare. Per concludere: ho 50 anni e mi ritengo in forma, ma non solo per quello che mangio, anche perché in qualità d’atleta questa mattina ho fatto 3000 metri di dislivello. Fa eco alle dichiarazioni di Moro Andrea Pezzana, medico nutrizionista e docente Unisg. «Dalle parole di Simone Moro abbiamo un’ulteriore conferma di come la qualità nutrizionale sia un fattore che va ben oltre il solo calcolo calorico o dei singoli nutrienti – spiega il docen- i Si può mantenere il piacere del gusto e della sensorialità anche in condizioni di performance estreme o si deve perlopiù rinunciare in funzione della sola fornitura di calorie e nutrienti in quantità adeguata? Assolutamente no, togliere il gusto al cibo che mangiamo ogni giorno crea stress e infelicità, e un atleta stressato non è performante. I cibi semplici hanno sapori eccezionali (pensate a una buona minestra di farro, per esempio) e danno tutte le calorie e i nutrimenti necessari in condizioni estreme. Mi sto preparando per una nuova spedizione invernale in Himalaya e la carne che porterò con me a 8000 metri sarà quella del mio macellaio di fiducia… assieme a un po’ di polenta di farina macinata a pietra ovviamente! i A proposito del tema degli energy drink e degli integratori, la cui scelta sul mercato è enorme: si può ancora pensare a integrazioni più “naturali” a partire da materie prime di qualità? Certo che sì, tant’è che molti brand fa- i L’attività fisica intensa permette il mantenimento di elevate performance, ma sottopone anche il nostro corpo a stress importanti per le cellule e gli sport e alimentazione slow Sport e alimentazione specializzato nel soccorso in Himalaya, ha ricevuto il “Pierre de Coubertin Fair Play Trophy” dall’Unesco, il “David A. Sowles Award” dall’allora segretario dell’Onu Kofi Annan e la Medaglia d’oro al valor civile dal presidente della Repubblica per le sue imprese di salvataggio estremo in Nepal. Lo abbiamo incontrato per parlare di 111 BANCA pubb 220x287 def 28-01-2010 17:40 Pagina 1 BANCA pubb 220x287 def 28-01-2010 17:40 Pagina 1 BANCA pubb 220x287 def 28-01-2010 17:40 Pagina 1 BANCA pubb 220x287 def 28-01-2010 17:40 13,5% vol. tutta l’Italia 13,5% vol. tutta l’Italia 13,5% bi 13,5% vol. vol. tutta l’Italia hiere 13,5% vol. al la m a n o bi hiere tutta l’Italia bi hiere al la m a ncomplesso o 13,5% vol.di Nell’affascinante e suggestivo neogotico tutta l’Italia Pollenzo, alla porta delle Langhe, ha sede la Banca del al la m aa n o bi hiere Nell’affascinante ee suggestivo complesso neogotico di al la m n o Nell’affascinante suggestivo complesso neogotico di Vino che, nata per raccogliere la memoria storica dei 13,5% vol. 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Venite a visitare la Banca del Vino e immergetevi , percorrendo idealmente tutta l’Italia mano 1800, avrete la possibilità assaggiare i migliori che haqui conservato intatto il di fascino di due secolivini fa.e nell’incanto delle nostre cantine, bicchiere alla fermandovi, regione per regione, ad assaggiare i vini che della produzione nazionale all’interno di una struttura Venite a visitare la Banca del Vino e immergetevi , percorrendo tutta l’Italia mano rappresentano la storia e ilidealmente territorio dadi cui provengono. che ha conservato intatto il fascino due secoli fa.e nell’incanto delle nostre cantine, bicchiere alla fermandovi, regionelaper regione, assaggiare i vini chee Venite Banca del ad Vino e immergetevi percorrendo idealmente tutta l’Italia manoa, visitare rappresentano la storia il cantine, territorio da cui provengono. nell’incanto delle nostre bicchiere fermandovi, regione pereregione, ad assaggiare i vinialla che tutta l’Italia e mano , percorrendo rappresentano