6. Risoluzione del rapporto - Rivista critica di diritto del lavoro

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6. Risoluzione del rapporto - Rivista critica di diritto del lavoro
6. RISOLUZIONE DEL RAPPORTO
I testi integrali delle sentenze si trovano sotto la voce giurisprudenza
1. Corte di Cassazione sez. lav. 29 maggio 2013 n. 13396, pres. Amoroso, est. Filabozzi,
Terra Armata Srl (avv. Porcelli) c. A.R.F. (avv. Giurato).
Lavoro subordinato - Dimissioni - Rilevanza dei motivi di recesso addotti dal lavoratore
- Esclusione - Deduzione successiva di una giusta causa di dimissioni - Legittimità.
Il principio di immutabilità dei motivi di recesso, applicabile al licenziamento, non può estendersi
anche all'ipotesi di dimissioni. L’effetto tipico che consegue alle dimissioni del lavoratore è, infatti,
unicamente, quello di produrre la risoluzione del rapporto di lavoro e ciò a prescindere dai motivi
che ebbero a determinare le dimissioni e dall’eventuale esistenza di una giusta causa, che, fermo
restando l’onere delle sua allegazione e dimostrazione ex art. 2697 c.c. qualora il lavoratore intenda
conseguire le prestazioni economiche conseguenti al negozio realizzato, può essere addotta dal
lavoratore anche successivamente.
Un esempio di irrilevanza dei motivi nel rapporto di lavoro: le dimissioni del lavoratore
(Norma Iurlano)
Questi, in breve, i fatti di causa dai quali trae origine la pronuncia in epigrafe.
Un dirigente ha convenuto in giudizio la società datrice di lavoro chiedendo al
giudice del lavoro la condanna della stessa al pagamento dell'indennità sostitutiva del
preavviso, dell'indennità supplementare previste dal Ccnl Dirigenti Aziendali Industriali e
di differenze retributive sul Tfr, assumendo di aver svolto funzioni di direttore generale e
di aver rassegnato le dimissioni per giusta causa, ex art. 2119 c.c., a seguito del
declassamento subito per effetto della successiva assegnazione a mansioni di vice
direttore generale.
La società convenuta resisteva in giudizio, eccependo, tra l’altro, l’inammissibilità
della domanda di accertamento dell’esistenza di una giusta causa di dimissioni sul rilievo
che il dirigente nella lettera di dimissioni aveva fatto riferimento unicamente all’art. 16 del
menzionato Ccnl (il quale dà diritto al dirigente che si dimette entro 60 giorni dal
mutamento della propria attività sostanzialmente incidente sulla sua posizione, al
pagamento di un trattamento pari all'indennità sostitutiva del preavviso spettante in caso
di licenziamento) e non alla giusta causa di dimissioni.
1
La Suprema Corte, recependo i collaudati principi espressi in materia da numerosi
precedenti giurisprudenziali1, con la sentenza in commento ha ribadito - alla luce di una
preliminare e necessaria considerazione, ossia che nell’ambito della disciplina positiva non
si rinviene sotto il riflesso giuridico alcuno spazio per attribuire rilevanza alle motivazioni
che hanno condotto il prestatore al recesso, ulteriore rispetto a quella tipica dello
scioglimento del contratto - che il principio della immutabilità dei motivi del recesso,
applicabile al licenziamento disciplinare2, non può estendersi anche all’ipotesi di
dimissioni.
Ne consegue, prosegue la Suprema Corte, che il lavoratore può addurre l’esistenza di
una giusta causa di dimissioni anche successivamente, in sede giudiziale (rectius anche se
non si è fatto alcun riferimento nella lettera di dimissioni alla giusta causa ex art. 2119 c.c.),
al fine di conseguire le prestazioni economiche e/o le attribuzioni patrimoniali conseguenti
al negozio realizzato (id est l’indennità sostitutiva del preavviso e/o altre eventuali
indennità previste dal Ccnl applicato). Resta inteso, osserva la pronuncia in epigrafe, che
spetta al lavoratore l’onere di allegare e dimostrare, sulla scorta degli ordinari principi in
1 Cass. 11/10/06 n. 21748, richiamata in sentenza. Nel medesimo senso si veda, Cass. 23/4/12 n. 6342, in
Diritto & Giustizia 2012, 24; Cass., 12/07/02 n. 10193; Cass. 7/11/01 n. 13782; di contrario avviso è la
giurisprudenza di merito, in punto si veda, Trib. Milano 30/11/82, in Orientamenti 1983, 711, in cui il
giudicante, in una fattispecie identica a quella esaminata dalla Suprema Corte con la sentenza in epigrafe, ha,
viceversa, ritenuto “inammissibile, per violazione del principio dell'immutabilità dei motivi di recesso, la
domanda riconvenzionale del dirigente tendente al riconoscimento dell'esistenza di una giusta causa di
dimissioni ex art. 16 del contratto collettivo citato ove, come nella specie, la lettera di dimissioni faccia
esplicito ed esclusivo riferimento solo all'ipotesi prevista dall'art. 16 senza alcun cenno, neppure indiretto,
all'esistenza della giusta causa”. In tal senso, si veda, altresì, Trib. Verona 7/9/04, in Lav. nella giur. 2005, 462,
con commento di Marchesan, resa in una particolare fattispecie in cui la ricorrente, dipendente del Ministero
dell’istruzione, in qualità di assistente amministrativa, presentava le dimissioni con preavviso, poi respinte
dal Ministero poiché presentate oltre il termine prescritto dalla normativa regolamentare (art. 1, DM 19/11/01
n. 163). Successivamente, la ricorrente rassegnava nuove dimissioni, qualificandole come dimissioni per
giusta causa, invocando “continue vessazioni” subite nell’ultimo periodo, l’ultima delle quali costituita dal
rifiuto di accettare le dimissioni. Il Tribunale ha rigettato il ricorso, statuendo che “il lavoratore che ha
presentato le dimissioni con preavviso non può in un secondo tempo mutare il regime delle stesse,
affermando che si devono intendere per giusta causa, poiché nel momento in cui la dichiarazione costituente
il contenuto delle dimissioni è giunta a destinazione si è perfezionata e il lavoratore non può più intervenire.
L'immutabilità deriva dal fatto che le dimissioni sono un atto recettizio che si perfeziona con la sua
comunicazione, momento in cui si esaurisce la possibilità di modificare la dichiarazione”.
2 Sull’applicazione del principio dell’immutabilità dei motivi del recesso nell’ambito del licenziamento
disciplinare, si veda Cass. 22/2/08 n. 4674, in questa Rivista 2008, 641 e sgg., con nota di Bulgarini d’Elci e di
Mele, interessante anche per i richiami giurisprudenziali; Cass. 5/8/10 n. 18279, ivi 2010, 1143, con nota di
Cafiero; Cass. 19/01/11 n. 1145; Cass. 22/3/11 n. 6499, in D&G 2011, 13. La Suprema Corte ha ribadito anche di
recente tale principio con le sentenze Cass. 13/2/13 n. 3536, ivi 2013, 14, con nota di Dulio e Cass. 7/2/13 n.
2935, in Guida al diritto 2013, 14, 65.
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tema di riparto dell’onere probatorio ex art. 2697 c.c., l’esistenza dell'invocata giusta causa
di recesso.
Le conclusioni cui giunge la Corte di Cassazione con la pronuncia in commento
trovano conforto in un precedente giurisprudenziale 3, richiamata in sentenza, resa dalla
medesima Corte in una vicenda analoga a quella di specie, in cui la Suprema Corte ha
sviluppato ulteriormente le ragioni sottese ai principi sopra menzionati.
In particolare nella predetta sentenza, la Corte ha, a parere di chi scrive,
correttamente evidenziato che la disciplina extra codicistica dei licenziamenti individuali e
collettivi (L. n. 604 del 1966, L. n. 300 del 1970, L. n. 108 del 1990, L. n. 223 del 1991) ha
differenziato in maniera profonda le tipologie di risoluzione unilaterale del contratto di
lavoro a seconda che provengano dal lavoratore o dal datore di lavoro, con la
conseguenza che, alla stregua dell’attuale regolamentazione, l'assimilazione fra il recesso
datoriale e quello del prestatore è limitato, a norma dell'art. 2119 c.c., comma 1, "ai soli
effetti del preavviso"4 e non già anche agli effetti dell'osservanza di ulteriori obblighi
sostanziali e procedimentali propri dell'una ovvero dell'altra delle menzionate figure
solutorie.
Le dimissioni, che trovano la loro regolamentazione negli artt. 2118 e 2119 del c.c.
nonché nella contrattazione collettiva di settore (salvo alcune particolari fattispecie con
disciplina speciale, quali quelle per causa di matrimonio e per gravidanza), costituiscono,
osserva la Suprema Corte, atto unilaterale recettizio di esercizio di un diritto potestativo
del lavoratore, rispetto al quale il datore di lavoro (soggetto del tutto estraneo alla
fattispecie costitutiva delle dimissioni) non può che subire gli effetti tipici del negozio,
individuabili nell'estinzione del rapporto di lavoro e delle posizioni giuridiche soggettive
strettamente correlate. Da ciò consegue, ha chiarito la Suprema Corte, che la posizione
datoriale, in siffatta evenienza, è limitata a una presa d'atto (ovvero ricezione passiva)
della volontà del prestatore di lavoro porre fine al contratto, a seguito o meno del
preavviso, a nulla rilevando l'accettazione o meno del datore ovvero la sindacabilità da
parte sua delle ragioni sottostanti alla scelta, qualunque sia, dell'altro contraente.
D’altronde, queste conclusioni, a parere di chi scrive, trovano ulteriore conforto nella
circostanza che, diversamente che per il datore di lavoro, non grava sul lavoratore alcun
obbligo di specificare i motivi sottesi all’atto di recesso. L’art. 2, L. n. 604/96, reso ancora
più pregnante dall’intervento della L. n. 92/12 (meglio conosciuta come Riforma Fornero),
che stabilisce a pena di inefficacia l’obbligo di specificare i motivi (contestualmente alla
3 Si veda Cass. 11/10/06 n. 21748, cit.
4 In questo senso, Cass. 25/3/96 n. 2632, in Unico Lavoro24 online, secondo cui “la condotta del datore di
lavoro idonea a integrare la giusta causa di dimissioni non attribuisce al lavoratore gli stessi diritti previsti
per il licenziamento ingiustificato o illegittimo dalla disciplina contrattuale o dalla legge (che, con l'art. 2119,
comma 1, c.c., equipara al licenziamento le dimissioni per giusta causa solo agli effetti del preavviso), atteso
che nel caso di dimissioni, ancorché dovute a giusta causa, l'effetto risolutorio del rapporto si ricollega pur
sempre a un atto di volontà del lavoratore”. Così anche Cass. 5/2/93 n. 1434 e Cass. 10/10/84 n. 1984.
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comunicazione del recesso, e non più, come avveniva prima della predetta riforma, solo se
richiesti dal lavoratore) che hanno determinato il recesso, si riferisce, infatti,
esclusivamente al datore di lavoro e non vi è nell’ordinamento alcuna norma analoga che
imponga il medesimo obbligo al lavoratore5.
Né l’intervento da parte della menzionata riforma in tema di convalida delle
dimissioni scalfisce la correttezza dei principi sopra menzionati, sulla considerazione che
tale convalida (pensata al fine di scongiurare e, quindi, di prevenire l’abuso delle c.d.
dimissioni in bianco e/o comunque di dimissioni rese sotto la minaccia di un
licenziamento) ha il precipuo ruolo, per l’appunto, di convalidare l’atto risolutorio (e non
certamente quello di cristallizzare le motivazioni sottese allo stesso) o meglio la volontà
del lavoratore alla cessazione del rapporto mediante il compimento di un atto formale
(ossia mediante apposita dichiarazione e sottoscrizione del lavoratore posta in calce al
modulo di comunicazione obbligatoria relativo alle dimissioni) o mediante la supervisione
di un organo super partes, qual è la direzione territoriale del lavoro.
Ritornando alla fattispecie esaminata dalla pronuncia in commento, le ragioni che
hanno spinto il lavoratore a invocare la giusta causa di dimissioni potrebbero ricercarsi
nella circostanza che l’atto di recesso del dirigente sarà intervenuto oltre il 60° giorno
dall’assegnazione a mansioni di vice direttore generale, termine previsto dalla
disposizione collettiva sopra richiamata.
