Targa di qualità per l`uovo italiano Nel nostro Paese si producono

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Targa di qualità per l`uovo italiano Nel nostro Paese si producono
Targa di qualità per l’uovo italiano
Nel nostro Paese si producono ogni anno quasi tredici miliardi di uova, quanto è cioè
necessario per soddisfare il consumo interno pari, mediamente, a 226/227 uova per
abitante. L’importazione è minima (lo scorso anno appena lo 0,7% del consumo) e non ne
avremmo bisogno. Però non si può impedirla, visto che ci troviamo nel libero mercato.
D’altra parte, l’esportazione è praticamente inesistente, perché quando si produce bene
(come in Italia) i costi sono superiori a quelli degli altri Paesi e, di conseguenza, i nostri
produttori non sono competitivi all’estero.
Produrre bene significa molte cose. Mettere a disposizione delle galline locali di allevamento
e attrezzature adeguati alle loro necessità. Offrire agli animali un cibo di qualità (granturco,
soia, glutine, vitamine, calcio, sali minerali) e non sottoprodotti o materie prime di scarso
valore nutrizionale, come avviene in altri Paesi. Prevenire le malattie attraverso la
vaccinazione per evitare il ricorso ai farmaci e porre in atto seri controlli igienici e sanitari.
Ancora, selezionare e confezionare le uova nel giro di 24/48 ore dalla loro deposizione e
consegnarle subito ai punti vendita, in modo da offrire al consumatore un prodotto sempre
freschissimo.
Di fatto, specie negli ultimi vent’anni, si è instaurato un rapporto di fiducia tra le aziende
produttrici e il consumatore che, sempre più attento alla qualità e alla freschezza dell’uovo,
legge con attenzione le informazioni riportate sulla confezione. Ma le novità legislative
intervenute nell’ultimo periodo rischiano di compromettere questo rapporto.
Dal prossimo 1° gennaio entrerà in vigore una direttiva europea (la 99/74/CE) che, per
tutelare il presunto (perché non è stato dimostrato) benessere delle galline ovaiole,
imporrà a tutti i produttori dell’UE di dare più spazio alle galline. Conseguenza: la
produzione italiana ed europea si ridurrà progressivamente; i costi di produzione e i prezzi
al consumo aumenteranno; per soddisfare la richiesta interna arriveranno uova dai Paesi
extracomunitari che a tutelare il benessere delle galline non ci pensano neppure
lontanamente, e che non rispettano le rigorose norme igienico-sanitarie comunitarie né,
tanto meno, i parametri qualitativi italiani.
Come rispondono i produttori italiani ed europei per tutelare il consumatore e anche se
stessi e il proprio lavoro? Insistendo con ancora maggior decisione sulla qualità,
anticipando al 1° gennaio 2004 una norma comunitaria che, per tutti gli altri alimenti, si
applicherà l’anno successivo, e non solo.
Dal 1° gennaio 2005, tutta la produzione alimentare sarà assoggettata al Reg.
178/2002/CE, che ha fissato le procedure nel campo della sicurezza. Il caposaldo
normativo di tale regolamento è la “rintracciabilità”, che significa la possibilità di ricostruire
il percorso di un qualsiasi alimento e delle sue componenti in tutte le fasi.
Il settore delle uova ha deciso che questi obblighi, e non solo questi, siano anticipati al
2004. Da quella data, perciò, sapremo in quale allevamento l’uovo è stato prodotto e anche
(fatto che per tutti gli altri alimenti è facoltativo) il Paese di origine. In forza di una direttiva
comunitaria il cui iter di recepimento comincerà a giorni in Italia (la 2002/4/CE), da quella
data ogni singolo uovo dovrà riportare sul guscio un codice che identificherà il sistema con
cui le galline sono state allevate (“zero” per l’allevamento biologico; “uno” per
l’allevamento all’aperto; “due” per l’allevamento a terra; “tre” per l’allevamento in
batteria), seguito dal codice che individua (limitatamente all’UE) il Paese di produzione (IT
per l’Italia, FR per la Francia, ecc.) e dal numero che le autorità sanitarie hanno attribuito
all’allevamento (e che, a garanzia del consumatore, attesta come tale allevamento sia
sottoposto al loro controllo).
Beninteso, per noi italiani non si tratta di una novità assoluta, perché alcune aziende già da
tempo riportano volontariamente sull’uovo il codice dell’allevamento in cui questo è stato
prodotto. La novità, fortemente voluta dall’UNA (specie l’indicazione della sigla del Paese di
produzione), è che tutte le uova dovranno essere “targate”. In questo modo i consumatori
italiani potranno scegliere più consapevolmente quali uova portare in tavola. l
(R.P.)
Di fronte al boom d’importazioni dai Paesi terzi, gli avicoltori europei lanciano l’allarme
Competizione ad armi pari?
Francesco Pippi
Giornalista
Durante la 45esima Assemblea generale dell’Avec, associazione dei produttori avicoli
dell’UE, sono stati denunciati i pericoli derivanti per la sicurezza alimentare dal forte
aumento di carne proveniente da Brasile, Thailandia e Stati Uniti, dove gli standard sanitari
sono inferiori a quelli del Vecchio Continente. Un fenomeno che mette a rischio, in primo
luogo, la salute dei consumatori ma anche le condizioni per una leale concorrenza
l Un 2002 difficile, anche per i produttori europei di carni avicole. Questa, in una sintesi
forse non originale, vista la tutt’altro che brillante congiuntura internazionale, la diagnosi
stilata nel corso della 45esima Assemblea generale dell’Avec, tenutasi il 21 settembre
scorso a Killarney, Irlanda.
Niente di sorprendente, potrebbe commentare un osservatore esterno, considerando il
panorama di macerie, o almeno di promesse non mantenute, che connota l’economia
mondiale (ed europea ed italiana) di questo scorcio di anno: perché l’avicoltura europea
dovrebbe “ridere” mentre piangono calde lacrime settori ben più importanti come, ad
esempio, l’automobilistico o l’elettronico?
Forse non ci sarà da sorprendersi, ma da preoccuparsi sì. E non solo perché le carni avicole
rappresentano nell’ambito europeo una realtà economica tutt’altro che trascurabile, con
una produzione annua di oltre 9 milioni di tonnellate (seconda solo a quella di carne suina),
un giro d’affari complessivo di circa 27 miliardi di euro e un’occupazione, fra diretta e
indiretta, stimata in 1 milione 500 mila unità. Ma soprattutto perché ad andarci di mezzo
non è soltanto il bilancio d’esercizio di qualche migliaio di aziende, ma qualcosa per la quale
370 milioni di consumatori europei hanno mostrato negli anni scorsi di avere i nervi
scoperti: la sicurezza di ciò che mangiano e quindi, in definitiva, la propria salute.
Allarmismi? Non proprio, e vediamo perché.
Qualità in pericolo
I problemi dell’industria avicola europea non sono venuti tanto dalla contrazione dei
consumi (proprio nei momenti di crisi, infatti, il settore alimentare conferma la propria
natura “anticiclica”, ossia la scarsa sensibilità alle variazioni della congiuntura economica
internazionale) quanto, piuttosto, dagli effetti della crescita esplosiva delle importazioni di
carne avicola salata, proveniente in primo luogo da Brasile e Thailandia, uniti, dall’altra
parte, alla durissima competizione incontrata nei mercati dell’esportazione.
Competizione economica, evidentemente: detto in parole povere, le carni avicole europee
costano più (si calcola una media del 25-20 per cento) delle altre. Ma - è questo il punto non perché il prodotto europeo rappresentato dall’Avec sia particolarmente “caro”;
piuttosto, perché gli standard di sicurezza adottati nel Vecchio Continente sono molto più
rigidi, e perciò rassicuranti per i consumatori, di quelli presenti altrove. E la qualità, come
sempre, costa.
A Killarney sono stati invitati sia, perché parlassero, rappresentanti thailandesi, brasiliani e
statunitensi, chiamati a spiegare all’Assemblea in che modo venga assicurata nei loro Paesi
la sicurezza dei prodotti avicoli, sia, perché ascoltassero, vari funzionari della DG Sanco, la
Direzione Generale della Commissione Europea responsabile della salute dei consumatori
dell’UE. Nessuno di questi ultimi, però, ha ritenuto opportuno farsi vedere.
Competizione uguale per tutti
Ciò non vuol dire che la posizione dell’Avec non sia arrivata, forte e chiara, a Bruxelles: sì
al mercato e alla competizione, purché le condizioni di partenza siano uguali per tutti e la
concorrenza sia davvero leale. Cosa che oggi, purtroppo, non è. A giudicare, infatti, dai
risultati di una missione condotta in Brasile dagli ispettori comunitari, nonché dal ripetuto
rinvenimento di residui medicinali veterinari (nitrofurani), vietati nei Paesi dell’Unione
Europea, in prodotti importati da Thailandia e Brasile, non sembrano esserci dubbi sul fatto
che, in questi Paesi, le misure di controllo applicate nella produzione di carne di pollame
non siano abbastanza severe.
E il ricordo delle ripetute crisi alimentari (mucca pazza in testa, ma anche pollo belga “alla
diossina” e via elencando) che hanno investito l’Europa negli ultimi anni è troppo fresco, e
doloroso, perché l’Avec non lanci il proprio allarme: è intollerabile, afferma, “che la fiducia
che i consumatori europei ripongono generalmente nella carne di pollame venga messa a
repentaglio da prodotti importati per i quali possano essere sollevati dubbi in materia di
sicurezza”. E ricorda: con un consumo pro capite di molto inferiore rispetto a quello di
Thailandia, Brasile e Stati Uniti, l’industria avicola europea ha ancora buoni margini di
sviluppo. Perché rischiare di comprometterli pagando - beffa oltre al danno - per colpe non
proprie?
I veri protezionisti
Nessuna ombra di protezionismo economico, dunque, in tutto ciò. Anzi, aggiunge
polemicamente l’Avec, se questo c’è lo si ritrova altrove. Ad esempio negli Stati Uniti, dove
la politica governativa dei sussidi consente di esportare all’estero a prezzi incredibilmente
concorrenziali. Ciò malgrado il processo di liberalizzazione del commercio mondiale, cui si
sono impegnati tutti i Paesi membri della World Trade Organization (Usa compresi), e
quanto da esso dovrebbe conseguire, in termini di graduale smantellamento dei sussidi ai
prodotti agricoli (contemplato nell’Accordo sull’Agricoltura) e di libero accesso al mercato.
Invece, mentre crescono le importazioni comunitarie da Paesi terzi, le esportazioni delle
carni avicole europee verso Stati Uniti, Brasile e Thailandia sono praticamente inesistenti. E
anche dopo l’entrata in vigore dell’intesa sulle SPS (accordo sanitario e fito-sanitario), che
consente ai Paesi membri della WTO di adottare misure sanitarie adeguate a condizione che
queste siano basate su dati scientifici e non vengano utilizzate come barriere commerciali
ingiustificate, gli Stati Uniti continuano a mantenere divieti sulle importazioni in base a
motivazioni che l’Avec definisce, senza mezzi termini, “pseudo-scientifiche”.
Date queste premesse, non sorprende che i produttori avicoli europei abbiano colto
l’occasione della 45esima Assemblea generale per alzare la voce: “Non consentiremo a
questo sistema di continuare, e la questione dovrà essere affrontata nel corso delle
prossime trattative della WTO per garantire ai consumatori uniformità e sicurezza per tutti i
prodotti commercializzati”. Se la battaglia è dunque settoriale, l’interesse in gioco è quanto
di più generale possa concepirsi. Per questo “Unavicoltura” continuerà a darne conto nei
prossimi numeri. L
BOX
Stop in Italia alle importazioni dai Paesi terzi
A seguito delle polemiche riguardanti la sicurezza delle carni importate nell’Unione Europea
dai Paesi terzi, il 30 ottobre scorso il presidente dell’U.N.A., Guido Sassi, ha inviato la
seguente lettera ufficiale:
In nome e per conto delle Aziende associate interessate, teniamo a precisare che:
• lo scorso anno sono entrate nel nostro Paese (direttamente o tramite altri partners
europei) 13.617 tonn. di carni di pollame (per oltre il 90% di petti di pollo e fesa di
tacchino) provenienti dal Brasile e 92 tonn. di carni di pollame provenienti dalla Tailandia.
Nel totale, tali carni rappresentano l’1% circa della produzione nazionale;
• va sottolineato che il 100% di tali prodotti è entrato nell’U.E. (ed anche in Italia) allo
stato di “congelato” e non può essere stato commercializzato come carne “fresca”;
• dette carni sono state m
i portate e commercializzate nel rispetto delle norme e dei
controlli comunitari e nazionali e sono state acquistate legalmente dagli utilizzatori;
• tutte le Aziende associate utilizzatrici di tali carni hanno effettuato controlli a campione
(sempre con esito negativo) prima del loro utilizzo in modo da garantire la massima
salubrità dei prodotti destinati al consumo.