la storia e ilidealmente territorio da cui provengono. fermandovi, regione per regione, ad assaggiare i vini che rappresentano la storia e il territorio da cui provengono. laBancadelVino laBancadelVino laBancadelVino laBancadelVino laBancadelVino laBancadelVino PRODOTTO PRODOTTO PRODOTTO IN ITALIA PRODOTTO IN ITALIA IN ITALIA PRODOTTO INPRODOTTO ITALIA PRODOTTO PRODOTTO IN PRODOTTO ITALIA PRODOTTO PRODOTTO ININITALIA ITALIA IN PRODOTTO INITALIA ITALIA ININITALIA ITALIA IN ITALIA CONTIENE SOLFITI CONTIENE -CONTIENE CONTAINS SOLFITISOLFITI -SULPHITES CONTIENE CONTAINS -CONTAINS -SOLFITI SULPHITES ENTHÄLT CONTIENE -SULPHITES CONTAINS SULFITE -ENTHÄLT CONTIENE SOLFITI CONTIENE -SULPHITES ENTHÄLT -SULFITE CONTIENE CONTAINS SOLFITI CONTIENE SOLFITI SULFITE -ENTHÄLT -CONTIENE CONTAINS SOLFITI -SULPHITES CONTIENE CONTAINS SOLFITI -SULFITE CONTAINS SOLFITI -SULPHITES CONTIENE CONTAINS -SOLFITI SULPHITES ENTHÄLT -CONTAINS -SULPHITES CONTAINS -SOLFITI SULPHITES SULFITE ENTHÄLT -ENTHÄLT -SULPHITES CONTAINS -SULPHITES ENTHÄLT SULFITE -SULFITE ENTHÄLT -SULPHITES SULFITE ENTHÄLT -ENTHÄLT SULFITESULFITE -SULFITE ENTHÄLT SULFITE www.bancadelvino.it www.bancadelvino.it www.bancadelvino.it www.bancadelvino.it www.bancadelvino.it www.bancadelvino.it www.bancadelvino.it www.bancadelvino.it www.bancadelvino.it www.bancadelvino.it www.bancadelvino.it www.bancadelvino.it PRODOTTOPRODOTTO E IMBOTTIGLIATO PRODOTTO E IMBOTTIGLIATO PRODOTTO EALL IMBOTTIGLIATO ’ORIGINE EALL PRODOTTO IMBOTTIGLIATO DA ’ORIGINE BALL ANCA PRODOTTO ’ORIGINE PRODOTTO EDA IMBOTTIGLIATO DEL BALL PRODOTTO ANCA VDA PRODOTTO ’INO EORIGINE EIMBOTTIGLIATO BIMBOTTIGLIATO ANCA DEL PRODOTTO PRODOTTO EVDA ALL IMBOTTIGLIATO INO EDEL IMBOTTIGLIATO ’BORIGINE ANCA VPRODOTTO INO EALL EIMBOTTIGLIATO ALL IMBOTTIGLIATO DEL ’ORIGINE DA ’ORIGINE VBALL INO EANCA ALL IMBOTTIGLIATO ’ORIGINE DA ’ORIGINE DA DEL BALL ANCA BALL ’ANCA VORIGINE DA ’INO ORIGINE DA B DEL ANCA DEL BALL ANCA VDA ’INO VORIGINE DA INO DEL BANCA B DEL ANCA VINO VDA INO DEL DEL BANCA VINO VINODEL VINO PIAZZA VITTORIO PIAZZAPIAZZA PIAZZA PIAZZA PIAZZA EVMANUELE ITTORIO VITTORIO E-MANUELE POLLENZO EVMANUELE ITTORIO - PDIOLLENZO EB-MANUELE RA VPPIAZZA ITTORIO OLLENZO (CDI N) B VIPIAZZA -TALIA RA EITTORIO VPPIAZZA DI MANUELE ITTORIO OLLENZO (C BNRA VPIAZZA )ITTORIO EVIPIAZZA (C TALIA MANUELE EITTORIO -DI MANUELE NP ) BVOLLENZO ITALIA RA EITTORIO VPIAZZA MANUELE ITTORIO E(C -MANUELE P -NOLLENZO P )DI EVOLLENZO ITALIA MANUELE EITTORIO B-MANUELE RA P- OLLENZO P(C DIOLLENZO DI N EB)-MANUELE RA BIP -TALIA RA OLLENZO P(C DIOLLENZO (C DI N B)NRA BI)-TALIA RA IP(C TALIA DIOLLENZO (C DI NB)N RA BI)TALIA RA I(C TALIA (C DI N)NB I)TALIA RA ITALIA (CN) ITALIA Fondando le basi su queste convinzioni, prende il via all’Università di Pollenzo a inizio 2016 il primo Executive Master in Cibo e salute, sotto la direzione scientifica e didattica di Andrea Pezzana. Come vi abbiamo raccontato in maniera approfondita nello scorso numero, si tratta di un corso che coniuga la visione olistica delle scienze gastronomiche con la nutrizione, indirizzato ai professionisti del settore medico-sanitario e pensato proprio per archiviare il vecchio modello che considera solo le questioni numeriche delle calorie, e imparare ad assegnare valore al cibo nella sua complessità. Pagina 1 75 cl.e 75 cl.e 75 cl.e 75 cl.e75 cl.e 7575cl.e cl.e 7575cl.e cl.e 7575cl.e cl.e 75 cl.e anni le attività dell’Università di Scienze Gastronomiche, costituisce un ambito di ricerca privilegiato, da approfondire in maniera multiprofessionale, condividendo le competenze di medici, dietisti, gastronomi, cuochi, contadini e allevatori assieme agli esperti di sostenibilità e a ogni altra professionalità coinvolta nella filiera alimentare, dalla produzione al consumo». 