Diversamente non si comprendono le ragioni che avrebbero spinto il lavoratore a far
ricorso alla giusta causa, se si considera, da un lato, che quest’ultimo sarebbe stato
gravato, in termini di allegazione e dimostrazione, facendo riferimento nella lettera di
dimissioni al solo art. 16 del Ccnl applicato, di un minor onere probatorio, integrando la
disposizione collettiva non una vera e propria ipotesi di giusta causa, intendendosi per
tale, come noto, un fatto così grave da non consentire la prosecuzione nemmeno
provvisoria del rapporto di lavoro (in altri termini, nel caso in esame, la prova di un
demansionamento in violazione di quanto disposto dall’art. 2103 c.c.) 6, bensì un minus
richiedendo la disposizione collettiva la prova del “mutamento della propria attività
sostanzialmente incidente sulla sua posizione” 7, dall’altro, che il dirigente avrebbe avuto,
5 Sotto tale profilo, si veda Cass. 5/2/93, n. 1434, secondo cui il principio della necessità della contestazione
immediata, sia pure sommaria, delle ragioni poste a base del recesso per giusta causa, con la conseguente
preclusione di dedurre successivamente fatti diversi da quelli contestati, opera per il rapporto di lavoro
subordinato ma in relazione solo al recesso del datore di lavoro, mentre il recesso per giusta causa (con
conseguente diritto all'indennità per mancato preavviso) del lavoratore non è invece condizionato ad alcuna
formalità di comunicazione delle relative ragioni, sicché, a tal fine, può tenersi conto anche di comportamenti
del datore di lavoro ulteriori rispetto a quelli lamentati nell'atto di recesso. Nel medesimo senso, Cass.
10/10/84 n. 5072 e Cass. 16/5/83 n. 3368.
6 Sul punto, tra le tante, si veda Cass. 5/6/04 n. 8589, in Orientamenti 2004,315, con nota di Dui, anche per i
richiami e Cass. 11/11/05 n. 14496.
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in entrambe le ipotesi, diritto al medesimo trattamento economico, ossia al pagamento
dell’indennità sostitutiva del diritto.
Quanto al riconoscimento dell’indennità supplementare, la Suprema Corte ha
dichiarato inammissibile il quarto e ultimo motivo del ricorso, con cui la società si doleva
del fatto che l'indennità supplementare non può mai essere riconosciuta in caso di
dimissioni del dirigente, perché afferente a una questione nuova non ritualmente
compresa nel tema del decidere del giudizio di appello.
Sotto tale ultimo profilo, si rileva che se l’eccezione sollevata dalla società convenuta
fosse stata oggetto di trattazione nella precedenti fasi del giudizio di merito, senz’altro il
dirigente non avrebbe avuto diritto alla predetta indennità e ciò sulla corretta
considerazione che l’indennità supplementare di cui all’art. 19 Ccnl trova applicazione
solo nell’ipotesi di licenziamento ingiustificato, né, d’altra parte, potrebbe ipotizzarsi che il
dirigente abbia voluto riferirsi ad altro trattamento, che in alcuni contrattarti collettivi,
come quello dei dirigenti commercio, atecnicamente viene chiamato indennità
supplementare.
Rammentiamo, infatti, che il Ccnl Dirigenti Industria non prevede una previsione
analoga a quella contenuta nell’art. 35 del Ccnl Dirigenti Commercio che, viceversa, dà
diritto al dirigente, in caso di dimissioni per giusta causa, allegata e comprovata, la
corresponsione dell'indennità sostitutiva del preavviso, maggiorata di un'indennità
supplementare pari a 1/3 dell'indennità del preavviso stesso.
Prima di concludere, pare opportuno dare, a parere di chi scrive, un consiglio
pratico: vero è che non è vi è alcun obbligo per il lavoratore di indicare nella lettera di
dimissioni le motivazioni dell’atto di recesso, vero è che il lavoratore può invocare anche
in un secondo momento la giusta causa di dimissioni, ma è anche vero che qualificare
immediatamente nella comunicazione di recesso le proprie dimissioni, essendocene i
presupposti, come dimissioni per giusta causa garantisce al lavoratore il diritto di ricevere
la vecchia indennità di disoccupazione, oggi, AspI.
2. Corte di Cassazione sez. lav. 2 luglio 2013 n. 16504, pres. ed est. Stile, S.P. (avv. Nola) c.
L.M. *
Licenziamento - Datore che consente al lavoratore di svolgere l’attività lavorativa dopo
la scadenza del preavviso - Revoca tacita del licenziamento - Successivo allontanamento
di fatto - Nuovo licenziamento - Configurabilità - Inefficacia.
Il datore di lavoro che licenzi con preavviso il lavoratore e, in data successiva, consenta la
prosecuzione di fatto della prestazione lavorativa oltre il termine di preavviso, determina la
7 In punto si veda, Cass. 22/5/87 n. 4777, in Giust. civ. 1987, I, 2538; Pret. Busto Arsizio 18/3/97, in Lav. nella
Giur., 1997, 12,1029; Pret. Lodi 2/8/83, in Orientamenti 1984, 156.
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sopravvenuta revoca tacita del recesso, con conseguente inefficacia di un successivo allontanamento
di fatto dal posto di lavoro.
Si configura la revoca tacita del licenziamento nel caso di prosecuzione di fatto della prestazione
lavorativa oltre il termine di preavviso stabilito nella lettera di licenziamento
(Enrico U. M. Cafiero)
Il licenziamento, in quanto atto unilaterale recettizio, produce effetto nel momento in
cui perviene a conoscenza del destinatario secondo le regole espresse degli artt. 1334 e
1335 c.c. applicabili agli atti unilaterali in virtù dell’art. 1324 c.c.
Pertanto, una volta comunicato, l’atto espulsivo non può essere rimosso dalla realtà
dei fatti, a meno che una contraria manifestazione di volontà non gli tolga significato
prima che giunga a conoscenza della controparte.
Dalla natura unilaterale e recettizia del licenziamento deriva che la sua revoca non è
di per sé idonea a eliminare l’effetto solutorio a meno che la revoca, anch’essa atto
unilaterale recettizio, non giunga a conoscenza del destinatario prima del licenziamento
intimato. Invece, se giunta dopo il licenziamento, la revoca può valere quale nuova offerta
di lavoro volta alla ricostruzione del rapporto interrotto che richiede l’accettazione da
parte del lavoratore8.
Si ritiene, dunque, che stante la natura del licenziamento, esso non possa
unilateralmente essere revocato dal datore di lavoro, essendo perciò necessaria
l’accettazione del lavoratore per produrre l’effetto di ripristinare il rapporto di lavoro. Ne
consegue che in mancanza di accettazione l’atto revocatorio non è idoneo a rimuovere gli
effetti risolutori dell’atto di recesso.
Tuttavia, non è necessario che l’accettazione avvenga per iscritto, ammettendosi che
possa essere anche tacita, per fatti concludenti9.
Revoca e accettazione, infatti, sono atti a forma libera, che possono intervenire in
forma tacita o presunta e, quindi, risultare da un comportamento concludente,
commissivo od omissivo, che consente di ricostruire la volontà abdicativa in termini
certi10.
8 Così: S. Bosco, D. Carbone, L. Fazzini, V. Ferrari, S. Jacovacci, G. Manzoli, F.V. Ponte, E. Ravera, B. Rolando,
C. Russo, G. Russo, Il licenziamento nel rapporto di lavoro pubblico e privato, Torino 2011, p. 7.
9 Cass. 22/6/04 n. 11638, secondo cui “La revoca del licenziamento è valida soltanto se accettata dal
lavoratore, anche per fatti concludenti, non essendo sufficiente la revoca unilaterale che, in quanto tale, non è
sufficiente a ripristinare automaticamente il rapporto”.
10 Così: M. Tatarelli, Il licenziamento individuale e collettivo, Padova 2012, p. 87. In giurisprudenza: Cass. sez.
lav. 5/3/08 n. 5929, in Diritto & Giustizia 2008, secondo cui la revoca del licenziamento non richiede la forma
scritta atteso il principio per cui i negozi risolutori degli effetti di atti che richiedono - come il licenziamento la forma scritta non sono assoggettati a identici requisiti formali in ragione dell’autonomia negoziale, di cui la
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Preme rilevare, al riguardo, che secondo un recente orientamento della Suprema
Corte di Cassazione “la revoca del licenziamento determina la ricostruzione dell’originario
rapporto di lavoro a prescindere dall’accettazione del lavoratore” 11. E tanto sul
presupposto che “la revoca di un negozio ha efficacia retroattiva ripristinando la
situazione giuridica precedente”.
Ne consegue che “la revoca del licenziamento ripristina il rapporto di lavoro con
effetto dalla data del recesso, con la conseguenza che da tale data il lavoratore ha diritto
alle retribuzioni medio tempore maturate, essendo il mancato svolgimento della prestazione
lavorativa imputabile esclusivamente alla condotta datoriale e potendo la tempestiva
impugnativa del licenziamento valutarsi come implicita offerta delle energie lavorative da
parte del lavoratore” 12.
Peraltro sul tema, a spostare in gran parte i termini del problema, è intervenuta,
come è noto, la Legge Fornero con la norma di cui all'attuale comma 10, art. 18, SL,
introdotto dal comma 42, punto b), art. 1, L. 92/12 che prevede il ripristino del rapporto di
lavoro senza soluzione di continuità in ipotesi di revoca del licenziamento effettuata entro
15 giorni dalla sua impugnazione. Sul tema e sul contenuto dell'atto di revoca al fine si
producano gli effetti ripristinatori si veda Trib. Vigevano 27/3/13, in questa Rivista 2013,
184.
In ogni caso, ove intimato con preavviso, il vincolo obbligatorio giuridicamente si
estingue solo dopo la scadenza del termine concesso.
Come ben noto, infatti, il recesso è subordinato al rispetto del preavviso secondo
l’art. 2118 c.c. che pone la regola generale secondo la quale al licenziamento debba
accompagnarsi il preavviso, salvo il caso in cui sussista una giusta causa, o il datore di
lavoro decida di esonerare il lavoratore dal prestare la propria attività lavorativa durante
il periodo di preavviso, in luogo del quale verrà erogata la relativa indennità sostitutiva.
libertà di forma costituisce, in mancanza di diversa prescrizione legale, significativa espressione parimenti
libera, per le medesime ragioni, la forma dell’accettazione, da parte del lavoratore, della revoca del
licenziamento, che può avvenire anche in forma tacita o presunta, ma il relativo accertamento presuppone
una ricostruzione della volontà abdicativa, anche attraverso elementi indiziari ex art. 2729 c.c., in termini certi
e idonei a consentire di attestare, in modo univoco, la volontà del lavoratore a rinunziare a un diritto già
entrato nel suo patrimonio; conformi Cass. 5/10/07 n. 20901; Cass. 1/7/04 n. 12107.
11 Cass. 2/2/07 n. 2258.
12 Cass. 9/3/09 n. 5638.
7
La funzione del preavviso viene ravvisata nella tutela dell’altro contraente 13, esigenza
particolarmente sentita nei rapporti di durata, come appunto il rapporto di lavoro, perché
consente alla parte che subisce il recesso, nel caso di specie il lavoratore, di trovarsi
“improvvisamente privato dei beni della vita che dal posto di lavoro derivano e abbia
tempo per trovarsi altra occupazione” 14.
Ne deriva che il preavviso dovrebbe garantire al lavoratore di potersi cercare, dal
ricevimento della comunicazione di recesso allo spirare del preavviso, un’altra
occupazione.
Occorre precisare, a tal proposito, che secondo una parte della dottrina e della
giurisprudenza la ratio del preavviso non consente un uso discrezionale del termine di
scadenza formalizzato nell’intimazione, in quanto la proroga altera il meccanismo
dell’istituto e ne elude la causa, anche quando il lavoratore abbia aderito alla proposta,
con conseguente obbligo di un nuovo preavviso o di pagamento della relativa indennità.
Secondo un diverso orientamento il termine è solo relativamente indisponibile.
Pertanto le parti sono libere di prevedere un periodo di preavviso più lungo, ma anche di
prorogarlo prima della scadenza.
