laBancadelVino

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laBancadelVino
n° 4/4 2015
carne
spezie
miele
il nostro cibo quotidiano
la rivista di slow food
distillati
slow
corrente di pagina
02
01
slow
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04
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Chiuso in redazione
10/12/2015
Hanno collaborato
Alessandra Abbona
Collaboratrice Università
degli Studi di Scienze
Gastronomiche di Pollenzo
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Eleonora Bergoglio
Collaboratrice Università
degli Studi di Scienze
Gastronomiche di Pollenzo
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Lorenzo Berlendis
Vicepresidente Slow Food Italia
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Elisa Bianco
Collaboratrice CIWF
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Collaboratore ufficio stampa
Slow Food Italia
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Sonia Chellini
Vicepresidente Slow Food Italia
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Gastronomiche di Pollenzo
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Ivo Danchev
Fotografo e collaboratore
Osservatorio sui Balcani
e Caucaso
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Agnese Del Canto
Tecnologa alimentare
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Michele Fino
Delegato del Rettore
alla Laurea Magistrale
Università degli Studi di Scienze
Gastronomiche di Pollenzo
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Francesco Martino
Redattore Osservatorio
sui Balcani e Caucaso
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Francesco Panella
Presidente U.N.A.API
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Gaetano Pascale
Presidente Slow Food Italia
Rinaldo Rava
Collaboratore Università
degli Studi di Scienze
Gastronomiche di Pollenzo
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Claudio Riva
Fondatore Whisky
Club Italia
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Eugenio Signoroni
Curatore Osterie d’Italia
—
Federica Vizioli
Collaboratrice Slow Food
Editore
↓
Con la collaborazione
degli studenti della Laurea
Magistrale dell’Università
degli Studi di Scienze
Gastronomiche di Pollenzo
Gloria Feurra
Gennaro Mazzola
Stella Ricciardelli
Paolo Solinas
Cristina Tenino
Mara Ventura
PP. 17-25
sommario
slow
Sommario
01. expo 2015
p. 18
p. 22
PP. 81-104
Expo dopo Expo
Uomini di mais: custodi di libertà
Sul campo / field project
p. 82
p. 90
p. 96
p. 102
PP. 27-35
02. terra madre giovani
p. 28
p. 32
PP. 37-78
Terra Madre Giovani, un bilancio
Chi sono gli eroi del futuro
03. il nostro cibo quotidiano
p. 38
p. 44
p. 46
p. 50
p. 56
p. 62
p. 66
p. 74
06
Dop: le dimensioni contano
Quanto conta davvero l’origine?
Piadina romagnola Igp:
un’industria della tradizione
Territorio o vitigno?
Cosa vuol dire benessere animale?
Dalla testa alla coda
La scelta vegetariana
I mieli, una tavolozza di sfumature
da conoscere e apprezzare
Un mondo di spezie
È il tempo del distillato
Destinazione Sile, Mercato della Terra
Il nostro cibo quotidiano
PP. 107-127
04. mondo slow
p. 108
p. 110
p. 114
p. 118
p. 120
p. 124
Agenda
Sport e alimentazione
L’orizzonte d’Appennino è a sud
Slow Wine Tour Usa
Assaggi di Cheese
Terra Madre indigenous people:
the future we want
07
intro
slow
Intro
di Carlo Bogliotti
08
Si chiude il terzo anno della (oggi relativamente) nuova avventura di Slow, la
rivista di Slow Food e si chiude il terzo
esempio di come questo piccolo ma prezioso prodotto editoriale sia mutato ogni
anno, mantenendo una coerenza nell’arco delle sue quattro uscite trimestrali,
andando ogni volta a comporre un mosaico che acquista maggior peso concettuale una volta che si è completato
l’insieme della sua annata. Il 2015 è stato
l’anno del cibo quotidiano, attraversato
dagli eventi (Vinitaly, Slow Fish, Cheese,
Terra Madre Giovani) e dalla nostra presenza nei sei mesi di Expo. Un bilancio
politico e non solo, che non può mancare in questo numero (a firma del presidente Gaetano Pascale e nella sezione
dedicata), ci porta a rinforzare quanto
mai l’impegno di Slow Food su tutti i temi
sin qui sviluppati nella sua lunga storia.
Una storia che in Italia il prossimo anno
ci porterà a spegnere trenta candeline.
Non è stato un caso se il comunicato
stampa di chiusura di Expo di Slow Food
Italia recitava: «Il nostro Expo inizia oggi,
mentre si chiudono i cancelli a Rho».
Con la rivista 2015 volevamo lasciare un
tesoretto d’idee su questo fronte e intanto offrire un servizio ai soci per orientarsi meglio nei loro consumi di tutti i
giorni. Abbiamo affrontato le varie categorie merceologiche del cibo, senza approfondire troppo ma ripartendo sempre dalle basi. Suggerimenti semplici,
regole facili da applicare quando si fa la
spesa, pareri di esperti che sono alla radice del nostro concetto di qualità declinata secondo il buono, pulito e giusto. È
questa la nostra idea di cibo quotidiano.
Ai soci più informati potrà anche essere
sembrato riduttivo, ad altri invece sarà
sicuramente risultato molto utile.
L’idea di ripartire dalle basi non deve
passare in secondo piano: crediamo
che sia strategica e che valga, probabilmente, per tutto il mondo Slow Food.
L’esperienza di Expo ci ha insegnato che
interagire con un pubblico di massa non
è così immediato per il tipo di messaggio di cui ci facciamo portatori e che la
percezione media del nostro lavoro è
09
slow
10
Nel 2016 Terra Madre
Salone del Gusto uscirà
dalla sua storica sede
del Lingotto Fiere
a Torino per diffondersi
nella città, esattamente
come avviene per Cheese
a Bra e per Slow Fish
a Genova
viziata ancora da tante incomprensioni,
luoghi comuni, inefficienze nella comunicazione. Tutto questo nonostante che
la sensibilità potenziale verso i temi del
cibo e della sostenibilità sia in forte incremento. Ripartire dalle basi significa
riaffermare concetti e buone pratiche
che non bisogna mai dare per scontate,
farle proprie e raccontarle con pazienza, cercando di distribuire i nostri semi
presso un pubblico sempre più mutevole e distratto. Questo tipo di approccio
ci sembra vincente e crediamo che possa essere utile tenerne conto anche in vista del prossimo Terra Madre Salone del
Gusto. Non abbiamo scritto male: è questa la nuova dicitura del nostro maggiore
evento, che nel 2016 (è ufficiale da pochi
giorni mentre scriviamo) uscirà dalla sua
storica sede del Lingotto Fiere a Torino
per diffondersi nella città, esattamente
come avviene per Cheese a Bra e per
Slow Fish a Genova. Ma in questo caso
stiamo parlando di qualcosa di molto più
grande, che dovrà entrare nel cuore della città (il parco del Valentino e le belle
strutture storiche di una Torino sempre
più affascinante e viva) e che soprattutto dovrà vedere la nascita di un progetto
nuovo, di nuove modalità di partecipazione e di organizzazione, di tante idee
da raccontare al pubblico, a partire dalla
centralità che si pone senza esitazioni su
Terra Madre, come si evince dal nome
ufficiale della kermesse. Oltre alla location anche le date subiranno qualche
modifica: abbiamo anticipato l’evento
di un mese (dal 22 al 26 settembre 2016)
proprio perché si terrà in gran parte en
plein air. Naturalmente a Bra, a Torino e
anche nei territori si sta già lavorando
alacremente e si sono già fatti i primi
passi importanti per l’organizzazione di
Terra Madre Salone del Gusto 2016. Il
prossimo anno da queste pagine non
potremo far altro che tenervi informati,
sviluppare le narrazioni che poi si manifesteranno concretamente il prossimo
settembre e accompagnare il tutto con
la solita creatività nel proporvi una rivista che sia anche bella da rigirare tra le
mani, sfogliare distrattamente, conservare in casa con un pizzico di orgoglio.
In quanto all’oggi, invece, vogliamo augurare a tutto il mondo Slow Food un
2016 meraviglioso, un anno che scommettiamo sarà decisivo per il futuro del
movimento, un’avventura che vogliamo
affrontare con entusiasmo: (anche) noi
ci saremo.
Ma l’Esposizione universale ci ha anche
confortato sull’efficacia del messaggio di
Slow Food, quando parliamo di tutela
della biodiversità, di educazione, di equità dei sistemi alimentari a un pubblico
di Gaetano Pascale
Il 2015 passerà alla storia, per chi si occupa di alimentazione e non solo, come
l’anno di Expo. E infatti il cibo non è mai
stato così al centro di dibattiti, discussioni e confronti come in questi ultimi
mesi. Capiremo più avanti nel tempo se
sono stati fatti progressi significativi in
direzione di una maggiore sostenibilità
sociale e ambientale dei sistemi alimentari globali. Nel frattempo resta forte la
convinzione che alcuni schemi proposti
da enti, organizzazioni e grandi aziende
siano difficili da scardinare.
12
La Carta di Milano, che vuole essere una
parte dell’eredità che ci lascia l’Expo, costituisce un esempio calzante di come
sia timido l’approccio di chi ha in mano
le redini dei processi decisionali. Un documento che, nelle intenzioni di chi lo
ha promosso, doveva segnare una svolta nelle politiche alimentari del pianeta
finisce per essere l’ennesimo tentativo
di conciliare interessi e posizioni che
conciliabili non sono. In questo modo si
spiega l’assenza (o la presenza appena
sfumata) di qualsiasi riferimento ai cambiamenti climatici – pur sapendo che
l’agricoltura e i sistemi di produzione del
cibo impattano non poco in tal senso –, al
land grabbing che impedisce la sovranità alimentare di intere popolazioni o alla
proprietà dei semi per le comunità locali dei contadini. Emerge così che anche
le multinazionali alimentari discutono di
responsabilità sociale e sono disposte
perfino a fare delle concessioni in tal senso, a patto che queste consentano di non
sacrificare neppure una briciola dei profitti attesi, ma anzi possano diventare una
nuova leva di marketing. Perché ormai va
così: dal momento che non ci può opporre alla crescente consapevolezza dei
cittadini sul fatto che i processi produttivi
più vasto e meno specializzato di quello
che solitamente già rivolge le proprie attenzioni alle nostre attività. Un messaggio perciò che dobbiamo continuare a
trasmettere con convinzione e impegno
attraverso i nostri progetti diffusi sui territori, lavorando per migliorare progressivamente il cibo che consumiamo ogni
giorno sulle nostre tavole. L’approdo alla
qualità del cibo quotidiano è il più naturale possibile per il nostro percorso,
noncuranti di chi continuerà ad appiopparci l’etichetta di snob o radical chic,
sradicando la convinzione che prodotti di
qualità, ottenuti nel rispetto dell’ambiente e dei diritti dei lavoratori, siano soltanto appannaggio di persone benestanti o
facoltose. Oggi ci troviamo di fronte a un
unico grande sistema alimentare globale
che viene calato in maniera dirompente
a livello locale ed è governato da pochi
colossi in grado di condizionare pesantemente legislatori e consumatori. Bisogna
rivoltare come un calzino questo meccanismo e creare sistemi locali del cibo
connessi fra loro, per restituire ai popoli
sovranità alimentare, uscendo dalla logica competitiva impostata sul prezzo
più basso possibile, che finisce inevita-
Nel 2016 celebreremo
i nostri primi 30 anni
di attività e alcuni nostri
progetti sono diventati
dei riferimenti per tanti
addetti ai lavori
bilmente per penalizzare i più fragili ma
anche i più virtuosi.
Un cambiamento di questa portata sarà
possibile solo se cambiano le norme che
disciplinano i processi produttivi, dalla
burocrazia all’etichettatura. Per questo è
importante continuare e rinforzare la nostra azione di pungolo nei confronti degli organismi legislativi locali, nazionali e
internazionali. Ma questo cambiamento
avviene se anche noi di Slow Food facciamo la nostra parte nella costruzione
di sistemi locali del cibo, consentendo ai
tantissimi agricoltori, allevatori e artigiani che lavorano con serietà e scrupolosità
di diventare i nostri fornitori di cibo quotidiano, anziché di materie prime per l’industria alimentare.
Ogni condotta, ogni comunità del cibo
può diventare il germoglio per la crescita
di un sistema locale del cibo, perciò occorre una rete di Slow Food più capillare
verso il 2016: slow food compie trent’anni
slow
debbano fare i conti con la sostenibilità
ambientale, si prova almeno a sfruttarla
per un tornaconto economico.
Verso il 2016
Slow Food compie
trent’anni
13
slow
14
e più solida che sappia coniugare l’analisi critica con la capacità di orientare la
politica, ma soprattutto sappia sporcarsi
le mani attraverso progetti realizzati sul
proprio territorio. Del resto nel 2016 celebreremo i nostri primi 30 anni di attività:
alcuni nostri progetti sono diventati dei riferimenti per tanti addetti ai lavori – penso
ai Presìdi, agli Orti in condotta o ai grandi
eventi – e oggi non pecchiamo di immodestia se affermiamo che le dinamiche
alimentari del nostro Paese sono in (lento)
miglioramento grazie al nostro contributo e che Terra Madre ha ridato speranza
a tante comunità rurali in tutto il mondo.
Il trentennale, perciò, rappresenta anche
una grande occasione per ampliare l’eco
della nostra voce sulla tutela della biodiversità, sulla riduzione delle emissioni di
CO2 e del consumo di suolo, sulla riduzione degli sprechi, sulla legalità, e portarla
anche a un pubblico che non ancora non
ci conosce. Ma se vogliamo raggiungere
un pubblico nuovo avremo bisogno di un
nuovo linguaggio e soprattutto dovremo
consentire ai giovani, il motore più potente per qualsiasi cambiamento, di portare
la loro energia dentro la nostra rete. Potremo così rispondere nel migliore dei modi
alle aspettative, sempre più elevate, che in
tanti ripongono in noi. In un momento in
cui la società continua a generare squilibri
e diseguaglianze su tanti fronti, il nostro
lavoro portato avanti con passione, umiltà
e determinazione costituisce qualcosa di
più di una speranza, per provare a correggere la rotta attraverso il cibo, dalla parte
dei più fragili.
C
M
Y
CM
MY
CY
CMY
K
SIAMO CON CHI METTE
PASSIONE IN OGNI
COSA, CON CHI CREDE
CHE IL LAVORO
SIA UN MODO PER
expo 2015
L’ITALIA
CHE
LAVORA
01
Expo
2015
REALIZZARSI. SIAMO
L’ITALIA CHE LAVORA.
Andrea, si sta
preparando per
accompagnare Chiara al
suo primo giorno
di scuola materna.
«Voi siete il futuro della terra, perché lavorate
con la terra e dalla terra prendete questa
energia. Chi lavora la terra è il tutto, non la parte,
ed è questo messaggio che vogliamo passi.
Noi siamo la parte dell’umanità che si fa carico
della complessità del vivere, perché il cibo
è l’unica cosa che ci rende viventi»
La prima multinazionale italiana del lavoro
Lavoro temporaneo, permanent staffing, ricerca e selezione,
executive search, formazione, supporto alla ricollocazione,
amministrazione HR, outsourcing, consulenza HR: scopri in che
modo possiamo aiutare aziende e candidati su www.gigroup.com
Carlo Petrini, fondatore di Slow Food, ai giovani di We Feed the Planet
17
slow
Expo dopo Expo
di Lorenzo Berlendis
18
Expo ha chiuso i battenti. La valutazione di quello che l’Esposizione
avrà lasciato nelle abitudini individuali e nella coscienza collettiva
vorrà tempi e modi congrui.
Noi vorremmo ricostruire il senso di questa formidabile occasione
planetaria a partire dalla restituzione delle complesse ed eterogenee realtà a cui abbiamo dato voce. Il nostro padiglione era un angolo quieto, accogliente e familiare che ha fatto sentire a proprio
agio chi ci è venuto a trovare o si è trovato per caso a passeggiare
tra le vasche dell’orto, a sfogliare le tavole del percorso sulla biodiversità, a sedere sulle panche durante questa o quella conferenza. Nel nostro Theater abbiamo ospitato centinaia di esperienze
messe in atto dalle nostre comunità in ogni angolo del globo. In
più di 700 eventi, agricoltori, allevatori, contadini, pescatori, pastori, chef, ricercatori, artigiani del cibo sono venuti a raccontarci
come operano, ogni santo giorno, per fornirci il cibo quotidiano.
Decine e decine di soggetti pubblici, istituzioni, associazioni sono
venute a confrontarsi con noi. Migliaia di studenti e visitatori
hanno apprezzato il nostro percorso educativo, i nostri pensieri,
le nostre parole: venivano da noi a cercare il senso vero di questa
manifestazione e lì lo hanno trovato, lì hanno avuto l’occasione di
contribuire a costruirlo, anche con i migliaia di messaggi lasciati
sull’albero della biodiversità. Di tutto quel che è stato, di quegli
attori delle filiere agroalimentari che sono venuti a raccontare e
raccontarsi vorremo tenere compiuta memoria.
Ci eravamo ripromessi, in apertura di Expo, di tenere un “libro
di bordo”. Ogni giorno abbiamo pubblicato sui siti traccia del pa-
expo dopo expo
linsesto. Abbiamo registrazioni, materiali sonori, foto, relazioni,
documenti, presentazioni che non vogliamo disperdere, che intendiamo rendere disponibili per la nostra rete. Difficile scegliere quali esempi citare nella messe di conferenze e presentazioni
ugualmente significative:
— il primo incontro nazionale degli Uomini di mais, i custodi di libertà di cui si narra in questo stesso numero;
— la presentazione del docu-film I cavalieri della laguna, con l’appassionata testimonianza di due pescatori di Orbetello, reduci dal
disastro ambientale che ha colpito la comunità nello scorso luglio;
— la marcia dei 100 cuochi venuti da tutto il mondo, la visita della
delegazione toscana dei cuochi dell’Alleanza, con la loro Carta etica;
— la sottoscrizione del protocollo con la sezione italiana dell’Alleanza mondiale dei paesaggi terrazzati, per sviluppare azioni comuni
per la mappatura e valorizzazione di territori, prodotti e comunità;
— l’ospitalità condivisa con un focus group all’interno del congresso della World Association of Agronomists;
— gli interventi di scienziati e ricercatori, da Marcello Buiatti a Pier
Paolo Poggio, sui temi a noi cari;
— la condivisione con i casari, venuti da tutta Italia, dei loro meravigliosi formaggi messi in degustazione allo Slow Cheese;
— il racconto di come si stiano costituendo le filiere del cibo quotidiano nelle diverse comunità, dai Monti Lepini del Lazio ai laghi
di Lombardia;
Migliaia di studenti e visitatori hanno apprezzato il nostro percorso educativo, i nostri pensieri, le nostre parole / Migliaia di studenti e visitatori hanno
— le interviste agli alunni delle scuole che gestiscono degli Orti in
condotta, le lezioni di cittadinanza attiva con cui quegli stessi ragazzi hanno intrattenuto il pubblico;
— le innumerevoli narrazioni delle comunità che fanno capo a questo o quel Presidio;
— La pacifica invasione dei ragazzi di Terra Madre Giovani.
Un repertorio infinito che abbiamo il dovere di conservare nei nostri “granai”, utilizzare, diffondere.
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22
Il trasparente richiamo all’opera del grande scrittore guatemalteco
Miguel Ángel Asturias non è un semplice omaggio alla sua ingegnosa prosa. Prosa capace di restituire l’epopea delle comunità mesoamericane, inestricabilmente intrise di mais; capace di maneggiare
con sapienza variegati registri: onirico, grottesco e tragicomico, per
trasmettere miti fondativi e grandezza di una cultura. Allude al
conflitto profondo che contrappone gli uomini fatti di mais ai maiceros: i coltivatori di mais, coloro che tagliano e bruciano gli alberi
per ottenere campi dove seminare il mais, non per alimentarsi ma
per farne commercio, spezzando il nesso vitale che lega l’esistenza
dell’indio alla terra, privandolo di identità e senso, profanando il
sacro cereale di questi uomini e donne generati da «pannocchie di
mais giallo e pannocchie di mais bianco... e questo è quel che entrò
nella carne dell’uomo creato, dell’uomo fatto…» (Popol Vuh).
Anche noi, oggi, siamo fatti di mais, per ragioni opposte e lontane
da quelle degli indios del Centro America. È fatta di mais la carne
che mangiamo, è fatto di mais il latte, è fatto di mais il formaggio,
lo zucchero di merendine, biscotti, salse e bevande, è fatto di mais
l’involucro, la borsa in cui stiviamo il cibo, i piattini compostabili
in cui lo mangiamo, è fatto di mais il biogas che bruciamo. I maice-
uomini di mais: custodi di libertà
di Lorenzo Berlendis
foto Franco Tanel
slow
Uomini di mais
custodi di libertà
ros di un pugno di multinazionali, come sappiamo, hanno riempito
il mondo di mais, tantissimo mais, di pochissime varietà, ibride e
transgeniche. Un mais che mangia la terra, mangia il suolo, mangia
il paesaggio, mangia l’acqua, mangia l’aria, mangia l’uomo.