17:40 SCRIBA STUDIO SCRIBA SCRIBA STUDIO STUDIO CRIBA SCRIBA STUDIO STUDIO CRIBA SCRIBA STUDIO STUDIO SCRIBA STUDIO Il Master che partirà nel 2016 a Pollenzo coniuga la visione olistica delle scienze gastronomiche con la nutrizione 28-01-2010 DIO slow 112 te –. Slow Food e l’Università di Scienze Gastronomiche hanno recentemente avviato nuovi confronti e ricerche sui temi della relazione tra cibo e performance fisica. A partire dal Salone del Gusto 2014 Slow Food è diventato partner di Torino Capitale Europea dello Sport 2015 e proprio nell’edizione 2014 del Salone, in collaborazione con l’Istituto di Medicina dello Sport e il corso di laurea in Dietistica, i visitatori (sportivi e non) hanno potuto ricevere informazioni e valutazioni personalizzate sui temi dell’efficienza fisica e della relazione tra attività motoria e stili alimentari adeguati». Continua Pezzana: «A Pollenzo nei mesi scorsi, in un incontro con docenti e studenti dell’Università, Davide Cassani, commissario tecnico della Nazionale italiana di ciclismo, assieme ad alcuni atleti e a personale sanitario della Nazionale, ha raccontato le più recenti indicazioni in tema di alimentazione e sport, apprezzando le potenzialità di alcuni prodotti dei Presìdi Slow Food, interessanti per le specifiche caratteristiche nutrizionali funzionali al miglioramento delle performance fisiche. Anche il recente Congresso nazionale di medicina dello sport tenutosi a Torino a fine settembre ha ospitato una relazione per dimostrare i vantaggi di un’alimentazione sana e di qualità per lo sportivo». «La relazione profonda tra cibo e salute – conclude Pezzana –, che ispira da oltre 20 anni Slow Food e da più di 10 BANCA pubb 220x287 def piazza Vittorio Emanuele 13, 12042 Pollenzo di Bra (Cn) tel. 0172 458418, [email protected] piazza piazza Vittorio Vittorio Emanuele Emanuele 13, 13, 12042 12042 Pollenzo Pollenzo di di Bra Bra (Cn) (Cn) tel. tel. 0172 0172 458418, 458418, [email protected] [email protected] piazza Vittorio Emanuele 13, 12042 Pollenzo di Bra (Cn) tel. 0172 458418, [email protected] piazza Vittorio Emanuele 13, 12042 Pollenzo di Bra (Cn) tel. 0172 458418, [email protected] piazza piazza Vittorio Vittorio Emanuele Emanuele 13, 13, 12042 12042 Pollenzo Pollenzo di di Bra Bra (Cn) (Cn) tel. tel. 0172 0172 458418, 458418, [email protected] [email protected] l’orizzonte d’appennino è a sud slow L’orizzonte d’Appennino è a sud di Sonia Chellini 114 Che l’Italia è stretta e lunga l’abbiamo imparato alle scuole elementari, studiando geografia. Nella storia del secondo dopoguerra, con l’euforia del cosiddetto boom economico, questo dato oggettivo si evidenziò ai nostri occhi attraverso la realizzazione delle grandi opere pubbliche (viadotti, tunnel, autostrade) frutto del genio e dell’operosità italiana, che dovevano rendere, secondo i governi che le sostennero, il nostro Paese una nazione moderna e al passo con i tempi. Vent’anni prima Cristo s’era fermato ad Eboli, e lì rimase nonostante tutto quel fervore ingegneristico finalizzato, si diceva, a ricongiungere questa Italia stretta e lunga, percorsa longitudinalmente da una catena montuosa possente come una spina dorsa- le, e renderla infine una tra le nazioni europee e mondiali a spiccata vocazione industriale. Se oggi guardiamo gli effetti (cartine delle reti stradali e ferroviarie) ci accorgiamo di come l’auspicato fine di consentire il trasferimento di merci e uomini per favorire un complessivo benessere nazionale si sia scontrato contro le molteplici difficoltà strutturali ed economico-imprenditoriali, le piccinerie politiche e le ben note infiltrazioni