Vista la sensibilità dei consumatori su queste tematiche ed in attesa di ulteriori verifiche e
decisioni da parte dell’U.E., tutte le Aziende associate interessate hanno deciso di
sospendere l’utilizzo di tali carni.
Questa decisione delle imprese italiane, ovviamente, sarà nel tempo sostenibile solo se, in
assenza di un adeguamento del Brasile e della Tailandia alle disposizioni comunitarie, l’U.E.
vieterà le importazioni da tali Paesi.
Vale la pena da ultimo di sottolineare che l’U.N.A. si è sempre battuta (e l’ha ampiamente
dimostrato) contro tali importazioni, arrivando persino a chiedere la chiusura delle frontiere
nei confronti di tutti i Paesi terzi che non rispettano le medesime regole dell’U.E.
è interesse nostro e delle Aziende associate, infatti, che in Italia (ed in nessun altro Paese
partner) non entrino carni avicole che mettano a rischio l’economia del settore.
Una nuova norma
si annuncia come un duro colpo per il settore delle uova
Prima l’uomo o la gallina?
Rita Pasquarelli
Direttore Generale dell’UNA
Con l’entrata in vigore della Direttiva 1999/74 CE, denunciano i produttori italiani (e non),
a fronte di un non dimostrato miglior benessere degli animali si avranno sicuri e gravi danni
economici e sociali nonché maggiori rischi per la qualità igienico-sanitaria delle uova
l C’è un vecchio proverbio popolare che recita: “Per star meglio, qui giaccio”. Ha
attraversato molte volte, in questi ultimi anni, la mente dei produttori di uova italiani,
durante i tanti incontri svoltisi fra Roma e Bruxelles con i decisori italiani ed europei
rispetto ad un tema sul quale, a prima vista, l’accordo sembrerebbe ovvio: il “benessere
delle galline ovaiole”. E invece l’argomento rischia di creare problemi, anche gravi, sia a chi
lavora nel settore sia, in ultima analisi, ai consumatori finali e, quindi, a ciascuno di noi.
Vediamo il perché.
La normativa europea
A star meglio, dal 1° gennaio prossimo, dovrebbero essere le suddette galline ovaiole,
grazie all’entrata in vigore della Direttiva CE 1999/74 che fissa le norme minime per la loro
protezione. In particolare, l’articolo 5 stabilisce che, a partire dall’inizio del 2003, ogni
gallina debba disporre in qualsiasi allevamento esistente di almeno 550 cmq di superficie
nella gabbia (contro i 450 attuali); che, in quelli nuovi, tale spazio sia di 750 cmq e che,
comunque, entro la fine del 2012 tutte le attuali gabbie siano smantellate.
Per capire le ragioni della norma, occorre riandare al dibattito che, fin dalla seconda metà
degli anni Ottanta, ha visto le organizzazioni ambientaliste e animaliste battersi a favore
della protezione di tutti gli animali da allevamento. Per quanto riguarda n
i particolare le
galline ovaiole, non sono mancate vivide descrizioni di condizioni di vita definite
insostenibili, con spazi ristrettissimi che limitano al minimo il movimento, aggressività
stimolata dal sovraffollamento, ecc.
Il risultato finale di questo forte movimento d’opinione è costituito dalla promulgazione
della Direttiva CE 98/58 (di cui la 1999/74 è una conseguenza), generalmente ribattezzata
come la “Carta dei diritti degli animali allevati”. Essa stabilisce che gli animali siano
ispezionati almeno una volta al giorno e, se feriti o malati, ricevano subito le cure
appropriate. Ancora, la Carta sancisce che ogni animale debba disporre di uno spazio
adeguato alle proprie “esigenze fisiologiche ed etologiche”, che il contenuto e le modalità
dell’alimentazione siano ottimali, in modo da evitare inutili sofferenze, e così via.
La Direttiva, però, non era conclusiva: la definizione delle suddette esigenze fisiologiche ed
etologiche veniva demandata sia all’esperienza acquisita sia alle “conoscenze scientifiche”.
E soprattutto, partendo dalla realistica constatazione che l’Europa non è un mondo a sé, la
Commissione s’impegnava a presentare entro il 30 giugno 1999 un rapporto al Consiglio citiamo - “concernente:
1) il confronto tra le disposizioni in materia di benessere degli animali della Comunità e dei
Paesi terzi fornitori della Comunità,
2) la possibilità di ottenere una più ampia accettazione internazionale dei principi in materia
di benessere degli animali stabiliti dalla presente direttiva,
3) il rischio che gli obiettivi comunitari relativi al benessere degli animali possano essere
vanificati dalla concorrenza di paesi terzi che non applicano norme equivalenti”.
Consapevole infatti che i nuovi, più stringenti standard di allevamento avrebbero
comportato un notevole aumento dei costi di produzione, e quindi penalizzato i produttori
europei rispetto agli altri, la Commissione annunciava la presentazione di “proposte
necessarie allo scopo di eliminare distorsioni della concorrenza”.
Cosa cambia dal 1° gennaio
Il 1° gennaio è ormai alle porte, ma nessuno dei punti sopra annunciati ha trovato
attuazione. Del promesso rapporto “anti-distorsioni della concorrenza” con i Paesi terzi
fornitori della Comunità non c’è traccia. Le giustificazioni scientifiche delle nuove condizioni
di allevamento - nel senso della dimostrazione di una migliore qualità del prodotto che
deriverebbe da un cambio dell’attuale sistema della batteria - sono inesistenti. E
soprattutto, mancano i promessi mezzi finanziari volti ad accompagnare l’applicazione delle
nuove condizioni di produzione degli allevamenti in gabbia, in modo da perseguire
l’equilibrio economico promesso, insieme a quello sanitario e sociale, in vari punti della
Direttiva 1999/74. Anzi, non è neppure stato accettato il principio della concessione di tali
aiuti.
Per cui, stando così le cose, denunciano gli allevatori italiani (ma anche francesi e
spagnoli), dal 1° gennaio prossimo le galline ovaiole europee forse staranno meglio (ma
non è stato dimostrato), ma il vasto comparto legato alla produzione di uova (si veda il box
a pag. 11) soffrirà di una forte riduzione di competitività con ripercussioni su:
- i redditi agricoli, in quanto si ridurrà la produzione;
- l’indotto (cerealicoltori, mangimisti, produttori di attrezzature e imballaggi, ecc.), in
conseguenza di tale riduzione;
- l’occupazione, perché fortissimo sarà il rischio della sparizione dell’industria italiana degli
ovoprodotti, che verranno acquistati all’estero, molto meno cari, dall’industria pastaria e
dolciaria;
- la bilancia commerciale italiana, per il ricorso all’importazione di uova da batteria da altri
Paesi;
- le finanze degli italiani, che dovranno sopportare un aumento del prezzo dell’uovo stimato
in almeno il 20 per cento.
Si obietterà: lasciamo da parte i giudizi etici che - Benedetto Croce docet - poco hanno a
che fare con la sfera della politica e dell’economia, e non chiediamoci se sia giusto e morale
che tante galline vengano, e rimangano, al mondo per soddisfare i bisogni di un’altra specie
animale. Se i cittadini, che sono anche i consumatori finali del “prodotto uovo”, vogliono
sacrificare parte della propria convenienza economica e della propria sicurezza alimentare
ad una condizione di vita “più umana e naturale” degli animali da allevamento, perché non
permetterlo?
Il punto è che questa volontà, già incerta e contraddittoria quando viene esplicitata a
parole, nella pratica non emerge affatto, anzi.
Cosa vogliono i consumatori: parole e azioni
Recentemente si è svolto a Bruxelles un seminario per illustrare i risultati di una lunga e
vasta ricerca su “La preoccupazione dei consumatori riguardo al benessere degli animali e
l’influenza sulla scelta degli alimenti”, condotta nell’ambito di un progetto finanziato dalla
Commissione Europea, in 5 Paesi: Gran Bretagna, Irlanda, Germania, Francia e Italia.
In estrema sintesi, premessa la sostanziale uniformità di risposte nei vari Paesi, i
consumatori interpellati hanno mostrato:
- una forte preoccupazione per tale benessere, dettata però non tanto da un interesse per
gli animali in sé, zoocentrismo, quanto dalla ripercussione che, ai loro occhi, tale benessere
ha sulla qualità e sicurezza del cibo, antropocentrismo. Detto più chiaramente, c’è più
preoccupazione per l’influenza della produzione sulla sicurezza e sulla qualità del cibo, sulla
salute dell’uomo e sul prezzo, piuttosto che sul benessere degli animali;
- una stretta connessione, comunque, fra zoocentrismo e antropocentrismo. Anche se
questo prevale su quello, il consumatore non dubita che condizioni migliori degli animali
significhino più elevata qualità dei prodotti;
- una quasi totale disinformazione sugli attuali, effettivi sistemi di produzione. Al posto
della conoscenza, gli intervistati esprimono una generica aspirazione a sistemi di
allevamento più “naturali”. Questo aggettivo, trasformato oggi (e non solo nel settore
avicolo) in una sorta di magico passepartout, viene visto come la sintesi possibile fra costo
e benessere degli animali e fra questo, la sicurezza del cibo e la salute di chi lo consuma.
Certo, una volta informato sui reali sistemi di allevamento, nella maggior parte dei casi il
consumatore (ma anche il giornalista) finisce con l’ammettere: “Non sapevo che fosse così,
pensavo che fosse peggio”.
Ma allontaniamoci da questo groviglio di emozioni, pensieri e parole, tutti peraltro sollecitati
dagli intervistatori, per vedere il comportamento “reale” dei consumatori. Nei Paesi
nordeuropei, dove pure la sensibilità ecologista è più accentuata e la produzione di uova da
galline non in gabbia, di conseguenza, più diffusa, l’offerta di questo prodotto “naturale” è
risultata, per circa la metà, inevasa.
Infatti, le uova provenienti da allevamenti all’aperto, e per questo più care delle altre, sono
rimaste invendute sugli scaffali. E’ evidente che, senza dover rispondere a qualcuno ma soli
con la propria coscienza e con le esigenze del bilancio familiare, i consumatori scelgono in
modo inequivocabile, mostrando senza impaccio quell’antropocentrismo che pure emerge
nella ricerca.
Conclusioni
Terrà conto Bruxelles di queste scelte? Metterà davanti i presunti benefici delle galline o i
sicuri danni economici e sociali derivanti al settore? Privilegerà le galline o gli uomini? La
battaglia si preannuncia dura e, per molti aspetti, “impopolare”. Ma i produttori hanno
deciso di combatterla fino in fondo chiedendo, per cominciare, al ministro italiano delle
Politiche agricole di farsi latore di una richiesta di rinvio nell’applicazione delle nuove norme
comunitarie, almeno fino a quando non saranno soddisfatte le pre-condizioni che la stessa
Commissione aveva menzionato.
“Ne va - affermano - della stabilità della produzione comunitaria di uova e della sicurezza
alimentare dei consumatori. Solamente la produzione europea, sottoposta a regole più
rigorose, è in grado di dare tutte le garanzie desiderate dal consumatore”.
Inoltre, per l’alimentazione delle galline ovaiole in Italia vengono oggi utilizzate un milione
e mezzo di tonnellate di mais all’anno, quasi interamente di produzione nazionale.
Secondo l’UNA, dal 1° gennaio 2003 con l’applicazione della Direttiva 99/74/CE si
subiranno i seguenti effetti:
- riduzione del 20% della produzione nazionale
- riduzione almeno pari delle uova trasformate
- riduzione almeno pari dell’occupazione
- aumento almeno pari del prezzo delle uova per il consumatore.
Con le cipolle e le zucchine, ma anche in decine
dei gusti
di altri modi, la frittata è il piatto al top
L’uovo preferito dagli italiani
Paolo Mattei
Giornalista
è quanto emerge da una recentissima indagine condotta dal Cirm, per conto dell’Unione
Nazionale dell’Avicoltura: scopriamone le ragioni, prima di addentrarci nei mille segreti di
un piatto dalla tradizione millenaria e internazionale
l Che la frittata avesse tanti, golosi estimatori era facile immaginarlo. Che fosse invece, in
assoluto, l’“uovo” preferito dagli italiani, forse non era scontato. Eppure questo emerge dal
sondaggio realizzato dal Cirm, per conto dell’Unione Nazionale dell’Avicoltura, in occasione
della Giornata Mondiale dell’Uovo 2002 svoltasi l’11 ottobre scorso.
Prima di lasciare, nelle pagine seguenti, la parola agli esperti sui mille segreti della frittata,
vediamo dunque il punto di vista degli italiani attraverso i numeri, eloquenti, della ricerca
del Cirm.