Dentro questo scenario ecco che si rinnova il conflitto raccontato
da Asturias. I nostri hombres de maiz sono quegli agricoltori custodi, quei contadini, quei mugnai, quei ricercatori che oggi, in completa controtendenza, cercano di rivalutare il consumo diretto del
mais, con un approccio alla nutrizione che sia rispettoso di storia
e di storie, di Terra e di terre. Un approccio che li contrappone ai
moderni maiceros delle commodities.
Il primo incontro italiano dei coltivatori di varietà di mais locali a impollinazione libera ha avuto luogo a ottobre all’interno di
Expo, nello Slow Food Theater. Presenti i rappresentanti delle
comunità che hanno selezionato nel tempo, conservato e reintrodotto diverse varietà: il pignoletto bianco e rosso, l’ottofile giallo,
bianco e rosso in Piemonte; lo spinato di Gandino, il rostrato rosso
di Rovetta e lo scagliolo di Carenno in Lombardia; il cinquantino
bianco, giallo e rosso o il dente di cavallo in Friuli Venezia Giulia;
lo sponcio bellunese, il biancoperla e il marano vicentino in Veneto; l’ottofile della Garfagnana e della valle del Serchio in Toscana;
l’agostinella rosso dei monti Imbruini e dell’Aniene in Lazio e lo
spugna bianca di Marigliano in Campania; e ancora il quartarana
rosso in Abruzzo, e l’ottofile di Roccacontrada delle Marche, e lo
spin della Valsugana in Trentino…
È, questo, un elenco solo parziale di alcune delle varietà locali presenti in Italia, un enorme patrimonio di biodiversità a rischio di
scomparsa. Di fronte a questi rischi, l’intento del progetto, presentato anche in Consiglio nazionale, è la concretezza. Valorizzare le
piccole comunità del cibo italiane che continuano a produrre mais
tradizionali. Mettere in rete queste esperienze, riconoscere il giusto valore anche economico a queste coltivazioni costituisce azione primaria di presidio del territorio, difesa del paesaggio rurale,
diffusione della cultura agricola del nostro Paese. Il successo che
stanno riscuotendo farine e trasformati, le irresistibili gallette andate a ruba nello Slow Cheese, sempre in Expo, testimoniano un
potenziale capace di saldare bontà gustativa a valore nutrizionale,
rispetto dell’ambiente a sostenibilità economica degli attori della
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Il progetto passo dopo passo
· Mappatura delle varietà e popolazioni di mais
tradizionali, a impollinazione libera, che insistono
sul territorio italiano, in particolare nell’area
del Nord Italia storicamente collegata al consumo
di mais per alimentazione umana.
· Iscrizione al progetto Arca del Gusto delle varietà
e popolazioni individuate con il lavoro di mappatura.
· Interazione con il Registro delle varietà
da conservazione, promosso da Regioni come
Lombardia, Veneto…
· Approfondimento e valutazione del materiale raccolto, individuazione di particolari varietà legate in modo
unico al territorio di riferimento o a consumi specifici
di una certa popolazione.
· Individuazione di filiere di produzione specifiche
che abbiano le caratteristiche per partecipare al progetto di Presidio Slow Food, seguendo il canovaccio
del disciplinare del mais bianco perla,
per la valorizzazione e tutela della loro realtà.
· Creazione di comunità del cibo impegnate
nella diffusione e promozione del recupero di varietà non convenzionali di mais ma che presentano specificità diverse rispetto al Presidio Slow Food.
· Messa in rete dei produttori, incontri formativi, scambio di esperienze, sviluppo tecnico per il miglioramento
di problematiche legate alla filiera produttiva (sostenibilità in campo, riduzione rischi da aflatossine, essiccazione e molitura controllata, miglioramento
della qualità dei prodotti finali).
· Studio delle possibilità di sviluppo e promozione
di mulini a pietra connessi dalla rete dei produttori.
· Comunicazione e presentazione dei risultati finali.
uomini di mais: custodi di libertà
slow
filiera. Passaggio, quest’ultimo, indispensabile e strategico perché
la contaminazione tra produttori si estenda e si rafforzi, se fondata sulla redditività garantita agli uomini di mais. Per raggiungere i
suoi ambiziosi obiettivi il progetto è stato articolato in fasi successive, che potete leggere nel box dedicato.
Renato Ballan, consigliere nazionale Slow Food e coordinatore della rete: «Siamo contadini e ricercatori, siamo chef e mugnai a cui
non interessano gli ibridi super produttivi, ogm o meno che siano.
Per scelta tecnica ed economica oltre che per convinzioni etiche,
coltiviamo con pratiche agricole sostenibili varietà locali, a impollinazione libera, di altissima qualità gustativa, con precise e
distinguibili caratteristiche organolettiche per rispondere a una
crescente domanda di alimenti ben fatti, buoni, adeguatamente
remunerativi del lavoro, strettamente ancorati ai nostri territori e
alle nostre storie. Siamo ricercatori, anzi cercatori di libertà, siamo
uomini di mais!»
La controtendenza è innescata, ora serve ampliare la rete: agganciare i moltissimi mais per alimentazione umana che, qui e là, sono
disseminati in valli e contrade del nostro Paese. Serve mettere un
altro tassello importante nel mosaico di filiere etiche che cercano di
cambiare abitudini e consumi alimentari, così come è stato fatto con
il Presidio nazionale dell’olio extravergine di oliva, così come si sta
facendo per latte e pane, verso un cibo quotidiano buono, pulito e
giusto per tutti!
Anche noi, oggi, siamo fatti di mais / Anche noi, oggi, siamo fatti di mais / Anche noi, oggi, siamo fatti di mais / Anche noi, oggi, siamo fatti di mais / Anche
noi, oggi, siamo fatti di mais / Anche noi, oggi, siamo fatti di mais / Anche noi, oggi, siamo fatti di mais / Anche noi, oggi, siamo fatti di mais / Anche noi, oggi
· Implementazione della ricerca fatta con la creazione
di Presìdi e comunità del cibo. Coinvolgimento
della rete associativa nella campagna di sensibilizzazione al consumo delle varietà tradizionali.
· Raccordo con reti distributive e di commercializzazione improntate su trasparenza dei bilanci e rispetto della dignità del lavoro.
24
25
Terra
Madre
Giovani
terra madre giovani
02
«Iniziative come Terra Madre Giovani rappresentano
la resistenza alla società dei consumi. Buono, pulito
e giusto sono le parole d’ordine della decrescita,
Terra Madre l’esempio: un movimento che è partito
dal basso ma che va molto lontano.
A costo di sembrare passatisti pensiamo di proteggere
i tesori locali con un protezionismo buono,
da fare a livello nazionale e internazionale, anche
per combattere accordi come il Ttip che minacciano
i produttori di piccola scala»
Serge Latouche
27
terra madre giovani, un bilancio
slow
Terra Madre
Giovani
un bilancio
di Rinaldo Rava
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Scegliere di convocare un evento dedicato ai giovani agricoltori e attivisti del cibo è di per sé un atto politico,
specialmente nell’anno dell’Esposizione Universale che a questi temi si è
legata e dedicata. Il modello con cui il
cibo viene prodotto rappresenta infatti
una questione profondamente politica
perché mette in gioco la nostra idea di
mondo e di futuro. Il cibo è ciò di cui
tutti hanno bisogno, a ogni latitudine,
per essere vivi e per poter condurre
una vita degna, e questo è il motivo
per cui dal cibo passa anche la giustizia, concetto anch’esso estremamente
politico. Il 2015, poi, ha avuto (possiamo
parlare al passato visto che si sta chiudendo) e avrà un significato particolare per i temi dell’alimentazione, della
nutrizione, dell’ambiente e del futuro
della specie umana. Per l’associazione
Slow Food, per l’Università di Scienze
Gastronomiche e per lo Sfyn rispondere a questi stimoli proponendo Terra
Madre Giovani–We Feed the Planet, la
grande adunata di contadini e produttori giovani, ha significato sottolineare
ancora una volta una posizione chiara,
ribadendo in maniera inequivocabile
da che parte stiamo.
Quello che infatti è stato in gioco e ancora è in gioco, in questa fine di 2015
che vede 195 Stati radunarsi a Parigi
per Cop21, per cercare finalmente di
intraprendere azioni comuni serie
per porre un freno al cambiamento climatico dovuto all’azione umana, è una divergenza tra due modi
di vedere il mondo e di conseguenza di considerare l’attività umana e
29
menti più intensi e significativi di tutta
l’Esposizione Universale. Slow Food ha
riaffermato il senso della propria presenza, sottolineando ancora una volta
che l’impegno per la difesa e la promozione dell’agricoltura di piccola scala è
al centro dell’attività dell’associazione e
che senza questo slancio non possiamo
dare futuro al nostro cibo.
La rete che a Milano ha mosso i primi
passi, come la rete di Terra Madre nata
nel 2004, sarà uno strumento potente
per il futuro di tutto il movimento, che
potrà trarne nuova linfa, nuove idee e
nuove pratiche per continuare a lottare per cambiare il sistema alimentare
attuale che non funziona. Sono sempre
di più, infatti, i giovani che si rendono
protagonisti di quelle buone pratiche
che in ogni parte del mondo agiscono
per un cambiamento che vada verso
la sostenibilità ambientale, la giustizia
sociale, l’economia partecipativa.
È questa la più grande eredità che We
Feed the Planet lascia a tutto il movimento per gli anni a venire. Un grande
gruppo di giovani che, forse per la prima volta nella storia dell’associazione,
si è trovato a partecipare a un momento interamente pensato e strutturato
ad hoc, con modalità di interazione e
relazione adatte alle esigenze specifiche dei giovani. Già, perché l’evento
di Milano è stato anche una palestra
di sperimentazione, e i risultati fanno
parte del bagaglio di strumenti che
Slow Food potrà avere a disposizione
da qui in avanti.
terra madre giovani, un bilancio
slow
30
il suo rapporto con il pianeta Terra.
Da questo punto di vista Terra Madre
Giovani–We Feed The Planet ha affermato con forza che i giovani della rete
di Slow Food hanno le idee chiare e
sono pronti a farsi sentire e a difenderle ogni giorno, con la pratica quotidiana
sui territori, costruendo relazioni, producendo, trasformando, acquistando e
consumando il cibo in maniera attenta,
consapevole, ragionata e responsabile.
I 2500 partecipanti all’evento provenivano da 112 Paesi del mondo ma erano
tutti quanti accomunati da una visione alternativa, che è stata condivisa
e ribadita poi negli appuntamenti in
programma e dunque nelle conclusioni che da questi sono originate. Ma se
bastasse affermare un principio, organizzare una conferenza sul tema della
sostenibilità, o scrivere un documento
di posizione per affermare le proprie
convinzioni, forse non ci sarebbe stato
bisogno di Terra Madre Giovani.
Ciò che ha fatto la differenza è che i
ragazzi e le ragazze che sono venuti a
Milano hanno costruito una rete fisica,
si sono guardati negli occhi, hanno sentito il suono di lingue differenti, hanno
conosciuto pezzi di culture lontane,
hanno ampliato la loro visione condividendola con chi, dall’altra parte del
mondo, pratica la stessa agricoltura, la
stessa pesca, in definitiva la stessa filosofia di vita.
All’interno dell’Expo, poi, la moltitudine dei giovani di Terra Madre in marcia
lungo il Decumano è stato uno dei mo-
31
di Andrea Cascioli
32
«Cominciate col fare ciò che è necessario, poi ciò che è possibile. E all’improvviso vi sorprenderete a fare l’impossibile»: in questa esortazione di
san Francesco, ripresa da Carlo Petrini
nella guida alla lettura della Laudato
si’, c’è qualcosa dello spirito che ha animato Terra Madre Giovani–We Feed
the Planet. Il piccolo gruppo che ha lavorato nei mesi scorsi alla realizzazione dell’evento ha tracciato un sentiero
in una terra inesplorata, trovandosi a
risolvere di volta in volta le incognite
che ogni “prima assoluta” porta con
sé. Lavoro ripagato da un successo
che va molto al di là dei numeri, quelli
dei duemilacinquecento partecipanti
da 120 Paesi, dei millecento posti let-
to messi a disposizione da istituzioni,
enti e famiglie milanesi per i nostri delegati, degli oltre 300 000 euro raccolti con il crowdfunding o delle testate
italiane e straniere, più di trecento sui
vari media, che hanno seguito i quattro giorni della manifestazione.
Le sfide da vincere erano molte: non si
trattava soltanto di riempire di contenuti il circo globale di Expo, o di chiamare a raccolta la rete giovanile di Slow
Food per il suo primo appuntamento
internazionale. Come ha ricordato l’economista Raj Patel dal palco di Superstudio Più, Terra Madre Giovani ha
soprattutto contribuito a spazzare via
i più radicati pregiudizi contro la campagna e i contadini. A Milano si è radu-
parazione dell’evento, la scoperta delle
incredibili storie celate dietro ai volti
di Terra Madre Giovani è stata una
sorpresa continua: c’è chi costruisce
impianti a energia solare per realizzare popcorn “a impatto zero” a New
York, chi affianca all’attività di pubblicitaria quella di apicoltrice in Austria,
chi ha lasciato un impiego da assistente universitario in Sri Lanka per contribuire allo sviluppo agricolo delle
regioni Tamil devastate dalla guerra.
Dagli urban farmers agli indigeni
dell’Amazzonia, quello degli “agricoltori 2.0” nella città dell’Expo è stato molto più di un bazar di vestiti e copricapi
dai mille colori. L’energia delle ragazze
e dei ragazzi arrivati da ogni angolo
del mondo si legge fin dal primo giorno sui volti di chi assiste al discorso
inaugurale di Carlo Petrini: «Quando
è nata l’idea di Terra Madre – ricorda
il fondatore di Slow Food – molti di
voi erano bambini. Ma oggi voi siete
la testimonianza che questa idea andrà avanti per tanto, tanto tempo».
I relatori non hanno mancato di coinvolgere, appassionare, a tratti perfino
infiammare le platee, come ha fatto
Come ha ricordato
l’economista Raj Patel
dal palco di Superstudio
Più, Terra Madre
Giovani ha soprattutto
contribuito a spazzare
via i più radicati
pregiudizi contro la
campagna e i contadini
Raj Patel invitando il pubblico a un
“We Feed the Planet!” collettivo, prima
di lanciarsi in una documentata accusa del sistema alimentare. La chef
Alice Waters si è spinta ad affermare che «il cibo industriale, il fast food
sono un affronto alla democrazia»,
mentre per il teorico della decrescita
Serge Latouche «iniziative come Terra
Madre Giovani rappresentano la resistenza alla società dei consumi». Dal
procuratore antimafia Nicola Gratteri è arrivato invece un messaggio
dirompente sulla «debolezza dell’Unione Europea e dell’Onu» nel regolare il mercato agroalimentare, stroncando il fenomeno del caporalato.
I veri protagonisti però sono stati gli
chi sono gli eroi del futuro
slow
Chi sono
gli eroi
del futuro
nato sotto l’insegna della Chiocciola il
meglio dell’agricoltura di domani: giovani preparati, consapevoli, entusiasti,
lontani dall’idea che la cura della terra
sia un mestiere destinato a tramontare assieme alle vecchie generazioni o a
confinarsi nel limbo delle professioni
più dequalificate e marginali.
Anche per chi ha seguito l’intera pre-
33
chi sono gli eroi del futuro
slow
34
La marcia dei
duemilacinquecento
lungo il Decumano,
senza dubbio
il momento
più emozionante
dell’evento, ha segnato
la degna conclusione
di quattro giorni difficili
da dimenticare
“eroi del futuro”, i delegati che hanno
animato gli incontri regionali e i tanti
capannelli improvvisati dove si sono
strette nuove amicizie e ci si è confrontati su idee e progetti. Tra quelli
emersi dall’hackathon (la “maratona
di idee” tenutasi il penultimo giorno) i
più gettonati sono stati Radish, un servizio di e-commerce per la spesa virtuale tra i banchi del mercato, e Indie
farmer, una sorta di “Airbnb contadino” attraverso il quale si possono organizzare visite ed eventi nelle fattorie.
L’ultimo atto della grande festa di Terra
Madre Giovani non poteva che essere
a Expo, per portare nel cuore della più
grande manifestazione sul cibo la voce
di quei produttori di piccola scala che
contribuiscono per il 70% a sfamare il
pianeta. «Mai nella mia vita ho provato il senso e la forza di un’energia così
straordinaria come in questa riunione» confessa Petrini nel corso della cerimonia di chiusura, alla quale hanno
preso parte anche i ministri Gentiloni e
Martina, il sindaco di Milano Pisapia e
il commissario di Expo Sala. La marcia
dei duemilacinquecento lungo il Decumano, senza dubbio il momento più
emozionante dell’evento, ha segnato la
degna conclusione di quattro giorni difficili da dimenticare. Con Terra Madre
Giovani si è chiusa una pagina importante, ma il confronto sul futuro dell’alimentazione nel nostro pianeta è appena incominciato: siamo sicuri che chi
ha preso parte a questa esperienza abbia tutti gli strumenti per contribuirvi.
35
03
Il nostro
cibo
quotidiano
Handmade with pride from Valdobbiadene soil.
il nostro cibo quotidiano
bortolomiol.com
«La cucina e i campi sono l’una l’estensione
degli altri e viceversa, perciò dobbiamo
essere coproduttori, perché l’85% del risultato
in cucina è legato all’agricoltura.
Avere ingredienti saporiti e nutrienti
è fondamentale perché il gusto è ciò che rende
il lavoro del cuoco davvero irresistibile
per i clienti»
Alice Waters, vicepresidente Slow Food Internazionale
e chef a Chez Panisse
37
SLOW
38
MACELLATO
IN ITALIA
SELEZIONATO
IN ITALIA
CODICE DI
RIFERIMENTO
NATO
IN ITALIA
ALLEVATO
IN ITALIA
IT0531
DA CONSUMARSI ENTRO IL 12/12/2015
di Elisa Bianco
Quando ci troviamo davanti al concetto di benessere animale, può capitare
di sentirsi spaesati. Sembra un’idea
molto intuitiva, eppure non è sempre
immediata da esprimere: è difficile
darne un’unica definizione e, talvolta, può assumere significati diversi in
contesti differenti. Un bovino al pascolo, per esempio, non è necessariamente in una condizione di benessere,
così come non è detto che non sia possibile rispettare il benessere dei suini
in allevamenti al coperto. Se si cerca
una definizione tecnica, si può fare riferimento a cinque libertà (vedi box),
ma più in generale il benessere guarda
alla qualità di vita così com’è percepita
da ogni singolo animale. In altre parole, significa assicurarsi che a ogni animale sia garantito un buon benessere
fisico e mentale, e la capacità di esprimere i propri comportamenti naturali
(come grufolare per i suini o becchettare per i polli). In termini più semplici, rispettare il benessere degli animali
non vuol dire trattarli preventivamente con farmaci o mutilarli perché sopravvivano adattandosi all’allevamento, ma progettare l’ambiente perché si
adatti alle loro esigenze.
Tenere conto del benessere animale
nel fare la spesa è importante perché
i prodotti di animali allevati in sistemi
estensivi all’aperto hanno una qualità
nutrizionale migliore (per esempio un
contenuto più alto di omega 3), tutelano di più la nostra salute (per il minore
uso di antibiotici), e perché il modo in
cui è stato allevato un animale è parte
integrante dell’idea di qualità e sostenibilità di un prodotto. Esattamente
come, scegliendo un pomodoro, vogliamo sapere da quale coltivazioni proviene, allo stesso modo, comprando un
cosa vuol dire benessere animale?
slow
Cosa vuol dire
benessere animale?
CONSERVARE
IN FRIGORIFERO
TRA I +0° E I +2°
39
geografica, cosa che non dice niente
sulle condizioni di vita degli animali. Il
“100% carne italiana” non dà informazioni sui metodi di produzione, perché
gli standard medi di allevamento in
Italia sono pressoché gli stessi di Francia o Germania (non particolarmente
elevati). Solo per le uova in guscio è
obbligatoria l’etichettatura secondo il
metodo di produzione e si può conoscere il tipo di allevamento leggendo il
cosa vuol dire benessere animale?
slow
salame, dovremmo sapere com’è stato
allevato quel suino. Ma, soprattutto, è
importante perché la legislazione italiana ed europea riconosce gli animali
come esseri senzienti, capaci di capire e provare emozioni, dolore e paura.
Stiparli in spazi angusti e opprimenti,
sottoporli a mutilazioni di routine, costringerli in gabbia non vuol dire trattarli come esseri senzienti. Pensare al
benessere animale non significa solo
CONSERVARE
IN FRIGORIFERO
TRA I +0° E I +2°
40
tutelare gli animali, ma anche rispettare
l’ambiente, l’uomo, la società in cui vive
e, soprattutto, la legge.
A questo punto arriva la parte difficile:
come mettere in pratica tutto questo?
Il primo strumento che abbiamo sono
le etichette, che però, in molti casi,
non forniscono indicazioni utili alla
scelta. Nella migliore delle ipotesi, se
l’etichetta riporta l’origine del prodotto, farà riferimento alla provenienza
codice sulle confezioni (3 per i sistemi
in gabbia, 2 per quelli a terra al coperto, 1 per quelli all’aperto, 0 per quelli
biologici). Ma se dobbiamo scegliere
un prodotto che contiene uova come
ingrediente, casca l’asino, perché pasta, biscotti o torte non devono essere
etichettati e non possiamo conoscere
l’origine delle uova, a meno che l’azienda produttrice non lo specifichi come
informazione aggiuntiva.