illecite, lasciando al Sud il consueto primato di garantire un unico flusso: quello degli uomini (e delle donne) verso altre destinazioni, l’abbandono delle attività agricole e artigianali e delle condizioni di vita grame e persino arcaiche che Carlo Levi aveva efficacemente descritto nel suo libro, così come La seconda edizone degli Stati Generali delle Comunità dell’Appennino si sono tenuti a Castel del Giudice in Molise 115 I comuni della rete appenninica Le parole usate per descrivere il nostro operare sono state “resistenza”, “opportunità”, “valorizzazione” 116 Il progetto degli Stati Generali delle Comunità dell’Appennino, voluto da Slow Food Italia, si sta diffondendo inglobando molti operatori interessati alla montagna. Il livello di coinvolgimento raggiunto, dalla sua nascita fino alla seconda convocazione in Molise, si palesa con l’adesione delle varie realtà interessate a ragionare sul futuro delle comunità delle zone alte. In particolare, diverse amministrazioni comunali della dorsale italica hanno scelto di entrare a fare parte della nascente rete delle comunità appenniniche. Si sta delineando una grande alleanza delle singole e isolate situazioni che, se unificate con progetti replicabili, possono fare la differenza. I comuni convinti, come Arsoli (Roma) o Baranello (Campobasso), scommettono sull’Appennino quale area di opportunità e decidono di concentrare la loro attenzione, prima di tutto, sulla costruzione di un futuro da protagonista, e poi influire sulle scelte normative che mettano al centro la montagna. Tra i comuni appenninici registrati a Castel del Giudice (Is) va l’onore di sede nazionale dei comuni aderenti al progetto degli Stati Generali delle Comunità dell’Appennino. La possibilità di aderire è sempre aperta sia ai comuni sia ai privati. struire la rete delle Comunità, le parole usate per descrivere il nostro operare sono state “resistenza”, “opportunità”, “valorizzazione”: se dovessi scegliere una parola che riassuma la due giorni di lavoro di ottobre direi “riscatto”. C’è una consapevolezza nuova nei territori montani del Sud, che è quella di rivendicare il diritto di creare le proprie opportunità di lavoro e di vita nei luoghi in cui si è nati, ma soprattutto di crearle insieme, partendo dal basso. La partecipazione dei tanti delegati delle diverse realtà appenniniche italiane, attraverso il racconto e le testimonianze di buone pratiche e lo scambio di processi virtuosi che vedono coinvolti cittadini e amministratori in nuove sfide, si è basato su un assunto fondamentale: la volontà di decidere il futuro delle Comunità partendo dalle piccole cose, vivendo del proprio lavoro e non di assistenza. Durante l’assemblea plenaria svoltasi domenica 18 ottobre il nostro presidente, Nino Pascale nel suo discorso di chiusura ha definito l’Appennino «territorio non svantaggiato, ma danneggiato da politiche miopi nonostante abbia tutte le potenzialità per garantire un alto livello di benessere». Il nostro Paese ha bisogno dell’Appennino: è partendo da questo capovolgimento di paradigma che riusciremo davvero a comprendere quanto importante sia difendere questo territorio, la sua agricoltura così difficile e preziosa, le sue molteplici culture, la sua grande voglia di riscatto. l’orizzonte d’appennino è a sud Il punto sugli Appennini slow Secondo uno studio realizzato nel 2015 da Slow Food Italia, Ispra, Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo e Università degli Studi del Molise su 975 comuni del territorio appenninico, il territorio ha registrato nel corso di 50 anni una progressiva crisi demografica e un preoccupante abbandono del territorio. Qui vivono, secondo i dati dell’ultimo censimento, 2.805.476 