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Bruno LUCREZI, Il " Tiberio „ di Amedeo Maiuri
Parlare di Tiberio senza che il pensiero del lettore corra subito a Tacito, è
impossibile. A leggere poi queste Lettere di Tiberio da Capri di Amedeo Maiuri
(Ed. F. Fiorentino, Napoli 1961), si è riproposto in noi un problema antico e non
semplice: quello dell'interesse umano che dovette legare il sommo storico al
« terzo Cesare »; un interesse che, di là dall'esplicito giudizio negativo di lui, emerge stranamente positivo da non pochi tratti della rappresentazione psicologica
che quel giudizio medesimo dovrebbe corroborare. Sicché tra la stroncatura dello
storico e il ritratto dello scrittore ti rimane infine una tal quale persuasione che
Tacito più che uno storico fosse un moralista, e più che un moralista un artista;
e il dubbio che la ragione ultima del suo accanirsi contro Tiberio non fosse poi
del tutto ,negativa, di opposizione: che cioè il rapporto dell'accusatore con l'accusato fosse più di attrazione che di repulsione. Che è il gran mistero di Tacito di
fronte a Tiberio, e costituisce il singolare tono dei primi sei libri degli Annales.
Emanuele Ciaceri ebbe a rilevare acutamente nel suo « Tacito »: « ...si direbbe
che egli senta come la personalità di Tiberio abbia infine qualcosa di comune con
la propria, e come nel plasmare l'immagine in vari punti vi scorga se stesso ».
(E. Ciaceri, Tacito, U.T.E.T. 1945, p. 191). E non pochi tratti in comune registrò:
taciturni entrambi, tradizionalisti, schivi dalle vane pompe, dispregiatori delle
folle: ma sopra tutto, per noi, aristocratici; di quell'aristocrazia più autentica che
nasce da una spietata considerazione della natura umana, e che a questa natura,
nei suoi aspetti più appariscenti e deteriori (i più decisivi per chi sappia accortamente sfruttarli), nulla concede (pensiamo al « vulgo » e al « Principe» del Machiavelli). Questo chiuso disdegno per la vana retorica che attrae gli uomini e
muove la storia dovette, sotto sotto, costituire il segreto fascino della personalità
di Tiberio presso quel Tacito, il quale, pur fisso come nessun altro romano alla
grandezza e alle glorie di Roma, era poi troppo grande artista (e dunque più che
romano) per non intuire intus et in cute alla figura che voleva distruggere altri
più oscuri e intimi legami con il suo stesso ultimo inesprimibile senso della vita.
E fu ciò che pur disse: non da storico, ripetiamo, ma appunto da artista.
Leggendo il libro di Maiuri abbiamo ripensato a queste cose; e abbiamo pensato che queste cose e chissà quante altre più segrete ed urgenti debbono aver
frullato nella sua testa nutrita di classicità e insieme modernissima, nei lunghi
anni del suo dialogo con le vestigia tiberiane di Capri. E come l'ultimo capitolo
del Principe è la chiave di volta di quelli che lo precedono (pur così diversi) e
della personalità stessa del Machiavelli; così ci è parso che questo libro recente
possa costituire non soltanto il capitolo conclusivo delle trentennali ricerche capresi di Maiuri, ma anche la sintesi più umanamente significativa della sua stessa
personalità di sommo archeólogo. Che può sembrare ipotesi paradossale, se non
balorda, a certi archeologi puri di naso lino. Ma tenteremo di spiegarci.
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Il primo incontro di Maiuri con Tiberio a Capri risale al lontano 1932, allorquando egli iniziò, con quelli di Villa Jovis, gli scavi delle ville romano-tiberíane;
e ,a detta di lui stesso, furono gli anni più inebrianti della sua esperienza archeologica. Là infatti cominciò concretamente a capire la figura reale dell'imperatore.
