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SENTENZE IN SANITÀ – CORTE DI CASSAZIONE
CASSAZIONE CIVILE - Sezione Lavoro - sentenza n. 1952 del 27 gennaio 2011
ILLEGITTIMITÀ DEL LICENZIAMENTO DISCIPLINARE RESPONSABILE LABORATORIO ANALISI DI UNA
CASA DI CURA
Sia il Tribunale che la Corte d’appello confermavano la illegittimità del licenziamento intimato alla dipendente di un Casa di Cura ed intimato per motivi disciplinari, condannandola alla reintegrazione e al
risarcimento.
Il licenziamento faceva seguito a due contestazioni disciplinari , la prima, per un presunto mancato rispetto dell'orario di lavoro assegnato, la seconda, nella mancata adozione da parte della lavoratrice,
quale responsabile del laboratorio di analisi, di qualsiasi misura idonea ad ovviare alle conseguenze del
difettoso funzionamento di un apparecchio da utilizzare per l'esecuzione di alcune analisi necessarie per
l'effettuazione di un intervento chirurgico già programmato per il giorno successivo.
La Corte di Cassazione, nel confermare il giudizio di primo e secondo grado, ha affermato che per stabilire in concreto l'esistenza di una giusta causa di licenziamento, che deve rivestire il carattere di grave
negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro, ed in particolare di quello fiduciario, occorre
valutare, da un lato, la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e
soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi ed all'intensità dell'elemento
intenzionale, dall'altro la proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta, stabilendo se la lesione
dell'elemento fiduciario su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro sia in concreto tale da
giustificare o meno la massima sanzione disciplinare.
omissis
Svolgimento del processo
Con sentenza del 1.2.2005 il Tribunale di S. Maria Capua Vetere ha accolto la domanda proposta in data 29.1.2003 da C.E. M., volta ad ottenere l'accertamento della illegittimità del licenziamento intimatole per motivi disciplinari in data 7.3.2002 dalla Casa di Cura X. del X. spa,
con condanna della società alla reintegrazione della ricorrente nel posto di lavoro e al risarcimento del danno L. n. 300 del 1970, ex art. 18.
Il licenziamento faceva seguito a due contestazioni disciplinari concernenti, la prima, il mancato
rispetto dell'orario di lavoro assegnato alla ricorrente nel periodo dicembre 2001-gennaio 2002
e, la seconda, come meglio precisato con l'atto di recesso, la mancata adozione da parte della
lavoratrice, quale responsabile del laboratorio di analisi, di qualsiasi misura idonea ad ovviare
alle conseguenze del difettoso funzionamento di un apparecchio da utilizzare per l'esecuzione di
alcune analisi necessarie per l'effettuazione di un intervento chirurgico già programmato per il
giorno successivo.
La sentenza del Tribunale è stata confermata dalla Corte d'Appello di Napoli, che ha sostanzialmente condiviso il giudizio già espresso dal primo giudice in ordine al difetto di proporzionalità della sanzione irrogata dal datore di lavoro in rapporto alla gravità degli addebiti, osservando che l'entità di questi ultimi era stata notevolmente ridimensionata dalle risultanze istrutto-
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rie e che entrambe le mancanze dovevano considerarsi suscettibili, se mai, soltanto di sanzioni
conservative.
Avverso tale sentenza ricorre per cassazione la Casa di Cura X. del X. spa, affidandosi a due
motivi cui resiste con controricorso la C..
La società ha depositato memoria ai sensi dell'art. 378 c.p.c..
Motivi della decisione
1. - Con il primo motivo di ricorso la società denuncia violazione e/o falsa applicazione dell'art.
33 C.C.N.L. per il personale non medico dipendente dalle strutture sanitarie del 23.12.1999,
nonché omessa e/o insufficiente e/o contraddittoria motivazione in relazione all'interpretazione
del significato letterale della lettera di contestazione del 31.1.2002 (e cioè della lettera contenente la prima contestazione disciplinare).
Ciò sull'assunto che la Corte d'Appello avrebbe erroneamente circoscritto la fattispecie all'interno dell'ipotesi prevista dall'art. 33, comma 5, lett. b) del C.C.N.L. (ovvero all'ipotesi del dipendente che "ritardi l'inizio del lavoro, o lo sospenda, o ne anticipi la cessazione senza giustificato
motivo"), senza considerare che la casistica elencata dal predetto quinto comma doveva considerarsi meramente esemplificativa e che, se mai, la fattispecie avrebbe dovuto essere inquadrata
nella ipotesi prevista sotto la lettera f) dello stesso articolo, ovvero ricondotta all'ipotesi della
insubordinazione o della negligente esecuzione della prestazione lavorativa o della inosservanza
delle disposizioni impartite dal datore di lavoro al lavoratore, connotata dalla "particolare gravità di cui alla lettera A) del successivo sesto comma dello stesso art. 33.