SLOW
MACELLATO
IN ITALIA
SELEZIONATO
IN ITALIA
CODICE DI
RIFERIMENTO
NATO
IN ITALIA
ALLEVATO
IN ITALIA
IT0531
DA CONSUMARSI ENTRO IL 12/12/2015
Il “100% carne italiana” non dà informazioni
sui metodi di produzione, perché gli standard
medi di allevamento in Italia
sono pressoché gli stessi di Francia o Germania
(non particolarmente elevati)
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Le cinque libertà da soddisfare
per dire che un animale
è in una situazione di benessere:
→ libertà dalla fame e dalla sete
→ libertà dal dolore e dalle malattie
→ libertà di avere un ambiento fisico adeguato
→ libertà di esprimere i comportamenti
specifici della specie
→ libertà dalla paura e dal disagio
Benessere animale = Livelli più alti
di omega 3
cosa vuol dire benessere animale?
di allevamento (www.compassionsettorealimentare.it).
Ma cosa bisogna chiedere, considerando che ogni animale avrà
bisogno di condizioni diverse per
garantirne il benessere? L’abc del
benessere animale può partire
da tre aspetti:
Gabbie. Sono state utilizzate gabbie? Non pensiamo solo alle galline, ma anche alle scrofe tenute
in gabbia durante l’allattamento,
o ai conigli.
Mutilazioni. Gli animali hanno
subito mutilazioni di routine? Per
esempio, i suini in sistemi intensivi standard vengono sottoposti
nella prima settimana di vita al
taglio della coda, alla castrazione
chirurgica e, in alcuni casi, alla
troncatura dei denti, senza anestetici o analgesici.
Ambienti spogli e mancanza
di spazio. Gli animali avevano
spazio per muoversi o erano in
condizioni di sovraffollamento?
Avevano accesso all’aperto, una
lettiera per coricarsi o mezzi per
esprimere i loro comportamenti naturali? C’erano finestre o gli
ambienti erano bui e regolati solo
da illuminazione artificiale?
All’inizio potrebbe non essere
facile avere risposte chiare a
queste domande, ma chi lavora
bene c’è e con un po’ di pazienza
e costanza non è troppo difficile
riuscire a trovarlo.
La carne derivante da animali allevati in
condizioni di benessere contiene una proporzione
di grassi omega 3 maggiore rispetto ai prodotti
equivalenti dell’industria alimentare
* Dati forniti da CIWF - Compassion in World Farming
una buona ruminazione. Non sarebbe
difficile fornirglielo, basterebbe un’area
con lettiera in paglia, ma in molti allevamenti si è scelto di mettere pavimenti
fessurati, per facilitare la pulizia all’allevatore, a scapito, però, del benessere
degli animali: la paglia cadrebbe nei fori
intasando lo scolo dei reflui e, quindi,
non viene utilizzata. Un discorso a parte merita l’hamburger, spesso fatto con
carne di vacche da latte a fine carriera.
Niente di preoccupante per la nostra salute, ma non si può dire lo stesso in termini di benessere animale, dato che non
esiste una legge che regoli le condizioni
di allevamento delle bovine da latte. Il
risultato è che si trova un po’ di tutto:
vacche legate alla posta per tutta la vita,
vacche legate in inverno ma al pascolo
d’estate, o vacche libere di muoversi in
stalle nuovissime e modernissime, che
però non hanno mai accesso a uno spazio all’aperto.
Fortunatamente, oltre alle etichette, un
produttore virtuoso fa ricorso ad altri
mezzi per raccontare ciò che lo distingue: collaborazioni con Ong, pubblicità, comunicazioni nei punti vendita,
sui siti internet, su Facebook eccetera.
Il consumatore può fare la differenza,
informandosi e chiedendo direttamente alle aziende, ai supermercati o al
macellaio come sono stati allevati gli
animali. Alcune organizzazioni, come
Compassion in World Farming (CIWF),
si occupano esclusivamente di benessere animale e collaborano con le aziende
alimentari per migliorare gli standard
( )
slow
42
Un’altra indicazione priva di contenuto è carne di “pollo allevato a terra”.
In Europa, a differenza delle galline, la
legge vieta di allevare polli da carne in
gabbia. Tutti i polli sono allevati a terra, quello che cambia è se gli animali
hanno vissuto in capannoni illuminati
con luce naturale o senza finestre, con
balle di paglia da becchettare o trespoli
su cui appollaiarsi, se erano ammassati
in 20 polli per metro quadrato o allevati
a densità inferiori, se avevano a disposizione uno spazio all’aperto. In questo
senso i polli sono fortunati, perché tutte queste indicazioni possono essere riportate in etichetta e, di solito, chi lavora meglio ci tiene a farlo sapere anche
sulle confezioni. I conigli, al contrario,
sono più sfortunati perché non hanno
né una legge che ne regoli l’allevamento, né tantomeno l’etichettatura. Come
pochi sanno, l’Italia è il secondo produttore mondiale di coniglio dopo la Cina,
eppure il “coniglio italiano” è allevato,
per la quasi totalità dei casi, in sistemi
in gabbia estremamente intensivi.
Anche sul bovino da carne bisogna fare
un po’ di attenzione. Moltissimi vitelli
allevati e ingrassati in Italia arrivano
dalla Francia: trasportare animali vivi
per tempi lunghi è causa di forte stress,
per la fatica e il sovraffollamento durante il viaggio. Inoltre, indipendentemente
da dove sono nati, i bovini da carne in
Italia vivono in un mondo complicato:
spesso sono allevati in ambienti sovraffollati senza un posto confortevole in
cui coricarsi, aspetto fondamentale per
fino al 565% in più
fino al 430% in più
fino al 170% in più
fino al 185% in più
Maggiore benessere = minore quantità di grassi
—
Scegliendo carne proveniente da animali che
hanno vissuto in condizioni di benessere piuttosto
che quella che arriva dalla grande industria,
i consumatori possono ridurre notevolmente
l’assunzione di grassi, inclusi i grassi saturi
— Polli bio allevati all’aperto: dal 50%
di grassi in meno
— Bovini allevati al pascolo: dal 25 al 50%
di grassi in meno*
43
di Camilla Micheletti
44
Non di soli filetti e lombate è fatto un
manzo, così come non di solo petto è
fatto il pollo. Quando di un manzo consumiamo solo i tagli più pregiati, infatti,
non impieghiamo che 40 chili dell’animale, e le parti che non si acquistano
spesso finiscono tra gli scarti. Imparare
a valorizzare tutto l’animale, “dalla testa alla coda”, ci può invece aiutare ad
abbattere gli sprechi, a riscoprire interessanti ricette locali, a valorizzare pienamente il lavoro degli allevatori e dei
macellai. Del resto tutta la cucina popolare, a qualunque latitudine, prevede ricette che hanno come obiettivo quello di
utilizzare l’intera bestia (del maiale non
si butta via niente, recita il vecchio adagio) ed evitare gli sprechi.
Il consumo dei tagli alternativi di carne mette in moto un circolo virtuoso:
proviamo a vedere la portata di questa
buona pratica dal punto di vista di tutti
i protagonisti della filiera produttiva,
traslando il paradigma “dalla testa alla
coda” in “dalla stalla alla tavola”.
Per quanto riguarda gli allevatori ne
guadagnerebbero i tanti produttori
che propongono sul mercato carne di
qualità e certificata: in questo caso, infatti, ogni parte dell’animale (non solo
il filetto!) è ottima. La costante e ingente richiesta degli stessi tagli favorisce
l’allevamento industriale e intensivo,
un mondo in cui lo scarto è il male
minore e inevitabile, un sistema che
si situa all’opposto di ciò che intendiamo quando parliamo di buono, pulito
e giusto. Scegliere tagli alternativi, in
questo caso, dimostrerebbe rispetto
non solo per gli animali ma anche per
gli allevatori che hanno il diritto di vedere riconosciuto il valore complessivo dell’animale.
Per i rivenditori, ovvero i macellai, una
maggiore richiesta di tagli alternativi
significherebbe una notevole riduzione
di merce invenduta. Inoltre, dal momento che nella grande distribuzione non è
semplice trovare tagli alternativi – prevalgono invece le solite fettine comodamente impacchettate –, la riscoperta di
ricette della tradizione invoglierebbe i
consumatori a recarsi nelle piccole macellerie, contribuendo a riattivare quel
commercio al dettaglio che a causa del
minor tempo che dedichiamo a fare la
spesa è uno dei settori che ha sofferto di
più questa lunga crisi.
Per il ristoratore e per il cuoco, oltre
all’evidente risparmio nell’acquisto della materia prima, c’è la sfida di mettersi alla prova e far apprezzare al cliente
sia ricette del territorio, sia rivisitazioni
che alleggeriscono e rinnovano le preparazioni tradizionali. Basta pensare al
grande lavoro compiuto in questo senso
dai locali di Osterie d’Italia: sfogliando
le pagine della guida non è difficile imbattersi, tra i piatti consigliati, in lingua,
guancia, trippa, diaframma, coda, ma
anche frattaglie di coniglio e di pollo,
collo d’oca, orecchie e piedini di maiale.
Fortunatamente la riscoperta delle ricette della tradizione sta investendo non
solo la cucina delle osterie, ma anche
l’alta ristorazione. Uno degli esempi più
evidenti è Damini e Affini, ristorante-
macelleria stellato in cui i fratelli Giorgio e Gian Pietro, uno macellaio, l’altro
cuoco, scelgono di cucinare con tutte le
parti dell’animale, come nel loro celebre
piatto, il Damburger, un hamburger all’italiana realizzato con la parte anteriore
della bestia macellata.
Arriviamo infine al consumatore, che
sia in versione cliente del ristorante o
cuoco casalingo: il primo e più evidente vantaggio arriva con il gusto. Anche
quello dei tagli alternativi e delle frattaglie è un mondo ricco di biodiversità,
in cui è possibile assaggiare dai piatti
ipersaporiti a quelli molto delicati. L’ultimo aspetto, ma non meno importante,
è il prezzo: anche il portafoglio, oltre al
palato, ne guadagnerebbe non poco.
Una stima effettuata all’inizio del 2015
da Coldiretti Lombardia e Consorzi carni bovine ha messo in evidenza come le
famiglie lombarde potrebbero risparmiare quasi 500 milioni di euro acquistando i tagli meno conosciuti o utilizzati. Secondo l’analisi, infatti, a fronte di
un consumo annuo di 20 chili di carne
bovina a testa, ogni famiglia lombarda
potrebbe risparmiare fino a 300 euro se
il 50 per cento della spesa di carne fosse
riservata a tagli da bollito, trita di qualità, polpa scelta e ossibuchi. «Molto
spesso – afferma Ettore Prandini, presidente di Coldiretti Lombardia – c’è una
specie di resistenza a utilizzare questi
tagli di carne, quasi che fossero di seconda scelta. Invece se l’allevamento è
di qualità, tutto il prodotto è di qualità,
in ogni sua parte».
dalla testa alla coda
foto Paolo Andrea Montanaro
slow
Dalla testa
alla coda
Sfogliando le pagine
della guida Osterie
d’Italia non è difficile
imbattersi, tra i piatti
consigliati, in lingua,
guancia, trippa,
diaframma, coda
45
di Eugenio Signoroni
Sono un carnivoro convinto. È bene dirlo subito. Credo che farei molta fatica
a vivere senza il salame nel frigorifero
o rinunciando al fegato con le cipolle.
Eppure la scelta vegetariana mi intriga, da sempre. E non è una questione di
etica o di salute. Sono consapevole che
si debba mangiare meno carne e che
debba provenire da allevamenti dove
gli animali sono felici. Ma non è questo
che mi interessa quando penso alla cucina vegetariana. No. La mia attrazione
è tutta gastronomica. A interessarmi
sono soprattutto i motivi che conducono un cuoco a optare per questa scelta
e le strategie per affrontarla senza perdere di vista gusto e sostanza.
46
Negli ultimi anni poche cose sono state cool come il dichiararsi (e magari
diventare) vegetariani, vegani, macrobiotici o deliberatamente gluten
free. Per questo credo sia interessante
indagare il perché della scelta vegetariana soprattutto quando essa è stata
condotta da cuochi che optando per
erbe, semi, frutta e verdura andavano
davvero controcorrente. Uno di questi,
probabilmente il primo in Italia a farlo in modo così estremo, è stato Pietro
Leemann. Leemann è un cuoco svizzero. Allievo di Gualtiero Marchesi, apre
il suo ristorante Joia a Milano nel 1989
dopo avere intrapreso la scelta vegetariana già alla fine degli anni Settanta e
avere viaggiato per il mondo lavorando
in alcune delle cucine più prestigiose
dell’epoca. Per lui l’essere vegetariano
non è solo una questione di gusto o di
ingredienti, ma ha a che fare con una
precisa impostazione della propria
vita. Non solo nel suo ristorante non
vengono cucinati carni e pesci e l’utilizzo di prodotti animali è molto limitato,
ma ogni piatto è studiato per essere in
assoluto equilibrio tra chi lo cucina, chi
lo consuma e il mondo che gli sta intorno. Mi ha colpito molto in tal senso
ciò che mi ha detto uno dei sous-chef
di Leemann. Fabrizio Marino (questo
il suo nome) mi ha confessato che tra
quei fornelli non ci sono tensione e ner-
la scelta vegetariana
slow
La scelta vegetariana
47
vosismo e questo ha probabilmente a
che fare con l’assenza di sangue. Non
ricordo esattamente le sue parole, ma
il concetto era che il sangue rende aggressivi e nervosi. Averci a che fare
significa trattare elementi morti e
che hanno subìto violenza, mentre la
frutta e la verdura sono vive e donano
tranquillità. È questa tranquillità che
poi lo chef riesce a trasferire nei piatti
e nel rapporto con i suoi cuochi e che
gli consente anche di avere piatti equilibrati nei sapori.
È molto significativo che lo stesso
concetto sia alla base della scelta fatta nel 2000 da un maestro della cucina francese come Alain Passard (chef
dell’Arpège di Parigi) che, notissimo
per i suoi arrosti, decide all’improvviso di smettere di cucinare carne per
concentrarsi sulle verdure. Il suo pensiero è raccolto in un bel pezzo sull’ultimo numero di Cook.inc dove Passard
dichiara: «L’orto mi ha salvato. Non
trovavo più alcuna ispirazione nella
cucina animale. Lavorare la materia
che con il gusto.
Ciò che questi due fuoriclasse riescono
a fare con i loro piatti è far dimenticare le proteine animali. Leemann mette
talmente tanta vita nelle sue creazioni
– che spesso si ispirano ai principi della
filosofia orientale e dell’ayurveda, piuttosto che a stagioni e momenti della
giornata – da non aver bisogno di altro
che di verdure e spezie. Ovviamente diventa centrale la qualità del prodotto
utilizzato e non è un caso quindi che
Passard non appena intrapresa questa via abbia deciso di coltivarsi un
suo orto (scelta che oggi condivide con
molti colleghi). Allo stesso modo condivide con altri la capacità di trattare
questi elementi vegetali come fossero
proteine animali dando loro consistenze e profumi del tutto nuovi. È questo
il lavoro che, per esempio, da qualche
tempo segue Piergiorgio Parini, enfant
prodige della cucina italiana, che tratta
le verdure come fossero tagli di carne
per ottenerne il massimo dell’intensità.
In questo modo anche a un carnivoro
convinto come me parlando di zucca,
carote e cipolle viene l’acquolina e una
certa tranquillità.
→ Un ricettario unico nel suo genere,
che riunisce 400 ricette vegetariane
e vegane, suddivise per regione
e accompagnate da bellissime fotografie
Con le ricette
di cuoche e cuochi
delle Osterie d’Italia
la scelta vegetariana
morta mi sfiniva». Anche in Passard il
problema non è legato tanto ai sapori
quanto piuttosto al rapporto tra l’uomo e la materia che cucina, quasi che
questa riesca a trasmettere le proprie
energie al cuoco e quindi alle sue creazioni. La scelta vegetariana, quando è
autentica, accetta pochi compromessi
e ha a che fare con il sentimento oltre
Ricette vegetariane d’Italia
€ 20,00
slow
48
Avere a che fare
con il sangue significa
trattare elementi morti,
mentre la frutta
e la verdura sono vive
e donano tranquillità
Una cucina
equilibrata e gustosa
che è all’altezza delle
sfide di un mondo
più sostenibile
Seguendo la stagionalità,
scopri assieme a noi quante
preparazioni tipiche della nostra
tradizione sono perfette
sia per chi desidera ridurre il consumo
di carne e pesce, sia per chi ha scelto
l’alimentazione vegetariana.
49
di Francesco Panella
50
Il miele è una delle poche derrate nel
commercio mondiale con grande richiesta e quotazioni stabilmente sostenute. La crescita delle monocolture e
dell’agricoltura intensiva, con pesticidi
sempre più tossici, impedisce che si riesca a produrre miele a sufficienza. Un
solo paese, la Cina, è stato in grado di
fare il miracolo: incrementare dell’80%,
in poco più di un decennio, la sua capacità produttiva e le esportazioni. Come
l’olio extravergine di oliva, il miele è
caratterizzato allo stesso tempo sia da
grandi picchi di eccellenza e biodiversità, sia da una sempre più vistosa banalizzazione, se non addirittura adulterazione. Gran parte del miele consumato
in Europa, e anche in Italia, è infatti di
origine asiatica e frequentemente presenta fenomeni di adulterazione evidenti al palato, ma difficilmente accertabili per via analitica.
Le più semplici ed efficaci precauzioni
da adottare per l’acquisto sono:
· Non limitarsi a confrontare il prezzo.
· Acquistare sempre e solo prodotti che
abbiano la dignità di presentare in etichetta la loro carta d’identità d’origine.
·Diffidare delle definizioni d’origine
confuse, come “Miscele di …”.
·Non confondere l’indirizzo del produttore con l’origine geografica effettiva del miele.
Il passo successivo è addentrarsi nella
tavolozza di colori, sapori e aromi che va
a comporre il prodotto finale.
i mieli, una tavolozza di sfumature da conoscere
slow
I mieli, una tavolozza
di sfumature da
conoscere e apprezzare
51
La grande varietà,
in Italia, di specie
mellifere consente la
produzione di molti mieli
monofloreali – circa 50 –
oltre a infinite variazioni
di mieli millefiori
presenza rilevante su un territorio di
una fioritura attraente per le api, ma
in parte anche dalla maestria dell’apicoltore, che eventualmente trasporta
appositamente le api sulla fioritura ed
estrae il miele monofloreale evitando
la contaminazione con raccolti che provengono da specie diverse. Un miele è
monofloreale quando proviene principalmente da un’unica origine botanica e
ne risulta sufficientemente caratterizzato dal punto di vista della composizione
e delle caratteristiche organolettiche e
microscopiche (cioè la presenza significativa, nel miele, di granuli del polline
corrispondente a quel fiore in particolare). Il miele monofloreale può essere
identificato da un colore, da un profumo e da un sapore caratteristici, a sePiante diverse danno nettari diver- conda che provenga da fiori di robinia,
si. Questa è la ragione per cui si par- di castagno, di cardo, di tiglio, di trifoglio
la di mieli al plurale, piuttosto che eccetera. La grande varietà, in Italia, di
di miele generico. La suddivisione specie mellifere consente pertanto la
in mieli monofloreali è data da una produzione di molti mieli monoflore-
i mieli, una tavolozza di sfumature da conoscere
Prodotto animale o vegetale?
Miele o mieli?
slow
52
Il miele ha una natura duplice. Il
ruolo delle api è fondamentale
nell’elaborazione del prodotto: solo
a loro è possibile compiere l’incredibile lavoro di raccolta di minuscole goccioline per assemblare
quantità significative di nettare, da
trasformare poi con un processo
altrettanto minuto e paziente. La
materia prima di partenza, però, è
di origine vegetale e il miele finito deve
le sue caratteristiche, più che a ogni altro passaggio, alle caratteristiche e alla
provenienza della materia iniziale. Il
nettare è una sostanza zuccherina che
le piante producono proprio per attirare gli insetti, che si fanno così vettori
inconsapevoli dei polline, l’elemento
fecondante che viene trasportato su altri fiori. Anche il polline viene raccolto
dalle api: non serve per l’elaborazione
del miele, ma come alimento proteico
per l’alveare. Nel miele il polline è presente solo in piccolissima quantità,
come componente accidentale. Altro
materiale di partenza per la formazione del miele è la melata: si tratta della
linfa stessa delle piante, della quale si
nutrono insetti quali gli afidi e le cocciniglie. Il surplus di sostanza zuccherina
non utilizzata da questi insetti viene riciclata dalle api.
53
“Miele bio”
—
L’indicazione «da agricoltura biologica» indica speciali
processi di ottenimento del prodotto, basati
su tecniche particolarmente rispettose della salubrità
del prodotto, dell’ambiente e del benessere
degli animali utilizzati.
54
no: molto comune, in tutto l’arco alpino,
il miele misto di castagno e tiglio, che
coniuga due aromi diversi e molto forti
in un millefiori speciale. Altre volte le
componenti del miele sono davvero inali – circa 50 – oltre a infinite variazio- finite, come capita per il prodotto delle
ni di mieli millefiori, che si ottengono fioriture di alta montagna o come certi
quando le api si trovano in presenza di mieli primaverili della macchia medipiù fioriture contemporaneamente. Il terranea: dire da che cosa dipende quel
millefiori, quindi, non è una miscela. Il certo aroma è impossibile, ma il risultatermine si associa a un ambiente mul- to è comunque straordinario.
tifloreale e serve a indicare il miele che
deriva dall’attività naturale dalle api.