Da tale ultima ipotesi va tenuto distinto il caso della protrazione, in via di fatto, del
rapporto di lavoro oltre la scadenza del preavviso inizialmente fissato oppure oltre la data
indicata nell’atto di recesso che non conceda il preavviso: esso equivale, di regola, a revoca
tacita del licenziamento15.
La Suprema Corte di Cassazione, al riguardo, con la sentenza in commento, ha
stabilito che la prosecuzione di fatto del rapporto di lavoro dopo la scadenza del
preavviso, in assenza di successiva modifica per iscritto del termine di preavviso
comunicata al lavoratore, comporta l’esistenza di una revoca tacita del licenziamento.
In particolare, la Corte ha sconfessato la tesi difensiva datoriale secondo cui “il
preavviso decorrerebbe necessariamente sulla base delle disposizioni contrattuali e al di
fuori di un'espressa previsione nella lettera di recesso”.
Dalla pronuncia in esame emerge, infatti, che la concessione del periodo di preavviso
non si pone come effetto direttamente derivante dalla legge, ma deve essere
espressamente indicato dalla parte recedente nell’atto di recesso.
Ne deriva da tanto che, in mancanza di un'espressa previsione e indicazione nel
suddetto atto, la prosecuzione di fatto della prestazione lavorativa in data successiva al
13 Così: S. Bosco, D. Carbone, L. Fazzini, V. Ferrari, S. Jacovacci, G. Manzoli, F.V. Ponte, E. Ravera, B.
Rolando, C. Russo, G. Russo, Il licenziamento nel rapporto di lavoro pubblico e privato, cit. p. 141 e 142; G.
Gabrielli, F. Padovini, “Recesso”, in Enc. Dir., XXXIX, Milano 1988, p. 31.
14 Cass. 21/5/07 n. 11740. In dottrina M. Franzoni, “Degli effetti del contratto”, in Commentario del Codice
Civile, a cura di P. Schlesinger, Milano 1998, p. 368.
15 Così: M. Tatarelli, Il licenziamento individuale e collettivo, cit., p. 305 sgg.
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licenziamento costituisce valido elemento dal quale ricavare la sopravvenuta revoca tacita
del recesso.
La giurisprudenza di legittimità ha più volte affrontato l’argomento affermando che
“è infondata, in diritto, la prospettazione di un preavviso che decorrerebbe
automaticamente sulla base delle disposizioni contrattuali e al di fuori di un'espressa
previsione nella lettera di recesso”16 .
Occorre evidenziare, altresì, che, conformandosi al precedente orientamento
maggioritario della giurisprudenza la Corte, nel caso in esame, ha ulteriormente precisato
che la prosecuzione dello svolgimento delle prestazioni lavorative da parte del
dipendente, oltre la data di scadenza del preavviso fissata con la comunicazione del
licenziamento, costituisce, in relazione al comportamento delle parti del rapporto di
lavoro, una manifestazione di volontà di revoca tacita del licenziamento già intimato 17.
E infatti, l’iniziale dichiarazione di recesso sarebbe obiettivamente incompatibile con
la successiva protrazione dell’attività lavorativa, non potendo configurarsi una facoltà
della parte recedente di determinare il momento di produzione degli effetti del recesso in
data diversa da quella già indicata con l’atto negoziale perfezionatosi con la
comunicazione del lavoratore.
Al riguardo, anche la giurisprudenza di merito, con riferimento a una fattispecie in
cui il rapporto di lavoro era proseguito per altri sei mesi, al termine dei quali il lavoratore
era stato allontanato dal lavoro, ha precisato che in tal caso si configura un licenziamento
verbale18.
Tale conclusione si fonda sul presupposto che: a) la natura tendenzialmente stabile
del rapporto di lavoro non consente la prosecuzione a tempo indefinito del periodo di
preavviso dopo la scadenza fissata, dal momento che il dipendente si troverebbe esposto a
essere allontanato dal lavoro in qualsiasi momento, nonostante che la prosecuzione del
rapporto oltre la scadenza potrebbe indurlo a ritenere cessata l’efficacia della prima
comunicazione e, quindi, a non impugnarla nei termini di decadenza; b) l’eventuale
circostanza di una proroga conseguente a un accordo individuale deve essere
tempestivamente dedotta e dimostrata da chi la eccepisce; c) la proroga del preavviso
lavorato deve essere, per ragioni di certezza, a tempo determinato e giammai collegata a
una potestà rimessa all’arbitrio.
Pertanto, la sentenza in commento, in linea con l’orientamento prevalente della
giurisprudenza, ha contribuito a chiarire due importanti aspetti.
16 Cass. 3/6/03 n. 9973, espressamente richiamata nella sentenza in commento.
17 Conf. Cass. sez. lav. 29/10/13 n. 24336; Cass. sez. lav. 28/10/97 n. 10624.
18 Trib. Napoli 8/9/94, in questa Rivista 1995, 201; M. Tatarelli, op. cit., p. 306, sgg.
9
Il primo che, in materia di licenziamento del lavoratore subordinato, il criterio da
applicare, con riferimento alla concessione del periodo di preavviso, è quello della volontà
delle parti, desumibile e applicabile a prescindere dal Ccnl di categoria.
Il secondo aspetto che emerge dalla pronuncia in esame è che il permettere la
prosecuzione del rapporto di lavoro oltre il termine stabilito nella lettera di licenziamento
configura di regola una revoca tacita del licenziamento.
Pertanto, un successivo allontanamento dal posto di lavoro, avendo il datore fatto
svolgere attività lavorativa e accettato la medesima prestazione anche dopo il periodo di
preavviso, costituisce un nuovo licenziamento, peraltro inefficace in quanto privo della
necessaria e indefettibile forma scritta.
In particolare, nel caso in esame, a seguito dell’allontanamento di fatto operato dal
datore di lavoro, il nuovo licenziamento è stato intimato in forma orale, pertanto è
tamquam non esset, ovvero assolutamente inidoneo a produrre il normale effetto estintivo e
a incidere sulla continuatività giuridica del rapporto.
3. Corte di Cassazione sez. lav. 2 luglio 2013 n. 16507, pres. Stile, est. Napoletano, P.A. (avv.
Rizzo) c. Poste Italiane Spa (avv. Fiorillo).
Lavoratore in aspettativa - Assenza ingiustificata per mancato rientro al termine del
periodo di aspettativa - Risoluzione del rapporto di lavoro per dimissioni ai sensi degli
artt. 34 e 75 del Ccnl del 2003 - Inapplicabilità - Nullità del licenziamento.
Il ritardato rientro al lavoro dopo il periodo di aspettativa, previsto dalle norme del contratto quale
motivo della risoluzione del rapporto di lavoro per dimissioni, non assume il significato e l’efficacia
dell’atto unilaterale di recesso, né possono le parti, individuali o collettive, attribuire a determinati
comportamenti del lavoratore il valore e il significato negoziale di manifestazione per facta
concludentia di rassegnare le dimissioni. Pertanto è da considerarsi nulla la clausola contrattuale
che introduce una causa di risoluzione del rapporto di lavoro non prevista dalla legge.
Sulla nullità del licenziamento del lavoratore in conseguenza del mancato rientro al lavoro dopo un
periodo di aspettativa (Valeria Negre)
Nel campo del lavoro le più frequenti forme di risoluzione o estinzione del rapporto
di lavoro sono il recesso del datore di lavoro (licenziamento), il recesso del lavoratore
(dimissioni), la risoluzione consensuale 19, per la quale è necessaria un'esplicita volontà
19 Così M. Tatarelli, Il licenziamento individuale e collettivo, Padova 2012, p. 307: “A proposito della risoluzione
consensuale, può essere utile ricordare che: a) la particolare disciplina stabilita in materia di rapporto di
lavoro dagli artt. 2118-2119 c.c., non esclude che siano valide e operative tutte quelle manifestazioni bilaterali
10
risolutiva, nonché la risoluzione alla scadenza del termine nei contratti a tempo
determinato.
Particolari circostanze di fatto che portano alla risoluzione del contratto sono
specificatamente previste inoltre in alcune disposizioni di legge, quali ad esempio: il
mancato ritorno in azienda del lavoratore dopo il servizio militare; il superamento del c.d.
periodo di comporto; la morte del lavoratore. Previsioni e cause tutte contenute negli artt.
2113, 2118, 2119, 2965 del codice civile e nelle Leggi n. 604/66, n. 300/70 e n. 108/90.
Tanto premesso, è indubbio che il mancato rientro al lavoro di un lavoratore dopo un
periodo di aspettativa vada inquadrato in un contesto di gravissimo inadempimento degli
obblighi contrattuali, comportamento passibile di licenziamento per giusta causa.
Il problema è però posto dalle clausole di alcuni contratti nazionali di categoria i
quali hanno introdotto la previsione delle implicite dimissioni del lavoratore nel caso di
mancato rientro al lavoro dopo un periodo di aspettativa.
Nel caso di fattispecie, la Corte di Cassazione interviene in riferimento all’art. 34 del
Ccnl 2003 dell’Ente Poste Italiane là dove prevede che “Il lavoratore che al termine dei
periodi di aspettativa di cui al presente articolo non riprenda servizio senza giustificato
motivo sarà considerato dimissionario”.
In base a tale norma contrattuale l’Ente Poste Italiane aveva infatti comunicato a un
lavoratore la risoluzione del contratto a motivo del mancato rientro al lavoro al termine
del periodo di aspettativa, e ciò ai sensi e per gli effetti del citato art. 34 del Ccnl del 2003 e
senza alcuna previa procedura di contestazione disciplinare.
La Corte di Appello di Roma, confermando la sentenza di primo grado, aveva
rigettato la domanda del lavoratore di impugnazione del recesso, mettendo in rilievo tra
l’altro che “trattandosi di rapporto il cui sinallagma era sospeso per aspettativa, non
poteva l’assenza ingiustificata equipararsi a un comportamento disciplinarmente rilevante
con conseguenza dell’inapplicabilità dell’art. 7 della legge n. 300 del 1970” e pertanto non
poteva considerarsi possibile e dovuto il preliminare addebito disciplinare a carico del
lavoratore. La Corte d'Appello aveva quindi concluso nel senso che “il comportamento del
lavoratore tenuto al termine dell’aspettativa ben poteva essere valutato dalle parti sociali
quale comportamento concludente della volontà di non riprendere servizio”.
dell’autonomia negoziale che danno luogo alla fattispecie della risoluzione consensuale del rapporto per
mutuo dissenso ai sensi dell’art. 1372 c.c. (Cass. 9/2/93 n. 1431); b) la risoluzione consensuale può essere
desunta anche da comportamenti concludenti delle parti, a nulla rilevando che la legge o il contratto
collettivo prescrivano la forma scritta ad substantiam per il licenziamento e le dimissioni (Cass. 1/2/89 n. 617;
Cass. 29/3/95 n. 3753) o per la costituzione del rapporto (Cass. 14/5/96 n. 4471); c) alla risoluzione consensuale
non è applicabile la disciplina di cui all’art. 2113 c.c., rientrando il diritto al posto di lavoro tra i diritti
disponibili (Cass. 28/11/92 n. 12745; Cass. 11/2/1998 n. 67); d) particolarmente rigorosa deve essere la prova
sull’effettivo tenore e sulla portata della manifestazione di volontà del lavoratore, quando il datore di lavoro
intende dimostrare l’esistenza di un contratto risolutorio e non di semplici dimissioni, al fine di escludere
l’applicabilità della norma del contratto collettivo sulla necessità della forma scritta per le dimissioni: Cass.
15/11/01 n. 14217. Il comma 17 dell’art. 4 della Legge Fornero ha sottoposto la risoluzione consensuale del
rapporto alla condizioni sospensiva della convalida, come per le dimissioni.”
11
In merito va rilevato che la giurisprudenza della Suprema Corte ha evidenziato due
distinti orientamenti nel tempo. Il primo è stato espresso dalla sentenza del 10/6/98 n.