(segue a pag. 16)
La frittata? Meglio se con cipolle e zucchine
Primo - e per molti versi ultimo - punto: la metà dei nostri connazionali mette senza
esitazioni al primo posto la frittata nel suo gradimento di uova e dintorni: segue
l’intramontabile uovo al tegamino, apprezzato da 1 italiano su 4, e poi il pratico uovo sodo.
Sul perché di questa scelta poco spazio viene lasciato al dubbio: 3 italiani su 4 considerano
la frittata un pasto pratico e veloce ma comunque gustoso, e 1 su 2 ritiene che sia adatto a
tutti, perché coerente con una sana e corretta alimentazione. Ciò vuol dire che è passata
davvero molta acqua sotto i ponti da quando circolava insistente l’accusa di scarsa
digeribilità (la fa propria ormai solo un italiano su 10) o di eccessivo contenuto in grassi.
Sarà per questo che in media una volta ogni 10 giorni (3 al mese, quindi) ogni italiano non
si fa mancare la sua bella frittata; 3 italiani su 10 arrivano a consumarla 4 volte al mese, e
c’è anche una nicchia di “aficionados” (4,9%) che la mangiano, pensate un po’, 2-3 volte
alla settimana.
D’altra parte, essendo la frittata più che altro un connubio da celebrare “insieme con” altri
alimenti, diventa curioso andare a scoprire gusti e scelte degli italiani, dal Nord al Sud del
Paese. Qui si apre una vera e propria spaccatura fra una linea più “raffinata” e sofisticata e
un’altra che bada al gusto deciso e alla sostanza. Vincono, a pari merito e in
rappresentanza delle due scuole di pensiero, due classici della frittata, ciascuno indicato da
quasi 2 italiani su 10: quella con le cipolle, per palati robusti, soprattutto maschili, e quella
con le zucchine, per palati più delicati, in maggioranza femminili. Al terzo posto si piazza la
frittata con le patate, apprezzata soprattutto dai giovani meridionali; seguono quelle con
prosciutto e formaggio e poi, ancora, carciofi, asparagi e pasta. Quest’ultima, praticamente
sconosciuta nel Centro-Nord (1%), è invece letteralmente adorata dal 18% dei residenti al
Sud.
Scivolano invece in fondo alla classifica altri classici, evidentemente poco frequentati, come
la frittata ai fiori di zucca, alla salsiccia e al tartufo: in quest’ultimo caso il costo della
materia prima è forse determinante anche se, continuano a ripetere gli esperti, mangiarla è
una delle grandi esperienze gastronomiche da provare almeno una volta nella vita.
Quanto agli abbinamenti preferiti, la scelta cade, un po’ a sorpresa, soprattutto sull’acqua
(50,7%), mentre il vino rosso è un “must” per il 25,4% del campione; il 12% sceglie il vino
bianco e solo il 4,3% la birra chiara o le bevande analcoliche.
Frittata e omelette: qual è la differenza?
Alla richiesta di indicare il vero segreto per ottenere una buona frittata, si ripresenta il
solito derby donna/uomo: le prime sono la maggioranza di quei 4 italiani su 10 che
mettono comunque al primo posto la scelta della giusta padella. Al secondo posto (con la
metà dei consensi) finisce invece la convinzione - neppure così corretta - che sia
determinante l’utilizzo del burro al posto dell’olio. Ma c’è anche chi crede che stia nelle erbe
aromatiche il vero tocco da maestro. Queste ultime due opinioni sono appannaggio
soprattutto degli uomini.
Quattro italiani su dieci, infine, soprattutto tra gli over 55 residenti al Sud, non conoscono
la differenza tra frittata, nella quale chiara e tuorlo sono mescolati agli altri ingredienti, e
omelette, dove invece chiara e tuorlo formano un “contenitore” nel quale gli ingredienti
vengono avvolti rimanendo distinti: o pensano che siano la stessa cosa, oppure credono
che la frittata sia salata e l’omelette dolce.
La Giornata Mondiale dell’Uovo 2001 ha, prima di tutto, sgombrato il campo dai pochi o
molti residui dubbi, fraintendimenti e luoghi comuni sull’uovo, riscoprendo gli ingredienti e i
tanti modi di preparazione che fanno della frittata un piatto buono, sano, incredibilmente
versatile, di veloce preparazione e, last but not least, di moderate (a volte moderatissime)
pretese economiche. L
BOX
Roma: tutti in piazza Campo de’… frittate
Una grande occasione per i romani amanti delle frittate per assaggiare mille ricette
provenienti da tutto il mondo. Questa l’opportunità offerta ai cittadini della Capitale da
“Frittate dal mondo”, l’evento di piazza promosso dall’Unione Nazionale dell’Avicoltura per
celebrare in Italia la Giornata Mondiale dell’Uovo (World Egg Day) 2002, tenutosi la
domenica mattina del 13 ottobre scorso in piazza Campo de’ Fiori.
Oltre che un appuntamento gastronomico, la manifestazione, cui hanno partecipato molte
migliaia di persone invogliate anche dalla magnifica mattinata di sole, è stata un’occasione
per imparare l’arte di fare una buona frittata e tante nuove e gustose ricette, grazie alla
distribuzione gratuita, avvenuta fino ad esaurimento, del volume “Frittate dal mondo” edito
dall’UNA.
Quest’anno la ricorrenza internazionale della Giornata Mondiale dell’Uovo era dedicata
all’uovo “rotto” e cucinato in padella: una preparazione ad alto valore nutrizionale diffusa in
tutto il mondo che in Italia, come conferma il sondaggio Cirm commentato in queste
pagine, vuol dire frittata.
Nel corso della manifestazione di piazza Campo de’ Fiori, patrocinata dal Ministero per le
Politiche Agricole e Forestali, cuochi italiani, membri dell’Associazione dei Jeunes
Restaurateurs d’Europe, sono stati affiancati da colleghi provenienti da tutto il mondo che
hanno proposto ricette tradizionali dei Paesi di provenienza. Il frutto del loro lavoro, frittate
di ogni genere e gusto, è stato offerto gratuitamente al pubblico presente. (M. Ber.)
Promozione a pieni voti da uno dei più famosi
dietologi italiani
Ottima e completa!
Cristiana Ciofalo
Giornalista
Secondo il prof. Pietro Migliaccio, la frittata è un alimento eccellente anche dal punto di
vista nutrizionale, unendo ai numerosi pregi del suo ingrediente base, l’uovo, quelli che
derivano dai tanti ingredienti con cui si può utilmente abbinare
l Che la frittata sia un piatto gustoso e sempre diverso, lo abbiamo appena scoperto e lo
vedremo ancora meglio leggendo questa rivista. Che sia anche ottimo sotto il profilo
nutrizionale lo conferma, in questa intervista, un esperto del calibro del prof. Pietro
Migliaccio, che ce ne racconta pregi e virtù. Ascoltiamolo.
Qual è il suo giudizio di nutrizionista sulla frittata?
Ottimo, da diversi punti di vista.
Quali?
Cominciamo dal principio: per fare la frittata dobbiamo rompere delle uova. Ma non è finita
qui. La versione più “classica” di questo piatto prevede, per una persona, due uova e un
cucchiaio da 10 grammi di olio, naturalmente extravergine d’oliva. In questa versione,
contrariamente a quanto forse ancora comunemente si crede, otteniamo un piatto molto
leggero con un apporto di circa 250 calorie.
Dunque la frittata non fa ingrassare?
No, ma nella sua versione “base” il contenuto calorico è troppo esiguo per considerare la
frittata un pasto completo. Meglio, allora, sfruttare la versatilità dell’uovo aggiungendo
verdure fresche a nostro piacimento.
In questo modo che cosa si ottiene?
Una frittata di due uova con spinaci, biete, funghi e asparagi diventa un pasto completo
soltanto con l’aggiunta di 40 grammi di pane, arrivando a poco più di 400 calorie. Il pane,
invece, è da evitare se optiamo per una frittata di patate: aggiungendone 200 grammi, le
calorie diventano infatti circa 450.
Perché, con l’aggiunta di verdure, otteniamo un pasto completo?
Perché, unita con funghi, spinaci, biete ecc., la frittata consente di assumere nello stesso
tempo proteine animali di alto valore biologico e le vitamine delle verdure. Inoltre, con l’olio
extra vergine d’oliva, che è in assoluto il migliore per cuocere, assumiamo anche la giusta
quota parte di grassi, ovvero gli acidi grassi essenziali che non rischiano di venire alterati
da una frittura leggera. Con l’aggiunta del pane, infine, abbiamo anche la giusta dose di
carboidrati, ottenendo un pasto nutriente che risponde anche ai requisiti del modello
mediterraneo, parte integrante della nostra cultura, equilibrato in ogni suo aspetto. Ma
anche una semplice frittata può diventare un pasto completo: basta aggiungervi una bella
insalata e, naturalmente, di 40 grammi di pane. Meglio ancora, anzi, se si riduce la
porzione d’insalata e si mangia un frutto, che può essere un’arancia, un kiwi o una mela.
In altre culture gastronomiche la frittata viene abbinata ad alimenti diversi da quelli
“mediterranei”. Con quali risultati, dal punto di vista del nutrizionista?
Se accantoniamo le suggestioni e i sapori di casa nostra per rifarci, ad esempio, all’“English
Style”, dobbiamo sapere che aggiungere alla nostra frittata del bacon, ovvero della
pancetta, fa lievitare sensibilmente l’apporto calorico del piatto.
Dunque la pancetta è da bandire?
Volendo, possiamo aggiungere sapore, senza rischi per la linea, sostituendo il cucchiaio
d’olio con 15 grammi di pancetta da far rosolorare, naturalmente, in una padella
antiaderente: le calorie saranno le stesse. Inoltre, di questo piatto esiste una versione più
italianizzata che vede, al posto della pancetta, 50 grammi di prosciutto. Anche in questo
caso le calorie aumentano un po’, ma possiamo ridurre il pane e non mangiare la frutta.
Da ciò che lei dice, viene confermata la grande capacità della frittata di unirsi a moltissimi
alimenti, anche assai diversi fra loro. è così?
La frittata è, in effetti, un piatto molto versatile. E lo è al punto che non solo si sposa e si
combina con ogni sapore, ma è anche utile per smaltire gli avanzi. Una vera leccornia è, ad
esempio, la frittata di pasta, che combina “la regina della tavola” con il gusto delle uova
fresche e dell’olio d’oliva. Bastano 40 o 50 grammi di pasta, avanzata magari dal pranzo di
mezzogiorno, ci si aggiungono due uova e si ottiene un piatto unico, veramente completo.
Secondo i risultati del recente sondaggio del Cirm, le frittate preferite sulle tavole degli
italiani sono quelle con le cipolle e con le zucchine. Come le giudica?
Due ottimi e fantasiosi mix di uova e verdure. Questi piatti, in pratica, si equivalgono per
valore nutrizionale e gusto. 100 grammi di cipolle, infatti, contengono 20 calorie, lo stesso
quantitativo di zucchine ne contiene 10-12: una differenza, come si vede, del tutto
trascurabile. Ciò che invece influisce sulle calorie è l’olio: a parità di suo utilizzo, la frittata
di cipolle e quella di zucchine hanno lo stesso apporto calorico. Anche in questo caso,
quindi, se vi consumiamo insieme 40 grammi di pane e un frutto, avremo un pasto davvero
completo, gustoso, nutriente e dietetico, che non va a scapito della linea.
Dunque gli italiani hanno buon gusto anche dal punto di vista nutrizionale?
Come esperto di nutrizione, non posso che compiacermi delle scelte emerse dal recente
sondaggio Cirm: esse provano come gli italiani abbiano gusti sani e un concetto, sempre
più diffuso, di una corretta alimentazione che non dev’essere fuorviato da assurde mode
straniere.
Dunque nessuna controindicazione al consumo della frittata?
Beh, non proprio. Controindicazioni ci sono per chi soffre di ipercolesterolemia (anche se in
questo caso la “colpa” non è tanto delle uova in sé, quanto dei grassi che possono incidere
sulla formazione del colesterolo) e di calcoli al fegato. Le uova, infatti, producono la
contrazione della colecisti, che in caso di calcolosi può diventare molto dolorosa. l
Una panoramica sulle applicazioni
della “figlia prediletta” dell’uovo
Un mondo fatto a frittata
Marta Bertolini
Giornalista
Dall’Europa mediterranea (sua culla) fino al lontano Oriente, dalla poco conosciuta Africa
fino all’inquieto Nordamerica e all’esotico Sudamerica, c’è un piatto che ha molto da
raccontare nella tradizione e altrettanto da proporre al futuro della gastronomia
internazionale. Ecco in che modo
l Vittorio Castellani aka Chef Kumalè, giornalista free lance e gastronomade insaziabile, è
un’autorità nel campo della cucina cosiddetta “etnica”. Formatosi alle cucine e alle culture
del mondo a Parigi, Londra e Berlino, è membro della giuria internazionale del Premio Slow
Food; coordina i corsi sulle cucine etniche per il Master of Food; collabora con Slow Food
per il Salone del Gusto di Torino. Inoltre, come esperto delle cucine arabo-mediorientali, è
membro del Comitato scientifico della rete europea Conservatoire des Cuisines
Méditerranéennes. Cura per “Il Venerdì” di Repubblica la rubrica “Il piatto etnico” e per
l'inserto settimanale “Torino Sette”, edito da La Stampa, le rubriche “MAPPAmondo” e
“PAPPAmondo”. Collabora con svariate riviste (Qui Touring, Gulliver, Internet News) e
istituzioni sui temi delle culture materiali nei Paesi extraeuropei e nelle metropoli
dell'Europa meticcia.