Qual è il vino più buono? L’olio più
Tale termine non può invece essere utibuono? Impossibile rispondere. Tra
lizzato per un miele ottenuto dalla mii diversi prodotti non può essere fatscelazione artificiosamente prodotta
ta una graduatoria di qualità: anche
dall’uomo. In questo caso è obbligatorio
ogni amante del miele sceglie il preusare il termine “miscela…”, che implica
ferito secondo il gusto e le abitudini
l’intervento dell’uomo nel formare un
alimentari personali. Generalmente
prodotto finale. Ogni millefiori possiei mieli poco aromatici, neutri e delide proprie caratteristiche che si ripetocati (acacia, sulla, leguminose in geno di anno in anno con variazioni più o
nere) piacciono a tutti, come pure i
meno importanti, ma che non nasconmieli con aroma floreale leggero (rodono la base: il paragone con le annate
dodendro) o intenso (agrumi). I miedel vino è il più appropriato. A volte i
li con aroma deciso non piacciono a
mieli millefiori sono caratterizzati da
tutti, ma il consumatore che sceglie
una presenza botanica che prevale e un miele fortemente aromatico (come
che costituisce il nucleo del miele, ma castagno o corbezzolo) generalmente
che è accompagnata da una flora con- lo preferisce a tutti gli altri.
i mieli, una tavolozza di sfumature da conoscere
comitante che ne costituisce la specificità, e nello stesso tempo non permette
la denominazione monofloreale. Per
esempio, il miele dell’Emilia-Romagna
a base di erba medica è più corposo di
quello che sarebbe il miele di erba medica in purezza. In altri casi può succedere che due fioriture in grado di dare
anche raccolti separati si sovrapponga-
Qual è il miele monofloreale più buono?
Leggere l’etichetta
slow
Da consumarsi preferibilmente entro…
—
Il termine minimo di conservazione è la data fino alla
quale il prodotto alimentare conserva le sue proprietà
specifiche in adeguate condizioni di conservazione;
è espresso dalla dicitura «da consumarsi preferibilmente
entro…». Per il miele tale termine non è definito e va
deciso sotto la responsabilità di chi lo mette in commercio.
Abitualmente, si ritiene valido per il miele un T.M.C.
di 18 mesi (in questo caso va indicato con mese e anno);
alcuni però preferiscono un T.M.C. di due anni (in questo
caso può essere indicato con il solo anno). Va ricordato
che il miele si conserva molto a lungo. Ad accelerarne
l’invecchiamento possono essere le temperature elevate
e la luce diretta, ma non diventa mai nocivo per la salute,
pur perdendo le caratteristiche organolettiche
del prodotto fresco.
Tra i diversi prodotti
non può essere fatta
una graduatoria
di qualità: anche ogni
amante del miele sceglie
il preferito secondo
il gusto e le abitudini
alimentari personali
55
per la loro capacità di conferire gusti e
profumi ai piatti, sia per la loro azione
sulla salute e sull’umore. Le erbe e le
spezie usate in cucina, infatti, possiedono principi attivi in grado di agire
su alcune funzioni corporee, la digestione prima di ogni altra, oltre che
sullo stato d’animo.
Le spezie rappresentano un grande patrimonio di biodiversità e conoscenze
che oggi stiamo perdendo, nonostante
si trovi ogni tipo di prodotto esotico
proprio nel supermercato sotto casa, e
si possa disporre di centinaia di aromi
pronti per l’uso.
liberano polverizzando la parte vegetale che contiene questi composti; a questo punto il profumo si sparge per l’aria
ma la spezia s’impoverisce. È dunque
preferibile acquistare le spezie in pezzi
interi, siano essi semi o altre parti vegetali, in pezzi possibilmente grandi, da
macinare all’occorrenza. La temperatura i conservazione deve essere fresca e
il luogo di stoccaggio buio. La luce e la
temperatura, infatti, possono ossidare
e alterare le pregiate caratteristiche di
questi prodotti. Prima di ridurre in polvere nel mortaio, o in un più comodo
macinino elettrico, è meglio tostare le
spezie in padella a fuoco moderato per
il tempo necessario allo scopo di privarle dell’umidità interna naturalmente
residua. Preparate in questo modo le
spezie esprimono al meglio le caratteristiche di aroma e gusto. Si aggiungono
al cibo durante la cottura, si usano per
le conce della conservazione in salamoia e ancora per l’affumicatura e nelle
bevande. Tra i prodotti dei Presìdi Slow
Food numerose sono le spezie: vaniglia,
zafferano, cardamomo, peperoncino, di
cui potete leggere storia e origine nelle
pagine seguenti.
un mondo di spezie
foto Marco Del Comune
di Agnese Del Canto
Un mondo di spezie
slow
56
La conoscenza delle spezie e delle erbe
aromatiche spesso si ferma ai pochi
vasetti di prodotti in polvere che acquistiamo quando decidiamo di preparare un piatto esotico. È tuttavia un
argomento che merita di essere approfondito, perché cela un mondo interessante, remoto ed esotico, talvolta
sconfinante nel magico. Basta pensare
ai viaggi dei navigatori dei secoli scorsi, che avevano come fine la scoperta
di nuove rotte più veloci per le terre
da cui provenivano i carichi di spezie:
si parla di sostanze o prodotti tenuti
sempre in grande considerazione, sia
foto Paola Viesi
CONSIGLI PER L’ACQUISTO
E LA CONSERVAZIONE
Le spezie hanno la caratteristica di
emanare profumo e di conferire gusto
ad altri alimenti grazie alle specifiche
sostanze che contengono. Queste molecole, parzialmente volatili, sono racchiuse all’interno di particolari compartimenti delle cellule. Gli aromi si
57
un mondo di spezie
foto Paolo Andrea Montanaro
slow
58
no), la piperade (pomodoro, peperoncino dolce e cipolla) e come ripieno delle
I Presìdi Slow Food
omelette, ma è ottimo anche fresco in
delle spezie
insalata, in agrodolce e addirittura confit. Il suo sapore è vario, a seconda che
lo si degusti crudo o cotto. A differenza
ACQUA DI FIORI DI ARANCIO
di altre varietà non è piccante e ha un
AMARO LIGURIA
sapore dolce e delicato, ma allo stesso
Fino a pochi decenni fa le terrazze di tempo amarognolo.
Vallebona, in provincia di Imperia, erano coltivate a aranceti: l’economia del ZAFFERANO DI SAN GAVINO
paese e della valle si basava proprio sul- MONREALE
la raccolta dei fiori di arancio amaro da Lo zafferano di San Gavino Monreale
distillare. Nel 2004 Pietro, giovane erede nel Campidanese in Sardegna è una
della famiglia Guglielmi, proprietaria spezia eccezionale, di particolare intendi una storica distilleria, ha deciso di sità per quanto riguarda sia i profumi
riaprire l’azienda e riproporre l’acqua di sia il colore. Questo zafferano, come gli
fiori di arancio amaro insieme ad altre altri a denominazione di origine, viene
essenze. L’olio, conosciuto come nerolì, venduto in stimmi, la formula che ci dà
è preziosissimo nella cosmesi: occorre più garanzie contro le tante contraffauna tonnellata di fiori per estrarne un zioni che purtroppo fanno dello zaffesolo chilogrammo. Di acqua di fiori so- rano uno dei prodotti a più alto rischio
litamente si ottengono circa due litri adulterazioni che si trovino in commerogni chilogrammo di fiori distillato. La cio. Certo, avere garanzie costa più caro,
vendita dell’acqua avviene perlopiù lo- almeno otto o dieci euro per confezioni
calmente: la gente del posto la usa anco- da 0,20 o 0,30 grammi, ma visto l’utilizra, in casa, per la preparazione dei dolci zo parco che possiamo farne si tratta di
tradizionali, le bugie.
una spesa abbordabile, per procurarsi
un prodotto di assoluta qualità e bontà,
PEPERONCINO DOLCE DEI PAESI
e sostenere così anche il lavoro manuale
BASCHI E DEL SEIGNANX
di tanti piccoli agricoltori.
Coltivato e consumato da tempo immemorabile soprattutto nel Sud dell’Aqui- VANIGLIA DI MANANARA
tania e nella provincia delle Landes, è Una delle produzioni migliori del monun ingrediente fondamentale della ga- do di vaniglia si trova in Madagascar,
stronomia basca e landese, utilizzato in nella Riserva della Biosfera Mananara
ricette come l’axoa (un tipico spezzati- Nord, dove i produttori del Presidio lano di vitello con pomodoro e peperonci- vorano all’ombra delle piante della fore-
59
slow
sta pluviale, a pochi metri sul livello del
mare. La vaniglia di Mananara cresce
appoggiata a tutori vivi costituiti da un
insieme di piante forestali autoctone.
Una volta raggiunta l’altezza d’uomo,
le liane vengono piegate (bouclage) per
innescare lo sviluppo dei fiori nella parte discendente della liana. Dal momento dell’essiccazione fino al termine della
trasformazione, i produttori lavorano
manualmente i singoli baccelli, massaggiandoli con le dita per distenderli.
CARDAMOMO DI IXCÁN
Una delle zone in cui la coltivazione
del cardamomo si è radicata maggiormente è il municipio di Ixcán, nella regione del Quiché, in Guatemala, dove
si ottiene un prodotto di eccellenza. La
produzione copre circa il 32% dell’area
agricola e coinvolge poco meno del 50%
della popolazione contadina di Ixcán,
costretta a vendere il proprio prodotto al prezzo di costo nonostante la sua
buona qualità. Coltivato in zone tropicali tra i 600 e i 1500 metri, il cardamomo si presenta come una serie di piccoli semi scuri racchiusi in gusci verdi.
L’aroma è agrodolce, simile a quello del
limone. Antisettico e digestivo, è considerato un vero e proprio antidoto contro i malanni legati all’età.
60
È preferibile acquistare
le spezie in pezzi interi,
siano essi semi o altre
parti vegetali,
in pezzi possibilmente
grandi, da macinare
all’occorrenza
Mali. Le donne delle tribù trasformano
i fiori, i frutti e le foglie di ogni pianta
in un condimento (somé, in lingua dogon). Il Presidio riunisce più prodotti:
il kamà (polvere ottenuta macinando
le foglie di acetosella essiccate), il pourkamà (polvere ottenuta macinando le
foglie essiccate di neré, un albero locale), il djabà pounan (polvere ottenuta
macinando le palline di scalogno essiccate e tostate leggermente in olio di
arachidi), il gangadjou pounan (polvere
di gombo essiccato), l’oroupounnà (polvere di foglie di baobab), il wanguesomè (polvere a base di un peperoncino
SOMÉ DEI DOGON
locale, aglio e sale) e il keberoupounnà
L’antica etnia dei Dogon è ancorata da (solo peperoncino). Questi condimenti
millenni al suo territorio aspro e ma- sono la base della cucina dogon: sono
gnifico: le rocce rosse di falesia lungo usati nelle salse, nelle zuppe, sulle verBandiagarà, tra Mopti e Timbuctu, nel dure o sulle carni.
di Claudio Riva
62
Era il 2004 quando durante la mia prima visita a una distilleria scozzese di
whisky mi sono sentito raccontare da
una fanciulla un po’ impacciata la storiella che lo scotch è fatto con tre soli
ingredienti, acqua, orzo e lievito. Da
allora è passato molto spirito nelle serpentine e la storiella è sempre rimasta
la stessa. A dire il vero è così – immutata – da alcuni secoli.
Di quelle prime esperienze è rimasto
davvero tanto, i primi racconti, la crescente consapevolezza di trovarsi di
fronte a un “qualcosa” che ha al suo
interno un concentrato di tutta la storia del mondo. Non è mai solo un’esperienza tecnica. Capire cosa è la distillazione è davvero un gioco da bambini,
l’alcol che evapora a una temperatura
più bassa rispetto a quella dell’acqua
è un fatto chimico e stupisce scoprire
come si possa essere arrivati solo 400500 anni fa a un consapevole uso della
sua arte. Le esperienze in Egitto di 5000
è il tempo del distillato
slow
È il tempo
del distillato
anni fa, quelle in Cina nel 2000 a.C. e
l’arrivo nell’Europa Centrale occupano
poche righe nei libri di testo. Quello che
è successo dal 1500 d.C. in poi ha, invece, riempito intere enciclopedie.
Eppure visiti una qualsiasi delle distillerie tradizionali e ti accorgi che la rappresentazione dei piccoli alambicchi presente sui vecchi libri di scuola è rimasta
intatta e si manifesta davanti ai tuoi occhi solo con una scala più grande. Acqua,
orzo e lievito. Il resto è magia. Per quanto
la scienza riesca oggi a interpretare cosa
accade dentro questa grande pentola di
rame, la sensazione è che solo il passaggio di consegne tra le varie generazioni
– spesso tra padre e figlio – possa aver
contribuito all’evoluzione di questa arte.
In 500 anni si è davvero capito molto.
Si è capito che per un’azienda agricola
la produzione di acquavite era – nelle
annate di elevata disponibilità di cereali
– un ottimo metodo per procurarsi una
preziosa moneta di baratto. Si è capito
che si poteva fare questa attività come
primaria e non come secondaria a quella della fattoria. Si è capito che ci si poteva fare del business e sono iniziate
le concentrazioni in distillerie sempre
più grandi. Evoluzione che ha portato
alla situazione di oggi; in Scozia ci sono
poco più di 100 distillerie di whisky,
così come circa 100 sono le distillerie di
grappa in Italia, un numero irrisorio se
confrontato con quello dei produttori
di vino o (in era contemporanea) di birra, ma più che sufficiente per difendere
la biodiversità dello spirito.
63
Si è infine capito che c’era un quarto
ingrediente nascosto, che neppure la
timida ragazzina del 2004 si è ricordata
di citare con il necessario entusiasmo. Il
tempo. È solo qui che il pungente spirito bianco acquisisce tutte le qualità che
lo portano a diventare un prodotto da
meditazione e quindi da apprezzare con
moderazione. E non è sempre stato così.
Il distillato è stato, sino a poco più di un
secolo fa, prevalentemente consumato
bianco e senza affinamento, poco dopo
essere stato prodotto. Solo qualche incidente di percorso ha portato a scoprire
il piacere della maturazione in botte e
a renderla obbligatoria per disciplinare
molti tra gli spiriti più nobili. L’alcol grezzo, spigoloso, solo dopo pochi anni diventava un piacevole e gustoso nettare.
È tutto merito del legno di rovere? Fortunatamente no, la parte più importante la fa ancora oggi l’uso sapiente
del tempo. È sufficiente fare una visita in Normandia per scoprire come
la maturazione del favoloso Calvados
avvenga in grandi tini con talmente
tanti anni di attività alle spalle da essere diventati dei contenitori inerti. I
pregiati vintage dell’Armagnac dopo la
botte vengono trasferiti in contenitori
di vetro dove continuano il loro lento
affinamento. È la micro-ossigenazione
a fare la parte più affascinante del lavoro. Infine vai a visitare Capovilla, il
Capo, e scopri che i suoi distillati di
frutta riposano per anni, tanti anni, in
piccoli fusti di acciaio.
Se si desidera consumare oggi un distillato di qualità si deve obbligatoriamente
passare da questa consapevolezza: non
è possibile trovare qualità in uno spirito che passi direttamente dall’alambicco
alla bottiglia, e il prezzo basso ne è un
chiaro indicatore. Bisogna anche essere
consapevoli che il buon distillato non
deve necessariamente essere ricercato
solo tra i blasonati brand imposti dal
mercato: in questo caso il problema può
essere il prezzo alto, talvolta proibitivo,
sapientemente gonfiato dal marketing.
La situazione attuale in Scozia non è
facile da raccontare. Oltre due terzi del
mercato sono nelle mani di due soli
gruppi multinazionali, gruppi che poi
sono gli stessi proprietari di altri famosi
brand tra rum e brandy. È possibile che
in un così agguerrito schieramento ci
sia ancora spazio per soddisfare la nostra curiosità? Sì, eccome. Nello scotch,
fortunatamente, la tradizione è ancora
vincente e ogni volta che si è ritoccato
il disciplinare lo si è fatto per render-
lo più rigoroso. È possibile incrociare
distillati che siano ancora accessibili
come rapporto qualità/prezzo? Provate a elencare tutti i marchi che conoscete di scotch whisky, probabilmente
arriverete a 10, 15, 20, non di più. E di
questi molti saranno nomi commerciali, non corrispondenti a una vera e
propria distilleria.
Vi resteranno da esplorare almeno altre
80-90 distillerie, distillerie non conosciute perché producono whisky per i
più famosi blended e non hanno avuto
la forza per farsi conoscere come single malt. Ognuna di queste distillerie
potrà trasmettere in modo autentico il
proprio terroir, dove con terroir non intendo l’origine delle materie prime ma
quello indotto dal luogo della maturazione, quello che rende semplicemente
impossibile pensare di poter produrre
quel tipo di whisky in qualsiasi altra
parte della Scozia e del mondo.
Perfetto traghettatore in questo oceano
di preziose novità è una figura che non
esiste nel mondo del vino o della birra,
dove il rapporto è sempre diretto con il
produttore. Sto parlando dell’imbottigliatore indipendente, colui che seleziona tra le briciole dimenticate dai giganti,
alla scoperta dell’incredibile. Colui che
apre tutte le porte verso i distillati meno
conosciuti e, fidatevi, dove la curiosità
paga sempre. I più vecchi imbottigliatori indipendenti sono vecchi tanto quanto lo solo le distillerie e oggi, sempre più
frequentemente, costituiscono la vera
memoria storica dello scotch whisky.
Nello scotch,
fortunatamente,
la tradizione è ancora
vincente e ogni volta
che si è ritoccato
il disciplinare
lo si è fatto per
renderlo più rigoroso
è il tempo del distillato
slow
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Il tempo. È solo qui
che il pungente spirito
bianco acquisisce tutte
le qualità che lo portano
a diventare un prodotto
da meditazione
e quindi da apprezzare
con moderazione
65
di Francesco Martino
66
«Per noi il mercato era, è e resta innanzitutto il luogo del muhabbet». Tumay
Imamoglu, animatore del Mercato della
Terra di Sile, piccola città portuale sulla
costa turca del Mar Nero, poche decine
di chilometri a nord di Istanbul, utilizza
una parola antica, che riassume in poche sillabe sonore tutto il senso turco
della convivialità. Muhabbet: il conversare leggero che presuppone il piacere
dello stare insieme, ma anche lo scambio di emozioni, idee e naturalmente –
trattandosi di un mercato – di prodotti.
«L’idea di creare un Mercato della Terra
a Sile è nata nel 2011. Allora i produttori
locali, provenienti soprattutto dai villaggi della municipalità, offrivano i prodotti in strada, in condizioni rudimentali»,
racconta Tumay mentre passeggiamo
lungo il molo di pietra che protegge il
porto da onde sorde e ostinate, all’ombra
di un castello costruito dai genovesi nel
XIV secolo su un aguzzo sperone di roccia a picco sul mare. «Il nostro obiettivo
era creare uno spazio organizzato per la
vendita, ma soprattutto dare un senso
nuovo, che permettesse al mercato di
rinnovarsi e conservare allo stesso tempo il suo spirito profondo. Per cogliere le
nuove opportunità e per rispondere alle
nuove sfide».
Opportunità e sfide, a Sile, portano lo
stesso nome: Istanbul. La città sul Bosforo negli ultimi anni si è trasformata
in una megalopoli tentacolare che si
perde all’orizzonte per decine di chilo-
destinazione sile, mercato della terra
foto Ivo Danchev
slow
Destinazione Sile
Mercato della Terra
67
«D’estate Sile viene
invasa dai turisti
che vengono a godersi
le sue spiagge per
una gita domenicale.
E quando dico invasa,
non uso un eufemismo»
I consumatori ricevono la sicurezza di
acquistare prodotti creati e offerti secondo un protocollo severo, che tutti
i produttori del mercato hanno accettato di sottoscrivere. In poche parole,
sanno quel che mangiano», dice sorridendo Fatma. «D’altro lato, maggiori
entrate per i produttori significano più
terreni coltivati, meno campi invasi dal
cemento. E, fattore importantissimo,
meno giovani tentati dalla fuga verso
la grande città, in un contesto di forte
spopolamento dei villaggi».
Saliamo lungo la la strada che s’inerpica ripida verso l’interno, lasciandosi alle
spalle la sagoma scura e tempestosa del
Mar Nero, scosso da un inizio d’autunno carico di piogge torrenziali e vento
destinazione sile, mercato della terra
slow
68
metri, allargandosi a macchia d’olio su
due continenti. E Sile, che oggi si ritrova a essere “periferia esterna” di un centro che supera i 15 milioni di abitanti,
non può non fare i conti con Istanbul.
Una legame reso ancora più evidente
dalla recente costruzione di una superstrada – terminata cinque anni fa – che
permette di arrivare a Sile in non più
di una mezz’ora, traffico infernale di
Istanbul permettendo.