577620, affermando che le parti, anche mediante clausole di accordi collettivi, possono
definire e sanzionare con il licenziamento il comportamento del dipendente in
conseguenza del rifiuto del trasferimento o dell’assenza prolungata e non giustificata oltre
i tre giorni. Ciò perché “quando esiste una norma della contrattazione collettiva, di cui
non è stata messa in dubbio la validità, che ravvisa nell'assenza prolungata oltre i tre
giorni senza giustificazione un caso di dimissioni, è evidente che l'assenza medesima
assume, per volontà delle parti, il significato attribuitole di dimissioni, in quanto
considerata espressione, da parte del lavoratore, della volontà di recedere dal rapporto,
per convenzionale, esplicita disposizione in tali sensi delle parti, che ravvisa le dimissioni
come intervenute per facta concludentia".
Di orientamento contrario era stata, però, la precedente sentenza n. 2605 del 12/3/87 21
secondo cui “il recesso dal rapporto di lavoro a tempo indeterminato può attuarsi
unicamente nella duplice forma del licenziamento intimato dal datore di lavoro ovvero
delle dimissioni rassegnate dal lavoratore”. La Corte aveva rilevato, inoltre, che “mentre è
possibile che le parti contraenti, collettive o individuali, assegnino a determinati
comportamenti di uno dei soggetti del rapporto il significato e l’efficacia dell’atto
unilaterale di recesso e, in particolare per il lavoratore, delle dimissioni, deve invece
escludersi la possibilità di introdurre un terzo genere di recesso con la previsione di un
comportamento, giudicato significativo dell’intenzione di recedere, che sia svincolato
dall’effettiva volontà della parte e che non ammetta la possibilità di prova contraria,
giacché in tal caso il patto costituirebbe in realtà un’inammissibile e invalida clausola
risolutiva espressa del rapporto”.
Su tale fronte interpretativo si colloca anche la successiva sentenza della Suprema
Corte n. 12942 del 22/11/99 22 che riformando la sentenza del Tribunale di Messina ha
lamentato la mancata distinzione dei due differenti concetti: di assenza ingiustificata e di
dimissioni. Essi differiscono, ha affermato la Corte, “in quanto il primo, cioè l'assenza
ingiustificata, può integrare una mancanza tale da provocare il licenziamento, ma, proprio
per questo, non basta da solo a sciogliere il rapporto di lavoro. Detto scioglimento, infatti,
necessita dell'atto ulteriore, proveniente dal datore di lavoro, del licenziamento, a sua
volta eventualmente preceduto, se del caso, dalla procedura di cui all'art. 7 SL. Le
dimissioni, invece, sono la manifestazione di volontà, espressa o per facta concludentia,
diretta allo scioglimento del rapporto e proveniente dal lavoratore, il quale esprime, senza
possibilità di equivoco, l'intendimento di por fine al rapporto di lavoro”. In ciò
20 Citata in sentenza.
21 Citata in sentenza.
22 Citata in sentenza. Conf. Cass. 12/3/87 n. 2605, in Giur. it. 1988, I, 1221, con osservazioni di M.
Buoncristiano.
12
richiamando l’orientamento espresso dalla stessa Corte di Cassazione con la sentenza
27/10/95 n. 1115823.
In conseguenza di tale differente valutazione dei fatti la Corte aveva concluso
affermando che “le parti collettive non possono introdurre nuove norme in tema di
licenziamenti, posto che per legge il rapporto di lavoro può estinguersi solo per le cause a
tal fine previste dalla legge e non è dato alle parti introdurre altre cause di estinzione del
rapporto”. Se così non fosse, ha affermato la Corte, “tutta la disciplina legislativa limitativa
dei licenziamenti, che ha progressivamente allontanato il rapporto di lavoro dagli ordinari
principi sull'estinzione dei rapporti obbligatori, sarebbe inutiliter data”.
Sulla scorta di tali pronunce la sentenza in commento, rilevando un risalente
contrasto nella giurisprudenza di legittimità dovuto alle citate sentenze n. 2605/87 e n.
5776/98 ha ritenuto dare continuità all’orientamento espresso nella seconda delle due
sentenze, peraltro confermato nella sentenza n. 12942/99.
In sostanza la Corte ha confermato il principio secondo cui non è consentito alle parti
sociali introdurre nei Ccnl norme che attribuiscono ai comportamenti del lavoratore il
valore e il significato di manifestazione implicita o per facta concludentia della volontà di
dimettersi e in conseguenza negare ogni possibilità di prova contraria, ciò perché nel
nostro ordinamento giuridico sono previste cause tassative di estinzione del rapporto e
non è permesso alle parti introdurne altre.
Se così non fosse - ha commentato la Corte - “si dovrebbe ipotizzare la previsione da
parte della contrattazione collettiva di una presunzione assoluta che confliggerebbe con la
natura stessa della nozione di dimissioni per facta concludentia”.
Al fondo vi è naturalmente l’analisi fattuale di riconducibilità della fattispecie ai due
differenti concetti di assenza ingiustificata e di dimissioni, riconoscendo di fatto l’ipotesi
quale recesso per giusta causa, perciò sanzionabile solo dopo idoneo procedimento
disciplinare secondo i termini e le modalità di cui all’art. 7 della L. 20/5/70 n. 300.
E in questo la Corte ha riconfermato l’orientamento espresso con la più recente
sentenza n. 19418 del 6/10/0524 secondo cui “l'ingiustificata e prolungata assenza dal lavoro
configura un'ipotesi tipica di giusta causa di licenziamento” e che pertanto “può essere
assunta, in sede di contrattazione collettiva o individuale del rapporto di lavoro privato,
quale causa di scioglimento del rapporto di lavoro”. Ma tale effetto non può tuttavia
realizzarsi automaticamente se non considerando l’assenza quale sanzione disciplinare
necessariamente preceduta delle garanzie procedimentali previste dall’art. 7 dello Statuto
dei Lavoratori.
4. Corte di Cassazione sez. lav. 10 luglio 2013 n. 17122, pres. Stile, est. Tria, F.V. c. C. Snc.
23 In Riv. Giur. Lav. 1996, II, 39 con nota di Barbanti.
24 Citata in sentenza.
13
Processo del lavoro - Ricorso introduttivo - Nullità - Criteri di valutazione.
Licenziamento in area tutela obbligatoria - Vizio ex art. 2 L. 604/66 - Omessa
specificazione dei motivi - Inefficacia - Continuità del rapporto - Conseguenze Risarcimento del danno - Criteri.
Nel rito del lavoro, ai fini dell'esame della ritualità del ricorso introduttivo del giudizio, il giudice
del merito è chiamato a effettuare l'individuazione del petitum, sotto il profilo sostanziale e
processuale, attraverso l'esame complessivo dell'atto. Tale operazione - che deve compiersi anche
d'ufficio e anche in grado di appello - va distinta da quella relativa alla rilevazione di eventuali
carenze riguardanti elementi che il ricorrente ha l'onere di dedurre e provare per sostenere la
fondatezza della propria domanda, cioè di elementi da configurare come mezzi di prova, la cui
omessa specificazione non comporta la nullità del ricorso introduttivo, bensì la decadenza dalla
possibilità di successiva deduzione delle prove nel corso del processo, salva la possibilità di ricorrere
all'esercizio dei poteri d'ufficio del giudice.
Nei rapporti sottratti al regime della tutela reale il licenziamento affetto da uno dei vizi formali di
cui alla L. 15/7/66 n. 604, art. 2, come modificato dalla L. 11/5/90 n. 108, art. 2, non produce effetti
sulla continuità del rapporto, senza che possa distinguersi tra i diversi vizi formali e, in particolare,
tra mancanza di forma scritta e mancata comunicazione dei motivi di recesso, richiesta dal
lavoratore. Pertanto, in ipotesi di licenziamento viziato per la mancata comunicazione dei motivi
del recesso richiesti dal lavoratore - non applicandosi la disciplina sanzionatoria dettata dalla L.
15/7/66 n. 604, art. 8 (propria della diversa ipotesi di licenziamento privo di giusta causa o
giustificato motivo), ma, comunque, vertendosi in tema di contratto a prestazioni corrispettive l'inidoneità del licenziamento a incidere sulla continuità del rapporto di lavoro non comporta il
diritto del lavoratore alla corresponsione delle retribuzioni maturate dal giorno del licenziamento
inefficace, bensì solo il risarcimento del danno da determinare secondo le regole in materia di
inadempimento delle obbligazioni, eventualmente facendosi riferimento anche alle mancate
retribuzioni, ma nella suddetta ottica. Inoltre, nell'ipotesi considerata, da un lato, non è necessaria per dare rilievo, ai fini risarcitori, alla perdita delle retribuzioni conseguente al licenziamento - la
costituzione in mora del datore di lavoro (mediante l'offerta formale delle prestazioni, pur
occorrendo che il lavoratore non abbia tenuto una condotta incompatibile con la reale volontà di
proseguire il rapporto e di mettere a disposizione del datore le proprie prestazioni lavorative) e
d'altra parte, nella valutazione dell'imputabilità dell'inadempimento al datore di lavoro deve
tenersi conto dell'intervenuta intimazione al lavoratore di un nuovo licenziamento, successivo alla
sentenza di primo grado favorevole al lavoratore, effettuata, ancora una volta, in totale violazione
della citata L. n. 604/66, art. 2.
In tema di nullità del ricorso introduttivo e di conseguenze del licenziamento (pre-riforma Fornero)
in ambito di tutela obbligatoria disposto in violazione dell'art. 2 della L. 604/66 (Ivan Turco)
Con la sentenza in commento la Corte di Cassazione esplicita, richiamandoli
espressamente, gli approdi giurisprudenziali sia in tema di nullità del ricorso introduttivo
14
del giudizio sia in tema di conseguenze connesse alle violazioni formali nel licenziamento
ex art. 2, L. 604/66, per fatti che trovano la loro regolamentazione nelle disposizioni
precedenti l'entrata in vigore della riforma Fornero.
La pronuncia si caratterizza più che per la novità per la puntuale ricostruzione della
giurisprudenza con indicazioni e richiami alle precedenti pronunce della stessa Corte che
costituiscono ormai un orientamento consolidato e alle quali si deve rinviare.
In ordine alla prima questione trattata nella sentenza in commento (criteri di giudizio
in ordine alla nullità del ricorso introduttivo) la Cassazione parte dalla condivisibile e
doverosa premessa logica che il momento della valutazione in ordine alla validità degli
atti, nella specie si trattava di un ricorso introdutto del giudizio, deve essere scisso da
quello dell'accoglibilità delle domande negli stessi contenute.
E invero le due valutazioni attengono a momenti, e sono disciplinati da disposizioni
normative, differenti.
Il primo, anche in ordine logico, momento attiene alla valutazione sulla nullità
dell'atto che ai sensi dell'art. 414 c.p.c. deve contenere una serie di elementi, in fatto e in
diritto.
Ma non tutti gli elementi indicati nell'art. 414 sono previsti a pena di nullità.
Così nell'ottica e in applicazione delle garanzie previste dagli artt. 24 e 111 Cost. la
valutazione circa i requisiti formali e sostanziali del ricorso introduttivo ex art. 414 c.p.c.
deve essere effettuata in termini sostanziali e non meramente formali o, peggio,
formalistici e, quindi, la nullità non può essere dichiarata se nel ricorso sono individuabili
alcuni elementi, integrabili anche aliunde, che consentano, nel loro complesso,
l'individuazione del petitum e della causa petendi e in ogni caso non violino il diritto di
difesa del convenuto.
In dettaglio la Corte ritiene, nell'opera di ricostruzione delle diverse e più ricorrenti
ipotesi, doversi escludere, in tema di ricorso per differenze retributive, la pronuncia di
nullità se nel ricorso introduttivo sia rinvenibile la deduzione circa l'intervallo termporale
entro cui è contenuto il rapporto di lavoro, l'orario di lavoro, l'inquadramento e la
complessiva somma richiesta con l'indicazione dei titoli, rimanendo irrilevante l'eventuale
mancanza di allegazione o notificazione dei conteggi; la mera deduzione dei titoli in base
ai quali si chiedono le differenze anche in assenza dell'esatta quantificazione della
domanda in termini monetari purché le causali siano univocamente riferibili a una
determinata fattispecie contrattuale. Il riferimento contenuto nel ricorso a elementi allo
stesso estranei ma esplicitamente richiamati e depositati, in particolare se di natura
tecnica, esclude altresì la possiblità di una pronuncia di nullità.