Nessuno meglio di lui, dunque, è in grado di offrirci una panoramica a 360 gradi sulla
diffusione e l’impiego della frittata (e del suo elemento base, l’uovo) al di là non solo dei
confini nazionali, ma del Vecchio e del Nuovo (a noi più conosciuto) Mondo.
Dov’è nata la frittata?
Quando si parla di frittata o di omelette, nella storia della cucina, è inevitabile pensare
inizialmente all’Europa mediterranea, che della frittata e soprattutto delle sue tecniche di
cottura è la culla principale. Per la precisione, “madre” del nucleo centrale della tradizione
“frittatista” può considerarsi il Mediterraneo del nord. Dal Maghreb fino al Bosforo, invece,
si può dire che la penetrazione sia avvenuta in buona parte per contatto e per osmosi.
Ciò vuol dire che la frittata è estranea alla tradizione del Mediterraneo del Sud?
Non proprio. Nel Maghreb, in Tunisia, esiste da sempre l’ambo con le merguez, le salsicce,
e la harissa, la salsa piccante a base di erbe aromatiche. Anche nel tajin tunisino (diverso
da quello marocchino), un sorta di sformato di verdure, carni e/o tonno, l’uovo lega tutto in
una super-frittata alta sette-otto centimetri. E fa da collante e avvolgente anche per una
classica ratatouille “vestita” di verdure, detta kestegi.
E nell’Europa di cui facciamo parte?
Quanto all’Europa più vicina a noi, Italia inclusa, tutto è noto. Sappiamo bene come la
frittata sia un pilastro del “nutrirsi inventando sapori”, un medium per mille e mille
ingredienti, tanto da aver generato piatti e tecniche bandiera (basta pensare alla Francia e
alla sua omelette) per interi Paesi, ma anche per singole regioni. Ognuna, da noi, ha la
propria. O le proprie. E ovviamente, dato il costo relativamente basso dell’ingrediente base
ma anche la sua versatilità, ecco che la frittata fa da ponte tra cucina popolare e cucina
super creativa, quella degli chef emergenti, così alla ribalta oggi.
Un fenomeno ristretto solo a questa parte del nostro continente?
Dall’Europa, la migrazione del gusto e le correnti di viaggi ed esplorazioni un po’ portano e
un po’ riscoprono la frittata, o piatti simili, quasi ovunque. Tipico è il caso del Sudamerica,
dove la storia dell’uovo battuto e miscelato si sposa con le tecniche importate dagli
spagnoli (con la saga della tortilla). Ma introietta anche, com’è ovvio, ingredienti locali, a
cominciare dalla patata ma non solo. Tra Argentina e Perù, soprattutto, molte sono le
varianti che si innescano sulla tecnica consueta. Nella preparazione delle frittate entrano
così la patata dolce, i frutti di mare (soprattutto in Cile), erbe da noi di uso non proprio
quotidiano, come il coriandolo, la manioca, ecc. In Brasile, poi, le uova si sposano
addirittura con la frutta, con l’ananas speciale che si chiama bagascì, ma con una tecnica di
elaborazione che vira verso la frittella, a partire dalla grande base della frittata.
E nell’Estremo Oriente?
Qui per l’uovo in tutte le sue manifestazioni gastronomiche c’è, da sempre, addirittura
venerazione. Si pensi solo alla Cina imperiale, dove l’uovo è il segno primario di rinascita, a
primavera, per il Capodanno cinese. Le frittate sono sottili, insaporite con zenzero e
germogli saltati di bambù o soia, o con polpa di granchio, con uno stile simile più a quello
dell’omelette che della frittata alta, all’italiana. Si chiama tamago, invece, la frittata
bandiera giapponese, la cui tecnica risente ovviamente dei contatti con l’occupazione
portoghese, con ibridazioni risalenti al XVI secolo. Fu allora che, insieme alle tecniche di
frittura (ebbene sì, la tempura deriva da un viaggio di andata e ritorno del sapere
culinario), nasce la cottura nella pentola antiaderente (che però lì è rettangolare): per
preparare la frittata che, tagliuzzata a striscioline, diventa elemento essenziale del
norimaki, uno dei “pezzi” costituenti di un buon sushi. Nelle Filippine, dalla contaminazione
tra ingredienti locali e influenze cinesi e spagnole (il gusto dei piccoli stuzzichi, detti tapas),
c’è la variante aromatizzata con acqua di pesce, e personalizzata con polpa di abalone. In
Indonesia, soprattutto in Thailandia, ecco infine frittatine stile Giappone, sottili, arrotolate,
tagliate e abbinate a riso condito con gamberetti e ananas nel classico nasi goreng. Ma non
basta.
Perché?
Finora abbiamo parlato solo di uova di gallina. Ma si sa che i cinesi amano anche quelle
d’anatra e di quaglia, marinate con anice stellato, aglio e soia, fino a divenire, sgusciate,
quasi sculture, uova di marmo nero e blu.
Lo stretto rapporto con l’uovo dell’Europa e della Cina si ritrova nei territori fra i due
continenti?
Certamente. Una dimostrazione viene dall’Est europeo, in cui il rapporto con l’uovo e la
frittata rappresenta proprio il punto d’incontro tra l’influenza della Cina e radici europee. In
tale contesto, Mosca e San Pietroburgo sono le capitali della cucina dell’uovo.
E l’Africa?
A parte quanto detto prima a proposito del Nordafrica e il caso del Sudafrica, con la sua
cucina “arcobaleno” frutto di mille incontri e apporti, nel resto del continente il lavoro
sull’uovo è molto diretto. Un esempio? In Kenya, dove l’uovo viene legato sulle vanghe per
scavare la terra: lavata e arroventata dal raggio solare, la vanga diventa una vera pentola
antiaderente. E funziona.
è rimasto il Nordamerica. Che dire?
Se ha un senso parlare di “fusion”, ciò vale proprio per gli Stati Uniti. Tutto il mondo nel
piatto si convoglia e si mescola nelle recentissime tradizioni gastronomiche americane,
continuamente sospinte in avanti da nuovi apporti e dai conseguenti esperimenti creativi.
Perciò, a dover scegliere un sapore bandiera, si sarebbe un po’ in difficoltà. Forse, a ben
vedere, va individuato tra quelle varianti speciali, rami laterali sul tronco della frittata, che
sono i pancake e gli hotcake, le frittelle mattutine o da brunch, da condire con sciroppo
d’acero, così popolari anche in Canada. l
I consigli di Angelo Troiani, dell’Associazione dei Giovani
Ristoratori d’Europa
Frittata, istruzioni per l’uso
Finalmente i “segreti” che non avete mai osato chiedere o che mai nessuno prima ha
voluto, o saputo, svelare per realizzare al meglio un piatto semplice sì, ma che richiede
attenzione
l Fare una frittata sembra facile, e sostanzialmente lo è. Ma farla bene, farla al meglio, è
un'altra cosa. Ha le sue regole, le sue trappole, i suoi riti. E anche una lunga serie di luoghi
comuni in buona parte, ahimé, sbagliati e quindi da sfatare.
Poi ci sono i piccoli segreti: quelli che uno chef brillante, giovane, ma sperimentatissimo e
affermato come Angelo Troiani (Il Convivio, Roma, pilastro dell'Associazione dei Jeunes
Restaurateurs d'Europe) conosce a menadito. è con il suo aiuto perciò che, argomento per
argomento, proviamo a disegnare una mappa del da farsi (e non). E a risolvere per il
meglio i dubbi più importanti di un "frittattista" dilettante.
Quale recipiente di cottura usare?
Fondamentale è la giusta proporzione fra quantità di uova e diametro del recipiente. Che va
oliato, o comunque ingrassato, uniformemente ma senza eccessi. Le proporzioni più
comuni: per 4 uova, la padella deve avere 22 cm di diametro; per 2 uova, 14 cm. Quanto
al materiale, è preferibile una padella di ferro o di quelle smaltate, purché con un discreto
spessore. Ciò al fine di ottenere uniformità di calore.
Si può usare la padella antiaderente?
Certo, è la più facile (la padella di ferro, ad esempio, è ideale, ma solo a patto di una
perfetta manutenzione): praticamente non ha difetti e dà la sicurezza di un buon sapore,
anche se senza accentuazioni particolari. Importantissimo, naturalmente, è accertarsi che il
fondo non sia rigato e la pellicola antiaderente non incisa o compromessa.
Qual è il modo giusto di tenere le padelle?
Vanno tutte pulite con acqua e sapone normale da stoviglie (meglio di tutti è il Marsiglia a
scaglie). Si può usare anche la carta paglia, cioè la vecchia carta da involto delle
macellerie, ma occorrono un lavoro e un'attenzione particolare per non lasciare traccia di
cotture pregresse. Le padelle vanno asciugate benissimo prima di essere riposte (meglio
farlo con un breve passaggio in forno) ed è consigliabile ungerle leggermente per prevenire
il formarsi, esiziale, di ruggine. Infine, meglio tenere le padelle "a riposo" appese, come si
usava nelle vecchie cucine: questo impedisce che vi entrino schizzi da pentole in cottura e
umidità.
Qual è l’ideale temperatura di cottura di una frittata?
Medio bassa, cioè, cuocendo a gas, la mezza fiamma. è importante scaldare la padella
prima, fino al punto in cui il grasso di cottura sia ben caldo, lucido e uniforme, ma sempre
largamente sotto il punto di fumo. è questo il momento giusto per calare le uova.
Quali grassi di cottura usare?
La regola generale dice olio: extravergine sempre e, comunque, di rigore su tutte le frittate
con verdure e ortaggi. Anche sul resto non ci sono quasi controindicazioni: l’unico aspetto
da tenere presente è che l'olio tende a fare più crosta. Con il burro la frittata resta più
morbida; quindi questo grasso è di rigore solo per scelte speciali. Nella tradizione italiana si
può evitare di usarlo, a meno che fra gli ingredienti non ci sia il tartufo bianco. Quanto al
lardo, si contano esempi di ricette sia illustri sia rustiche, tutte squisite: uno dei più grandi
cuochi al mondo, il francese Michel Troisgros, è celebre proprio per le sue frittate al lardo.
Questo grasso è ideale per frittate come quelle con le patate e le cipolle.
Quanto grasso di cottura va usato?
Per l'olio, e per una dose media (frittata e padella da 4 persone), calcolate 2 cucchiai da
tavola, da portare a 100-110 gradi. Per il burro, e ugual dose, 2 noci, da portare ad
analoga temperatura. Con altri grassi animali va impiegato quanto basta per lucidare bene
la padella in ogni punto, bordi inclusi.
Per cuocere può essere usato anche il forno?
Il forno è di rigore per tutte le frittate "alte" e molto soffici, in particolare per le soufflé, che
impiegano albumi montati a neve ed amidi.
Quali sono gli errori più gravi da evitare?
Quello del rapporto tra diametro della pentola di cottura e il contenuto. Inoltre, fare una
frittata troppo sottile quando è previsto un "ripieno" consistente: questo finirebbe sul
fondo, attaccandosi. Infine, creare in cottura sbalzi di temperatura: una frittata come si
deve non ne vuole.
Come si fa una buona omelette?
Si parte, al solito, dalla pentola. Dev’essere più svasata e con bordi più alti di quella usata
per la frittata normale, in modo da poter lavorare sul fondo, anzi sulla curva tra fondo e
bordi. In cottura, battete leggermente sul manico per far "muovere" il liquido e staccare
bene la parte cotta. Non abbiate fretta, e non alzate mai troppo la fiamma.
La frittata è una pietanza stagionale?
No, assolutamente. Anzi, proprio perché si può realizzare con mille ingredienti diversi, è un
piatto “sempreverde”. La stagionalità dipende, ovviamente, dagli ingredienti impiegati:
ortaggi e verdure, per abbondanza di scelta e per tradizione, si confanno al periodo
primavera-estate; formaggi importanti, durelli di pollo, tartufo e salsiccia sono più adatti
all’inverno.
Come va servita la frittata, fredda o calda?