abitanti, il 5,2% della popolazione italiana. Circa un terzo dei comuni appenninici ha meno di 1000 abitanti e il 6% è costituito da piccolissimi borghi in comuni con meno di 300 residenti: oltre il 50% della popolazione degli Appennini è concentrata nel 12% dei comuni con più di 5000 abitanti. Dall’analisi delle fasce d’età arrivano conferme sulle dinamiche della popolazione appenninica che, oltre a diminuire, invecchia sempre di più. Nonostante il saldo demografico negativo, la cementificazione del suolo è proseguita incessante: la percentuale complessiva di suolo ormai perso è quadruplicata in poco più di mezzo secolo, arrivando a sfiorare il 2% del territorio. più tardi avrebbero fatto antropologi come Ernesto De Martino o sindacalisti poeti come Rocco Scotellaro. Il senso contrario di questo flusso ha invece favorito la cementificazione selvaggia delle coste meridionali in nome di uno sviluppo economico privo di infrastrutture e adeguata formazione imprenditoriale, l’espandersi e il radicarsi di interessi illeciti che disastri naturali come il terremoto dell’Irpinia dell’80 o il dissesto idrogeologico via via sempre più frequente contribuirono allora e continuano oggi a rafforzare. Fino ad arrivare alle reti occulte che gestiscono lo smaltimento dei rifiuti o agli interessi dietro agli impianti destinati alla produzione di energia. Parlare di Appennino e parlarne al Sud, come abbiamo fatto in questa seconda convocazione degli Stati Generali delle Comunità dell’Appennino svoltasi in Molise a Castel del Giudice, ha avuto come effetto proprio quello di guardare al futuro dei nostri territori montani partendo da questo portato storico e sociale profondo e per molti versi doloroso; è stato come affrontare i diversi temi che erano all’ordine del giorno delle quattro commissioni di lavoro partendo da una consapevolezza nuova dettata, sì, dal lavoro svolto in due anni sul progetto stesso, ma anche dall’ascolto delle declinazioni locali dei problemi che davano nuovi accenti e nuove prospettive al nostro percorso. In tutti gli incontri svolti in questi anni per delineare il progetto Appennino e co- 117 Piemonte 32 San Francisco Los Angeles Toscana 20 25 / 01 27 / 01 Veneto 10 Friuli Venezia Giulia 9 Sicilia 9 Abbruzzo e Molise 8 Puglia 6 Marche 5 Emilia-Romagna 4 Trentino 3 Campania 2 Lombardia 2 Alto Adige 1 Lazio 1 Umbria 1 Basilicata 1 — — Austin New York* 01 / 02 03 / 02 — vi edizione di Slow Wine negli Usa 118 slow wine tour usa slow Slow Wine Tour USA Le cantine italiane che parteciperanno al tour — Per la prima volta una tappa dello Slow Wine Tour anche in Texas * Degustazione aperta al pubblico a New York (nelle altre tappe solo agli operatori commerciali) ( ) 119 di Federica Vizioli 01 02 Il Paese ospite di Cheese 2015 è stato la Spagna. La tradizione casearia iberica è pressoché sconosciuta in Italia, sebbene vanti oltre 200 tipi di formaggi, frutto di una straordinaria varietà di climi, paesaggi, pascoli e razze. I quattro giorni della manifestazione sono stati quindi un’opportunità preziosa per conoscere più da vicino i produttori e le loro specialità. Tra le proposte più interessanti del Mercato dei Formaggi vanno menzionate il manchego della Queseria 1605, il queixo do país di Cortes de Muar e il rey silo di Ernesto Madera. I Laboratori della pizza sono stati tra le novità dell’edizione 2015: in 12 appuntamenti gli esperti dell’Associazione Verace Pizza Napoletana hanno svelato i segreti su impasto, cottura e condimento di uno dei cibi più amati al mondo. Gli appassionati del buon bere hanno invece apprezzato l’area Mixology, con Laboratori tenuti da bartender di fama internazionale dedicati a gin, sakè, agave e vermut. 