«D’estate Sile viene invasa dai turisti
che vengono a godersi le sue spiagge
per una gita domenicale. E quando dico
invasa, non uso un eufemismo: parliamo anche di due milioni di presenze in
un giorno solo», spiega Fatma Denizci,
produttrice biologica e altra colonna
portante del mercato. «Sempre più
istanbulioti, poi, acquistano terreni
nell’area per costruire ville e seconde
case per le vacanze, rubando così terra all’agricoltura. Il rischio è quello di
spezzare il rapporto millenario della
nostra gente con le sue radici».
Il Mercato della Terra è parte centrale
della strategia perché questo non avvenga. Col contributo dell’amministrazione
locale una nuova area attrezzata nel
centro cittadino ospita ora bancarelle
e stand. E i risultati non hanno tardato
ad arrivare: la migliore organizzazione,
assieme alla decisione di tenere il mercato sia di venerdì (come da tradizione)
sia di domenica (quando è fortissima la
presenza turistica), ha alzato in modo
importante le entrate per i produttori.
«Il processo porta benefici su più piani.
69
senziale e saporita, è capace. Ci sono il
borek alle patate e quello agli, spinaci,
la versione ripiena di lor, una varietà
locale di ricotta, e quella che combina
cipolle, carne macinata e bulgur, grano
integrale cotto a vapore e poi essiccato.
Al borek seguono le forme tondeggianti e piene del pane, che sprigionano subito un aroma intenso e familiare.
«Il Mercato della Terra per noi è stato
un’opportunità importante. Vendere in
uno spazio organizzato e riconoscibi-
destinazione sile, mercato della terra
slow
di tramontana. Dopo pochi chilometri,
del mare non resta che un aroma di
salsedine nell’aria sottile. Il paesaggio
si riempie di verde: quello luminoso dei
prati, più in basso, e quello accigliato dei
boschi che ornano i crinali. Entriamo a
Yazimanayir: poche case basse e quadrate raccolte intorno alla sagoma sottile di
un minareto, e circondate dal disordine
apparente e vivace della campagna. Qui
vivono Metin ed Elif Ozdemir. Oggi è sabato: l’ampio forno di mattoni è stato già
Per la gente dei 57 villaggi
della municipalità di Sile, la sostenibilità
economica della piccola agricoltura familiare
è un elemento fondamentale
70
acceso e preparato per accogliere i prodotti che, domani, faranno bella mostra
sui banchi del mercato.
È Elif, minuta, ma dai gesti rapidi e decisi, a dirigere le operazioni. A entrare
per prime nella bocca scura e ardente
sono le sagome basse e succose di borek: piatto simbolo della tradizione culinaria turca a base di sottilissime sfoglie
di pasta, qui nota come yufka. Assieme
a sua madre Guler, Elif ha impastato
tutta la varietà di cui questa ricetta, es-
le è una garanzia sia per noi sia per i
clienti», racconta Metin sorseggiando
un tè scuro e denso, in Turchia imprescindibile lubrificante di ogni evento
sociale. «Abbiamo migliorato le vendite
e, grazie alle maggiori entrate, abbiamo
potuto creare spazi più igienici e confortevoli per preparare e confezionare
i prodotti che offriamo».
Per la gente dei 57 villaggi della municipalità di Sile, la sostenibilità economica
della piccola agricoltura familiare è un
71
sia per chi produce sia per chi acquista». Intorno a noi, sui banchi disposti
a quadrato su quattro ampi gradoni,
che assecondano il degradare naturale
del terreno verso il mare, i colori e i sapori della stagione si offrono nella loro
semplicità e immediatezza. Melograni
verdi accatastati con cura, lattuga che
traspira la freschezza delle piogge abbondanti appena cadute, castagne turgide affastellate in grossi cestini di vimini, zucche polpose e di un giallo vivo,
sacchetti gonfi di eriste, la pasta spezzata della tradizione turca, lunghe file
di barattoli di tursu, sottaceti colorati e
fragranti immancabile elemento della
tavola nella stagione fredda, vasetti di
yogurt candido e cremoso.
Nei progetti di Tumay e Fatma, il mercato avrà presto anche un’area di degustazione: chef rinomati e semplici
produttori si metteranno ai fornelli per
offrire a visitatori e clienti ricette nuove e tradizionali, proprio a partire da
quanto si trova esposto sui banconi.
In attesa che l’idea si trasformi in realtà, nel mercato di Sile ci si organizza
in modo spontaneo e informale. Ecco
comparire, quasi per magia, una larga
padella ricolma di mihlama, sorta di polenta di farina di granturco, formaggio
fuso e burro. Tutto il mercato si anima
d’improvviso: si mangia, si sorseggia tè,
si chiacchiera e si chiacchiera ancora.
«Lo dicevo, no?», ride allegro Tumay,
mentre allunga il pane fragrante nel
giallo fumante della mihlama. «Dove
c’è il muhabbet, lì c’è il mercato».
destinazione sile, mercato della terra
slow
72
elemento fondamentale. Fino a pochi
anni fa buona parte della popolazione
integrava le proprie entrate con un mestiere faticoso e antico, quello dei carbonai. Un’attività che però oggi è stata
proibita dalle autorità a causa del forte impatto ecologico su un ecosistema
reso fragile da crescita economica ed
espansione delle aree urbane.
Il tempo passa lento accanto al tepore
del forno, tra sfoglie di borek fragrante
e tè che borbotta allegro nel samovar
argentato degli Ozdemir. Quando il cielo a oriente si stria di venature scure, è
però tempo di tornare a Sile.
Domenica mattina, il mercato si anima
con calma: la stagione “forte”, quella estiva, è ormai passata, e la città ha assunto
i ritmi lenti dei mesi più freddi. La partecipazione però resta alta, sia di pubblico
sia di produttori: dai quindici lasciatisi
coinvolgere nella prima fase, oggi il mercato di Sile ne ospita più di cinquanta.
«Convincere produttori e consumatori
non è stato facile, soprattutto all’inizio.
È un processo che continua, e che richiede pazienza e capacità di ascoltare»,
ci dice Fatma mentre degustiamo una
selezione di miele di castagno, forse il
prodotto più celebrato della costa turca del Mar Nero. «In Turchia i mercati
come il nostro sono ancora una novità
e la consapevolezza nell’importanza di
concetti come locale, sostenibile e biologico muove ancora i primi passi. Il
mercato della terra, quindi, non è solo
uno strumento di scambio economico,
ma anche e soprattutto di educazione,
73
Pesce
—
Pane
—
Vino
—
Olio
—
Antonella Massia
ha intervistato Beppe
Gallina e Nando
Fiorentini, che ci
hanno spiegato come
la pescheria possa
diventare un luogo
per educare
alla sostenibilità
Dalla farina al forno,
abbiamo percorso
insieme le varie fasi
della panificazione,
per imparare come
anche quello del pane
sia un mondo ricco
di biodiversità
Fabio Pracchia
ci ha spiegato come
riallacciare il contatto
tra vino e terra sia
un passo fondamentale
per tornare a un
consumo consapevole
del vino quotidiano
La crisi del 2014
ha contribuito a una
riflessione sull’olio
che va al di là della
qualità e dei sentori:
il 2015 è stato l’anno
del primo Presidio
dell’olio extravergine
di oliva
il nostro cibo quotidiano
slow
Il nostro cibo quotidiano
Siamo davvero in grado di fare
una scelta buona pulita e giusta
nella nostra quotidianità?»
Questa è la domanda che ci ponevamo
all’inizio dell’anno; con il passare dei
mesi abbiamo provato a rispondere,
scandagliando, in ogni numero, diverse
categorie merceologiche.
Ecco alcune suggestioni tra le tante
che abbiamo raccolto.
74
75
Latte
—
Frutta e verdura
—
—
Il curatore della Guida
alle birre d’Italia
Eugenio Signoroni
ci ha portato alla
scoperta di un mondo
affascinante quanto
sconosciuto:
quello della birra
nella ristorazione
Un percorso nella
molteplici varietà
dei latti, dalla vacca
alla caldaia, è stato
il punto di partenza per
interrogarsi su che cosa
significhi per questo
mondo la fine delle
quote latte
Che cosa c’è dietro
lo scaffale? L’intervista
a Sergio Fessia
ci ha permesso
di scoprire le storie
che stanno dietro
alla frutta e alla verdura
che arrivano sulle
nostre tavole, facendo
chiarezza, inoltre,
sulle certificazioni
che non sempre
indicano prodotti buoni,
puliti e giusti
Aceto
—
Formaggi
—
Gelati
—
Legumi
—
Gabriele Rosso ha
indagato su un prodotto
di uso quotidiano, a cui
poniamo sempre troppa
poca attenzione: l’aceto
di vino artigianale
Nel mese di Cheese
il formaggio è stato
il protagonista, tra
reportage su produzioni
semisconosciute
e le storie dei giovani
pastori e affinatori che
si sono riversati a Bra
Come trovare un buon
gelato slow, senza
coloranti, conservanti
e addensanti?
Con gli indirizzi di Fare
la spesa con Slow Food,
naturalmente!
Un percorso tra legumi
nutrienti e sostenibili,
una valida fonte
di proteine, perfetti
per tutti coloro che
intendono ridurre
il consumo di carne
il nostro cibo quotidiano
slow
76
Birra
—
77
slow
Carne
—
Distillati
—
Miele
—
Spezie
—
Che cosa vuol dire
benessere animale?
E perché è importante
considerarlo ogni
volta che decidiamo
di acquistare carne?
Claudio Riva
ci accompagna alla
scoperta delle distillerie
tradizionali, luoghi
in cui si è fatta la storia
di un prodotto diffuso
e declinato in centinaia
di modi diversi
Quello del miele
(o dei mieli) è un mondo
ricco di biodiversità:
i consigli di un operatore
del settore su come
sceglierlo, conservarlo
e consumarlo
Prodotti dalla
storia millenaria
e affascinante, che sono
in grado di trasformare
radicalmente i piatti che
cuciniamo: impariamo
a conoscere spezie
ed erbe aromatiche
PARTNERSHIP CON
Giovanni Ferrari Spa, che da sempre traduce l’amore per la tradizione nella selezione di prodotti che
recuperano sapori autentici della nostra terra, realizza una partnership con i Presìdi Slow Food, che
sostengono le produzioni tradizionali che rischiano di scomparire, valorizzano territori e recuperano
antichi mestieri e tecniche di lavorazione.
La partnership con i Presìdi Slow Food si concretizza in una linea di prodotti unici, confezioni speciali
per una degustazione da gourmet dove i formaggi della grande tradizione casearia Ferrari vengono
proposti in abbinamento ai prodotti dei Presìdi Slow Food.
Tra i formaggi abbinati i prodotti dei Presidi Slow Food, Ferrari propone l'eccellenza del Parmigiano
Reggiano Prodotto di Montagna prodotto nel caseificio Ferrari di Bedonia nell'AltaValtaro (Parma)
utilizzando esclusivamente latte montano. Grazie a Ferrari e al suo caseificio, viene valorizzata una
produzione di nicchia e di alta qualità, quella del Parmigiano Reggiano DOP Prodotto di Montagna,
preservando l’economia montana della zona e salvaguardando il territorio e l’attività delle persone che
ci lavorano, da chi conferisce il latte e chi lo lavora da sempre con amore.
Le linea si arricchisce grazie alla confezione con il Grana Padano Riserva: occorrono oltre 20 mesi di
stagionatura e tutto il talento di Ferrari per ottenere questo protagonista assoluto della tavola.
78
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Seguici su:
L’Università degli Studi di Scienze
Gastronomiche ha, ormai da otto anni,
una laurea magistrale che guarda oltre
i confini di Pollenzo. Frequentata
in larga maggioranza da studenti
che arrivano da differenti percorsi
universitari, la laurea magistrale
è spiccatamente dedicata
all’imprenditoria alimentare
e all’innovazione di quest’ultima.
Nel quadro delle attività didattiche,
un posto importante spetta ai field
project: lavori di ricerca che gli studenti
conducono, per l’Università o uno
dei suoi partner, concentrandosi
su un problema specifico.
I quattro articoli che seguono, sono
il risultato del lavoro di sei studenti
che hanno affrontato in modo critico
alcuni aspetti, spesso negletti, delle
certificazioni Dop e Igp. Nella cultura di
massa, la protezione comunitaria
è spesso vista in modo informe: senza
che ci sia un’adeguata riflessione sulle
differenze che invece esistono tra
sul campo / field project
Sul campo /
field project
singole Dop e Igp; senza soffermarsi
sulle scelte operate, al momento
di decidere che cosa proteggere; senza
nemmeno dubitare che una Dop
o una Igp possano essere addirittura
un’arma a doppio taglio per le tradizioni
gastronomiche di un territorio.
Infine, non manca una riflessione sul
significato stesso della parola “origine”
che, come risulta apprezzabilmente
dimostrato, non ha il significato
comune, ma uno convenzionale,
nel quadro teorico che sorregge
la Denominazione di origine protetta,
e, per di più, tra singole Dop, questo
significato convenzionale muta,
in maniera che riteniamo sia tanto
più significativa per chi è attento
a ciò che mangia e al cibo vero.
Buona lettura!
—
Michele A. Fino
Delegato del Rettore alla Laurea
Magistrale
Università di Scienze Gastronomiche
81
di Gloria Feurra e Gennaro Mazzola
Un confronto critico
tra denominazioni
di una stessa regione,
molto diverse
per entità produttiva
82
È il 1992 quando, sulla scia del fermento
di un vecchio mondo che si veste di nuovo sposando la filosofia del libero scambio, i prodotti europei agricoli di qualità
mostrano la necessità di una disciplina
unica e specifica che li governi e li tuteli
all’interno degli Stati Membri.
È il 1992 quando il Consiglio della Comunità Europea adotta il Regolamento
Cee 2081/92, dando vita al sistema delle
denominazioni d’origine e delle indicazioni geografiche protette.
I fiori all’occhiello della produzione agroalimentare sbarcano oltre i confini nazionali, bussando alle porte dei consumatori europei e finalmente viene offerta la
possibilità di acquistare eccellenze che
portano i nomi dei luoghi originari in totale trasparenza: i produttori ci mettono
la faccia, la Comunità pure (e il bollino).
Passano quattordici anni e nel 2006 l’Ue
approva il Regolamento Cee n.510/2006.
Rispetto al precursore il nuovo regolamento sottolinea con maggiore in-
dop: le dimensioni contano
slow
DOP: le dimensioni
contano
83
Una diversa riflessione viene offerta dell’aceto balsamico emiliano.
Esistono tre consorzi: due Dop – che
portano il nome di aceto balsamico tradizionale, rispettivamente uno di Modena e uno di Reggio Emilia – e un’Igp,
dove la qualifica “tradizionale” viene
depennata riducendosi ad aceto balsamico di Modena.
Più antiche le due Dop, che rispondono
perfettamente all’istanza della tutela di
una tipicità irripetibile quando viene
Si può iniziare
a dibattere di Dop
a partire dall’EmiliaRomagna, una regione
che da sola conta
41 tra Dop e Igp
portata fuori dai confini di casa. Anche
in questo caso, peraltro, l’idea di export
è relativa: nel caso modenese, in effetti,
il prodotto esce dall’acetaia per finire
sui mercati esteri internazionali, mentre le preziose bottiglie del Reggiano
diventano prevalentemente souvenir
gourmet dopo le visite turistiche nelle
soffitte ospitanti le batterie di famiglia.
In entrambi i casi, produttori e consorzi
mirano a una modifica del disciplinare
rispetto al formato del confezionamento, sostenendo che formati più ridotti
agevolerebbero le vendite di un prodotto dal costo ovviamente proibitivo.
Accanto alle due realtà, che si portano
dietro un’eredità di autentica tradizione
intergenerazionale, sta il colosso dell’aceto balsamico di Modena. Un’Igp che non
nasconde la sua fisionomia industriale e
che s’impone nel mercato mondiale con
un’immagine non troppo distante dalle
prime due, sebbene con prezzi finali drasticamente inferiori grazie a una tecnica
produttiva semplicemente incomparabile con quella tradizionale.
Riduttivo assegnare le parti del buono o
del cattivo, ma doverosa è invece l’anali-
dop: le dimensioni contano
che assorbe oltre l’80% della produzione regionale del settore. L’ex presidente
del Consorzio, Giovanni Tiberio, parla di
una situazione borderline: la produzione è di per sé un terno al lotto e, oltre alle
condizioni territoriali complicate per l’olivicoltura, si addizionano oggi fattori
climatici inediti che colgono impreparate le azioni dei produttori. Si può agire solo in una prospettiva a brevissimo
termine e la Dop non risulta ancora uno
scudo efficiente per muoversi sul panorama europeo; così il prodotto finisce
per ancorarsi a una commercializzazione su scala locale-regionale o al massimo nazionale.
Due esempi e un primo bilancio: risulta
lecito chiedersi se abbia senso sostenere alti costi per ottenere una protezione
diffusa su tutto il territorio dell’Unione
Europea quando poi, a conti fatti, quei
beni non avranno alcun competitore
sugli scaffali inglesi, danesi o polacchi,
semplicemente perché su quegli scaffali
non arriveranno.
Aceto
Fonte d’entusiasmo e successo così come,
talora, di scandalo e chiasso, oggi le Dop
italiane sono 277.
Delle decantate gioie e dei commisurati dolori si può agevolmente dibattere a
partire da un’area per certi versi omogenea dello Stivale, limitata in modo non
casuale, quella dell’Emilia-Romagna. Una
regione che da sola conta 41 tra Dop e
Igp, molte delle quali bene si prestano
a calibrare sui piatti della bilancia gli
effetti potenzialmente discordanti che
una tutela comunitaria può comportare, quando applicata a “taglie” molto
diverse tra loro.
Procediamo per categorie merceologiche e cominciamo con un’analisi che calza a pennello con la stagione:
quella dell’olio.
Sono due le Dop attive nel territorio ed
entrambe insistono nella stessa porzione di Romagna: le province di Forlì-Cesena, Ravenna e Rimini.
L’olio di Brisighella, dal comune da cui
la cultivar prende il nome, vanta il primato di riconoscimento in Italia della
denominazione per l’olio.
È probabilmente sul concetto di “piccolo” che fa leva la denominazione: i produttori sono stabilmente 120 e la produzione si aggira dai 200 ai 100 ettolitri
l’anno, a esclusione dell’ultima, disastrosa annata: un 2014 che conta solo 18 ettolitri prodotti.
La rarità di un bene è per certo uno dei
primi fattori deputati a far lievitare i
costi e Brisighella Dop si aggiudica regolarmente un secondo primato: quello
dell’olio più caro d’Italia. D’altra parte, è
piuttosto complicato mappare le tavole
che Brisighella Dop presidia: si parla di
un export del solo 10% contro un 60%
consumato esclusivamente a livello
locale. Tuttavia, il presidente del Consorzio mostra di ritenere che «l’olio sia
in realtà molto più internazionale di
quanto i dati dimostrino», infatti «il turista assaggia e compra qui il prodotto
per poi portarlo a casa in Usa, Germania e Giappone».
Diverso ma accomunabile è il discorso
relativo alla seconda Dop olio, Colline
di Romagna, una realtà più giovane ma
Olio
slow
84
tensità l’idea che una denominazione
d’origine sia il frutto di un legame imprescindibile con il territorio, un territorio che si arricchisce di significati semantici molto vicini a quelli di terroir,
dove i fattori umani hanno peso tanto
quanto quelli ambientali. Un complesso
da cui discende l’irripetibilità del prodotto finale, intrinsecamente limitato,
quantitativamente finito e quindi meritevole di essere riconosciuto, supportato e tutelato in tutta l’Unione.
Nella triade prodotto-territorio-qualità,
le Denominazioni di origine protetta
(Dop), molto più delle sorelle Igp (Indicazione geografica protetta) e Stg (Specialità tradizionale garantita) incarnano
compiutamente questo legame sinergico: l’espressione finale del bene è frutto
esclusivo di quel territorio, in cui allora
si circoscrivono tutte le fasi di produzione, elaborazione e trasformazione.
85
dop: le dimensioni contano
L’ultimo confronto si pone come
eccezione alla regola del “chi prima
arriva meglio alloggia”.
Ancora due Dop: la prima del prosciutto di Parma, la seconda quella del
prosciutto di Modena.
Data d’iscrizione ai registri? Il 21 giugno 1996, per entrambe, ovviamente,
vale a dire il primo giorno in assoluto in
cui furono registrate delle Dop a livello
comunitario.
Se vogliamo divertirci con il gioco del
“trova le differenze”, noteremo che nei
due disciplinari, a esclusione dell’area
di trasformazione e del più dettagliato
elenco dei parametri chimico-fisici contemplati per le cosce parmensi, i punti
sovrapponibili sono parecchi.
Ciò che cambia drasticamente sono invece gli esiti commerciali: il prosciutto
modenese, con 9 aziende consorziate,
conta una produttività media che si
aggira attorno alle 80 000 unità annue
prodotte e vendute per il 90% all’interno dell’areale; il prosciutto di Parma,
con 153 consorziati, raccoglie nel 2014
vendite attorno alle 8 800 000 unità, con
un export del 30% e un fatturato di 250
milioni di euro.
Curioso però come l’espressione delle
diversità territoriali si rintracci esclusivamente nelle fasi di elaborazione
– e l’aria per la stagionatura, a Modena, sarà poi così diversa da quella di
Parma? – mentre, rispetto alla materia
prima, le cosce giungono in entrambi i
casi da un raggio di distanza dall’areale
piuttosto notevole.