Dipende, di nuovo, dalla scelta degli ingredienti. Una frittata con formaggio va di sicuro
servita ben calda; è squisita fredda quella di carciofi, ma ciò vale anche per molte altre
verdure. Fredda (ma mai di frigo, come tutte le altre, pena l'uccisione di parte del sapore e
la perdita della giusta consistenza) va la frittata di maccheroni, classico piatto da gita fuori
porta.
Con che vino accompagnarla?
Abbinare vino a piatti a base di uova è sempre un esercizio complesso. La "ferrosità"
dell'uovo, infatti, agisce sugli aromi del vino in modo sensibile e non sempre felice. Ma la
frittata è un caso a sé, non è soltanto uovo. Prevale dunque l'abbinamento riferito
all'ingrediente principale:
- un vino bianco ricco (più di quanto non sarebbe con i semplici gamberetti, ad esempio)
per frittate ai sapori di mare;
- un Pinot Grigio o un Tocai per quelle con verdure cotte;
- vini aromatici e di qualche morbidezza, dal Frascati all'Alsazia, quando anche le verdure
sono “ferrose” (spinaci, carciofi, asparagi) o quando è il “sapor d'uovo” a prevalere;
- un rosé abbastanza solido, ma anche un rosso (mai troppo tannico) quando dentro
prevalgono lardo, salsiccia e simili.
In linea di massima, tra i bianchi, vanno meglio i non “legnosi”, cioè non passati in barrique
nuova, o comunque non usciti dalla piccola botte troppo di recente.
Le raccomandazioni finali (e i trucchi del mestiere)
1) L'uovo non va battuto a fondo; guai a farlo diventare bianco! Rosso e albume vanno
appena mescolati.
2) La proporzione tra rossi e bianchi è di regola uno a uno. Si può togliere qualche albume
se si vuole un sapore più intenso, ma attenzione: la frittata sarà più asciutta. Si
aggiungono albumi montati a neve per le frittate soufflé.
3) Usate uova fresche, freschissime. Come riconoscerle? Prima di tutto, se le acquistate
confezionate - com’è sempre consigliabile - verificando dall’etichetta la data di consumo
preferibile (meglio ancora, quando c’è, quella di deposizione). Una maniera più empirica
consiste nel gettarle, con la dovuta cautela, in acqua leggermente salata: se affondano
sono buone, se galleggiano vuol dire che hanno aria dentro e non sono fresche; il guscio
dell'uovo, infatti, è poroso, e più è lunga la sua vita, più sarà l'aria penetrata al suo interno.
Se non avete a disposizione neppure l’acqua, agitate l'uovo (facendo attenzione a non
rompere il guscio) vicino all'orecchio: se non fa rumore, è fresco, se sciaguatta, c'è aria.
4) In un menu la frittata ha più di una chance. Come antipasto se fatta con verdure (anche
tagliata a listelle e servita in acconcia insalata). Come piatto di mezzo se farcita, modello
omelette, e magari completata con una salsa. Come pietanza vera e propria se
particolarmente ricca e complessa. Come dessert, ovviamente, se in versione dolce. l (M.
Ber.)
Il 2002 dell’avicoltura italiana
è cominciato male e proseguito peggio
Un’annata m olto difficile
Rita Pasquarelli
Dopo i positivi risultati del 2001, nei primi 9 mesi il settore delle carni di pollame ha perso
quasi 400 milioni di euro, e analogo andamento si è registrato negli altri Paesi UE. Alla base
di questi dati, in primo luogo, il fenomeno della sovrapproduzione determinato dalla
concorrenza sleale ai produttori europei da parte di alcuni Paesi terzi
Le carni di pollame
Dopo i positivi risultati, in termini di produzione e di consumi, registrati lo scorso anno per
le carni, il 2002 è cominciato male ed è proseguito peggio.
Sulla scorta dei dati preliminari, quest’anno in Italia la produzione di carni di pollo
diminuisce dello 0,5% (e nell’Unione Europea dello 0,6%) e quella di carne di tacchino del
5,1% (nell’UE dell’1,2%) (tabella 1).
I prezzi per i produttori nei primi nove mesi dell’anno si sono assestati a livelli nettamente
inferiori a quelli registrati nel corrispondente periodo del 2001: -15,8% per il pollo, -27,6%
per il tacchino; mentre i costi hanno continuato a crescere. Risultato: nel periodo in esame,
il settore delle carni di pollame ha registrato perdite pari a quasi 400 milioni di euro.
Analogo andamento si è verificato negli altri Paesi dell’UE.
Le cause della crisi
Quali sono le cause della crisi? Occorre partire dal fatto che, negli ultimi anni, l’offerta
comunitaria di carni di pollame è aumentata mediamente del 2 per cento annuo (e quella
italiana dell’1 per cento), in modo da soddisfare una crescente domanda interna ed estera
(tabella 2).
In tale quadro si sono però recentemente inseriti due importanti fenomeni che ne hanno
alterato i lineamenti:
a) le aumentate difficoltà di esportazione dall’UE verso i Paesi terzi, a causa del progressivo
abbattimento delle restituzioni conseguenza dell’Uruguay Round, hanno determinato dei
surplus interni;
b) la concorrenza esercitata dai Paesi terzi (Brasile e Thailandia in particolare) nel territorio
comunitario, specie in quello dei partner le cui produzioni interne non coprono il fabbisogno
nazionale (Germania e Gran Bretagna in primis), ha eroso le possibilità di destinare agli
scambi intracomunitari quella quota di produzione nazionale originariamente ad essi rivolta.
La concorrenza esercitata da questi Paesi, come si dice in altre pagine di questa rivista,
oltre a provocare grandi preoccupazioni in termini di sicurezza dei prodotti, e quindi di loro
immagine e, in prospettiva, nei consumi, si è pesantemente ripercossa sulla redditività
delle nostre aziende. L’acquisto dai Paesi terzi di prodotti concorrenti, a prezzi inferiori
anche del 40 per cento rispetto ai costi comunitari, ha, da un lato, avvantaggiato i Paesi
comunitari deficitari (ma facendo, anche lì, crollare i prezzi); dall’altro, ha bloccato gli
acquisti dai Paesi comunitari, fra cui l’Italia, il cui grado di autoapprovvigionamento è
elevato (tabella 3).
Così, se il 48 per cento dei prodotti provenienti dai Paesi terzi è stato acquistato dalla
Germania, seguita da Olanda (20) e Gran Bretagna (18), nessun Paese ne è risultato
esente. Perfino la Svezia lamenta i danni arrecati al proprio mercato dai prodotti brasiliani!
Le prospettive per il futuro
Che cosa è lecito aspettarsi per il futuro? Sul fronte delle garanzie riguardo alla sicurezza
dei prodotti importati, le cose dovrebbero andare meglio. Sia pure con sei mesi di ritardo,
l’Unione Europea ha deciso che tutte le partite di prodotti avicoli provenienti dal Brasile
(per la Thailandia questa decisione era già stata adottata) siano sottoposte a controlli
sistematici prima dello sdoganamento, per accertare che tali prodotti rispondano ai severi
requisiti comunitari in materia di igiene e sicurezza alimentare.
Sul fronte commerciale qualcosa è stato fatto, ma molto rimane ancora da fare.
Finalmente, le competenti Autorità comunitarie hanno inquadrato nella giusta voce
doganale i filetti di pollo provenienti dai Paesi terzi che fino ad oggi, grazie ad una
leggerissima spolverata di sale, riuscivano - di fatto - ad evadere i dazi doganali pagando
soltanto il 15,4 per cento sul valore della merce in entrata (cioè circa 28 centesimi di euro
al chilo) anziché l’importo del dazio previsto per questi prodotti (1,4 euro al chilo).
Ma di “trucchetti” simili ce ne sono ancora molti: la fesa di tacchino con il sale, ad esempio,
o peggio ancora quella con il pepe, che paga l’8,5 per cento, cioè 15 centesimi di euro al
chilo, anziché il dazio di 1,06 euro al chilo. Finché problemi di questo tipo non saranno
risolti, i produttori dell’Unione Europea non riusciranno a difendersi dalla concorrenza
sleale.
Le uova da consumo
Anche per il comparto delle uova l’anno 2002 chiuderà con un saldo negativo, di misura
però meno grave di quella delle carni avicole: la perdita è valutabile in 20 milioni di euro.
I dati preliminari evidenziano che quest’anno la produzione interna diminuirà dello 0,8 per
cento, assestandosi a 12,8 miliardi di uova contro i 12,9 miliardi dell’anno precedente, e il
consumo si assesterà su 226 uova per abitante. Nei primi nove mesi dell’anno i prezzi per i
produttori hanno evidenziato una sostanziale stazionarietà (-0,2 per cento), mentre sul
fronte dei costi si segnala un aumento del 2,5 per cento.
Purtroppo, poi, sono molte le preoccupazioni per i prossimi anni. Già a partire dal 2003, le
norme comunitarie imporranno una riduzione progressiva del numero di galline allevate,
con conseguente calo della produzione nazionale e comunitaria di uova. Ciò con le
inevitabili conseguenze sull’economia del settore, sull’occupazione e sulla bilancia
commerciale.
L’irresistibile ascesa di un volatile arrivato dal Nuovo Mondo
Quattro secoli di successi
Paola Canali
Giornalista
Fonte primaria di sostentamento per i Padri pellegrini sbarcati in America, piatto prelibato
per i palati di nobili e regnanti nell’Europa del Cinque, Sei e Settecento, oggi il tacchino non
solo è ospite immancabile sulla tavola in occasione delle più importanti feste sulle due
sponde dell’Atlantico, ma anche un alimento straordinariamente moderno per qualità
nutrizionali e gastronomiche nonché per velocità e facilità di preparazione e di consumo
l “Welcome!”. Chissà che faccia avranno fatto, scampati alle persecuzioni religiose, ad un
oceano (l’Atlantico) in tempesta, alla fame e al freddo di un aspro territorio sulla costa
nord-orientale del continente scoperto quasi 130 anni prima da Cristoforo Colombo, i Padri
pellegrini vedendosi improvvisamente accolti, nel linguaggio della natìa Inghilterra, da
Squanto, indigeno del villaggio di Patuket e membro della tribù degli indiani Wampanoag.
Chissà, i più religiosi di quel centinaio di uomini, donne e bambini salpati dal porto inglese
di Plymouth, nel settembre 1620, a bordo della nave “Mayflower”, l’avranno visto come un
segno miracoloso del loro dio. Ma tutti, anche i più disperati e i meno raccomandabili,
avranno sicuramente tirato un profondo sospiro di sollievo e rivolto un grande
ringraziamento a qualcuno o qualcosa. In fondo Squanto, al termine di una storia
romanzesca che l’aveva portato per 15 anni a vivere in Inghilterra prima di tornare “a
casa”, era probabilmente, all’epoca, il miglior anglofono di tutto il Nuovo Continente.
E non solo si trovava lì ma, bontà sua, dopo un primo, comprensibile momento di
dispiacere per quell’“invasione” di cui, forse, preconizzava gli infausti (per la sua gente)
esiti futuri, aveva fatto prevalere le tradizionali usanze di cortesia e ospitalità della tribù,
decidendo di aiutare i nuovi coloni: gli indicò le piante velenose e quali, invece, potevano
essere usate come medicine; gli spiegò come scavare e cucinare le vongole, come estrarre
il succo dagli alberi di acero e tante altre cose importanti per, letteralmente, non morire.
Un animale da “ringraziamento”
L’anno seguente, dopo i primi raccolti, i coloni superstiti (più o meno la metà) pensarono
quindi che fosse doveroso invitare i propri amici nativi americani ad una grande festa per
ringraziare Dio del fatto di essere riusciti a sopravvivere. Fu il primo Giorno del
Ringraziamento (Thanksgiving Day), che da allora, ogni anno, si è puntualmente ripetuto
nell’ultimo, e dal 1945 in poi nel quarto giovedì di novembre. Il capitano Miles Standish,
capo dei Pellegrini, invitò Squanto e i capi del villaggio insieme ai loro familiari più vicini.
Salvo poi scoprire la relatività culturale di concetti quali quello di “parentela stretta”:
arrivarono infatti novanta persone, le quali capirono subito che, se avessero voluto
mangiare per tre giorni così come concordato, avrebbero dovuto provvedere loro alle
vettovaglie. E così fecero: portarono cinque cervi, pesce, fagioli, zucche, mais, bacche. E
molti tacchini selvatici, che si rivelarono subito il piatto forte, e più gradito, fra i
commensali.
Al punto che, da allora, nel più importante giovedì dell’anno, il tacchino fa bella mostra di
sé sulla tavola di ogni famiglia americana (dei quasi 300 milioni di tacchini allevati ogni
anno negli Stati Uniti, si calcola che circa 50 milioni vengano consumati in occasione del
Thanksgiving Day). E che, addirittura, Benjamin Franklin cercò, non riuscendoci per un
soffio, di proporre l’immagine del tacchino al posto di quella dell’“aquila calva” (bald eagle)
sullo stemma dei neonati Stati Uniti d’America.