05 03 In un incontro dedicato al ruolo femminile nella produzione casearia, produttrici provenienti da tutta Italia hanno condiviso storie di passione e resistenza e hanno presentato le loro specialità: dal macagn piemontese di Manuela Ceruti al cacioricotta del Cilento di Filomena Merola, passando per il caciocavallo molisano di Serena Di Nucci, ex studentessa dell’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo che si è laureata proprio con una tesi sulle donne del latte. 04 assaggi di cheese slow Assaggi di Cheese 01 120 La decima edizione di Cheese, l’appuntamento che ogni due anni punta i riflettori sull’universo caseario, si è chiusa con un grande successo: oltre 270000 visitatori si sono riversati per quattro giorni nelle vie e nelle piazze di Bra, che si riconferma capitale del mondo del latte e del formaggio. In queste pagine vi proponiamo una panoramica di momenti salienti, spunti di riflessione e golose novità che hanno caratterizzato la manifestazione 02 2 03 04 Cheese è stato un evento indimenticabile anche per i bambini. La manifestazione ha accolto i più piccini, in visita con la scuola o accompagnati dai genitori, con un ampio ventaglio di laboratori, corsi e giochi. Particolarmente interessante è stata la Via Lattea, un percorso interattivo ospitato nella struttura del Movicentro: tante tappe divertenti dalla mungitura spaziale al gioco della transumanza, per far scoprire ai bambini il ruolo degli allevatori e le fasi di produzione dei formaggi. L’ultima giornata si è aperta con la presentazione della guida Osterie d’Italia 2016. 1707 indirizzi, di cui oltre 140 novità, scelti e raccontati da una rete di fidati collaboratori su tutto il territorio italiano. Sul palco, accolti da un’atmosfera di festa, hanno sfilato gli osti chiocciolati. Autentici custodi della tradizione gastronomica e dell’arte dell’accoglienza, sono stati salutati da Carlo Petrini con parole sentite: «siete l’essenza della ristorazione italiana, ciò che tutto il mondo ci invidia e prova a copiare». 05 121 07 08 10 Anche quest’anno il Caffè Letterario ha contribuito ad animare la kermesse: il nuovo Agorà Cheese La Stampa ha coinvolto il pubblico, all’ora del caffè e dell’aperitivo, in un fitto programma di incontri, dibattiti e presentazioni. Tra gli appuntamenti più apprezzati la lettura mattutina dei quotidiani con Mario Calabresi e Carlo Petrini, la gara musicale di storytelling Parlami di formaggio con la Ukulele Turin Orchestra e la presentazione del nuovissimo ricettario Bambini a tavola! Cheese è stato senza dubbio un’occasione importante per dar voce a messaggi politici forti e per difendere la produzione casearia di qualità dagli attacchi della burocrazia dell’Unione Europea. La petizione lanciata contro l’uso del latte in polvere per produrre formaggi ha raccolto l’adesione di oltre 150000 persone sulla piattaforma Change.org e attraverso i moduli cartacei. Durante la cerimonia d’apertura Andrea Olivero, vice ministro alle Politiche agricole, alimentari e forestali, ha assicurato la difesa a oltranza della legge 138 da parte del governo. Come in ogni evento targato Slow Food, l’offerta gastronomica è stata ricca e di qualità. Dagli appuntamenti a tavola all’Albergo dell’Agenzia di Pollenzo, fino alle 120 specialità in degustazione nella Gran Sala dei Formaggi, sotto il porticato di corso Garibaldi, passando per gli appetitosi e tradizionali sfizi delle Cucine di strada: bombette della valle d’Itria, focaccia di Recco, arancine, olive all’ascolana e tanto altro. Quest’anno, poi, anche la moda dei food-trucks è arrivata a Cheese. Tra polpette, tagliatelle e panissa, merita una menzione il furgoncino di Brambù, con i suoi panini ripieni di salsiccia