Prosciutto
slow
86
si di questioni di natura prima legislativa e poi comunicativa.
Il quadro normativo europeo prevede
una pubblicizzazione delle procedure
di registrazione in modo tale che ogni
soggetto interessato abbia la possibilità
di esprimersi in accordo o disaccordo
durante l’iter e, molto spesso, il diritto
di manifestare un dissenso discende da
una logica che mira a evitare che un prodotto vada a insistere sulla stessa zona
geografica o immediatamente limitrofa
a quella in cui avviene la produzione di
un’altra denominazione con le medesime caratteristiche.
Come è possibile che non sia nata alcuna opposizione da parte delle antecedenti Dop rispetto all’avanzare della
registrazione di un’Igp che tanto aveva
in condivisione con loro?
Come mai le istituzioni competenti non
hanno storto il naso dinanzi alle richieste di registrazioni di prodotti così prossimi in senso tanto territoriale quanto
merceologico, come nel caso dei due
aceti balsamici tradizionali?
A giochi fatti ciò che palesemente emerge è l’esigenza delle due Dop di riuscire
a comunicare le proprie differenze e di
esprimere con forza il valore aggiunto del prodotto di cui si fanno carico.
Ciò che è invece inutile è lamentarsi
di uno scivolamento nel cono d’ombra
dove agli occhi del consumatore medio
l’aggiunta in etichetta dell’aggettivo
“tradizionale” non giustifica la moltiplicazione del prezzo rispetto al vicino e
accessibile fratello Igp.
87
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goglio e campanilismi per raggiungere
lo scopo di una visibilità internazionale?
Ciò che emerge dalla nostra analisi è che
non necessariamente una denominazione d’origine risponde puntualmente
alle esigenze di un’area e di un prodotto
e che, conseguentemente, non sempre è
auspicabile riadattarsi (prostrarsi?) alle
logiche delle protezioni comunitarie.
1.917 cantine
segnalate in guida
23.000 vini degustati
Ma soprattutto: se le performance
devono limitarsi ai palcoscenici più
prossimi, perché attrezzarsi per tour
continentali?
Ovvero: il prosciutto modenese ha davvero necessità di corazzarsi con una
Dop se il campionato si riduce ad amichevoli giocate in casa?
88
Interrogativi profondi e risposte che richiedono onestà intellettuale
Si può alla luce di queste evidenze ragionare su alcune questioni:
Ha senso richiedere una certificazione
comunitaria se poi i prodotti prescelti
avranno un mercato unicamente nazionale, o addirittura locale, per via dei minimi volumi produttivi?
Ha senso creare sullo stesso territorio
denominazioni d’origine differenti per
prodotti produttivamente molto simili
e per di più con un’origine della materia
prima che non li differenzia?
Non avrebbe senso lasciare da parte or-
188 chiocciole
le cantine che interpretano
lettici,
al meglio i valori (organo
territoriali, ambientali)
in sintonia con Slow Food
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icolo ci parla di cultur
Il nostro patrimonio vitivin
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e di quel lavoro di uomin
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ci rende un Paese fiero
e quest’anno oltre
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o camminato nelle vigne
hann
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orato
collab
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unico.
ragioni fisico-geografiche, difficilmente
ntarvi questo tesoro
di tutta Italia per racco
potranno sfruttare appieno gli strumenti offerti dalle protezioni per competere sui mercati esteri, finendo per
gravitare nell’orbita commerciale più
prossima e più modesta e giustificando gli incrementi di prezzi con costi e
controlli che forse, in tutta onestà, non
Slow Food Editore
sono necessari.
Tornare sui propri passi e aprire i propri
orizzonti per contemplare forme di tutela e pubblicizzazione alternative – come
potrebbero per esempio essere marchi
collettivi, i Presìdi Slow Food o ancora
i marchi De.Co – non necessariamente
cancella gli sforzi pregressi, ma può piuttosto risultare una nuova, più efficiente
leva per risultati soddisfacenti.
Allo stesso modo, ammettere la possibilità di una fusione tra disciplinari e
consorzi che insistono nella stessa area
geografica, o in assoluta contiguità territoriale, può configurarsi come una soluzione per abbattere gli oneri e aumentare i volumi, consentendo una maggiore
visibilità a prodotti che nascono con la
pretesa di rivolgersi a un panorama più
vasto dell’attuale.
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Due prodotti, una regione
di provenienza, una diversa
concezione di origine.
Un breve confronto fra i disciplinari
di produzione di due eccellenze
della gastronomia italiana,
con un focus sul peso e sulla vacuità
del concetto di origine all’interno
degli stessi.
http://food24.ilsole24ore.com/2015/09/
il-parma-sbarca-in-cina-e-trova-tutela/
(ultima visita: 18-11-15)
(1)
90
Nell’ultimo secolo il prosciutto di
Parma è riuscito a imporsi sul mercato nazionale1, e non solo, grazie al suo
caratteristico sapore dolce e piacevole. Anche la componente edonistica
del suo consumo ne ha facilitato la
diffusione, soprattutto all’estero, fino
a trovare protezione addirittura in
quel di Gansu.
Il suo Consorzio di tutela riunisce
circa 150 aziende, 4000 allevamenti e
3000 addetti alla lavorazione e la sua
reputazione è ottima, nonostante i guai
con il traffic light system britannico e
la campagna pubblicitaria sul tenore di
sale che è da poco costata al Consorzio
una segnalazione da parte dell’associazione di consumatori Altroconsumo, in
seguito a una rivendicazione pubblicitaria ritenuta troppo laudativa.
Parma #1: il prosciutto crudo
Un confronto
fra crudo di Parma
e parmigiano reggiano
mercato e verso investimenti in campagne pubblicitarie.
A questo ha senz’altro contribuito il
nome dell’origine: Parma, polo gourmet
tanto affermato da avviare recentemente l’iter per ottenere un riconoscimento
Unesco. I numeri parlano chiaro: grazie
al solo settore food, la città ottiene ricavi per 7,7 miliardi, esportando in tutto il
mondo per 1,3 miliardi e dedicando al
mercato estero il 52% della produzione.
La carne del Parma deriva da suini normati a livello di zona di provenienza, età
di macellazione e alimentazione: essi
debbono essere nati, allevati e macellati
in una delle regioni indicate dall’art. 3 del
Decreto Ministeriale 15 febbraio 1993 n.
253. In passato tuttavia sono stati avanzati dubbi sulla provenienza delle cosce e
sulla trasparenza di alcune aziende all’interno del Consorzio, questione su cui si
era espresso lo stesso ex-presidente del
Consorzio Paolo Tanara.
Il processo di trasformazione – come
risulta chiaro dalle considerazioni effettuate e dal disciplinare stesso – è il protagonista della descrizione: l’obiettivo è
ottenere quelle caratteristiche fisiche e
organolettiche, raggiungibili attraverso
un’economia legata al territorio di provenienza, in stretta interdipendenza con
l’industria lattiero-casearia del Parmigiano-Reggiano, storicamente fornitrice
di siero di latte, un tempo essenziale per
l’alimentazione dei suini.
Altro prodotto di punta dell’italianità a tavola, il parmigiano reggiano
Dop è un formaggio «a pasta dura,
cotta e a lenta maturazione, prodotto con latte crudo, parzialmente
scremato, proveniente da vacche la
cui alimentazione è costituita prevalentemente da foraggi della zona
d’origine. Il latte non può essere
sottoposto a trattamenti termici e
non è ammesso l’uso di additivi».
Il Consorzio, che lo scorso luglio ha
compiuto 80 anni, vanta 345 caseifici e
una produzione annua di oltre 3 milioni
di forme (di cui circa un milione dirette
all’estero) il cui canale prevalente è la
Gdo italiana (65-70% delle vendite).
Anche in questo caso l’origine ha un ruolo preponderante nel successo ottenuto e anche qui, per mezzo dell’aggettivo
“parmigiano”, il riferimento è, almeno in
parte, alle stesse terre: un punto sanci-
quanto conta davvero l’origine?
di Paolo Solinas
un alimentazione accurata, del suino
pesante, tipico della pianura padana.
Questa viene delineata come unità singola che si afferma come modello di allevamento del suino, garantendo quel
continuum necessario alla protezione (e
alla rinomanza) europea. La produzione
del prosciutto di Parma va ciononostante considerata nel più ampio contesto di
Parma #2: il Parmigiano Reggiano
slow
Quanto conta
davvero l’origine?
La razionalizzazione del processo produttivo ha permesso l’ottimizzazione della procedura di salagione e affinamento,
assieme al successo crescente che il prosciutto e il territorio hanno avuto grazie
anche ad altri prodotti. Tutto questo ha
influito sull’affermazione delle aziende
del settore più disposte verso l’internazionalizzazione dei propri sbocchi di
91
tavolo temi scottanti. Su questo piano,
anche questo prodotto non è sempre stato esente da critiche, in questo caso da
parte di una Ong come Greenpeace.
Solo un problema semantico?
Dai due esempi trattati brevemente,
emerge forse già nettamente, ma ci
pare valere un’ulteriore specificazione,
come occorra cautela quando si parla
di origine.
Nei due esempi citati, conosciuti peraltro a livello mondiale, essa si appunta
innanzitutto a un know-how, un savoir
faire, che al tempo stesso sembra nascondere in parte l’origine. Nascondere, beninteso, non in senso proprio, in
quanto i disciplinari di produzione sono
appannaggio di chiunque, facilmente
consultabili su internet.
Emerge chiaramente dal disciplinare
del prosciutto di Parma che il concetto
stesso di origine viene legato principalmente al processo produttivo, alla
particolare tecnica di salagione e all’affinamento nei locali deputati. Questo
peraltro è un elemento comune, caratterizzante molti prodotti protetti a livello
europeo, soprattutto fra i salumi.
Tuttavia non si può negare una certa
debolezza nel legame con il territorio
se si pone mente al fatto che le cosce
possono giungere da diverse regioni
dell’Italia centro-settentrionale, mentre il nome della Dop identifica “solo” la
fase di trasformazione.
È chiaro poi che ci sono aziende all’interno della Dop che utilizzano maiali
allevati in zone di prossimità maggio-
re al nome indicato nella protezione,
ma ciò non significa che non si possa
dare la giusta rilevanza al fatto di legare così tanto al processo produttivo
una protezione la cui ratio è quella di
«designare con il nome della regione, o
del luogo d’origine, un prodotto agroalimentare originario della regione o
del luogo medesimo». La provenienza emerge così, in tutta evidenza, come una scelta convenzionale: ci
si muove su una linea immaginaria che
va dalle componenti più elementari del
cibo al territorio in cui è nata e si è sviluppata una tecnica. A seconda di dove si
stabilisce (appunto: convenzionalmente)
l’origine, si sarà più vicini o meno a uno
degli estremi.
A riprova di ciò, nel disciplinare del parmigiano reggiano, il concetto di territorio
è apparentemente più forte, in forza al
fatto che tutti i capi bovini provengono
da una zona meno dispersiva rispetto al
Parma Dop. Tuttavia, i mangimi di cui
gli animali si nutrono devono provenire solo in una determinata percentuale
dalla stessa azienda e dal territorio che la
Dop circoscrive. Quindi, anche in questo
caso, non è all’inizio della filiera che si fa
risalire l’origine.
Possiamo così scorgere, analizzando la
provenienza disciplinare per disciplinare, un fenomeno di diluizione, con diverse concentrazioni, del corredo semantico
della parola “origine”.
Se il concetto di origine viene fatto
risalire al luogo dove nascono i vegetali che nutrono gli animali, si può af-
quanto conta davvero l’origine?
slow
92
to anche da una celebre sentenza della
Corte di giustizia dell’Unione Europea.
Il disciplinare insiste molto sulla provenienza e afferma che «la zona di produzione comprende i territori delle province di Bologna alla sinistra del fiume
Reno, Mantova alla destra del fiume Po,
Modena, Parma e Reggio nell’Emilia».
Le forme sono regolamentate da parametri chimico-fisici, come aspetto esterno, struttura, caratteristiche olfattive. Il
disciplinare è in fase di rinnovamento, e
uno dei problemi trattati risiede nell’uso del martello e dell’ago nella verifica di
congruità delle forme.
L’alimentazione dei capi bovini deve mirare al raggiungimento degli standard,
apportando diverse sostanze in dosi ben
prescritte. Si insiste «sull’impiego di foraggi del territorio di produzione del formaggio» e altre specifiche, per esempio
che «almeno il 50% della sostanza secca
dei foraggi utilizzati deve essere prodotta sui terreni aziendali» e che «almeno il
75% della sostanza secca dei foraggi deve
essere prodotta all’interno del territorio
di produzione del formaggio».
Non devono inoltre essere somministrati «alimenti che possono trasmettere
aromi e sapori anomali», «rappresentano fonti di contaminazione» e «alimenti
in cattivo stato di conservazione». Non è
poi permesso l’uso di insilati di ogni tipo.
Tuttavia, proprio il discorso dei mangimi,
dei cereali e legumi utilizzati nella razione fornita a suini e bovini meriterebbe
un approfondimento, perché analizzando questo campo si possono portare sul
93
La comunicazione del prodotto – a
partire dal suo nome di presentazione – dovrebbe basarsi su un messaggio dimostrativo, non evocativo.
Spesso, invece e purtroppo, l’evocazione viene recepita come una tautologia, che chiude il discorso a ogni
tipo di approfondimento e riesce a
creare un’assenza di stimoli verso un
pensiero critico. Esempio ne sia ogni
circostanza in cui si consideri ciò che
è italiano come necessariamente salubre o eticamente inattaccabile. Nulla di più infondato, in quanto l’ambiente Italia va considerato comprensivo di tutti gli scandali, le violenze al
paesaggio, e le regolamentazioni europee in materia di “cibo del nostro cibo”.
Ma, soprattutto, esso include questioni
ambientali irrisolte che continuiamo
a non voler guardare in faccia, e che
dovrebbero farci riflettere su noi stessi prima ancora di renderci paladini
di istanze che in realtà rappresentia-
Questione di scelte e di equilibrio
slow
fermare che nessuno dei due prodotti
summenzionati corrisponda all’origine che rivendica.
Qualora invece l’origine venga legata
al luogo di allevamento degli animali,
il parmigiano reggiano presenta una
circoscrizione geografica (e dunque un
concetto di origine) più forte del Parma.
Se invece consideriamo l’origine come il
luogo della trasformazione della materia
prima, tutti e due i prodotti considerati
sono definibili come ugualmente rappresentativi di tale concetto di origine.
94
mo ben poco, o che non conosciamo.
Tornando alla domanda iniziale: l’origine è certo importante. Tuttavia, per evitare che la consapevolezza scivoli verso
la paranoia, dovremmo avere una visione più ampia, frutto di una sincera volontà di informarci su tutti gli elementi
più o meno coinvolti nella filiera, nella
sua interezza, al di là di ciò che succintamente l’origine ci dice.
Ulteriormente, poi, dobbiamo alzare la
guardia quando il concetto di terroir –
come abbiamo visto – viene identificato
maggiormente nella tecnica di produzione e nei parametri fisico-chimici, invece
che nei fattori umani e naturali che, regolamentazione alla mano, dovrebbero
essere il fondamento di una Denominazione di origine protetta.
Certamente, la ratio delle denominazioni è quella di essere una garanzia per il
consumatore, oltre che un meccanismo
di recupero dei costi per il produttore. A
23 anni dal primo regolamento europeo
che istituiva le Dop e le Igp, abbiamo
certo assistito a una crescita esponenziale dei riferimenti all’origine geografica, soprattutto nei Paesi che si affacciano sul Mediterraneo.
Questo tuttavia ha creato una “selva”
di Dop, con il risultato di imporre nella
mente del consumatore l’equazione “prodotto + denominazione d’origine = qualità” e d’altra parte non ha superato l’ambiguità che abbiamo individuato rispetto
al significato della parola “origine”, per
cui l’equivalenza risulta doppiamente,
tragicamente infondata.
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96
Un prodotto, un territorio
Quanti, passando per la Romagna, hanno deliziato le loro papille gustative con
la vera piadina romagnola, impastata e
stesa a mano con l’arte antica delle piadare dei chioschi? Ma quanti di loro conoscono l’esito paradossale cui ha portato il
percorso verso l’ottenimento della certificazione Igp della piadina?
Oggi la piadina romagnola è una Igp, ma
siamo sicuri che l’aver ottenuto questo
importante riconoscimento europeo garantisca l’autenticità di quella che oggi
viene venduta, con tanto di logo identificativo, nei supermercati o nei negozi?
Innanzitutto è da chiarire il perché la
piada romagnola sia diventata una Igp
e non una Dop. L’indicazione geografica
protetta infatti, a differenza della Dop,
rende sufficiente che una sola delle tre
fasi (produzione, trasformazione ed ela-
borazione) venga svolta nell’area geografica che ogni disciplinare definisce, ma
richiede che una determinata qualità,
la reputazione o un’altra caratteristica,
dipenda da una specifica origine geografica. Ed è principalmente di questa
seconda caratteristica che si avvantaggia
la piada romagnola, dal momento che,
quella vera e tradizionale, ha con il suo
territorio di produzione un legame forte e consolidato da anni di esperienze e
pratiche culinarie. Ed è proprio in questa
tradizionalità delle pratiche – attestate,
niente meno, che dal poeta romagnolo
Giovanni Pascoli – che s’inserisce la rivendicazione di una certificazione, riconosciuta a livello europeo, per la piadina
romagnola, richiesta però non, come è
legittimo pensare, dai piccoli produttori
artigianali ma, al contrario, dalle grandi
industrie manifatturiere del settore.
della gente della Romagna1» e il prodotto
che ne esce si allontana irrimediabilmente dal dialettale romagnolo “piè2”.
Chiunque abbia voglia di scorrere il disciplinare di produzione, definitivamente registrato dall’Unione Europea il 4 novembre 2014, potrà costatarlo da sé. Noi
l’abbiamo fatto con Gianpiero Giordani,
coordinatore dell’Associazione per la valorizzazione della piadina romagnola.
Un disciplinare industriale
A partire dall’articolo 2 “Descrizione del
prodotto” si comprende subito quanto
il prodotto in questione sia profondamente diverso da quello realizzato dalle
piadare: il consumo immediato, caposaldo della piadina romagnola, viene solo
eventualmente previsto, così come il confezionamento in involucri di carta non
sigillati. È chiaro quindi come gran parte
di questi pani saranno realizzati a livello
industriale, perché un piadaro non sigillerebbe mai la sua creazione.
Scendendo lungo il disciplinare anche
l’articolo 5, “Metodo di ottenimento del
prodotto”, desta un po’ di perplessità.
Qui, infatti, i membri del Consorzio non
dimenticano di elencare gli ingredienti
– con le rispettive dosi – previsti e consentiti per la preparazione della piadina
romagnola. Tuttavia nulla specifica in
modo puntuale ingredienti che riman(1)
Articolo 6 del “Disciplinare
di produzione della indicazione geografica
protetta Piadina Romagnola”
—
(2)
Ibidem
piadina romagnola igp: un’industria della tradizione
slow
Piadina romagnola Igp:
un’industria
della tradizione
Un iter inarrestabile nonostante
un difetto di origine
La vicenda da cui ha inizio il riconoscimento Igp di questa prelibatezza tutta
italiana sconta un peccato originale: l’aver messo sullo stesso piano la piadina
artigianale, dal caratteristico profumo
del pane appena sfornato, e quella realizzata a livello industriale, laminata meccanicamente e successivamente surgelata
per un consumo differito. È mai possibile
che i mattarelli delle piadare vengano sostituti da laminatrici meccaniche e che si
continui a parlare degli stessi dischi fragranti che hanno fatto sognare il Pascoli
e anche molti di noi? Il consumo differito
infatti, come tengono a sottolineare i piccoli produttori artigiani, veri detentori
di quella manualità esperta rivendicata
dalle industrie per ottenere la certificazione Igp, non può suscitare lo stesso entusiasmo al palato di quello provocato da
una piadina ancora fumante.
Oggi, la preparazione è minuziosamente
regolata da un disciplinare di produzione. In tale disciplinare, sulla cui stesura
gli industriali dell’Associazione promotrice la certificazione hanno faticosamente trovato un accordo, non senza
litigi e controversie, si descrivono in maniera puntuale le condizioni e i requisiti
cui il prodotto deve rispondere perché si
possa spendere il nome dell’indicazione
geografica protetta “piadina romagnola”
o “piada romagnola”.
Ma paradossale è che, rispettando le rigide regole prescritte dal disciplinare, non
si racconta più autenticamente «la storia
97
La storia scippata
Ma non finisce qui. Nell’articolo 6, “Elementi che comprovano il legame con
l’ambiente”, viene descritto attentamente
e con dovizia di particolari il legame con
il territorio di quella piadina artigianale,
realizzata sul momento e prodotto quindi sempre fresco, che ha caratteristiche
inscindibilmente legate al territorio e
all’abilità artigiana dei piccoli produttori.
Un elemento in stridente contrasto con il
resto del disciplinare, interamente dedicato a «un prodotto industriale di panetteria che di certo con la storia richiamata
all’art. 6 non ha nulla da spartire, salvo
alcune caratteristiche esteriori»3.