A Natale, o grosso o piccino, su ogni tavola c'è il tacchino
D’altra parte, volgendo lo sguardo alla vecchia Europa, il tacchino non ci ha messo molto a
“volare” dal Nuovo al Vecchio Continente, diventando nel giro di pochi anni un cibo
raffinato, degno della mensa di un re. Arrivato nel 1519 al seguito degli spagnoli, trova
nell’Ordine dei gesuiti un instancabile promotore, tanto che gli irriverenti francesi non
esitano a battezzare il volatile “jesuite”. Eppure, malgrado le ironie, questo compare, nel
1570, nel banchetto nuziale di Carlo IX di Francia ed Elisabetta d’Austria e, trent’anni dopo,
in quello di Francesco IV re di Francia e Maria de’ Medici. E quella del maestro trinciante,
incaricato di tagliarne perfettamente la carne e di servirne a ciascun ospite il giusto pezzo a
seconda del rango, diventa una carica molto ambita nella quale rifulgono, peraltro, proprio
gli italiani.
Oggi che in Italia re e regine non ci sono più, almeno in carica, il tacchino è diventato, così
come negli Stati Uniti, un alimento di grande consumo: legato in modo significativo, anche
qui, ad una ricorrenza, il Natale (“A Natale, o grosso o piccino, su ogni tavola c'è il
tacchino”, recita un vecchio proverbio popolare), ma, ugualmente, apprezzato in ogni
momento dell’anno per le qualità nutrizionali, i pregi gastronomici e la versatilità di
preparazione e di consumo.
“Unavicoltura”, prendendo spunto dall’approssimarsi delle due feste più importanti al di qua
e al di là dell’Atlantico, ha pensato di dedicare a questo grande (in tutti i sensi) volatile una
particolare attenzione esaminandone, nelle pagine seguenti, quel “carico” di valori
nutrizionali, economici, sociali e storico-culturali che il tacchino si porta dietro ormai da
secoli e che permette di ampliare dal puro ambito gastronomico la nota definizione che ne
dette, due secoli fa, il famoso Anthelme Brillat Savarin nel trattato “Physiologie du gout”:
“Il tacchino è certamente uno dei più bei regali che il Nuovo Mondo ha fatto al Vecchio”.
Esiste un volatile molto grande, e non solo per le sue dimensioni
Ottimo e abbondante
Oliviero Sculati
Direttore dell’Unità di Nutrizione dell’ASL di Brescia
Ricca di proteine, magra, digeribile e gustosa: queste, a parere dei nutrizionisti, le
principali qualità della carne di tacchino. Merito della natura, certo, ma anche della costante
opera dell’uomo, che ne ha ulteriormente migliorato i pregi nutrizionali
l Il tacchino, nella memoria di chi lo vedeva razzolare nelle aie, era qualcosa di molto più
imponente dei polli, e solo qualche gallo raggiungeva le dimensioni dei tacchini più piccoli.
Quando però allargava le penne non c’era più paragone, e l’impressione di potenza
muscolare era associata al volume complessivo delle bestie. Oggi, con la selezione delle
razze, si arriva a tacchini dalla muscolatura molto più consistente e, con una mangimistica
selezionata, ad avere carni più magre di un tempo.
Tante proteine e pochi grassi
L’apporto proteico della carne di tacchino arriva, per le fese crude, al 24% con un modesto
1,2% di grassi: una delle concentrazioni proteiche più elevate della categoria “carni”.
Anche se prendiamo in considerazione il fuso con o senza sovra coscia, l’apporto di proteine
rimane molto consistente, intorno al 18%; e se il contenuto in grassi sale al 5-6%, senza
pelle scende, come si è detto, notevolmente. Infine, la composizione in aminoacidi della
parte proteica e le caratteristiche del tessuto muscolare rendono la carne di tacchino molto
digeribile. In virtù di questo insieme di qualità (in particolare della concentrazione
proteica), il tacchino risulta particolarmente indicato sia per gli organismi in crescita sia,
senza esagerare nella sua porzionatura, per il pasto di un adulto, compreso lo sportivo.
Altre caratteristiche: il ferro è presente in maggior quantità nei muscoli del coscio, proprio
perché si tratta di muscoli particolarmente attivi nell’animale, e questo ne giustifica anche il
colorito; fra le vitamine, buona risulta la fornitura di quelle del gruppo B. I grassi, inoltre,
non soltanto sono scarsi di quantità (cosa che ne fa una carne “leggera”, da questo punto
di vista) ma anche molto apprezzabili per qualità: la decisa prevalenza di grassi mono e
poli insaturi rispetta le indicazioni che oggi caratterizzano i grassi utili per una buona salute
dell’apparato cardiocircolatorio. Le preoccupazioni per una sana alimentazione relative alla
riduzione quantitativa dei grassi delle carni riguardano, perciò, marginalmente le carni di
tacchino, quando queste vengano cotte su piastra o grigliate. Tale preparazione, infatti, è,
insieme alle cotture al vapore, quella più utilizzata da chi sta a dieta.
Gustosa? Si può, anzi si deve
Molte volte, però, la presenza di pochi grassi penalizza sul piano del gusto i tagli di petto di
questa carne, che possono risultare un poco asciutti qualora non si sia particolarmente abili
in cucina. Così, la carne di tacchino viene vissuta come quella di chi sta a dieta, e se non ha
molto sapore, pazienza! In realtà è un errore accettare limiti sul piano del gusto, perché è
proprio dal sapore che si sceglie ciò che si mangia. Inoltre, oggi sappiamo che i piatti che
stimolano l’appetito (senza essere imbottiti di grassi fritti) vengono digeriti meglio. Stimoli
gustativi graditi, insieme ad una fase armonica e stuzzicante, pilotano le fasi secretive di
molti fattori digestivi capaci di coniugare soddisfazioni di sapore e piacere di una
preparazione ad una regolare funzionalità digestiva. Se ci si limita alle tecniche di cottura
sopra indicate, le carni di tacchino perdono alcune particolari peculiarità gustative che
possono, invece, essere rafforzate da tecniche che sfruttino l’impiego di aromi
particolarmente adatti. Ad esempio, nelle cucine dei turchi di religione musulmana il
tacchino viene spesso preparato con salse vegetali a base di succo di arancio e mandarino
unite a erbe aromatiche come il timo e il coriandolo, più o meno accompagnato con pepe
bianco e nero o da quei mix di pepe in grani di diverso colore. Ma si può trattare una fesa
di petto come un brasato, o rosolarla anche con poco olio d’oliva e poi continuare la cottura
in “umido”. Quest’ultima tecnica può sfruttare componenti di rinforzo, scegliendo le basi di
accompagnamento in funzione del gusto finale che si vuol ottenere: abbondanti cipolle e
carote tagliate sottilissime per un umido dal sapore finale di fondo più dolce; sedano,
cipolla, qualche carota, peperone e poco pomodoro per un sapore più orientato verso le
componenti salate e piccanti.
Infine, a chi non voglia “spadellare” e seguire troppo la cottura, si può ricordare che un
buon lesso viene dal coscio: si otterrà un brodo gradevole, oltre che carni sode e altamente
digeribili. Ed eliminando la pelle, si ridurrà ulteriormente di un poco la quota di grassi. l
“Vidi una quantità di enormi galline dalle piume come lana”
Un (ri)pieno di bontà
Giorgio Cammarota
Giornalista
Da cinquecento anni mette d’accordo americani ed europei, ricchi e poveri, nobili e persone
comuni: tutti intorno alle carni di questo volatile, nelle feste comandate e nel menu di tutti
i giorni, per mangiarlo in mille modi diversi, intero o in parti, da solo o farcito. E la
tradizione continua…
l “Vidi una quantità di enormi galline dalle piume come lana…”. Fra i tanti shock culturali
cui fu sottoposto a partire dal 1492 dopo aver messo piede in quelle che lui credeva essere
le Indie, Cristoforo Colombo ebbe anche questo, annotato fedelmente nel suo diario di
bordo in data 6 luglio 1503: imbattersi in pennuti di grandi dimensioni, che né lui né
nessun altro europeo aveva mai visto prima. I tacchini.
Sulla scia del navigatore genovese, anche altri non poterono fare a meno di paragonarli a
volatili meglio e da più lungo tempo conosciuti: “Hanno molte galline selvatiche che sono
grosse come pavoni”, annotava una ventina di anni dopo, nelle sue “Cartas y relaciones”,
Hernan Cortes a proposito dei territori messicani che stava spietatamente strappando agli
Aztechi. “In alcuni lochi d’Italia si dimandono pauoni d’India… sono molto grossi di corpo
che non è il pauone nostrale”, raccontava nella sua “Opera dell’arte del cucinare”, summa
della gastronomia italiana cinquecentesca, il celebre cuoco Bartolomeo Scappi. E ancora
due secoli dopo, il grande viaggiatore Girolamo Benzoni nell’“Historia del Mondo Nuovo”
scriveva: “Due cose produce questo paese… e l’uno si è una certa sorta di pavoni che sono
stati portati nell’Europa, che comunemente sono nominati gallini d’India…”.
Un successo immediato
Comunque, anche se “strani”, i “gallini d’India” ebbero immediato successo fra le mense
europee. Tanto che, tramandata fino ad oggi, è arrivata una ricetta di “tacchino ai profumi
dettati da Leone”, nella quale Leone sta per Leone X, ossia quel Giovanni de’ Medici, figlio
di Lorenzo il Magnifico, che fu papa per 8 anni, dal 1513 al 1520, durante i quali ebbe
modo di sfoggiare la propria passione per la buona tavola e i convivi rinascimentali.
D’altra parte, se si visita il magnifico Rijksmuseum (Museo di Stato) di Amsterdam - ben
noto agli appassionati di pittura del Cinque-Seicento, specie olandese - in una sala ci si
imbatte in una “Cucina con Cristo in casa di Marta e Maria”, datata 1566, di Joachim
Bueckelaer, nella quale - con un vertiginoso anacronismo concesso solo agli artisti compare, appeso per il collo, un bel tacchino in attesa di finire in pentola. Se, dunque, già
Gesù consumava questa carne, perché non avrebbero dovuto farlo i suoi “discendenti”?
Stiamo scherzando, ovviamente. Come il gastronomo Jean Anthelme Brillat Savarin si
incaricò di dimostrare nella sua “Physiologie du gout” (scritta nel 1826 e ora disponibile
anche in edizione italiana, Sellerio di Giorgianni editore, 1998), in un lungo capitolo
dedicato proprio al tacchino, questo animale era di origine indubbiamente americana.
Aveva dunque torto chi affermava che fosse già conosciuto ai tempi dei romani e,
addirittura, fosse stato servito al banchetto nuziale di Carlo Magno. Ciò detto, anche se non
al matrimonio del fondatore del Sacro Romano Impero, questo volatile è stato servito, con
gran pompa, in quelli di molti regnanti, spirituali e temporali come si è visto, dal
Cinquecento in poi. In questi casi veniva arrostito allo spiedo, e di solito toccava a una bella
dama portarlo su un piatto d’oro o d’argento e deporlo davanti all’ospite d’onore. Una volta
che tutti l’avevano ammirato, entrava in scena il maestro trinciante (professione molto
ambita, per svolgere la quale, presso un principe o un duca, occorreva essere nobili), che
con abili mosse lo tagliava perfettamente in pezzi dando ad ogni commensale quello
commisurato al suo rango.
Una storia che continua
Nel frattempo, mentre faceva fortuna nel nuovo continente, il tacchino rafforzava anche
quella guadagnata in patria. A pagina 38 si è parlato diffusamente della Festa del
Ringraziamento, nata praticamente in contemporanea con l’arrivo, e la sopravvivenza, dei
nuovi coloni provenienti dall’Inghilterra, e del ruolo da protagonista ricoperto dal tacchino.
Interessante è notare come, quasi quattro secoli dopo, la tradizione non sia stata
minimamente scalfita, e con essa l’importanza di questo grande animale.
Nel Thanksgiving Day, infatti, il menù tipico è pressoché lo stesso in ogni parte degli Usa:
tacchino ripieno cotto al forno, purè di patate, piselli, mais, patate americane (quelle dolci),
gravy (un intingolo fatto con il grasso del tacchino cotto), gelatina di mirtillo palustre, pane
fatto con farina di granturco, crostata di zucca con panna montata e, magari, una crostata
di mele.
Dopo essere rimasto diverse ore nel forno, il tacchino viene presentato in tavola intero.