Ancora in sede di appello deve essere tenuta in considerazione la circostanza
dell'avvenuta istruttoria in primo grado con la conseguente concreta possibilità di
decisione nel merito.
Tiene a precisare la Corte che gli elementi indicati nell'art. 414, n. 5, c.p.c., non
attengono e non rilevano ai fini del giudizio in ordine alla nullità del ricorso ma al merito e
alla fondatezza della domanda.
15
Così l'omessa "indicazione specifica dei mezzi di prova di cui il ricorrente intende
avvalersi e in particolare dei documenti che si offrono in comunicazione", non potrà mai
sfociare in una pronuncia sulla nullità del ricorso ma, fatti salvi i poteri istruttori del
giudice ex art. 421 e 437 c.p.c., influirà sulla decisione di merito e quindi sull'accoglibilità o
meno del ricorso per mancata o insufficiente prova dei fatti posti a base della domanda.
Infatti la lettura congiunta degli artt. 414 e 416 c.p.c. impone di considerare operante,
anche per il ricorrente, la preclusione istruttoria esplicitamente prevista per il convenuto
con la conseguenza che un'omessa ovvero insufficiente indicazione/richiesta dei mezzi
istruttori non potrà influire sulla validità dell'atto ma solo sulla fondatezza della
domanda.
La pronuncia, poi, prende in considerazione gli effetti del licenziamento, effettuato
da un datore di lavoro non rientrante, per motivi dimensionali, nell'ambito di applicazione
dell'art. 18 SL (nella formulazione precedente la riforma Fornero), carente dal punto di
vista formale in quanto non rispondente al dettato di cui all'art. 2 L. 604/66.
Prendendo le mosse dalla sentenza delle Sezioni unite del 1999 n. 508 la pronuncia in
commento, sul presupposto che il regime sanzionatorio previsto dall'art. 8 L. 604/66, cd.
tutela obbligatoria, si applica solo ai licenziamenti illegittimi in quanto privi di giusta
causa e/o giustificato motivo, ribadisce che il licenziamento non rispondente alle
disposizioni di cui all'art. 2, L. 604/66, deve considerarsi inefficace con la conseguenza che
l'effetto risolutivo del rapporto di lavoro non si produrrà con la necessitata conseguenza
della prosecuzione del rapporto di lavoro.
Tuttavia, trattandosi di contratto a prestazioni corrispettive la Corte esclude che il
lavoratore abbia diritto a vedersi corrisposte la retribuzioni, ma gli riconosce il diritto al
risarcimento del danno.
La Corte, ancora, in primo luogo nega qualsiasi rilievo, quanto alle conseguenze, alla
violazione del primo ovvero del secondo comma dell'art. 2 L. 604/66 in quanto il terzo
comma equipara inequivocabilmente le conseguenze sanzionatorie per il mancato rispetto
dei richiamati commi prevedendo per entrambe le ipotesi la sanzione dell'inefficacia.
Il datore di lavoro che intimi un licenziamento in violazione della disposizione di cui
all'art. 2 L. 604/66 (sia che l'abbia fatto in forma orale ovvero che abbia, se
tempestivamente richiesto, omesso di comunicare i motivi dello stesso licenziamento
ovvero li abbia comunicati in ritardo) e che rifiuti di conseguenza la prestazione lavorativa
si trova quindi in una situazione di mora credendi con la conseguenza che egli sarà tenuto al
risarcimento del danno per inadempimento contrattuale.
La Corte nel ricostruire il consolidato orientamento giurisprudenziale afferma la non
necessità della formale costituzione in mora con formule sacramentali purché il lavoratore
in alternativa all'offerta formale abbia almeno avuto un comportamento non incompatibile
con la reale volontà di proseguire il rapporto di lavoro e specifica che il risarcimento del
danno dovrà essere parametrato alle retribuzioni non percepite detratto comunque
l'aliunde perceptum il cui onere probatorio rimane a carico del datore di lavoro.
16
5. Corte di Cassazione sez. lav. 7 agosto 2013 n. 18810, pres. Vidiri, est. Blasutto, Belle
Epoque Srl in liquidazione (avv. Mozzi, Cappelleri) c. Abbà (avv. Gliozzi).
Lavoratrice madre - Licenziamento per cessata attività dell'unità locale - Inapplicabilità
dell'ipotesi di deroga della “cessazione dell'attività dell'azienda” al divieto di
licenziamento ex art. 54, D.Lgs. n. 151/01 - Nullità del licenziamento.
La deroga al divieto di licenziamento della lavoratrice madre riferita all'ipotesi di “cessazione
dell'attività dell'azienda” è insuscettibile di interpretazione estensiva e analogica e pertanto non si
applica al recesso intimato per soppressione del ramo o del reparto cui la lavoratrice è addetta,
seppure dotato di autonomia funzionale, con conseguente nullità del provvedimento per violazione
dell'art. 54, D. Lgs. 26/3/01 n. 151.
La deroga al divieto di licenziamento della lavoratrice madre per cessata attività non ammette
deroghe (Ferdinando Perone)
In tema di divieto di licenziamento della lavoratrice madre, come sancito dall’art. 54
del D. Lgs. 26/3/01 n. 151, che come è noto impedisce la risoluzione del rapporto dall’inizio
della gestazione fino al compimento del primo anno di vita del bambino se non in quattro
ipotesi di deroga espressamente previste dalla legge (colpa grave-cessazione totale
dell’attività-scadenza del termine-periodo di prova), l'esimente della cessata attività è stata
nel tempo oggetto di due diversi orientamenti interpretativi.
Il primo, coltivato soprattutto dai giudici di merito (e plurimis, Trib. Milano
12/12/2000, in Lavoro nella giur. 2001, 798), ne ha sempre affermato il carattere assoluto e
intangibile, ritenendo sulla scorta del tenore letterale della norma nonché del rilievo che
solo per la sospensione dal lavoro il legislatore contemplava l'ipotesi di sospensione del
reparto, che per “cessazione dell'attività dell'azienda” si doveva intendere la cessazione
dell'attività dell'intera azienda, vale a dire dell'azienda considerata nel suo unitario
complesso, sicché la cessazione di una qualsiasi sua articolazione non poteva in alcun
modo derogare al divieto di licenziamento della lavoratrice madre che vi fosse addetta, a
prescindere dal grado di autonomia del ramo o reparto o unità locale interessata.
La prevalente giurisprudenza di legittimità sembrava al contrario essersi attestata su
una lettura della norma meno restrittiva (e plurimis, Cass. 16/02/07 n. 3620, in questa
Rivista 2007, 497, con nota del sottoscritto), che ammetteva l'estensibilità dell'esimente
anche alla ristretta ipotesi di cessazione del ramo o reparto in cui la lavoratrice madre
operava, seppure a condizione che la singola unità produttiva fosse formalmente e
strutturalmente autonoma e che non sussistesse nessuna possibilità di riutilizzare la
lavoratrice preso un diverso reparto o una diversa struttura aziendale, anche con
riferimento a sedi ubicate al di fuori del territorio di provenienza.
Ora la Suprema Corte modifica, a nostro avviso correttamente, siffatto orientamento
di legittimità sul punto controverso, adeguando l'esegesi della norma all'impostazione più
17
restrittiva, come detto pressoché concorde nella giurisprudenza di merito ma già
enunciata anche in sede normofilattica.
Sul punto viene espressamente citata la sentenza n. 1334 del 1992, che aveva per
l'appunto già escluso l'applicabilità della deroga in parola al caso di cessazione di un
reparto autonomo, sul rilievo, che pare francamente difficile contraddire, che le ipotesi
derogatorie al generale divieto di licenziamento della lavoratrice madre non possono che
esaurire in sé lo spettro di efficacia dell'esimente e dunque non possono sopportare un
ulteriore assottigliamento di senso da parte dell'interprete, anche in quanto non esplicitato
dal legislatore.
Va in fine sottolineato, a definitiva conferma della solidità esegetica della pronuncia,
che l'orientamento meno rigoroso si era formato esclusivamente con riferimento a
fattispecie disciplinate dalla L. 30/12/71 n. 1204, che non contemplava l'ulteriore divieto di
collocamento in mobilità della lavoratrice madre salva la cessazione dell'azienda,
introdotto solo con l'entrata in vigore del D. Lgs. n. 151/01, al quarto comma dell'art. 54.
Tale specificazione, anche in quanto significativamente collocata dal legislatore del
2001 dopo la previsione relativa all'ipotesi di mera sospensione dell'attività, che
l'interpretazione dismessa utilizzava a contrario per ammettere la deroga in riferimento al
reparto, sembra in effetti avere definitivamente esaurito la sostenibilità argomentativa
dell'interpretazione meno restrittiva nell'ambito dell'attuale disciplina di legge, sicché la
deroga al divieto di licenziamento della lavoratrice madre per cessazione di attività dovrà
d'ora in avanti operare solo con riferimento all'ipotesi di totale dismissione dell'impresa.
I
6. Corte di Cassazione sez. lav. 4 giugno 2013 n. 14016, pres. Vidiri, est. Napoletano.
Lavoro autonomo - Contratto d'opera intellettuale a tempo determinato - Diritto di
recesso ad nutum da parte del committente ex art. 2337, 1° comma, c.c. - Esclusione.
Nel contratto di prestazione d'opera intellettuale la facoltà di recedere ad nutum riconosciuta al
committente dall'art. 2337, 1° comma, c.c. non ha carattere inderogabile e può essere limitata
convenzionalmente dalle parti attraverso la previsione di una durata predeterminata del rapporto
contrattuale.
II
7. Tribunale Milano 28 ottobre 2013, est. Cuomo, Volpati (avv. Scorcelli, Huge e Iurlano) c.
Cooperativa Edile Muratori Italia a r.l. (avv. Rispoli, Raffaelli e Santamaria).
18
Lavoro autonomo - Contratto di collaborazione continuativa a tempo determinato Recesso unilaterale del committente per sopravvenuta carenza di attività - Esclusione Risarcimento del danno - Sussistenza - Figura della cd. presupposizione - Irrilevanza Fattispecie.
Nel contratto di collaborazione continuativa l'apposizione di un termine è sufficiente a integrare la
deroga pattizia alla facoltà di recesso ad nutum del committente, con conseguente condanna del
recedente al risarcimento del danno commisurato ai compensi spettanti sino al naturale termine
contrattuale (nella fattispecie è stata esclusa l'invocabilità da parte del committente della figura
della cd. presupposizione in base alla quale il contratto sarebbe stato stipulato in considerazione
esclusiva di un'attività lavorativa successivamente venuta meno). 25
8. Tribunale Firenze 12 novembre 2013, est. Rizzo, Angotta (avv. Cardone, Russo e Conte)
c. Trenitalia Spa (avv. Cioppi).
Licenziamento - Giustificato motivo oggettivo - Dirigente - Ridenominazione della
struttura di appartenenza - Rimozione dall’incarico - Licenziamento motivato da
impossibilità di reimpiego - Riconduzione del recesso a soppressione del posto nella
successiva difesa giudiziale - Violazione del principio di cristallizzazione dei motivi
del licenziamento - Illegittimità del recesso - Sussiste.
Dirigente - Pressioni datoriali per ottenere dimissioni e rinuncia a diritti derivanti dal
rapporto di lavoro - Rifiuto - Successivo licenziamento - Carattere ritorsivo Configurabilità - Nullità del recesso - Sussiste.
Dirigente - Rimozione dall’incarico - Svuotamento totale di mansioni - Vessazioni e
molestie - Minaccia di licenziamento - Violenza morale - Violazione dell’art. 2087 c.c. e
dei principi di buona fede e correttezza - Diritto al risarcimento del danno non
patrimoniale - Sussiste.
Qualora la lettera di licenziamento, che ne cristallizza i motivi, indichi ragioni diverse da quelle
successivamente dedotte in giudizio dalla difesa del datore di lavoro si configura una mancanza del
nesso causale che determina l’illegittimità dell’atto di recesso.
Il licenziamento irrogato per non avere il dirigente accettato di rinunciare ai diritti conseguenti
all’illegittima condotta dell’azienda si qualifica come ritorsivo e discriminatorio, con conseguente
nullità dello stesso e tutela reintegratoria.