2. - Con il secondo motivo la società ricorrente deduce omessa e/o insufficiente e/o contraddittoria motivazione in relazione all'interpretazione del significato letterale della lettera del
9.2.2002 (recante la seconda contestazione), osservando che la Corte territoriale si sarebbe soffermata essenzialmente su profili formali, ed in particolare su quello della specificità della contestazione, trascurando ogni esame dell'effettiva gravità del fatto addebitato alla lavoratrice, per
quanto riguarda anche le conseguenze negative arrecate alla società dalla condotta della C..
3. - Entrambi i motivi sono infondati. Va rilevato anzitutto che, in ordine ai criteri che il giudice
deve applicare per valutare la sussistenza o meno di una giusta causa di licenziamento, la giurisprudenza è pervenuta a risultati sostanzialmente univoci affermando ripetutamente - cfr. ex
plurimis Cass. 3865/2008, Cass. 19270/2006, Cass. 7543/2006, Cass. 13883/2004, Cass.
9299/2004, Cass. 4061/2004 - che per stabilire in concreto l'esistenza di una giusta causa di licenziamento, che deve rivestire il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro, ed in particolare di quello fiduciario, occorre valutare, da un lato, la gravità dei
fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggetti va e soggettiva dei medesimi, alle
circostanze nelle quali sono stati commessi ed all'intensità dell'elemento intenzionale, dall'altro
la proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta, stabilendo se la lesione dell'elemento fiduciario su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro sia in concreto tale da giustificare
o meno la massima sanzione disciplinare. Anche nell'ipotesi in cui la disciplina collettiva preveda un determinato comportamento quale giusta causa di licenziamento, il giudice investito della
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legittimità di tale recesso deve comunque valutare alla stregua dei parametri di cui all'art. 2119
c.c., l'effettiva gravità del comportamento stesso alla luce di tutte le circostanze del caso concreto (Cass. 1095/2007, Cass. 13983/2000, Cass. 8139/2000, Cass. 6900/2000, Cass. 7834/98,
Cass. 1604/98), con l'ulteriore precisazione secondo cui la previsione di ipotesi di giusta causa
di licenziamento contenuta in un contratto collettivo non vincola il giudice, dato che questi deve
sempre verificare, stante l'inderogabilità della disciplina dei licenziamenti, se quella previsione
sia conforme alla nozione di giusta causa, di cui all'art. 2119 c.c., e se, in ossequio al principio
generale di ragionevolezza e di proporzionalità, il fatto addebitato sia di entità tale da legittimare il recesso, tenendo anche conto dell'elemento intenzionale che ha sorretto la condotta del lavoratore (Cass. 16260/2004, Cass. 5103/98).
E' stato altresì precisato (Cass. 25743/2007) che il giudizio di proporzionalità o adeguatezza della sanzione dell'illecito commesso - istituzionalmente rimesso al giudice di merito - si sostanzia
nella valutazione della gravità dell'inadempimento imputato al lavoratore in relazione al concreto rapporto e a tutte le circostanze del caso, dovendo tenersi al riguardo in considerazione la circostanza che tale inadempimento deve essere valutato in senso accentuativo rispetto alla regola
generale della "non scarsa importanza" di cui all'art. 1455 c.c., sicché l'irrogazione della massima sanzione disciplinare risulta giustificata soltanto in presenza di un notevole inadempimento
degli obblighi contrattuali (L. n. 604 del 1966, art. 3) ovvero addirittura tale da non consentire la
prosecuzione neppure provvisoria del rapporto (art. 2119 c.c.).
4. - Tale giudizio è rimesso al giudice di merito la cui valutazione è insindacabile in sede di legittimità se sorretta da adeguata motivazione, dovendo ritenersi (Cass. 21965/2007) al riguardo
che spetta al giudice di merito procedere alla valutazione della proporzionalità della sanzione
espulsiva rispetto alla condotta addebitata al lavoratore con riferimento a tutte le circostanze del
caso concreto, secondo un apprezzamento di fatto che non è rinnovabile in sede di legittimità,
bensì censurabile per vizio di omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione (cfr. altresì sul
punto, ex plurimis, Cass. 6823/2004, Cass. 5013/2004, Cass. 4061/2004, Cass. 1144/2000, Cass.
13299/99, Cass. 6216/98).