Spetta tradizionalmente al capofamiglia l’onore di tagliare le carni in presenza degli altri
familiari e ospiti. Prima di tutto viene affettato il petto del tacchino (white meat, le carni
bianche), e guai a tagliare il petto in pezzetti: sono ammesse solo le fette (in un tacchino
medio americano, la carne bianca rappresenta circa il 70 per cento del totale ed è la parte
preferita dagli americani). La dark meat, la carne scura, può invece essere tagliata in
tranci.
Finito il Thanksgiving, è difficile che sia finito anche il tacchino. Perciò, un’altra tradizione
americana prevede il reimpiego di quanto rimasto, i cosiddetti “leftovers” (rimasugli): per
una settimana si mangiano panini al tacchino, tacchino in zuppe, risotti, insalate e in
stufati, a riprova dell’enorme versatilità di questa carne. Nel Sud degli Stati Uniti il tacchino
viene addirittura fritto intero in olio di arachidi: la frittura rende croccante la pelle, mentre
le carni interne rimangono molto succose. Il tempo di cottura è di 3 minuti e mezzo per
ogni libbra di carne, vale a dire poco meno di un minuto per etto. l
Una ricetta su mille
Come si prepara e per quanto si cuoce il tacchino ripieno al forno?
Cominciamo dalla fine. Premesso che occorre infornarlo a una temperatura di 150 gradi, ci
vogliono quasi 3 ore per cuocere un tacchino che pesa dai 3,5 ai 5,5 chili, 4 ore e mezzo
per tacchini di 8 o 9 chili e 5 per quelli di 11-13. Per il ripieno, ovviamente, ci sono
centinaia di ricette. Ecco quella per uno fra i più diffusi, a base di castagne.
Ripieno di castagne
(per un tacchino di 8 kg circa)
Ingredienti
500 grammi di castagne fresche; 500 grammi di pane bianco secco, tagliato a cubetti; 150
grammi di burro; 3 grosse cipolle, tritate finemente; 3 coste di sedano, tritato
grossolanamente; 1 cucchiaino da tè di sale; 4 cucchiai di prezzemolo tritato; una buona
macinata di pepe nero.
Preparazione
Praticare un taglio sul guscio delle castagne e infornare per circa 20 minuti a 250 gradi. Nel
frattempo, sciogliere il burro in una padella antiaderente e cuocere le cipolle e il sedano a
bassa temperatura per circa 20 minuti, senza farli imbiondire. Sgusciare e tagliare
grossolanamente le castagne cotte. Unire tutti gli ingredienti in un recipiente capace e
mescolare. Controllare la salatura, riempire il tacchino con questo miscuglio e cuocere in
forno.
(G.C.)
Nessuna differenza, ormai, fra le due sponde dell’Atlantico
Provaci ancora, Turkey
Alessandro Mauro
Giornalista
Vivo o in tavola, caldo o “freddo”, il tacchino compare a più riprese, tanto negli Stati Uniti
come nella vecchia Europa, in cinema, letteratura, pittura, musica. Appunti per
un’antologia
l Quando nel romanzo americano “The Corrections” di Johnathan Franzen, la signora Enid
Lambert riesce a riunire intorno a sé e al marito malato i suoi tre figli “per un ultimo
Natale” come aveva fortissimamente voluto (e il lettore fiduciosamente atteso) per tutto il
libro, succede che a un certo punto sbuca fuori il tacchino: nel senso che qualcuno lo porta
in tavola perché tutti ne mangino, ed è la cosa più normale del mondo, rilasciata sulla
pagina senza enfasi né sottolineature.
Pure, leggendo il libro, almeno nell’edizione italiana (uscita quest’anno da Einaudi come “Le
correzioni”), può capitare di aspettarlo, quel momento, perché nella foto della
sovraccoperta - sul retro, per essere precisi - campeggia una famiglia seduta a tavola.
Sopra la tavola, sontuoso e succulento, un tacchino. Sta lì, quella foto, perché rappresenta
con evidenza una tipica famiglia americana, perché “Le correzioni” è il romanzo di una
tipica famiglia americana, e non c’è cibo più tipico, in America, del tacchino a Natale o nel
Giorno del Ringraziamento (Thanksgiving Day). Per questo, probabilmente, nessuno fa
rullare i tamburi - nemmeno in un libro in cui una dei protagonisti fa la chef e di cibo si
parla a più riprese - quando l’ex pennuto fa la sua comparsa sul desco festivo.
Siamo nel Midwest, per la cronaca, ma nessuno si aspetti la tipicità esclusiva della
“sterminata provincia americana”. Infatti, se cambiamo drasticamente storia e voliamo
nella New York City dello stupefacente, metropolitano “Uomo Ragno”, la pietanza non
cambia. C’è tacchino, infatti, sulla tavola intorno alla quale - nello “Spider Man” che ha
sbaragliato la classifiche degli incassi cinematografici - siedono tra gli altri Peter Parker e
Norman Osborne. Almeno fin quando non l’abbandoneranno di corsa per tramutarsi
rispettivamente nell’amato arrampicamuri e nel terribile Goblin e movimentare parecchio il
giorno del ringraziamento, l’unica data che contende al Natale aura e ritualità del ritrovarsi
intorno al cibo-totem.
Infatti è proprio durante la festa con cui gli americani ricordano i Padri fondatori che si
svolge “A casa per le vacanze” (1987, regia di Jodie Foster), in cui l’incontro festivo è
catalizzatore e centrifuga di emozioni, ricordi, paure e speranze di un’intera famiglia e il
tacchino (anzi i tacchini, perché qui sono due) è attesa, rivalità, celebrazione, detonatore,
arma, vero “cibus ex machina” intorno a cui si snodano saporiti brandelli di commedia
umana.
Il principe delle feste
Sbaglierebbe però chi pensasse che la portata simbolica del tacchino è questione limitata
alla cultura a stelle e strisce, perché analoghi affanni e similare tensione affettivogastronomica si ritrovano, per esempio, nel francese “Pranzo di Natale”. Questione, forse,
di globalizzazione dei gusti e delle abitudini: sta di fatto che anche in un film lontano per
temi e latitudine come l’australiano e itinerante “E morì con un felafel in mano”, durante
un’appassionata discussione su sesso e quantità, uno dei personaggi sbotta: “Ma come
diavolo (eufemismo, ndr) fai a fartene cinque il giorno di Natale con tutta la famiglia seduta
a tavola intorno al tacchino…”.
Natale o Giorno del Ringraziamento, America o no, ecco insomma che il tacchino catalizza
le attenzioni di famiglie e invitati in angoli diversi del pianeta. E se lo spot pro New York
con Robert De Niro e Billy Crystal che dibattono su chi dei due vestirà i panni del tacchino
per il Thanksgiving rimanda dritto al “genius loci” di un Paese di tradizioni brevi ma
intense, ecco che nel nostrano e supernatalizio “Merry Christmas” di Carlo Vanzina la
coppia comica dei Fichi d’India fa urlante capolino proprio dall’interno di un tacchino, in una
delle sequenze più ricordate del film.
Salta agli occhi, fin qui, come il carnoso galliforme assurga agli onori della decima musa più
da morto che da vivo, sebbene vi siano eccezioni anche eccellenti tra cui spicca un
cortometraggio del 1939 intitolato “Il tacchino prepotente” e firmato da un poco più che
trentenne Roberto Rossellini, che oltre a rappresentare un’interessante finestra sugli inizi di
colui che sei anni dopo girerà “Roma città aperta”, costituisce anche un insolito “sguardo
d’epoca” su un animale che invece è stato a lungo percepito, almeno da alcuni, con un
certo senso di estraneità, come un cugino incomprensibilmente ipertrofico del più familiare
pollo.
Molto più in qua, e certo diversamente, troviamo un altro cine-tacchino nostrano nel
recente “Senso ’45” del licenzioso Tinto Brass - in passato assistente proprio di Rossellini che arditamente lo utilizza in “una sorta di montaggio delle attrazioni, alla Eizenstein”,
proprio per “introdurre un elemento di rottura che faccia riflettere lo spettatore”.
Dal cinema alla letteratura…
Una riflessione, a dir poco, è anche quella che vuole provocare “The Ballad of the Happy
Turkey”, di Craig Kirkendall, racconto breve ma implacabile in cui le implicazioni culinarie
del Thanksgiving vengono viste anche dal punto di vista del tacchino: sguardo severo su
una società bulimica e vanamente rituale da cui il raccontino si congeda con un ironico,
amaro “Happy Thanksgiving”.
Ma le incursioni in letteratura dell’appetitoso bipede sono anche di segno diverso. Come nel
caso del breve romanzo “Tacchino farcito” di Alda Bruno che, dall’America alla Sicilia, fa
vivere una saga familiare ricca di situazioni ingarbugliate che giostrano intorno alla vivanda
principale di cui, generazione dopo generazione, si trasmette la ricetta natalizia.
Pure natalizio è l’animale che, “eretta la testa dal collo gonfio, il becco bitorzoluto rivolto in
alto”, dà il titolo a un racconto di Alberto Moravia, “Il tacchino di Natale”, appunto.
Appaiato al semplice “Il tacchino” di Georges Feydeau, dà conto di come anche grandissimi
nomi della letteratura e del teatro si siano misurati con la materia, cui va pure ricondotta
l’apprezzata raccolta di racconti “Il tacchino termostatico” di Enrico Alleva.
… fino al mondo (cannibale?) dei paperi
è indubbio fin qui che, seppure declinata su scala poco meno che planetaria, quella per il
tacchino sia una passione a trazione tipicamente yankee. Suonerà perciò come una
conferma il fatto che i tacchini - come minimo un paio - compaiono anche in quel caposaldo
della cultura nazionale che sono le avventure di Donald Duck e compagnia. Entrambe
disegnate da un gigante di nome Carl Barks, esistono infatti due storie, rispettivamente del
1946 e del 1952, in cui si verifica l’eccezionale incontro tra pennuti. Nella prima Qui, Quo e
Qua vincono un tacchino alla lotteria ma non hanno il coraggio di ucciderlo per il giorno del
ringraziamento; nell’altra - sempre con la lotteria di mezzo - invece di comprare
direttamente il tacchino, Paperino ha l’idea di fare un super-rifornimento di biglietti e ne
acquista 49 sui 50 disponibili. A chi ha una pur vaga idea di come vanno le cose nella
meravigliosa saga dei paperi, non c’è bisogno di dire chi vincerà.
Vero è, comunque, che l’incontro a fumetti tra paperi e tacchini ha le sue incongruenze. Se
ne è accorto Claudio Bisio, che nel suo “Quella vacca di Nonna Papera” avverte come la
stessa, a volte, inviti gli ospiti e gli dia da mangiare il tacchino: “Il tacchino! è come se
Minni desse i criceti ai suoi ospiti. Come se mia madre mi cucinasse il timballo di mio
cugino”.
Ancora fumetti e ancora tacchino - ma solo di nome - nelle strisce di Alberto Melari
dedicate a un pellerossa chiamato, appunto, Penna di Tacchino, spesso indaffarato in
infruttuose e improbabili danze della pioggia, in un contesto di disincantato umorismo in cui
il nome contribuisce a veicolare simpatia a questo buffo americano delle origini.
Note… di tacchino
Proprio le origini, nella fattispecie quelle di Frank Zappa (padre italiano e madre greca, ma
nato e vissuto negli States), sono al centro di una delle pochissime apparizioni musicali del
tacchino in cui ci è capitato di imbatterci. La canzone si chiama “Village of the Sun” e
contiene una strofa che parla di “dove corrono gli allevatori di tacchini”; racconta,
evidentemente, di un luogo che fa parte della memoria del grande compositore americano
tanto da fargli dire, introducendo il pezzo: “Signore e signori, questa è una canzone su un
posto dove io vivevo, e dove loro allevavano tacchini”. Musica.
Pure musica, e a livelli sempre alti, è quella della nota “Cold Turkey” di John Lennon. Qui,
però, la questione è del tutto diversa e rimanda al significato dell’espressione “To go cold
turkey”, che tradotta letteralmente suona come “andare a tacchino freddo” e significa
smettere di colpo. E ascoltando il testo della canzone, che allude in modo chiaro a una crisi
d’astinenza, non c’è più dubbio su quale interruzione intendesse evocare l’ex beatle.
Ritratto su tela e… in versi
I modi di dire che tirano in ballo il tacchino, peraltro, non si limitano al tagliar di netto con
qualcosa. “A turkey”, negli Stati Uniti, può voler dire anche “un insuccesso” o “un
esemplare difettoso”, mentre l’espressione “To talk turkey” vuol dire “parlar chiaro” o “di
cose serie”. Passando invece ad espressioni facete, vale la pena di menzionare il turkey
trot, meno famoso del fox trot ma che, come quello, appartiene al gruppo di danze derivate
dal ragtime e che sfruttano nomi di animali per proporne l’imitazione dei passi su ritmi
sincopati.