di Bra. In occasione di Cheese 2015 sono tornate in librerie le edizioni, aggiornate e ampliate, di due testi fondamentali per gli appassionati del settore: Il gusto del formaggio, il più longevo dei manuali pubblicati da Slow Food Editore, e la Guida ai formaggi d’Italia. Quest’ultimo è stato presentato al Teatro Politeama Boglione durante la consegna degli attestati ai Locali del Buon Formaggio. Il premio, istituito nel 1997, è assegnato a osterie, ristoranti e botteghe che raccontano al meglio i sapori e i saperi dell’Italia casearia, proponendo ai clienti le eccellenze del territorio. 07 09 06 08 assaggi di cheese slow 06 10 Quest’anno due novità hanno portato a quota 50 le forme del latte tutelate dal Presidio Slow Food: lo skyr d’Islanda, formaggio fresco a base di latte vaccino acido, dalle origini antichissime e i formaggi della capra orobica, razza a rischio di estinzione delle valli lombarde. 122 06 10 123 terra madre indigenous people slow Terra Madre indigenous people: the future we want di Eleonora Bergoglio 124 «Stiamo marciando tutti insieme verso il precipizio. Solo quando saremo prossimi alla caduta ci accorgeremo della necessità di invertire la rotta e a quel punto, a mostrarci la via, saranno coloro che abbiamo lasciato per ultimi in fondo a questo sciagurato corteo: gli indigeni, le donne, e i vecchi» 125 Nel mondo aumenta lentamente la consapevolezza di come l’agricoltura delle famiglie e delle comunità possa nutrire il pianeta suoli poveri ed ecologicamente fragili, con dinamiche molto simili in diverse aree del pianeta. Così, a causa degli ambienti difficili nei quali vivono, spesso fanno fatica a procurarsi e a coltivare il cibo di cui hanno bisogno, ed essendo isolati dal resto della popolazione risulta spesso complicato per loro accedere ai servizi scolastici e sanitari. Nonostante la Dichiarazione delle Nazioni Uniti sui Popoli Indigeni affermi chiaramente come questi popoli siano da considerarsi liberi ed eguali agli altri, e di come non debbano essere discriminati nell’esercizio dei propri diritti, incluso quello all’autodeterminazione, la realtà dei fatti è che l’isolamento fisico e culturale nel quale vivono queste comunità rende loro impossibile l’accesso ai centri dell’informazione e del potere, anche nei casi in cui le cui decisioni prese impattino fortemente sulle loro vite. A Shillong invece, nei loro abiti tradizionali indossati non per folklore ma per affermazione orgogliosa della propria diversità, gli indigeni del mondo hanno avuto la possibilità di dibattere i temi a loro cari, temi dei quali il Nesfas (North East Slow Food & Agrobiodiversity Society, nonché organizzatore dell’evento) si occupa da anni e sui quali promuove una ricerca costante che include i leader e i rappresentanti delle comunità indigene stesse. Nel mondo aumenta lentamente la consapevolezza di come l’agricoltura delle famiglie e delle comunità possa nutrire il pianeta, ma in questa assemblea l’esigenza forse ancora più forte era affermare come i prodotti locali abbiano un ruolo fondamentale nel definire l’identità culturale di un popolo indigeno, i cui sistemi di valori sono legati a doppio filo con l’ambiente: basti pensare ai popoli nomadi, che tracciano le proprie rotte seguendo le condizioni favorevoli al reperimento del cibo, o a chi assicura la sopravvivenza della propria famiglia e della propria comunità mettendo a punto un sistema agricolo adatto a condizioni ambientali estreme. Per queste persone il cibo non è una commodity: la terra e le sue risorse vanno rispettate. In contrapposizione all’approccio occidentale/cristianizzato che vede spesso l’uomo in posizione dominante quando non contrapposta rispetto alla