25 Le due decisioni confermano un orientamento ormai consolidato, secondo il quale l'apposizione di un
termine alla durata di un contratto di collaborazione intellettuale determina deroga pattizia alla facoltà del
cliente-committente di recedere ad nutum.Cas s. 14016/13 è pubblicata anche in Mass. Giur. Lav. 2013, 10, 726,
con nota di Cassar. L'orientamento è correttamente riportato in entrambe le decisioni alle quali si rimanda il
lettore, segnalando la sentenza del Tribunale di Milano anche nella parte in cui respinge, con dovizia di
argomentazioni, l'eccezione della convenuta basata sulla cd. presupposizione contrattuale.
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La sottoposizione del dirigente a vessazioni protratte dal datore di lavoro (quali: sostituzione
nell’incarico ricoperto, mancata attribuzione di compiti, plurime offerte di incarichi revocate
ingiustificatamente una volta accettate dal lavoratore, violenza morale consistente nella minaccia di
licenziamento in caso di mancata rinuncia a diritti nascenti dalla legge e dal contratto) si pone in
contrasto con l’art. 2087 c.c. nonché coi principi di buona fede e correttezza, giustificando il
risarcimento del danno non patrimoniale che sia dedotto e dimostrato dal lavoratore; quest’ultimo,
pur senza duplicazioni di poste, deve essere determinato con riferimento alle particolari sofferenze
morali subite dal lavoratore.
Violenza morale e licenziamento ritorsivo: un caso di reintegrazione della dirigente nel posto di
lavoro (Yara Serafini)
La complessa vicenda sottesa alla sentenza in commento offre plurimi spunti di
approfondimento. La lavoratrice in questione è una dirigente della società Trenitalia con
responsabilità della struttura delle vendite internazionali che, dopo anni di impeccabile
attività, caratterizzata da valutazioni aziendali in termini di “eccellenza”, viene
improvvisamente destituita del ruolo ricoperto in virtù di un ordine di servizio aziendale
del gennaio 2010. Il licenziamento giunge nel maggio dello stesso anno, circa quattro mesi
dopo la rimozione della lavoratrice dal settore di cui era responsabile; in tale lasso di
tempo, la dirigente viene completamente isolata dal contesto aziendale, con negazione di
ogni incarico e collaborazione; allo stesso tempo, inizia un estenuante “balletto” di
convocazioni e richieste di disponibilità volte all’attribuzione di diverse posizioni
lavorative che tuttavia, in seguito alla disponibilità mostrata dalla dirigente, vengono
puntualmente revocate senza alcuna spiegazione. Negli stessi mesi, la lavoratrice è
destinataria di ripetuti e pressanti inviti ad accettare una risoluzione consensuale del
rapporto. La difesa della dirigente legge nel comportamento aziendale qui parzialmente
descritto un preciso piano finalizzato a ottenere il logoramento psicologico della
lavoratrice e, per l’effetto, la disperata spontanea uscita attraverso liberatorie dimissioni. Il
percorso vessatorio sfocia in un ulteriore profilo di illiceità nelle ultime settimane di vita
del rapporto, essendo il licenziamento, pure ordito da tempo, infine deliberato in seguito
al rifiuto della lavoratrice di sottoscrivere una clausola di rinuncia alla tutela
giurisdizionale a fronte di un corrispettivo economico di poco conto; a tutto ciò si
aggiunge, secondo la difesa della lavoratrice, un intento discriminatorio per ragioni di
sesso ed età.
Il motivo del recesso indicato nella lettera di licenziamento è l’impossibilità di
“proficuo utilizzo” della lavoratrice - sia all’interno della società Trenitalia che con
riferimento alla totalità delle aziende del gruppo Ferrovie dello Stato - a seguito della
“ridenominazione” e assegnazione ad altro dirigente della struttura di appartenenza.
La dirigente adisce il Giudice del Lavoro lamentando tanto l’assenza di
giustificazione dell’atto di recesso che l’illiceità e discriminatorietà dello stesso; chiede
pertanto, in tesi, la declaratoria di nullità con reintegrazione nel posto di lavoro e, in
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ipotesi, di illegittimità con pagamento dell’indennità supplementare prevista dal Ccnl
Dirigenti; chiede, in ogni caso, il risarcimento del danno per la condotta mobbizzante
subìta, in termini patrimoniali e non.
Nel costituirsi in giudizio Trenitalia riconduce il licenziamento a una
“riorganizzazione della struttura delle vendite internazionali” determinata dall’ordine di
servizio del gennaio 2010 da cui era derivato un “diverso assetto organizzativo” della
medesima (nella specie, la soppressione della posizione lavorativa affidata alla dirigente in
seguito all’unificazione di due strutture). Ciò offre al Tribunale di Firenze un primo
spunto per la declaratoria di illegittimità del recesso: il giudice non manca, infatti, di
rilevare lo “scollegamento causale” tra il richiamato ordine di servizio e il dato testuale
della lettera di licenziamento ove, come sopra detto, si richiama non la soppressione del
posto bensì l’impossibilità di proficuo reimpiego in altre e diverse mansioni 26;
l’interruzione del nesso di causalità trova riscontro, osserva il giudicante, nel
considerevole lasso di tempo intercorso tra l’ordine di servizio del gennaio 2010 e
l’eliminazione della dirigente dal contesto aziendale, incompatibile con l’inutilità della
prestazione lavorativa della medesima. Il focus sul dato formale - cristallizzazione dei
motivi del recesso e scollegamento causale con la successiva difesa - rende superflua
l’indagine del giudicante sull’effettività di quest’ultima; non manca, tuttavia, in sentenza
l’osservazione en passant circa la non coincidenza tra “ridenominazione” della struttura
(terminologia impiegata nella lettera di licenziamento) ed effettiva “riorganizzazione”
della stessa.
Coerentemente con l’orientamento di legittimità espresso da Cass. 19/1/98 n. 424,
solo dopo aver esaminato il profilo della giustificazione/giustificatezza del recesso il
Tribunale di Firenze passa a esaminare la connotazione illecita del medesimo, attribuendo
valore dirimente all’escalation delle condotte datoriali: sottrazione della dirigenza,
privazione delle mansioni, “continuo stillicidio di proposte di incarico (alcune anche
all’estero …) che, una volta acquisita la disponibilità della ricorrente, inaspettatamente e
26 Si ricorda che, ovviamente, l’eventualità di repêchage di un dirigente licenziato per esigenze di
ristrutturazione aziendale è inconciliabile con la stessa posizione dirigenziale del lavoratore, posizione che,
d’altro canto, giustifica la libera recedibilità del datore di lavoro senza che possano essere richiamati i principi
elaborati dalla giurisprudenza per la diversa ipotesi del licenziamento per giustificato motivo del non
dirigente (cfr., ex plurimis, Cass. n. 14310/02; n. 322/03; n. 2266/07). La sentenza in commento non vuol certo
sconfessare tale orientamento, bensì sostenere che il motivo indicato nella lettera di recesso e quello
successivamente dedotto in giudizio devono coincidere per non incorrere nella violazione del c.d. principio di
cristallizzazione dei motivi del licenziamento; peraltro di diverso avviso sembrerebbe la recente Cass. n.
3175/13, per cui la parte datoriale può integrare in sede giudiziale le motivazioni espresse nella
comunicazione di recesso (nel caso, la motivazione del licenziamento era stata integrata nello scritto
difensivo con una circostanza - la volontà della parte datoriale di risolvere una situazione di crisi - estranea a
quanto ritenuto nella lettera di recesso - l’assegnazione delle mansioni ad altro dirigente). Quest’ultima
pronuncia apre, tuttavia, alla possibilità di rinvenire un’implicita “assunzione convenzionale dell’obbligo di
repêchage” nell’affermazione, contenuta nella lettera di licenziamento, circa l’impossibilità di una diversa
utilizzazione del dirigente nel contesto aziendale: ciò che si è, appunto, verificato nel caso sotteso alla
sentenza in esame.
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ingiustificatamente (l’azienda, n.d.r.) ha revocato” e, infine, attuazione del licenziamento a
fronte del rifiuto di sottoscrivere un accordo di trasferimento con contestuale rinuncia ai
diritti conseguenti alla condotta tenuta dal datore di lavoro oltre che all’indennità prevista
dal Ccnl Dirigenti; particolare rilievo è attribuito proprio a quest’ultimo aspetto, nel quale
il giudicante rinviene gli estremi della violenza morale. Il complesso delle condotte
vessatorie viene considerato illecito per contrasto con l’art. 2087 c.c. e con i principi di
correttezza e buona fede ex art. 1375 e sgg. c.c., oltre che oggettivamente lesivo
dell’integrità fisica e morale della lavoratrice: il Tribunale di Firenze non ritiene necessario
“scomodare” la figura del mobbing27 o altre successive creazioni giurisprudenziali (come lo
straining, con cui si indica la marginalizzazione grave all’interno del contesto aziendale: v.,
al riguardo, la recentissima Cass. sez. penale n. 28603/13) e sottolinea la tenacia della
lavoratrice, la cui condotta è stata caratterizzata da una strenua difesa del posto di lavoro
“a cui la ricorrente non ha voluto rinunciare resistendo alle condotte poste in essere dalla
convenuta volte a determinare spontanee dimissioni” e mostrando “continua disponibilità
ad ogni incarico propostole anche all’estero”. Qualificato come ritorsivo il licenziamento, il
giudicante richiama, facendolo proprio, l’orientamento di legittimità volto ad assimilare
carattere ritorsivo e discriminatorio, qualora il motivo illecito (di ritorsione o rappresaglia,
quale ingiusta e arbitraria reazione di natura “vendicativa”) abbia da solo determinato
l’atto datoriale (v., oltre alle pronunce citate in sentenza, Cass. n. 6282/11; circa l’onere della
prova dell’intento ritorsivo, v. la recentissima Cass. n. 14319/13). La conseguenza è la
nullità del licenziamento e, quindi, l’applicazione della tutela reintegratoria, con condanna
di Trenitalia al risarcimento del danno, sotto forma di lucro cessante, per il mancato
percepimento delle retribuzioni, contributi e oneri previdenziali dalla data di illegittimo
licenziamento a quella di maturazione del diritto al pensionamento 28. La pronuncia in
commento non affronta, invece, il tema della discriminatorietà della condotta datoriale per
ragioni di sesso ed età: la prima dedotta dalla difesa della lavoratrice sul presupposto
27 Il che richiama alla mente i primi commenti al leading case del Tribunale di Torino, sentenza del 16/11/99: v.
Greco, “Il mobbing tra danno biologico e malattia professionale”, ne Il Sole 24 ore, del 20/6/2000, per cui, con
specifico riferimento al c.d. mobbing verticale: “per questa figura pertanto non sembra necessario ricorrere a
configurazioni legislative di nuova creazione, anche perché è certo possibile affermare in questi casi la
responsabilità del datore di lavoro per le patologie che siano derivate al lavoratore da simili comportamenti,
facendo uso dei consueti strumenti di cui agli artt. 2087 c.c. (per il quale l’imprenditore è tenuto ad adottare
le misure che sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro), 2103
c.c. (che vieta il demansionamento o il trasferimento ingiustificato), 32 Cost. (che tutela il diritto alla salute
con norma immediatamente precettiva), 18 SL)”.
28 Costituendo la misura convenzionale delle 21 mensilità + 7 per dirigenti di età compresa tra 54 e 55 anni,
di cui all’indennità supplementare, oltre a una misura sanzionatoria per l’ingiustificato recesso del datore di
lavoro, anche una misura presuntiva, iuris tantum circa il danno subito, che non esclude il riconoscimento
dell’integrale danno corrispondente alle retribuzioni e ai trattamenti economici che la dirigente, in caso di
conservazione del rapporto di lavoro, avrebbe percepito per l’intera vita lavorativa residua (cfr. Cass. n.
23666/11).