Passo dopo passo, ci si accorge che la trasversalità del tacchino alle forme dell’arte e della
comunicazione è pressoché totale, tanto che capita di incontrarne anche in pittura, o in
poesia: per la prima menzioniamo almeno “Il tacchino”, olio su tela di Carlo Socrate
custodito presso la Galleria Comunale d’Arte Moderna a Roma, e la splendida tarsia di
stoffe colorate intitolata solamente “Tacchino” e realizzata dal futurista Fortunato Depero.
Per la seconda, basterà l’accenno a uno che si chiama Giovanni Pascoli e che, fra i
tantissimi, ha scritto due versi, “là nelle stoppie dove singhiozzando/va la tacchina con
l’altrui covata”, che ci permettono di chiudere con un tocco di semplice, femminile e poetica
bellezza.
è grande, morbido, saporito e ricercatissimo per i pranzi delle grandi occasioni
Il pollo del dì di festa
Clarissa Bagnini
Ogni anno, milioni di capponi vengono venduti nelle festività natalizie per finire, ripieni o in
brodo, sulle tavole degli italiani. Scopriamo un po’ di più di questo animale per molti versi
“sfortunato” (altro non è, infatti, che un gallo castrato) ma che almeno gode, da più di
duemila anni, della stima di tutti i buongustai
l “Pigliate quei quattro capponi, poveretti! a cui dovevo tirare il collo, per il banchetto di
domenica, e portateglieli; perché non bisogna mai andar con le mani vote da que' signori.
Raccontategli tutto l'accaduto; e vedrete che vi dirà, su due piedi, di quelle cose che a noi
non verrebbero in testa, a pensarci un anno. Renzo abbracciò molto volentieri questo
parere; Lucia l'approvò; e Agnese, superba d'averlo dato, levò, a una a una, le povere
bestie dalla stìa, riunì le loro otto gambe, come se facesse un mazzetto di fiori, le avvolse e
le strinse con uno spago, e le consegnò in mano a Renzo…
“Lascio poi pensare al lettore, come dovessero stare in viaggio quelle povere bestie, così
legate e tenute per le zampe, a capo all'in giù, nella mano d'un uomo il quale, agitato da
tante passioni, accompagnava col gesto i pensieri che gli passavan a tumulto per la mente.
Ora stendeva il braccio per collera, ora l'alzava per disperazione, ora lo dibatteva in aria,
come per minaccia, e, in tutti i modi, dava loro di fiere scosse, e faceva balzare quelle
quattro teste spenzolate; le quali intanto s'ingegnavano a beccarsi l'una con l'altra, come
accade troppo sovente tra compagni di sventura”.
I nostri lettori (che speriamo siano più dei venticinque dell’originale) ci scuseranno per la
lunghezza, e scontatezza, della citazione tratta - è sempre bene ricordarlo - dal terzo
capitolo dei “Promessi sposi” di Alessandro Manzoni. Due considerazioni, comunque, ci
hanno indotto a questa scelta. Una di carattere generale: non fa mai male rileggere un bel
prezzo di prosa di quello che non sarà stato forse il più prolifico e veloce, ma che certo
rimane uno dei più grandi scrittori italiani. E un’altra di carattere specifico: a nostra
conoscenza, in nessun altro luogo, per così dire, culturale il cappone ha avuto - per usare
un termine che “don Lisander” avrebbe aborrito - tanta “visibilità”. Ed ha visto raccontato
con pari efficacia il ruolo che ricopre da almeno duemila anni: quello di cibo pregiato, da
destinare alle occasioni importanti della vita.
Un ottimo motivo, ci pare, per conoscerlo meglio.
I metodi di allevamento
Il cappone oggi venduto sul mercato italiano è un pollo castrato di circa 3 chili di peso vivo
e di circa 180-200 giorni di vita. Al riguardo, il regolamento comunitario n° 2067/1996
vieta che sia chiamato “cappone” quello allevato per meno di 140 giorni.
La tecnica di allevamento è sostanzialmente diffusa e conosciuta fin dall’epoca romana
anche se oggi, ovviamente, la produzione segue standard di qualità e sicurezza assai più
elevati che in passato, pari a quelli delle altre carni avicole. In particolare l’alimentazione,
prevalentemente a base di mais, garantisce alle carni una discreta concentrazione di grassi
(la carne di cappone ha più calorie di quelle di pollo e tacchino), la caratteristica
consistenza morbida e il tipico gusto aromatico. Le razze utilizzate sono quelle a crescita
lenta, di piumaggio colorato o bianco con sfumature dorate; vengono impiegati i maschi
fratelli delle femmine ad alta produzione di uova, ma anche maschi a crescita intermedia
normalmente allevati come galletti e destinati alla cucina di piatti tipici per lo più nel
Centro-Sud Italia.
Una storia “delicata”
Inutile usare perifrasi: la storia del cappone è la storia della castrazione applicata,
ovviamente, al settore avicolo. Una tecnica praticata già dai Greci e dai Romani, specie sul
gallo. Sembra che fossero gli abitanti dell’isola egea di Delo a praticare per primi, fin dal
VII secolo a.C., la trasformazione del gallo in cappone. Da qui il nome di “deliacus
gallinarius” attribuito a chi praticava la castrazione dei galli da scrittori come Cicerone,
Plinio e Columella. E ancora nell’Ottocento, in Francia, il pollivendolo veniva chiamato dagli
anziani contadini “déliaque”.
Il nome di cappone, invece, è romano: così vengono chiamati da Varrone (I sec. a.C.) i
galli evirati. Il solo a soffermarsi con precisione sulla loro trasformazione è però Columella,
il quale scrive che al gallo castrato non solo vengono tolti gli organi genitali (“amissis
genitalibus”), ma anche bruciati con un ferro rovente gli speroni, ricoprendo le ferite con
creta. Questa pratica è rimasta sostanzialmente invariata fino all’avvento dell’avicoltura
moderna, avendo come pressoché unica depositaria una precisa figura domestica: quella
della massaia contadina.
In genere l’operazione era eseguita in modo alquanto primitivo. Solo a partire dagli anni
Cinquanta del secolo scorso, nei moderni allevamenti avicoli è stato adottato un nuovo
metodo di castrazione, che senza i grossi traumi di quello tradizionale, raggiunge
ugualmente lo scopo. è ancora consuetudine asportare cresta e bargigli, ma solo per
ragioni commerciali, in modo da differenziare il cappone dal gallo al momento della vendita.
Pranzo di Natale
La gran parte della produzione di capponi è concentrata nelle festività natalizie. In passato
quasi tutte le famiglie della buona borghesia usavano cucinarlo il giorno di Natale, e anche
nelle case più modeste questo non poteva mancare, o perché regalato in cambio di
particolari servigi o perché, semplicemente, comprato al mercato anche a costo di notevoli
sacrifici.
Il cappone per prima cosa veniva utilizzato per fare un buon brodo nel quale, se la cuoca di
turno ne aveva la capacità, avrebbero navigato tortellini o cappelletti. La minestra
comunque veniva preceduta dagli antipasti, i tipici crostini alla toscana fatti con fegatini e
rigaglie di cappone, ai quali veniva talvolta aggiunta milza di vitello. Dopo aver contribuito
alla minestra, il cappone poteva essere preparato in umido o in galantina, come spiega ad
esempio Pellegrino Artusi nel suo ricettario "La scienza in cucina e l'arte di mangiar bene"
(1891). Una tradizione che continua ancora oggi. l
C’è una carne
aperta a quasi ogni possibile combinazione con il bicchiere giusto
Un pollo di... vino
Antonio Paolini
Giornalista
Con l’arrosto meglio un rosso di corpo non eccessivo; per il fritto è consigliabile invece un
bianco, come pure per quello, romanissimo, con i peperoni. E per il lesso perché non
scegliere un rosé? Breve viaggio all’interno delle tante combinazioni attuabili fra tutte le
parti del diffusissimo volatile (interiora comprese) e il “nettare degli dei”
l Delicata, eppure inconfondibile. Piena di personalità, insomma, ma versatile: sia per la
diversità intrinseca di gusto e "texture" (cioè di consistenza) da taglio a taglio, sia per la
naturale vocazione a prestarsi ad un numero quasi infinito di preparazioni e di matrimoni,
secondo gusto e fantasia di chi opera ai fornelli, sia esso un grande chef o un/una cuoca
“domestica”, abituale o occasionale.
Logico, allora, che abbinare la carne di pollo al vino significhi tenere nel debito conto il
modo in cui essa viene preparata; di quale altro sia, insomma, l'elemento che contribuisce
a determinare il sapore del piatto. Aperta ed ecumenica nel proporsi a chi cucina, la carne
di pollo lo è più che mai, dunque, anche rispetto alle combinazioni possibili con il bicchiere
giusto: una di quelle materie prime con le quali il sommelier, o l'appassionato, può davvero
esercitarsi con fantasia, sfruttando quasi per intero la tastiera delle possibilità della propria
cantina.
Prima di tutto, l’arrosto
Cominciamo il percorso partendo dalla più tradizionale, ed ubiqua, probabilmente, delle
preparazioni: il pollo arrosto. Alla sapida seduz ione dell'"involucro" reso croccante e
profumato da fior di sale ed erbe aromatiche, in contrasto con l'interno, più delicato ma pur
sempre lievemente "fumé", specie se è stato usato il fuoco "vero" dello spiedo di tradizione,
abbinate un rosso, ma di corpo non eccessivo. Il pollo, per essere goduto fino in fondo, va
"rispettato". Scegliete allora una Barbera, possibilmente di scuola vetero-langarola (più
acida, meno corposa e più beverina dei "supermuscle" spesso presenti nell'ultima
generazione); oppure sterzate su un Aglianico, non troppo agée, possibilmente elevato,
come da copione delle origini, in botte grande. Anche un Chianti tipico, meglio se di alta
collina, farà validamente la sua parte. E restate sul rosso per l'analogo, in fondo (quanto a
gusto predominante), pollo alla diavola, magari rafforzando leggermente il corpo del vino e
allargando il ranking ad un Cirò o un Sangiovese d'Emilia Romagna (l'ultima generazione è
davvero notevole), o anche ad un Rosso di Montalcino.
E poi in umido, fritto e “alla romana”
Piazzate ancora un rosso sull'umido (molto Centro Italia, molto laziale) con pomodoro, ma
virando verso i freschi, allegri Gragnano e Lettere vesuviani. E invece (piccolo colpo di
scena) mettete seccamente la rotta sul bianco sia per quanto riguarda il gustoso, sfizioso
pollo fritto, bandiera anche del mangiare saporito e rapido made in Usa - andrà benissimo
un uvaggio bianco friulano, un Tocai del Collio di due anni almeno, un Frascati di buona
famiglia, un solido Pinot Bianco - sia sul romanissimo pollo con peperoni, uno degli spezzati
più popolari del carnet della cucina regionale italiana. In quest’ultimo caso decidete voi
come abbinare: se "esaltando" i peperoni, e allora sarà un Sauvignon, ma strutturato,
pieno (si potrebbero fare nomi, ma non sarebbe sportivo: ne troverete comunque a
bizzeffe, famosi e premiati, specie nel triangolo del Nordest) e, attenzione, non servito a
temperature punitive, non sotto i 12-13 gradi centigradi insomma. Oppure, giocando tutto
sulla "morbidezza" della carne, e allora sarà un Fiano, un Trebbiano d'Abruzzo nouvelle
vague (dunque elevato in barrique, o comunque di struttura), o ancora un vino laziale, un
Marino, ad esempio.
Infine, qualche sorpresa
Bianco ancora, ma facendo un passo indietro quanto a intensità e "densità", su una crema
di pollo, entrée calda di grande tradizione "borghese". Lì, specie se tra le erbe di supporto
viene usata acetosella, come vorrebbe l'old style, scegliete tra un Muller (ma di ambizione,
e di nuovo si potrebbero fare dei nomi atesini) o, a sorpresa, un Verdicchio di Jesi, di
almeno due anni, però.
Non dimenticate poi, nel fare il vostro piano di abbinamenti, che lavorando le carni di pollo
avrete un atout in più in mano: le interiora. Un regalo ai ghiotti, da sposare ad un buon
Merlot, ad esempio, o ad un pugliese del Salento (purché non troppo alcolico) se maritate
classicamente ad una pasta fatta in casa. Ideali invece per farvi tirar fuori di cantina il
bianco ipermorbido e profumato, un simil "vendemmia tardiva" insomma, ma senza residui
zuccherini troppo alti, per carità, se invece lavorate in patè.
E il lesso? Un caposaldo sia della buona amministrazione della cucina di casa, sia della
grande cucina artusiana nazionale. Beh: avete mai pensato ad uno champagne rosé, o ad
un nostro (purché di valore) analogo nazionale? Provate. E se non volete arrivare a tanto,
un Cerasuolo di Vittoria, o uno abruzzese, ma ricco, non acidulo insomma, fanno al caso
vostro.