Così si consuma la somma ingiustizia: le
piadare, che da anni preparano la piadina romagnola secondo la loro ricetta autentica, risultato di un’esperienza e di un
savoir faire vecchi di secoli, non possono
più chiamarla col suo nome, pena una
multa insostenibile per le loro tasche,
a meno di ricorrere, pagando i controlli,
alla stessa certificazione che premierà le
piadine romagnole industriali con la Igp.
Non ci vuol molto a domandarsi come
potrebbe fare un piccolo piadaro a pagare una quota pensata non per gli artigiani ma per le grandi industrie. Ma,
soprattutto, perché un artigiano dovrebbe pagare un ente terzo per certificare la
sua piadina come tradizionale, quando
sono già gli anni di pratiche a farlo? E infine: perché affrontare spese e controlli
per essere equiparato a un anonimo prodotto industriale a lunga conservazione?
È quindi ovvio come questo tipo di tutela sia e sarà sempre più prerogativa,
tendenzialmente esclusiva, di grandi industriali che, grazie a una produzione su
larga scala che rende il costo necessario
quasi irrisorio, hanno la possibilità di rivendicare un nome di così grande valore
da esportare in tutto il mondo.
(3)
Parere pro-veritate “Osservazioni in merito
alla proposta di Disciplinare della Indicazione
Geografica Protetta Piadina Romagnola”,
Pollenzo, 20 Marzo 2013
La battaglia per il diritto e la speranza
per il futuro
A conferma della contraddittorietà che
piadina romagnola igp: un’industria della tradizione
gono mere commodities: farina, non importa prodotta da chi né dove, ma solo
che sia di grano tenero; grassi, di origine
vegetale (olio extravergine di oliva) e animale (strutto); sale. Nessun cenno viene
fatto al latte né al miele, possibili golose
varianti tipiche di alcune zone della Romagna che rimangono fiere della loro
specificità, benché proprio per queste
peculiarità tali ricette, senz’altro storiche,
non possano più rientrare in un disciplinare che davvero finge di tutelare le autentiche piadine romagnole.
Per non parlare poi delle sottosezioni
contenute nell’articolo 5, “Raffreddamento” e “Confezionamento”, che affiancando queste due pratiche di conservazione al consumo fresco, confermano
l’ingiustificata confusione tra la piadina
romagnola e il prodotto industriale che,
appare evidente, a questa vorrebbe essere ricollegato.
99
slow
100
abbiamo menzionato, nel maggio 2014, il
Tribunale amministrativo regionale (Tar)
del Lazio ha accolto il ricorso di un’azienda di Modena, dichiarando illegittimi il
disciplinare di produzione che Regione
Emilia-Romagna e Ministero delle Politiche Agricole avevano presentato alla
Commissione Europea nel 2012 e i relativi decreti ministeriali di riconoscimento
della tutela provvisoria. La motivazione, che trova le sue radici in un parere
pro-veritate dell’Università degli Studi
di Scienze Gastronomiche di Pollenzo,
si fonda sul fatto che se esiste la possibilità di riconoscere una reputazione
tutelabile, deve esistere solo per la piadina prodotta in maniera tradizionale e
manuale, che è quella cui si riferiscono
gli elementi d’irripetibile collegamento
territoriale elencati all’articolo 6 del disciplinare.
Malauguratamente, nonostante una prima opposizione da parte dei produttori
artigianali e una censura da parte del Tar
del Lazio, il Consiglio di Stato ha infine
confermato la possibilità di chiamare
piadina romagnola solo quella prodotta
all’interno della “Romagna storica”, come
delimitata da disciplinare, senza nulla
fare a favore dell’artigianalità, avendo lasciato inalterato il documento.
In conclusione
Il consorzio di industriali che ha richiesto il riconoscimento della Igp per la
piadina romagnola lo ha fatto per avere un legittimo tornaconto economico,
collegandolo però a tradizionalità e au-
tenticità di cui questo nome è portatore
con riferimento a un prodotto diverso
da quello industriale.
Gli industriali sono, quindi, riusciti a
“piegare la storia” a loro favore. Oggi la
piadina romagnola Igp non è più quella
dei chioschi e ristoranti né quella delle
piadare, ma solo quella che si trova nei
supermercati, sigillata e talvolta persino
congelata per garantirne un consumo
differito nel tempo a norma di legge.
La ritrosia da parte dei piadari nel piegarsi a un disciplinare che non li tutela
non solo sta nell’onere economico imposto dall’ente di controllo ma soprattutto
nella consapevolezza che l’unico modo
per tutelare la tradizionalità e artigianalità della piadina romagnola è opporsi
all’omologazione dell’artigianalità all’industrialità. Perché, come saggiamente
afferma Carlo Petrini: «Nel momento in
cui una Igp o una Dop non proteggono il
prodotto che davvero ha un legame con la
storia e le tradizioni di un territorio, allora
l’utilizzo di questi strumenti, che la legislazione europea mette a disposizione, è
scorretto e lesivo della leale concorrenza».
Solo la sentenza del Tar del Lazio lascia
un barlume di speranza in questa che
è la storia di una sconfitta: quella di un
prodotto detentore di una tradizione che
non gli è più permesso raccontare, perché usurpata da chi di questa tradizione
non fa non un racconto bensì un mero
business. Non resta che augurarci che il
sacrificio della piadina romagnola possa
servire a meglio difendere da analogo
spoglio altre storie e altri territori.
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Un’analisi della
più ardua dicotomia,
partendo dal caso
del Nizza Docg
102
Eppure, nelle etichette del nuovo Nizza
Docg la parola Barbera non farà parte
della denominazione.
Il difficile è dover scegliere
Un amore, dicevamo, per il territorio;
ma questo di sicuro non è il primo caso
in cui a livello di tutela si predilige la
geografia al vitigno: si pensi, restando
in Piemonte, al caso del Roero, diventato Doc nel 1985, anch’esso dopo una lunga traversata, e allora capace – come fa
il Nizza oggi – di rinunciare alla parola
magica “Nebbiolo”.
Una scelta a favore del terroir, in cui
l’elemento vitigno svanisce. Ma allora
cosa significa terroir e perché altrove la
scelta è ed è stata diversa? Si pensi a Primitivo di Manduria, Brunello di Montalcino, Barbera d’Alba e Sagrantino di
Montefalco, per fare esempi noti a tutti,
dove si è scolpito il legame vitigno/luogo nella denominazione d’origine.
Terroir è un termine da non dare per
scontato, sebbene chiarire esattamente cosa s’intenda quando lo si cita sia
molto complesso: non è un semplice
riferimento al territorio ma è qualcosa
da interpretare in un senso tanto ampio che, se chiedessimo a un produttore
cosa indichi la parola, probabilmente
ci direbbe semplicemente che è ciò che
rende il suo vino differente da quello
degli altri viticoltori, quello che quindi
gli dona un valore aggiunto. Semplice e
al tempo stesso sfuggente.
Il terroir è la sintesi di uomo, ambiente,
vitigno, storia ed economia. Una sintesi
dinamica, continuamente plasmata e
impercettibilmente in evoluzione: come
l’idea stessa di identità.
Ma in presenza di tale indeterminatezza, perché allora preferire il nome del
territorio e non del vitigno?
La parola ai protagonisti
Parlando con Gianluca Morino, già presidente dell’Associazione Produttori del
Nizza, la risposta a questa domanda
pare molto semplice: lavorare sul nome
del territorio non vuol dire solo comunicare un vino, ma anche le tecniche e le
persone che ci lavorano, soprattutto se il
vitigno, in questo caso il barbera, è stato
in passato comunicato male ai consumatori, tanto da essere frainteso, confuso,
reputato pregiudizialmente “minore”.
È stato scelto per questo il nome Nizza
(e non Barbera di Nizza), nella consapevolezza che una denominazione di questo tipo comporta complicazioni nella
commercializzazione e nella comunicazione del prodotto, ma con il desiderio
di creare una netta divisione rispetto
al passato e alle scelte metodologiche
precedenti. La volontà dichiarata è
quella di far diventare questo vino “la”
Barbera per eccellenza.
Volontà che viene condivisa da molti
produttori, anche importanti, che hanno deciso di aderire all’Associazione
Produttori del Nizza e iniziare così un
nuovo cammino, lontano dalla Barbera
d’Asti, ma anche chiaramente orientato
a garantire la qualità finale. Divieto di
impianti oltre una certa altitudine, divieto di arricchimento dei mosti: solo il
meglio può venire dalle vigne per produrre il Nizza.
territorio o vitigno?
slow
Territorio
o vitigno?
Nizza Monferrato, è il 20 dicembre 2013
quando nasce una nuova Docg.
Il “Nizza”, prima sottozona tradotta in
etichetta come menzione geografica aggiuntiva alla Barbera d’Asti Docg, diventa ora una vera e propria Denominazione di origine controllata e garantita, con
un disciplinare nuovo di zecca.
È la fine di un percorso iniziato negli
anni Novanta, che ha visto impegnati
molti protagonisti e la loro passione
per questo vitigno, il Barbera. Una passione scolpita nel payoff della nuova
denominazione: Nizza è Barbera.
Nel riconoscimento di questa denominazione non vi è solo il desiderio di riuscire a camminare da soli sganciandosi
finalmente dal Barbera d’Asti Superiore
forse un po’ svilito negli ultimi anni, ma
anche l’intento di proteggere un territorio e i suoi viticoltori. 100% Barbera (a
differenza del disciplinare del Barbera
d’Asti, che ammette diverse possibilità
di taglio) ha pienamente senso perché in
questa zona l’uva barbera – spesso un po’
trascurata nelle vicine Langhe per privilegiare il nebbiolo – la fa da padrona. Da
tempo immemore, nell’Astigiano le uve
barbera si coltivano su un solo versante,
perché la tipologia di esposizione ne decreta la buona riuscita o meno. Tutto ciò
ha creato un connubio terra/vitigno che
nel moscato trova il suo alter ego bianco
e aromatico.
103
slow
104
Il barbera è il vitigno
a bacca nera più
piantato del Piemonte:
la sua variabilità
è certo incomparabile
rispetto a vitigni molto
meno diffusi
Nome nuovo e nuovo disciplinare non
devono però farci pensare a un vino
appena nato e privo di storia: il Barbera
d’Asti Superiore Nizza divenuto semplicemente Nizza è un vino che l’adolescenza se l’è lasciata alle spalle, che
già prima della nascita della nuova denominazione aveva un’alta quotazione
ed era considerato emblema di qualità
nella categoria dei Barbera.
I produttori hanno trovato in Gianluca Morino un fiero oppositore all’inserimento del nome del vitigno all’interno della denominazione di origine,
soprattutto quando si tratta di vitigni
importanti come barbera o nebbiolo.
Non solo perché il loro utilizzo è esteso in varie località diverse tra loro, ma
soprattutto perché luoghi differenti
danno vita a vini con caratteristiche incomparabili, dipendenti da quello che
abbiamo appunto chiamato terroir. E
il barbera è il vitigno a bacca nera più
piantato del Piemonte: la sua variabili-
tà determinata dalla geografia è certo
incomparabile rispetto a vitigni molto
meno diffusi, come grignolino, pelaverga piccolo o ruché.
Solo un’anticipazione?
A questo punto possiamo capire un po’
meglio la propensione del legislatore (è
di questi giorni la proposta della Commissione Europea di eliminare ogni
vincolo all’utilizzo dei vitigni e dei loro
nomi, di fatto togliendo un pezzo di tutela alle denominazioni che li includono) e dei produttori più illuminati nel
preferire il terroir rispetto al vitigno. Il
terroir infatti è qualcosa che garantisce
una fusione luogo/vitigno/cultura ed è
quindi qualcosa che va rispettato e curato in maniera speciale.
Certo, nella sintesi è l’aspetto geografico ad assumere poi anche i connotati
qualitativi, nell’ideale del consumatore, che spesso sentiamo affermare cose
oggettivamente poco fondate come «da
quell’area viene/non viene del vino buono» (trascurando il vitigno e il savoir
faire umano) e d’altra parte rimane il
problema di vendere un vino che porti
il nome di un territorio poco conosciuto. Sicuramente sono necessari grandi
investimenti per comunicare il prodotto
a partire dalla sua origine, rinunciando
a sfruttare la riconoscibilità dell’uva,
ma appare evidente come si tratti di un
investimento potenzialmente più redditizio sul lungo periodo, non solo per la
filiera del vino ma per l’intera economia,
se non per il futuro di una terra.
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che sappia coniugare l’analisi critica con
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sappia sporcarsi le mani attraverso progetti
realizzati sul proprio territorio»
Gaetano Pascale, presidente Slow Food Italia
107
Agenda
Eventi, incontri,
manifestazioni,
presentazioni di libri:
il mondo slow giorno
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20 gennaio 2016
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ai vitigni d’Italia disponibile
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15-16 gennaio 2016
“Siamo stufi!”
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14 febbraio 2016
Incontro nazionale del network
mais antichi:
Uomini di mais - Custodi di libertà
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Come ogni anno, Slow Food sarà in prima linea nella grande protesta contro
l’agro-industria che si tiene nella capitale tedesca. Per prepararsi, la sera precedente si terrà una grande Disco Soup.
17 gennaio 2016
Presentazione Slow Food Planet Usa
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All’interno del Good Food Awards Marketplace Carlo Petrini, Alice Waters e il
responsabile del progetto Eugenio Signoroni presenteranno l’app Slow Food
Planet, il nuovo strumento che permette
di avere sempre a portata di mano i consigli di Slow Food.
Per l’occasione verrà lanciata la nuova
area di San Francisco.
18 gennaio 2016
Formazione regionale su Biodiversità
e Filiere locali del cibo
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108
agenda
slow
gennaio - marzo
2016
17 febbraio 2016
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Appuntamenti Unisg
13 gennaio
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21 gennaio
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in Cibo e salute
23 gennaio
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20 febbraio
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Inaugurazione dell’anno accademico
20-21 febbraio 2016
Incontro della rete nazionale
Slow Food Svezia
— Goteborg
31 marzo - 1 aprile 2016
Slow Food Fair
— Stoccarda
1 marzo
Inizio Master in Cultura
del vino italiano
7 marzo
Inizio Master in Alto Apprendistato
per panettieri e pizzaioli
e mastri birrai
Il principale evento di Slow Food in Ger- 10 marzo
mania: una mostra-mercato in cui le Inizio Master in Food Culture
aziende avranno la possibilità di vende- and Communications
re i propri prodotti ed entrare in contatto con un pubblico privato interessato a 11 marzo
prodotti artigianali di alta qualità.
Graduation Day
109
Interventi raccolti
da Alessandra Abbona
e Flavio Coffano
L’atleta e il nutrizionista
a confronto
—
Simone Moro, alpinista,
e Andrea Pezzana,
medico, convergono
sulla relazione profonda
tra cibo e salute
110
Si fa tanto parlare dell’importanza
dell’alimentazione nella vita dello sportivo, e spesso si considerano solo gli
aspetti strettamente nutrizionali e medici di questo soggetto, mentre più raramente i concetti di gusto e di prodotti
di qualità vengono analizzati.
Fortunatamente la sensibilità sta mutando e ce lo testimonia Simone Moro,
alpinista e aviatore, uno degli sportivi
italiani più noti a livello internazionale.
Bergamasco, classe 1967, Moro è l’unico alpinista della storia ad avere
raggiunto tre cime di 8000 metri in
completa stagione invernale: il Shisha
Pangma (8027 m), il Makalu (8463 m) e
il Gasherbrum II (8035 m). Inoltre è salito sulla vetta di sette dei quattordici
8000 metri ed è arrivato quattro volte
in cima all’Everest. Pilota di elicottero
mosi, soprattutto in America, hanno iniziato a creare integratori e barrette bio
e organic. Quindi è assolutamente una
strada percorribile, anzi, auspicabile. nutrizione e attività sportiva.
organi. Può aiutare una scelta antiageing con alimenti adeguati? Quali
consigli ci puoi fornire?
La miglior dieta anti-ageing consiste
nell’avere uno stile di vita sano che
comprenda sì un’alimentazione adeguata, ma anche tanto sport. Il nostro
corpo è come una caldaia, brucia tutto
quello che ci buttiamo dentro, ma per
fare questo dobbiamo muoverci. Non
sono gli integratori o le diete a mantenerci in forma, siamo noi che dobbiamo cambiare marcia, rivoluzionare il
nostro stile di vita; gli integratori, come
dice la parola stessa, integrano il nostro
profilo alimentare. Per concludere: ho
50 anni e mi ritengo in forma, ma non
solo per quello che mangio, anche perché in qualità d’atleta questa mattina
ho fatto 3000 metri di dislivello.
Fa eco alle dichiarazioni di Moro Andrea Pezzana, medico nutrizionista e
docente Unisg.
«Dalle parole di Simone Moro abbiamo un’ulteriore conferma di come la
qualità nutrizionale sia un fattore che
va ben oltre il solo calcolo calorico o
dei singoli nutrienti – spiega il docen-
i Si può mantenere il piacere del gusto
e della sensorialità anche in condizioni di performance estreme o si deve
perlopiù rinunciare in funzione della
sola fornitura di calorie e nutrienti in
quantità adeguata?
Assolutamente no, togliere il gusto al
cibo che mangiamo ogni giorno crea
stress e infelicità, e un atleta stressato
non è performante. I cibi semplici hanno sapori eccezionali (pensate a una
buona minestra di farro, per esempio)
e danno tutte le calorie e i nutrimenti
necessari in condizioni estreme. Mi sto
preparando per una nuova spedizione
invernale in Himalaya e la carne che
porterò con me a 8000 metri sarà quella del mio macellaio di fiducia… assieme
a un po’ di polenta di farina macinata a
pietra ovviamente!
i A proposito del tema degli energy
drink e degli integratori, la cui scelta
sul mercato è enorme: si può ancora
pensare a integrazioni più “naturali” a
partire da materie prime di qualità?
Certo che sì, tant’è che molti brand fa-
i L’attività fisica intensa permette il
mantenimento di elevate performance, ma sottopone anche il nostro corpo
a stress importanti per le cellule e gli
sport e alimentazione
slow
Sport
e alimentazione
specializzato nel soccorso in Himalaya, ha ricevuto il “Pierre de Coubertin
Fair Play Trophy” dall’Unesco, il “David
A. Sowles Award” dall’allora segretario
dell’Onu Kofi Annan e la Medaglia d’oro al valor civile dal presidente della
Repubblica per le sue imprese di salvataggio estremo in Nepal.
Lo abbiamo incontrato per parlare di
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(CN) ITALIA
Fondando le basi su queste convinzioni, prende il via all’Università di Pollenzo a inizio 2016 il primo Executive
Master in Cibo e salute, sotto la direzione scientifica e didattica di Andrea
Pezzana. Come vi abbiamo raccontato
in maniera approfondita nello scorso
numero, si tratta di un corso che coniuga la visione olistica delle scienze
gastronomiche con la nutrizione, indirizzato ai professionisti del settore
medico-sanitario e pensato proprio per
archiviare il vecchio modello che considera solo le questioni numeriche delle
calorie, e imparare ad assegnare valore
al cibo nella sua complessità.
Pagina 1
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anni le attività dell’Università di Scienze
Gastronomiche, costituisce un ambito
di ricerca privilegiato, da approfondire
in maniera multiprofessionale, condividendo le competenze di medici, dietisti,
gastronomi, cuochi, contadini e allevatori assieme agli esperti di sostenibilità
e a ogni altra professionalità coinvolta
nella filiera alimentare, dalla produzione al consumo».
17:40
SCRIBA STUDIO
SCRIBA
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STUDIO
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CRIBA
SCRIBA
STUDIO
STUDIO
CRIBA
SCRIBA
STUDIO
STUDIO
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Il Master che partirà
nel 2016 a Pollenzo
coniuga la visione
olistica delle scienze
gastronomiche
con la nutrizione
28-01-2010
DIO
slow
112
te –. Slow Food e l’Università di Scienze
Gastronomiche hanno recentemente
avviato nuovi confronti e ricerche sui
temi della relazione tra cibo e performance fisica. A partire dal Salone
del Gusto 2014 Slow Food è diventato
partner di Torino Capitale Europea
dello Sport 2015 e proprio nell’edizione
2014 del Salone, in collaborazione con
l’Istituto di Medicina dello Sport e il
corso di laurea in Dietistica, i visitatori
(sportivi e non) hanno potuto ricevere
informazioni e valutazioni personalizzate sui temi dell’efficienza fisica e della relazione tra attività motoria e stili
alimentari adeguati».
Continua Pezzana: «A Pollenzo nei
mesi scorsi, in un incontro con docenti
e studenti dell’Università, Davide Cassani, commissario tecnico della Nazionale italiana di ciclismo, assieme ad alcuni atleti e a personale sanitario della
Nazionale, ha raccontato le più recenti
indicazioni in tema di alimentazione e
sport, apprezzando le potenzialità di
alcuni prodotti dei Presìdi Slow Food,
interessanti per le specifiche caratteristiche nutrizionali funzionali al miglioramento delle performance fisiche.
Anche il recente Congresso nazionale
di medicina dello sport tenutosi a Torino a fine settembre ha ospitato una
relazione per dimostrare i vantaggi di
un’alimentazione sana e di qualità per
lo sportivo».