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fattuale della rimozione dall’incarico dirigenziale di ben quattro donne e un solo uomo,
unico prontamente ricollocato; la seconda sul presupposto dell'avvenuta ricollocazione,
tra quelle interessate dalla ristrutturazione, della sola dirigente donna con età inferiore ai
50 anni. Verosimilmente, l’esame di tale ulteriore profilo di legittimità risulta assorbito dai
precedenti; si ricorda, comunque, che, per costante giurisprudenza di merito, l’onere della
prova circa l’assenza di discriminazione incombe sul datore di lavoro, laddove il
lavoratore può sostenere la propria censura allegando elementi statistici relativi al
comportamento complessivo del datore di lavoro, idonei a fondare la presunzione
dell’esistenza di atti, patti o comportamenti oggettivamente discriminatori 29. Peraltro, nel
caso, la difesa della lavoratrice è andata ben oltre il proprio onere e - al fine di corroborare
le deduzioni in merito alla prassi discriminatoria, ma anche la pretestuosità del motivo di
licenziamento addotto dall’azienda - ha allegato al ricorso introduttivo supporti telematici
contenenti registrazioni audio con relative trascrizioni chiedendo, al contempo,
l’ammissione di consulenza tecnica d’ufficio volta all'identificazione delle voci registrate. Il
Tribunale di Firenze non accoglie l’istanza istruttoria “stante l’inutilizzabilità” delle
registrazioni e relative trascrizioni. L’argomento merita di essere approfondito alla luce del
diffuso ricorso alla registrazione di conversazioni in contesti di mobbing lavorativo,
facilitato dalla possibilità di provvedervi con supporti sempre più “invisibili” (basta un
semplice cellulare). Come si evince dalla lettura dell’art. 2712 c.c. l’efficacia probatoria
delle registrazioni in argomento è subordinata, in ragione della loro formazione fuori dal
processo e senza le garanzie dello stesso, all’esclusiva volontà della parte contro la quale
esse sono prodotte in giudizio. Su quest’ultima incombe, infatti, l’onere di contestare che i
fatti che tali riproduzioni vogliono provare siano realmente accaduti con le modalità
risultanti dalle stesse. Perché la registrazione perda la qualità di prova, per giurisprudenza
costante, il disconoscimento non può essere generico, ma deve essere chiaro,
circostanziato ed esplicito (dovendo concretizzarsi nell’allegazione di elementi attestanti la
non corrispondenza tra realtà fattuale e realtà riprodotta), nonché tempestivo, cioè
avvenire nella prima udienza o nella prima risposta successiva alla rituale acquisizione
delle suddette riproduzioni (Cass. n. 89/01; Cass. n. 2117/11; Cass. n. 9526/10). La
contestazione non rende, tuttavia, del tutto inutilizzabili le registrazioni, che possono
assurgere a elemento di prova e, unitamente ad altri, fondare il convincimento del
Giudice, restando salva la possibilità di libero apprezzamento degli elementi presuntivi ex
art. 2729 c.c. In sostanza, la contestazione generica non può precludere al giudice la
ricostruzione del contenuto della registrazione attraverso elementi gravi, precisi e
29 Sul punto cfr. già Corte di giustizia 31/3/81, Jenkins, in causa 96/80, in Racc. 1981, 911; Id., 13/7/89, RinnerKühn, in causa 171/88, in Racc. 1989, 2743; Id., 17/10/89, Danfoss, in causa 109/88, in Racc. 1989, 3199 e
specificatamente quanto alla discriminatorietà del licenziamento e all’onere della prova Trib. Pisa 3/3/09,
Ricchi e Consigliera parità prov. Pisa c. Figurella Toscana Srl). Con specifico riferimento al licenziamento
discriminatorio, da ultimo, Cass. sez. lav. 5/6/13 n. 14206: “occorre invece che il lavoratore che assume di
essere stato discriminato fornisca elementi di fatto - desunti anche da dati di carattere statistico relativi ai vari
atti di competenza del datore di lavoro - idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, la presunzione
dell'esistenza della discriminazione, scaricando, così, sul datore di lavoro l'onere di provare che
discriminazione non c'è”.
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concordanti. I richiamati principi sono stati affrontati con specifico riferimento al mobbing
da Cass. n. 10430/07, che ha condiviso le statuizioni del giudice di secondo grado (nel
caso, la Corte d’Appello di Firenze, con sentenza n. 213/04) circa la possibilità, per il
giudicante, di trarre in via presuntiva argomenti di giudizio dalle riproduzioni
meccaniche, ove sorrette da “elementi gravi, precisi e concordanti”, seppur in presenza di
“disconoscimento della conformità ai fatti rappresentati”, quando tale disconoscimento si
limiti a una “mera dichiarazione” non supportata da elementi atti a dimostrare l´effettiva
divergenza e/o difformità tra ciò che si sostiene e ciò che risulta dalle riproduzioni 30.
Un’ultima breve considerazione merita la quantificazione del danno non
patrimoniale. Il Tribunale di Firenze richiama la nota sentenza in argomento resa a sezioni
unite dalla Cassazione (n. 26972/08) e, pur respingendo la richiesta liquidazione di
autonome poste di danno biologico, morale ed esistenziale (coerentemente a Cass. n.
18641/11, Cass. n. 21999/11, Cass. n. 19133/11 e Cass. n. 3718/12), procede a una
“personalizzazione” dello stesso con aumento del 50% in riferimento alle “particolari
sofferenze morali a cui la ricorrente è stata sottoposta, stante la piena, gratificante e
brillante carriera maturata prima dei fatti oggetto del giudizio, e il “nulla” a cui è stata
costretta nel giro di pochissimi mesi, e all’incidenza sulle sue abitudini di vita, prima
comprendenti una intensa vita sociale, e poi ridotte a poche e sporadiche uscite” 31.
9. Tribunale Busto Arsizio 30 dicembre 2013 (ord.), est. La Russa, Caimi e altre (avv.
Franceschinis) c. Pratica Srl (avv. Testa e Macchi).
Licenziamento collettivo - Procedimento ex art. 1, commi 47 e 48, L. 92/12 Ammissibilità.
Licenziamento collettivo - Procedura di mobilità per riduzione di personale - Chiusura
dell'unità produttiva - Scelta del personale licenziato limitata agli addetti di tale unità -
30 Nel caso specifico, la Corte d´Appello di Firenze aveva ritenuto ammissibile, pur a fronte di un generico
disconoscimento, la consulenza tecnica finalizzata a valutare gli elementi probatori desumibili dalle
registrazioni effettuate dalla ricorrente; la Cass. citata ha ritenuto il ragionamento della Corte fiorentina “non
in contrasto con l´art. 2712 c.c., giacché la contestazione della società non ha riguardato il fatto della
registrazione ma le sue risultanze, valutate, come già detto, dallo stesso giudice in base a elementi presuntivi
ex art. 2729 c.c.”.
31 Come esattamente notato da Cass. 6/11/11 n. 24015, alla stregua del “diritto vivente” segnato dall’arresto
delle Sezioni unite del 2008 (sentenza n. 26972/08), la liquidazione del danno non patrimoniale deve essere
complessiva e cioè tale da coprire l’intero pregiudizio a prescindere dai nomina iuris dei vari tipi di danno; v.
anche Cass. n. 22585/13, per cui: “Qualora venga accertata una situazione protetta a livello costituzionale,
spetta al giudice di merito una rigorosa analisi e valutazione tanto dell’aspetto interiore del danno (sofferenza
morale), quanto del suo impatto modificativo in pejus con la vita quotidiana (danno esistenziale). Ciò,
dunque, evidenzia come il dolore interiore e l’alterazione delle abitudini quotidiane rappresentino danni
diversi e, pertanto, autonomamente risarcibili se e solo se rigorosamente provati caso per caso”.
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Violazione dei criteri di scelta ex art. 5 L. 223/91 - Illegittimità dei recessi Reintegrazione ex art. 18, 4° comma, SL.
L'impugnazione di un licenziamento collettivo è soggetta al nuovo rito introdotto dall'art. 1,
commi 47 e 48, L. 28/6/12 n. 92.
Nel licenziamento collettivo determinato dalla chiusura di una singola unità produttiva la scelta
del personale da estromettere non può essere limitata agli addetti alla stessa ma va compiuta con
riferimento all'intero ambito aziendale, salvo che il datore di lavoro non dimostri la presenza di
specifiche professionalità o comunque situazioni oggettive che rendano impraticabile tale
comparazione. Ne consegue la violazione dell'art. 5 L. 23/7/91 n. 223 e la condanna alla
reintegrazione nel posto di lavoro ai sensi dell'art. 18, comma 4°, SL, come modificato dalla L.
28/6/12 n. 92.32
10. Tribunale Milano 1 ottobre 2013 (ord.), est. Mariani, A. Masi c. Skandia Vita Spa.
Licenziamento per giustificato motivo oggettivo - Art. 18, comma 7, SL. come riformato
dalla L. 92/2012 - Esternalizzazione del servizio aziendale cui è preposto il lavoratore Precedente dequalificazione professionale del lavoratore - Manifesta insussistenza del
motivo oggettivo - Illegittimità del licenziamento e ordine di reintegrazione.
Non può dirsi legittimo il licenziamento attuato attraverso un prodromo del tutto illecito, consistito
nella dequalificazione professionale cui è stato sottoposto il lavoratore nel periodo precedente al
recesso datoriale, anche se le attività di competenza del medesimo lavoratore sono state
effettivamente esternalizzate. Se ne deduce che il motivo oggettivo posto alla base del licenziamento
va considerato manifestamente insussistente, con conseguente ordine di reintegrazione del
lavoratore ex art. 18, comma 4, SL (richiamato dal comma 7).
Sull’ordine di reintegrazione in presenza di licenziamento per giustificato motivo oggettivo
illegittimo: presupposti e interpretazioni (Roberta Cristaldi e Giuseppe Bulgarini D’Elci)
L’ordinanza che si annota rappresenta una delle prime decisioni della
giurisprudenza di merito che, a quanto consta, pronunciandosi in materia di tutela ex art.
18 SL contro i licenziamenti per giustificato motivo oggettivo post Riforma Fornero,
riconosce la reintegrazione nel posto di lavoro.
32 Sulla problematica dell'ambito di applicazione dei criteri di scelta ex art. 5 L. 223/91 nel caso di riduzione
del personale limitata a una singola unità produttiva di un complesso aziendale più ampio, la giurisprudenza
è ormai assestata sulla linea alla quale aderisce l'ordinanza in commento del Tribunale di Busto Arsizio. Si
veda anche Trib. Milano 14/11/12, in questa Rivista 2012, 1062, nonché nello stesso senso di recente Cass. n.
17119/13, Cass. n. 17177/13 e Cass. 18617/13.
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In forza della nuova disciplina, disegnata dalla L. 92/12, la tutela indennitaria
costituisce assolutamente la regola in presenza di un licenziamento per giustificato motivo
oggettivo ritenuto illegittimo, mentre la tutela reale è limitata alla sola ipotesi di
“manifesta insussistenza” del “fatto” posto alla base del licenziamento c.d. “economico”.
Anche in questo caso, peraltro, la reintegrazione non pare essere un provvedimento
dovuto, ma una misura suscettibile di essere liberamente apprezzata dal Giudice, che
manterrebbe, in tal modo, la facoltà di optare per la sola tutela indennitaria.
Gli aspetti della nuova disciplina che meritano una maggiore attenzione sono
principalmente due: da un lato, secondo la formulazione letterale dell’art. 18, comma 7, SL,
il Giudice, qualora accerti la “manifesta insussistenza” del fatto posto a fondamento del
licenziamento per giustificato motivo oggettivo, “può” e non deve ordinare la
reintegrazione del lavoratore; d’altro lato, già all’indomani dell’entrata in vigore della
Riforma Fornero, i primi commentatori si erano chiesti come dovesse essere inteso, in
assenza di specifica indicazione da parte del Legislatore, il riferimento al “fatto” posto a
base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, la cui manifesta insussistenza
può comportare, giustappunto, l’applicazione della tutela reintegratoria.
Sotto il primo profilo, buona parte degli interpreti ha osservato che la Riforma ha
attribuito, in sostanza, un potere discrezionale al Giudice, tale per cui, qualora fosse
accertata la manifesta insussistenza delle ragioni aziendali poste alla base del
licenziamento per giustificato motivo oggettivo, il Giudice potrebbe, comunque, evitare di
disporre la reintegrazione e riconoscere al lavoratore la sola tutela indennitaria c.d. forte.