natura, i delegati hanno evidenziato come la terra sia l’origine del tutto, la vera fonte di vita. Insomma, quello che gli indigeni di mezzo mondo ci hanno voluto raccontare è il loro diritto a essere, per così dire, “marginali”. Ogni giorno vediamo crescere l’uso di parole quali sostenibilità o agrobiodiversità, eppure nelle politiche nazionali e internazionali i sistemi di produzione al margine delle nostre economie vengono scarsamente considerati. Definiamo marginali alcune aree impervie del pianeta, i prodotti a bassa resa che vi si coltivano, le loro stesse popolazioni; nel frattempo, lontani dagli occhi e lontani dal cuore, gli indigeni in tutto il pianeta sono custodi di una biodiversità che solo in questi contesti si può salvare. E allora come dovremmo sostenere queste popolazioni? In passato gli sforzi delle culture dominanti prevedevano il tentativo di assimilazione delle comunità indigene, sforzi fondamentalmente falliti. Questi popoli sono fieri del loro retaggio, e il nostro ruolo può essere solo quello di aiutarli a far sì che le loro istanze arrivino all’orecchio di chi detiene il potere. Il nostro lavoro deve supportare i loro leader e le loro politiche di autodeterminazione, sostenendoli nello sforzo di preservare la propria identità culturale. Come afferma Maria Teresa Mendoza, coordinatrice del Forum Internazionale delle Donne Indigene: «Noi sappiamo che futuro vogliamo; lo troviamo nella nostra cosmovisione, nella nostra relazione con la natura. Nel futuro che vogliamo, gli altri possono comprendere questa nostra relazione con la natura. L’unica cosa di cui abbiamo bisogno è un’opportunità». terra madre indigenous people slow 126 È questo il pensiero che Carlo Petrini consegna alla variopinta assemblea di delegati presenti alla cerimonia di apertura di Terra Madre Indigeni, qui chiamato Mei-Ramew, traduzione di Terra Madre nella lingua locale del popolo Khasi. Dal 3 al 7 novembre, a Shillong, capitale dello Stato indiano nordorientale del Meghalaya, seicento delegati appartenenti a 140 diverse popolazione indigene provenienti da 58 Paesi del mondo si sono incontrati per confrontarsi sul tema “Il futuro che vogliamo: prospettive e azioni indigene”, un tema nient’affatto scontato, più attuale di quanto immaginiamo. Sì, perché gli indigeni esistono davvero. Forse sarebbe più confortante pensare a loro come a pochi e sparuti individui in via d’estinzione sparsi negli angoli più remoti del pianeta, dotati di mezzi rudimentali e di aspirazioni primitive; sarebbe più confortante non dover fare i conti con la loro presenza e non doverci occuparci delle loro istanze, così diverse dalle nostre. E invece ci sono, e non sono neanche così pochi. Gli indigeni rappresentano circa un terzo dei novecento milioni di persone che vivono nelle aree rurali del pianeta, circa il 4% della popolazione mondiale totale, divisi in almeno cinquemila gruppi etnici. Il problema è che nel corso della storia e nell’evolversi delle politiche nazionali sono sempre stati discriminati e isolati, relegati in aree circoscritte e spesso caratterizzate da 127 slow 128 A Bra, a Torino e sui territori si sta già lavorando alacremente e si sono già fatti i primi passi importanti per l’organizzazione di Terra Madre Salone del Gusto 2016. Il prossimo anno da queste pagine non potremo far altro che tenervi informati, sviluppare le narrazioni che poi si manifesteranno concretamente il prossimo settembre e accompagnare il tutto con la solita creatività. gennaio - marzo 2016 Italian quality glass since 1825 Bormioli Rocco porta l’eleganza e lo stile italiano sulla vostra tavola, in ogni momento della giornata, con design e prodotti innovativi. bormioliroccocasa.com