5. - In tema di ambito dell'apprezzamento riservato al giudice del merito, è stato condivisibilmente affermato (cfr. fra le altre, Cass. 8254/2004) che la giusta causa di licenziamento, quale
fatto che non consente la prosecuzione, neppure provvisoria, del rapporto, è una nozione che la
legge, allo scopo di un adeguamento delle norme alla realtà da disciplinare, articolata e mutevole nel tempo, configura con una disposizione (ascrivibile alla tipologia delle c.d. clauX. generali) di limitato contenuto, delineante un modello generico che richiede di essere specificato in sede interpretativa mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale,
sia di principi che la stessa disposizione tacitamente richiama. Tali specificazioni del parametro
normativo hanno natura giuridica e la loro disapplicazione è quindi deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, mentre l'accertamento della concreta ricorrenza, nel fatto dedotto in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e le sue specificazioni, e
della loro concreta attitudine a costituire giusta causa di licenziamento, si pone sul diverso piano
del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito e incensurabile in cassazione se privo di
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errori logici o giuridici. A sua volta, Cass. 9266/2005 ha ulteriormente precisato che l'attività di
integrazione del precetto normativo di cui all'art. 2119 c.c. (norma c.d. elastica) compiuta dal
giudice di merito - ai fini della individuazione della giusta causa di licenziamento - mediante
riferimento alla "coscienza generale", è sindacabile in cassazione a condizione, però, che la contestazione del giudizio valutativo operato in sede di merito non si limiti ad una censura generica
e meramente contrappositiva, ma contenga, invece, una specifica denuncia di non coerenza del
predetto giudizio rispetto agli "standards", conformi ai valori dell'ordinamento, esistenti nella
realtà sociale.
6. - Nella specie, la Corte territoriale ha ritenuto che i fatti addebitati alla lavoratrice con la lettera del 31.1.2002 non fossero di gravità tale da integrare l'ipotesi della "particolare gravità prevista dalla disciplina collettiva applicabile al caso in esame, e da giustificare, quindi, l'applicazione della massima sanzione espulsiva, osservando che sulla base delle annotazioni riportate sui
c.d. cartellini orologio l'entità dei ritardi doveva ritenersi di portata "non di ratio tutt'altro che
significativa" e che dalle stesse annotazioni risultava che l'attività lavorativa si era ripetutamente
protratta anche oltre le ore 16,00 (e cioè oltre il termine finale del turno di lavoro) ed era stata
prestata anche in alcuni giorni festivi compresi nel periodo preso in considerazione.
7. - Quanto ai fatti oggetto della seconda contestazione, ha osservato la Corte d'Appello che, anche in questo caso, l'assunto della società non aveva trovato adeguato riscontro nelle risultanze
istruttorie, essendo emerso che, nel giorno precedente quello programmato per l'esecuzione
dell'intervento, gli esami necessari erano stati eseguiti, sebbene "provvedendo a far riposare
l'apparecchio più frequentemente", e che, anche nel giorno successivo, la C., informata de perdurare dell'inconveniente, aveva provveduto a contattare il servizio di manutenzione ed a concordare gli interventi di riparazione da effettuare, così che, tenuto conto anche del fatto il risultato dell'esame avrebbe potuto essere consegnato pure a ridosso dell'intervento chirurgico, anche
in questo caso la mancanza addebitata alla lavoratrice doveva considerarsi suscettibile, se mai,
soltanto dell'applicazione di sanzioni conservative.
8. - Il giudizio operato dai giudici di appello non è stato sottoposto a specifiche censure, idonee
ad evidenziare la non coerenza del predetto giudizio agli "standards" di valutazione esistenti
nella realtà sociale, limitandosi, in realtà, la ricorrente a ripercorrere la valutazione di merito ed
a contrapporre ad essa la propria diversa valutazione, senza indicare, oltre tutto, le norme che
sarebbero state violate dal giudice nell'interpretazione della lettera di contestazione e non riportando in ricorso il testo integrale dell'art. 33 C.C.N.L. (con violazione del principio di autosufficienza del ricorso). Quanto all'apprezzamento circa la concreta ricorrenza degli elementi idonei
a costituire la giusta causa di licenziamento e in ordine alla proporzionalità della sanzione, va
ribadito che si tratta di una valutazione di fatto, devoluta al giudice del merito, non censurabile
nel giudizio di cassazione in quanto comunque assistita da motivazione sufficiente e non contraddittoria. Le censure espresse rimangono, dunque, confinate ad una mera contrapposizione
rispetto a tale valutazione di merito operata dalla Corte d'Appello, inidonea, in quanto tale, a radicare un deducibile vizio di motivazione di quest'ultima.
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9. - Le osservazioni che precedono riguardano sia il primo che il secondo motivo di ricorso. Per
quanto riguarda più specificamente il secondo motivo, deve aggiungersi poi che la ricorrente
non considera che la motivazione della sentenza non poggia solo sul rilievo del difetto di specificità della (seconda) contestazione, ma anche, e decisivamente, sul difetto di proporzionalità
della sanzione, desunto attraverso un esame delle risultanze istruttorie che si presenta logico e
coerente e che non viene validamente attaccato dalle censure espresse nel ricorso, mancando
anche in questo caso una chiara indicazione delle ragioni per le quali la motivazione dovrebbe
ritenersi inidonea a sorreggere sul punto la decisione impugnata.
10. - Il ricorso deve quindi essere respinto.
11. - Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio liquidate in Euro 21,00 oltre Euro 2.500,00 per onorari, oltre I.V.A., C.P.A. e spese generali.
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