In questi termini si è espressa autorevole dottrina, secondo la quale è facoltativo il
ricorso alla reintegra anche in presenza di manifesta insussistenza delle ragioni aziendali
dedotte per giustificare il licenziamento, in quanto la formulazione letterale del nuovo
comma 7, così come lo stesso spirito riformatore che ha ispirato il legislatore del nuovo
art. 18, non autorizzano a concludere per l’obbligatorietà della tutela reale. Tra i tanti
commenti, merita riportare le considerazioni di A. Vallebona “L’ingiustificatezza
qualificata del licenziamento: fattispecie e onere probatori”, in Dir. relazioni industriali
2012, 3, 621 sgg., secondo il quale “nel licenziamento per giustificato motivo oggettivo la
ingiustificatezza qualificata della 'manifesta insussistenza del fatto posto a base del
licenziamento' (art. 18, comma 7) non è sufficiente per l’accesso alla medesima tutela reale
dell’art. 18, comma 4, ma costituisce solo il necessario presupposto per l’eventuale
esercizio in tal senso della equità integrativa del giudice ('può')”.
Si registra, peraltro, un indirizzo contrario secondo cui, in caso di manifesta
insussistenza del fatto posto a fondamento del licenziamento, il Giudice è tenuto ad
applicare la tutela reale, nel senso che la reintegrazione consegue automaticamente al
giudizio di insussistenza delle ragioni aziendali dedotte per giustificare il provvedimento
espulsivo. Questo orientamento si discosta dal significato letterale della norma, che prima
facie fa riferimento al carattere facoltativo della reintegra, per valorizzarne, piuttosto, una
interpretazione conforme ai principi costituzionali.
Secondo questa impostazione, occorre interpretare la disposizione di cui all’art. 18,
comma 7, SL alla luce del principio costituzionale affermato dall’art. 24 Cost. - a norma del
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quale ciascuno ha diritto di agire liberamente in giudizio per la tutela dei propri diritti con la conseguenza che anche l’effetto sanzionatorio che deriva dalla disposizione violata
deve essere certo e definito nelle sue prospettive applicative. Tale condizione risulta,
viceversa, disattesa se si accede alla lettura dell’art. 18, comma 7, SL nel senso che
l’opzione tra la tutela indennitaria e quella reintegratoria sia rimessa alle valutazioni del
Giudice, ragion per cui si deve concludere, secondo questo indirizzo, per il carattere
obbligatorio del ricorso alla reintegrazione in presenza di ragioni aziendali
manifestamente insussistenti. Ha osservato, in proposito, G. Cannati, (“Profili di
incostituzionalità della riforma sui licenziamenti”, in Riv. it. dir. lav. 2013, fasc. 1, 199 sgg.)
che “La garanzia di poter agire, per la tutela dei propri diritti, presuppone che
quest’ultima sia già astrattamente predefinita e che il potere decisorio del giudice abbia un
minimo, sia pur generale, parametro di riferimento (…) simili considerazioni, in un’ottica
di bilanciamento dei contrapposti interessi, almeno quando vi è la manifesta insussistenza
del fatto, dovrebbero sempre imporre la reintegrazione, mentre quel 'può' rimane ed è
d’intralcio. Insomma, il contrasto con la costituzione è ulteriormente confermato”.
Un altro aspetto controverso riguarda il significato da attribuire all’espressione
“fatto” posto a fondamento del licenziamento utilizzata dal Legislatore nella nuova
formulazione dell’art. 18 SL. I principali problemi interpretativi derivano dalla circostanza
che, a prima vista, sembra che il Legislatore della Riforma abbia applicato al diritto del
lavoro categorie e concetti a esso estranei e che, invece, sono propri di altri rami del diritto
come, per esempio, quello del diritto penale. L’insussistenza del fatto sembra richiamare,
ad esempio, la formulazione dell’art. 530 c.p.p., che individua l’ipotesi (“il fatto non
sussiste”) al ricorrere della quale il Giudice deve emettere sentenza di assoluzione
dell'imputato. L’insussistenza del fatto, in ambito penale, si ricollega all’elemento
oggettivo del reato. Da ciò deriva che, nel processo penale, qualora dalle risultanze
dibattimentali emerga che la ricostruzione del fatto storico operata dalla pubblica accusa
non rientra nella fattispecie di reato contestata, il Giudice dovrà assolvere l’imputato con
formula piena.
Applicare tali concetti al diritto del lavoro, e tanto più all’art. 18 SL post Riforma
Fornero, non è un’operazione così semplice e immediata, perché non è scontato che il
“fatto”, essendo esso riferito alle ragioni aziendali del licenziamento per giustificato
motivo oggettivo, sia da circoscrivere agli eventi materiali e non anche alle valutazioni
aziendali ed economiche che, di quei medesimi eventi, abbia dato il datore di lavoro,
nonché ai riflessi organizzativi che da quegli eventi il datore di lavoro abbia fatto
discendere.
Secondo un primo orientamento, sostenuto soprattutto dai primi commentatori della
Riforma Fornero, per poter riempire di contenuto il termine “fatto” è necessario
intenderlo in senso materiale, facendolo coincidere, in buona sostanza, con le esigenze
tecnico/organizzative/produttive comunicate al lavoratore al momento del licenziamento.
Se le esigenze aziendali dedotte sussistono effettivamente, in quanto l’evento materiale si è
realmente prodotto, dunque, anche se non hanno (secondo il libero apprezzamento del
Giudice) un rilievo tale da giustificare il licenziamento, si applicherà la tutela indennitaria,
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mentre la tutela reintegratoria si potrà disporre solo se le ragioni aziendali si rivelano,
sempre sotto il profilo materiale, inesistenti o infondate.
Accogliendo tali prospettazioni, il Giudice dovrà applicare la sola tutela indennitaria,
ad esempio, quando la “crisi” addotta dal datore di lavoro sia sussistente, anche se non ha
un elevato livello di gravità, tale da giustificare il licenziamento per motivi economici (S.
Brun, “Le prime applicazioni del 'nuovo' art. 18 SL al licenziamento economico”, in Arg.
dir. lav. 2013, 1, 145 sgg.), mentre la tutela reintegratoria potrebbe essere applicata, ad
esempio, allorché si accerti che il fatto che ha determinato il licenziamento non sussiste,
cioè nell’ipotesi di c.d. “torto marcio del datore di lavoro” (R. Cosio, “Licenziamento
individuale per motivi economici e controllo giudiziario nella Riforma del lavoro”, in Lav.
giur. 2013, 3, 259). In questo senso, appare significativa l’espressione utilizzata da A.
Maresca (“Il nuovo regime sanzionatorio del licenziamento illegittimo: le modifiche
dell’art. 18 Statuto dei lavoratori”, in Riv. it. dir. lav. 2012, I, 436 sgg.) secondo il quale la
verifica del Giudice non è soggetta ad alcun tipo di discrezionalità, pertanto, “il fatto o c’è
o non c’è”.
Questo orientamento è stato condiviso, tra gli altri, dalla giurisprudenza meneghina
(Trib. Milano 20/11/12, in Arg. dir. lav. 2013, 1) in un giudizio nel quale si riteneva
illegittimo il licenziamento per giustificato motivo oggettivo conseguente alla cessazione
di un appalto, per non avere il datore di lavoro provato l’impossibilità di utilizzare il
lavoratore in altri appalti. Nel caso sottoposto all’esame del Giudice milanese, si è ritenuto
che il mancato rispetto dell’obbligo di repêchage non potesse integrare un’ipotesi di
“manifesta insussistenza” del fatto posto alla base del recesso datoriale, in quanto,
secondo la prospettazione del Tribunale di Milano, il mancato rispetto dell’obbligo del
reimpiego in altre mansioni esula dall’accertamento del “fatto” materiale e va ricompreso
nelle “altre ipotesi” di cui all’art. 18, comma 7, SL.
Un secondo orientamento è quello secondo cui il “fatto” menzionato all’art. 18,
comma 7, SL deve essere inteso in senso giuridico, cioè come esigenza aziendale da
valutarsi non solo nella sua componente realistica, ma nella sua più generale idoneità a
giustificare sul piano tecnico il provvedimento espulsivo, dovendo il Giudice verificare sia
l’esistenza del fatto principale, sia il nesso di causalità tra il fatto principale e la
conseguenza giuridica che ne è derivata. In altri termini, il fatto non consiste unicamente
nell’evento storico in sé, ma anche nella sua idoneità a configurare un legittimo giustificato
motivo di recesso, essendo il fatto giuridico tale da ricomprendere l’evento materiale e la
sua rilevanza sul piano tecnico/giuridico.
Parte della dottrina ha condiviso tale orientamento e, sull’individuazione del corretto
significato del termine “fatto”, ha sostenuto che “Questa impostazione impone che il
percorso decisorio del giudice si scinda in due momenti separati. Un primo momento in
cui l’attenzione deve essere rivolta al fatto materiale posto a base del recesso, depurato da
qualsiasi valutazione della scelta datoriale, e un secondo momento in cui il giudice deve
soffermarsi a valutare l’idoneità del fatto esistente a costituire un esercizio legittimo del
potere di recesso del datore di lavoro” (ex plurimis, M.G. Greco, “Manifesta insussistenza
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del fatto e violazione dei criteri di scelta nel licenziamento per giustificato motivo
oggettivo”, in Lav. nella Giur. 2013, 8-9, 805).
Pare opportuno precisare che esiste un ulteriore orientamento dottrinale, secondo il
quale l'insussistenza, “manifesta” o meno, delle ragioni del licenziamento deve essere
valutata tenendo in considerazione diversi elementi. Tale orientamento afferma che nella
valutazione della legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo non è
sufficiente intendere il “fatto” né in senso materiale, né solamente in senso giuridico. Il
Giudice, ai fini di una completa disamina della questione, deve valutare il fatto materiale,
il nesso causale che lo collega al licenziamento, il motivo che ha spinto l’imprenditore ad
assumere la decisione di recedere dal contratto di lavoro e l’osservanza dei criteri di scelta.
Il Giudice, in questo senso, ha il compito di valutare le modalità con le quali il datore
di lavoro esercita il suo potere di recesso, verificando che tale potere sia stato gestito in
coerenza con le finalità previste dall’ordinamento e nel rispetto dei principi di buona fede
e correttezza, applicando la tutela reale solo in caso di totale irrazionalità del
comportamento del datore di lavoro (E. Gragnoli, “Considerazioni preliminari sui poteri
del datore di lavoro e sul loro fondamento”, in Riv. giur. lav. 2011, I, 528; F. Pantano, Il
rendimento e la valutazione del lavoratore subordinato nell’impresa, Padova 2012, p. 171).
Nell’ordinanza presa in esame, il Tribunale di Milano, sotto il profilo della
qualificazione del “fatto” posto a fondamento del recesso datoriale, sembra aver accolto
tale impostazione “globale”, avendo dichiarato l'illegittimità del licenziamento economico
intimato per soppressione del posto di lavoro, conseguente all'esternalizzazione del
servizio, sulla base di considerazioni che non riguardano il solo giudizio sulla sussistenza
o meno del “fatto” in sé; giudicando, invece, il comportamento datoriale nella sua
globalità, prendendo spunto anche dal comportamento delle parti nei mesi precedenti al
recesso e facendo, quindi, riferimento a un giudizio di idoneità complessiva della condotta
datoriale a giustificare il recesso.
Il Tribunale di Milano aveva ritenuto, in questo senso, che il lavoratore fosse stato
pesantemente dequalificato nel periodo che ha preceduto l’irrogazione del licenziamento,
con ciò risultando integrato un “prodromo illecito” che rendeva il motivo oggettivo posto
alla base del provvedimento espulsivo “manifestamente insussistente”, con conseguente
applicazione della tutela reintegratoria.
Sotto l’altro profilo sensibile, quello relativo alla natura facoltativa o obbligatoria del
ricorso alla misura reintegratoria in ipotesi di “manifesta insussistenza” delle ragioni
aziendali del licenziamento, si osserva che il Tribunale di Milano non giustifica in alcun
modo la propria scelta di applicare la tutela reale al caso de quo, suggerendo, in questo
senso, di aderire all’orientamento secondo il quale, al di là della formulazione letterale
della norma, un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 18, comma 7, SL
impone che il Giudice, una volta accertata la “manifesta insussistenza” delle ragioni che
hanno giustificato il provvedimento espulsivo, debba automaticamente applicare la
reintegrazione.
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