«La relazione profonda tra cibo e salute – conclude Pezzana –, che ispira da
oltre 20 anni Slow Food e da più di 10
BANCA pubb 220x287 def
piazza Vittorio Emanuele 13, 12042 Pollenzo di Bra (Cn) tel. 0172 458418, [email protected]
piazza
piazza Vittorio
Vittorio Emanuele
Emanuele 13,
13, 12042
12042 Pollenzo
Pollenzo di
di Bra
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(Cn) tel.
tel. 0172
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l’orizzonte d’appennino è a sud
slow
L’orizzonte
d’Appennino
è a sud
di Sonia Chellini
114
Che l’Italia è stretta e lunga l’abbiamo
imparato alle scuole elementari, studiando geografia. Nella storia del secondo dopoguerra, con l’euforia del cosiddetto boom economico, questo dato
oggettivo si evidenziò ai nostri occhi
attraverso la realizzazione delle grandi
opere pubbliche (viadotti, tunnel, autostrade) frutto del genio e dell’operosità
italiana, che dovevano rendere, secondo i governi che le sostennero, il nostro
Paese una nazione moderna e al passo
con i tempi. Vent’anni prima Cristo s’era
fermato ad Eboli, e lì rimase nonostante tutto quel fervore ingegneristico
finalizzato, si diceva, a ricongiungere
questa Italia stretta e lunga, percorsa
longitudinalmente da una catena montuosa possente come una spina dorsa-
le, e renderla infine una tra le nazioni
europee e mondiali a spiccata vocazione industriale. Se oggi guardiamo gli
effetti (cartine delle reti stradali e ferroviarie) ci accorgiamo di come l’auspicato fine di consentire il trasferimento di merci e uomini per favorire un
complessivo benessere nazionale si sia
scontrato contro le molteplici difficoltà
strutturali ed economico-imprenditoriali, le piccinerie politiche e le ben note
infiltrazioni illecite, lasciando al Sud il
consueto primato di garantire un unico
flusso: quello degli uomini (e delle donne) verso altre destinazioni, l’abbandono delle attività agricole e artigianali e
delle condizioni di vita grame e persino
arcaiche che Carlo Levi aveva efficacemente descritto nel suo libro, così come
La seconda edizone
degli Stati Generali
delle Comunità
dell’Appennino si sono
tenuti a Castel
del Giudice in Molise
115
I comuni della
rete appenninica
Le parole usate per descrivere
il nostro operare sono state “resistenza”,
“opportunità”, “valorizzazione”
116
Il progetto degli Stati Generali delle Comunità dell’Appennino,
voluto da Slow Food Italia, si sta diffondendo inglobando molti
operatori interessati alla montagna. Il livello di coinvolgimento
raggiunto, dalla sua nascita fino alla seconda convocazione
in Molise, si palesa con l’adesione delle varie realtà interessate
a ragionare sul futuro delle comunità delle zone alte. In particolare,
diverse amministrazioni comunali della dorsale italica hanno scelto
di entrare a fare parte della nascente rete delle comunità
appenniniche. Si sta delineando una grande alleanza delle singole
e isolate situazioni che, se unificate con progetti replicabili, possono
fare la differenza. I comuni convinti, come Arsoli (Roma)
o Baranello (Campobasso), scommettono sull’Appennino quale area
di opportunità e decidono di concentrare la loro attenzione, prima
di tutto, sulla costruzione di un futuro da protagonista, e poi influire
sulle scelte normative che mettano al centro la montagna.
Tra i comuni appenninici registrati a Castel del Giudice (Is) va l’onore
di sede nazionale dei comuni aderenti al progetto degli Stati Generali
delle Comunità dell’Appennino. La possibilità di aderire è sempre
aperta sia ai comuni sia ai privati.
struire la rete delle Comunità, le parole
usate per descrivere il nostro operare
sono state “resistenza”, “opportunità”,
“valorizzazione”: se dovessi scegliere
una parola che riassuma la due giorni
di lavoro di ottobre direi “riscatto”. C’è
una consapevolezza nuova nei territori montani del Sud, che è quella di rivendicare il diritto di creare le proprie
opportunità di lavoro e di vita nei luoghi in cui si è nati, ma soprattutto di
crearle insieme, partendo dal basso. La
partecipazione dei tanti delegati delle
diverse realtà appenniniche italiane,
attraverso il racconto e le testimonianze di buone pratiche e lo scambio di
processi virtuosi che vedono coinvolti cittadini e amministratori in nuove
sfide, si è basato su un assunto fondamentale: la volontà di decidere il futuro delle Comunità partendo dalle piccole cose, vivendo del proprio lavoro e
non di assistenza. Durante l’assemblea
plenaria svoltasi domenica 18 ottobre
il nostro presidente, Nino Pascale nel
suo discorso di chiusura ha definito
l’Appennino «territorio non svantaggiato, ma danneggiato da politiche
miopi nonostante abbia tutte le potenzialità per garantire un alto livello di
benessere». Il nostro Paese ha bisogno
dell’Appennino: è partendo da questo
capovolgimento di paradigma che riusciremo davvero a comprendere quanto importante sia difendere questo
territorio, la sua agricoltura così difficile e preziosa, le sue molteplici culture, la sua grande voglia di riscatto.
l’orizzonte d’appennino è a sud
Il punto
sugli Appennini
slow
Secondo uno studio realizzato nel 2015 da Slow Food Italia,
Ispra, Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo
e Università degli Studi del Molise su 975 comuni del territorio
appenninico, il territorio ha registrato nel corso di 50 anni
una progressiva crisi demografica e un preoccupante abbandono
del territorio. Qui vivono, secondo i dati dell’ultimo censimento,
2.805.476 abitanti, il 5,2% della popolazione italiana.
Circa un terzo dei comuni appenninici ha meno di 1000 abitanti
e il 6% è costituito da piccolissimi borghi in comuni con meno
di 300 residenti: oltre il 50% della popolazione degli Appennini
è concentrata nel 12% dei comuni con più di 5000 abitanti.
Dall’analisi delle fasce d’età arrivano conferme sulle dinamiche
della popolazione appenninica che, oltre a diminuire, invecchia
sempre di più. Nonostante il saldo demografico negativo,
la cementificazione del suolo è proseguita incessante:
la percentuale complessiva di suolo ormai perso è quadruplicata
in poco più di mezzo secolo, arrivando a sfiorare il 2% del territorio.
più tardi avrebbero fatto antropologi
come Ernesto De Martino o sindacalisti poeti come Rocco Scotellaro. Il senso contrario di questo flusso ha invece
favorito la cementificazione selvaggia
delle coste meridionali in nome di uno
sviluppo economico privo di infrastrutture e adeguata formazione imprenditoriale, l’espandersi e il radicarsi
di interessi illeciti che disastri naturali
come il terremoto dell’Irpinia dell’80 o
il dissesto idrogeologico via via sempre
più frequente contribuirono allora e
continuano oggi a rafforzare. Fino ad
arrivare alle reti occulte che gestiscono
lo smaltimento dei rifiuti o agli interessi dietro agli impianti destinati alla
produzione di energia.
Parlare di Appennino e parlarne al Sud,
come abbiamo fatto in questa seconda
convocazione degli Stati Generali delle
Comunità dell’Appennino svoltasi in
Molise a Castel del Giudice, ha avuto
come effetto proprio quello di guardare al futuro dei nostri territori montani
partendo da questo portato storico e
sociale profondo e per molti versi doloroso; è stato come affrontare i diversi
temi che erano all’ordine del giorno delle quattro commissioni di lavoro partendo da una consapevolezza nuova
dettata, sì, dal lavoro svolto in due anni
sul progetto stesso, ma anche dall’ascolto delle declinazioni locali dei problemi che davano nuovi accenti e nuove
prospettive al nostro percorso. In tutti
gli incontri svolti in questi anni per
delineare il progetto Appennino e co-
117
Piemonte
32
San Francisco
Los Angeles
Toscana
20
25 / 01
27 / 01
Veneto
10
Friuli Venezia Giulia
9
Sicilia
9
Abbruzzo e Molise
8
Puglia
6
Marche
5
Emilia-Romagna
4
Trentino
3
Campania
2
Lombardia
2
Alto Adige
1
Lazio
1
Umbria
1
Basilicata
1
—
—
Austin
New York*
01 / 02
03 / 02
—
vi
edizione di Slow Wine
negli Usa
118
slow wine tour usa
slow
Slow Wine
Tour USA
Le cantine italiane
che parteciperanno
al tour
—
Per la prima volta
una tappa dello
Slow Wine Tour anche
in Texas
* Degustazione aperta al pubblico a New York
(nelle altre tappe solo agli operatori commerciali)
( )
119
di Federica Vizioli
01
02
Il Paese ospite di Cheese 2015
è stato la Spagna. La tradizione
casearia iberica è pressoché
sconosciuta in Italia, sebbene
vanti oltre 200 tipi di formaggi,
frutto di una straordinaria
varietà di climi, paesaggi,
pascoli e razze. I quattro giorni
della manifestazione sono stati
quindi un’opportunità preziosa
per conoscere più da vicino i
produttori e le loro specialità.
Tra le proposte più interessanti
del Mercato dei Formaggi vanno
menzionate il manchego della
Queseria 1605, il queixo do país
di Cortes de Muar e il rey silo di
Ernesto Madera.
I Laboratori della pizza sono
stati tra le novità dell’edizione
2015: in 12 appuntamenti
gli esperti dell’Associazione
Verace Pizza Napoletana hanno
svelato i segreti su impasto,
cottura e condimento di uno
dei cibi più amati al mondo.
Gli appassionati del buon
bere hanno invece apprezzato
l’area Mixology, con Laboratori
tenuti da bartender di fama
internazionale dedicati a gin,
sakè, agave e vermut.
05
03
In un incontro dedicato al ruolo
femminile nella produzione
casearia, produttrici provenienti
da tutta Italia hanno condiviso
storie di passione e resistenza
e hanno presentato le loro
specialità: dal macagn
piemontese di Manuela Ceruti
al cacioricotta del Cilento di
Filomena Merola, passando
per il caciocavallo molisano di
Serena Di Nucci, ex studentessa
dell’Università di Scienze
Gastronomiche di Pollenzo che
si è laureata proprio con una
tesi sulle donne del latte.
04
assaggi di cheese
slow
Assaggi
di
Cheese
01
120
La decima edizione di
Cheese, l’appuntamento
che ogni due anni punta
i riflettori sull’universo
caseario, si è chiusa con
un grande successo:
oltre 270000 visitatori
si sono riversati per
quattro giorni nelle vie
e nelle piazze di Bra, che
si riconferma capitale
del mondo del latte e del
formaggio. In queste
pagine vi proponiamo
una panoramica
di momenti salienti,
spunti di riflessione
e golose novità che
hanno caratterizzato
la manifestazione
02
2
03
04
Cheese è stato un evento
indimenticabile anche per i
bambini. La manifestazione ha
accolto i più piccini, in visita con
la scuola o accompagnati dai
genitori, con un ampio ventaglio
di laboratori, corsi e giochi.
Particolarmente interessante
è stata la Via Lattea, un
percorso interattivo ospitato
nella struttura del Movicentro:
tante tappe divertenti dalla
mungitura spaziale al gioco
della transumanza, per far
scoprire ai bambini il ruolo degli
allevatori e le fasi di produzione
dei formaggi.
L’ultima giornata si è aperta
con la presentazione della
guida Osterie d’Italia 2016.
1707 indirizzi, di cui oltre 140
novità, scelti e raccontati da
una rete di fidati collaboratori
su tutto il territorio italiano. Sul
palco, accolti da un’atmosfera
di festa, hanno sfilato gli osti
chiocciolati. Autentici custodi
della tradizione gastronomica e
dell’arte dell’accoglienza, sono
stati salutati da Carlo Petrini con
parole sentite: «siete l’essenza
della ristorazione italiana, ciò
che tutto il mondo ci invidia e
prova a copiare».
05
121
07
08
10
Anche quest’anno il Caffè
Letterario ha contribuito
ad animare la kermesse: il
nuovo Agorà Cheese La Stampa
ha coinvolto il pubblico, all’ora
del caffè e dell’aperitivo, in un
fitto programma di incontri,
dibattiti e presentazioni. Tra gli
appuntamenti più apprezzati la
lettura mattutina dei quotidiani
con Mario Calabresi e Carlo
Petrini, la gara musicale
di storytelling Parlami di
formaggio con la Ukulele Turin
Orchestra e la presentazione
del nuovissimo ricettario
Bambini a tavola!
Cheese è stato senza dubbio
un’occasione importante
per dar voce a messaggi politici
forti e per difendere
la produzione casearia di qualità
dagli attacchi della burocrazia
dell’Unione Europea.
La petizione lanciata contro
l’uso del latte in polvere per
produrre formaggi ha raccolto
l’adesione di oltre 150000
persone sulla piattaforma
Change.org e attraverso
i moduli cartacei. Durante
la cerimonia d’apertura Andrea
Olivero, vice ministro alle
Politiche agricole, alimentari
e forestali, ha assicurato
la difesa a oltranza della legge
138 da parte del governo.
Come in ogni evento targato
Slow Food, l’offerta gastronomica
è stata ricca e di qualità. Dagli
appuntamenti a tavola all’Albergo
dell’Agenzia di Pollenzo, fino alle
120 specialità in degustazione
nella Gran Sala dei Formaggi, sotto
il porticato di corso Garibaldi,
passando per gli appetitosi
e tradizionali sfizi delle Cucine
di strada: bombette della
valle d’Itria, focaccia di Recco,
arancine, olive all’ascolana
e tanto altro. Quest’anno, poi,
anche la moda dei food-trucks
è arrivata a Cheese. Tra polpette,
tagliatelle e panissa, merita
una menzione il furgoncino
di Brambù, con i suoi panini
ripieni di salsiccia di Bra.
In occasione di Cheese 2015
sono tornate in librerie le
edizioni, aggiornate e ampliate,
di due testi fondamentali per
gli appassionati del settore:
Il gusto del formaggio, il più
longevo dei manuali pubblicati
da Slow Food Editore, e la
Guida ai formaggi d’Italia.
Quest’ultimo è stato presentato
al Teatro Politeama Boglione
durante la consegna degli
attestati ai Locali del Buon
Formaggio. Il premio, istituito
nel 1997, è assegnato a osterie,
ristoranti e botteghe che
raccontano al meglio i sapori
e i saperi dell’Italia casearia,
proponendo ai clienti le
eccellenze del territorio.
07
09
06
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assaggi di cheese
slow
06
10
Quest’anno due novità hanno
portato a quota 50 le forme
del latte tutelate dal Presidio
Slow Food: lo skyr d’Islanda,
formaggio fresco a base di latte
vaccino acido, dalle origini
antichissime e i formaggi della
capra orobica, razza a rischio di
estinzione delle valli lombarde.
122
06
10
123
terra madre indigenous people
slow
Terra Madre
indigenous
people:
the future
we want
di Eleonora Bergoglio
124
«Stiamo marciando tutti insieme verso
il precipizio. Solo quando saremo prossimi
alla caduta ci accorgeremo della necessità
di invertire la rotta e a quel punto, a mostrarci
la via, saranno coloro che abbiamo lasciato
per ultimi in fondo a questo sciagurato corteo:
gli indigeni, le donne, e i vecchi»
125
Nel mondo aumenta
lentamente la
consapevolezza di
come l’agricoltura
delle famiglie e delle
comunità possa nutrire
il pianeta
suoli poveri ed ecologicamente fragili,
con dinamiche molto simili in diverse
aree del pianeta. Così, a causa degli ambienti difficili nei quali vivono, spesso
fanno fatica a procurarsi e a coltivare
il cibo di cui hanno bisogno, ed essendo
isolati dal resto della popolazione risulta spesso complicato per loro accedere
ai servizi scolastici e sanitari.
Nonostante la Dichiarazione delle Nazioni Uniti sui Popoli Indigeni affermi
chiaramente come questi popoli siano
da considerarsi liberi ed eguali agli altri,
e di come non debbano essere discriminati nell’esercizio dei propri diritti, incluso quello all’autodeterminazione, la
realtà dei fatti è che l’isolamento fisico
e culturale nel quale vivono queste comunità rende loro impossibile l’accesso
ai centri dell’informazione e del potere,
anche nei casi in cui le cui decisioni prese impattino fortemente sulle loro vite.
A Shillong invece, nei loro abiti tradizionali indossati non per folklore ma
per affermazione orgogliosa della propria diversità, gli indigeni del mondo
hanno avuto la possibilità di dibattere i
temi a loro cari, temi dei quali il Nesfas
(North East Slow Food & Agrobiodiversity Society, nonché organizzatore
dell’evento) si occupa da anni e sui quali promuove una ricerca costante che
include i leader e i rappresentanti delle
comunità indigene stesse.
Nel mondo aumenta lentamente la consapevolezza di come l’agricoltura delle
famiglie e delle comunità possa nutrire
il pianeta, ma in questa assemblea l’esigenza forse ancora più forte era affermare come i prodotti locali abbiano un
ruolo fondamentale nel definire l’identità culturale di un popolo indigeno, i
cui sistemi di valori sono legati a doppio filo con l’ambiente: basti pensare ai
popoli nomadi, che tracciano le proprie
rotte seguendo le condizioni favorevoli
al reperimento del cibo, o a chi assicura
la sopravvivenza della propria famiglia
e della propria comunità mettendo a
punto un sistema agricolo adatto a condizioni ambientali estreme.
Per queste persone il cibo non è una
commodity: la terra e le sue risorse
vanno rispettate. In contrapposizione
all’approccio occidentale/cristianizzato che vede spesso l’uomo in posizione
dominante quando non contrapposta
rispetto alla natura, i delegati hanno
evidenziato come la terra sia l’origine
del tutto, la vera fonte di vita.
Insomma, quello che gli indigeni di
mezzo mondo ci hanno voluto raccontare è il loro diritto a essere, per così
dire, “marginali”. Ogni giorno vediamo
crescere l’uso di parole quali sostenibilità o agrobiodiversità, eppure nelle
politiche nazionali e internazionali i
sistemi di produzione al margine delle
nostre economie vengono scarsamente
considerati. Definiamo marginali alcune aree impervie del pianeta, i prodotti
a bassa resa che vi si coltivano, le loro
stesse popolazioni; nel frattempo, lontani dagli occhi e lontani dal cuore, gli
indigeni in tutto il pianeta sono custodi
di una biodiversità che solo in questi
contesti si può salvare.
E allora come dovremmo sostenere
queste popolazioni? In passato gli sforzi delle culture dominanti prevedevano il tentativo di assimilazione delle
comunità indigene, sforzi fondamentalmente falliti. Questi popoli sono
fieri del loro retaggio, e il nostro ruolo
può essere solo quello di aiutarli a far sì
che le loro istanze arrivino all’orecchio
di chi detiene il potere. Il nostro lavoro
deve supportare i loro leader e le loro
politiche di autodeterminazione, sostenendoli nello sforzo di preservare la
propria identità culturale.
Come afferma Maria Teresa Mendoza,
coordinatrice del Forum Internazionale delle Donne Indigene: «Noi sappiamo che futuro vogliamo; lo troviamo
nella nostra cosmovisione, nella nostra
relazione con la natura. Nel futuro che
vogliamo, gli altri possono comprendere questa nostra relazione con la natura. L’unica cosa di cui abbiamo bisogno
è un’opportunità».
terra madre indigenous people
slow
126
È questo il pensiero che Carlo Petrini
consegna alla variopinta assemblea
di delegati presenti alla cerimonia di
apertura di Terra Madre Indigeni, qui
chiamato Mei-Ramew, traduzione di
Terra Madre nella lingua locale del popolo Khasi.
Dal 3 al 7 novembre, a Shillong, capitale
dello Stato indiano nordorientale del
Meghalaya, seicento delegati appartenenti a 140 diverse popolazione indigene provenienti da 58 Paesi del mondo
si sono incontrati per confrontarsi sul
tema “Il futuro che vogliamo: prospettive e azioni indigene”, un tema nient’affatto scontato, più attuale di quanto
immaginiamo.
Sì, perché gli indigeni esistono davvero.
Forse sarebbe più confortante pensare
a loro come a pochi e sparuti individui
in via d’estinzione sparsi negli angoli
più remoti del pianeta, dotati di mezzi
rudimentali e di aspirazioni primitive;
sarebbe più confortante non dover fare
i conti con la loro presenza e non doverci occuparci delle loro istanze, così
diverse dalle nostre. E invece ci sono, e
non sono neanche così pochi.
Gli indigeni rappresentano circa un
terzo dei novecento milioni di persone
che vivono nelle aree rurali del pianeta,
circa il 4% della popolazione mondiale totale, divisi in almeno cinquemila gruppi etnici. Il problema è che nel
corso della storia e nell’evolversi delle
politiche nazionali sono sempre stati
discriminati e isolati, relegati in aree
circoscritte e spesso caratterizzate da
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slow
128
A Bra, a Torino e sui territori
si sta già lavorando alacremente
e si sono già fatti i primi passi
importanti per l’organizzazione
di Terra Madre Salone del Gusto 2016.
Il prossimo anno da queste pagine
non potremo far altro che tenervi
informati, sviluppare le narrazioni che
poi si manifesteranno concretamente
il prossimo settembre e accompagnare
il tutto con la solita creatività.
gennaio - marzo 2016
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Bormioli Rocco porta l’eleganza e lo stile italiano sulla vostra tavola,
in ogni momento della giornata, con design e prodotti innovativi.
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