La secolare maschera delle pietre, figura dell'uomo (ché tutto nella storia è figura
dell'uomo), cominciò per lui a sciogliersi in una direzione affatto opposta a 'quella
in cui l'avevano deformata e risolta gli antichi storici. Il mito arcaico del Minotauro nella reggia, per ripetere una sua felice immagine, il mito di Minosse trucidatore di bambini nel palazzo di Cnosso, poi sfatato dagli archeologi, balenò alla
sua fantasia. Perché? Perché quelle rovine severe e armoniose parlavano un altro
linguaggio. E gli balenò l'idea che anche quello di Tiberio fosse un analogo mito
da sfatare. Occorreva leggere e rileggere quelle pietre: s'intende, da par suo (non
ha affermato W. Keller che gli strati delle pietre sono altrettanti capitoli di storia
e costituiscono per l'archeologogo « come ,i fogli d'un calendario, dai quali egli può
far rivivere pagina per pagina il passato »?).
Fu dunque là, nella struttura via via riscoperta delle sue ville, in quell'isola
di solitudine e di bellezza; fu là che il vecchio imperatore gli apparve come il
grande eremita misconosciuto. Se è vero che ogni uomo si forgia l'ambiente che
meglio ne rispecchia la personalità, quale ritratto più concreto e fedele della
personalità di Tiberio di quell'isola, di quelle ville che egli fece costruire e nelle
quali visse per oltre dieci anni, e conchiuse e in certo qual modo sigillò d'un'impronta indelebile tutta la sua vita? Questa l'intuizione profonda di Maiuri; che egli
si covò dentro per non pochi lustri: com'è di certe idee essenziali che hanno
bisogno di maturare in un lungo silenzio prima di risolversi nella chiarezza persuasa e persuasiva della parola.
Così noi possiamo oggi non soltanto legare idealmente queste « Lettere » alle
precedenti opere dell'A. dedicate a Capri, opere che in apparenza niente avrebbero
in comune con esse, ma possiamo meglio intendere la segreta molla che ha tenuto
avvinto un uomo ad un'isola. Non l'intento documentario, illustrativo in senso
stretto, insomma (anche se in Maiuri il rigore dello scienziato è ineccepibile sempre), ma l'intento umano nella sua significazione più integrale; quello che a un
certo momento ti salta a pié pari metodi, discussioni, ragionamenti: e da un cumulo di pietre morte cava inaspettatamente la forma di un uomo vivo. Sulla base
della scienza s' alza il monumento dell' arte; la piccozza ha portato alla penna:
quella penna che Maiuri sa adoperare così bene.
Eccoci così a queste trenta lettere; che sono la rappresentazione diretta di
Tiberio nel suo volontario esilio di Capri, dei pensieri, dell'animo suo; e sono
insieme, indirettamente, la ricostruzione fedelissima della vita di Roma e dell'impero in quel periodo. Storia romanzata? Ma la storia, ha osservato Ceram, « è
sempre romantica, perché per conoscerla occorrono sensibilità e fantasia ».
La rappresentazione (e vorremmo dire la « creazione ») dell'uomo e dei tempi
è tanto più incisiva in quanto lo stile dell'autore-attore (Maiuri-Tiberio) è veramente di una sobrietà romana (tacitiana?), tale da non farci pensare alla prosa di
un moderno: tanto il critico è penetrato nel suo personaggio. E la figura che n'esce
risolve in parte molte nostre antiche perplessità: è coerente, vera. E' la figura di
un uomo severo e schivo, vissuto in tempi difficili, pensoso del bene pubblico ma
non destinato alla popolarità perché istintivamente negato e avverso ad essa, frutto
quasi sempre della superficiale apparenza delle cose (« contemptu ambitionis », riconosceva di lui lo stesso Tacito; il quale riporta altrove quella sdegnosa e amara
esclamazione in lingua greca ch'egli soleva pronunciare uscendo dalla curia: « o
uomini fatti per esser servi! »). Ma non un uomo privo di affetti teneri e tenaci;
e instancabile nel servire lo stato; parco verso se stesso, prodigo all'occorrenza
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verso i bisognosi, anche se la ragion di stato e l'alta coscienza di sé non lo esimevano da certe crudeltà (ma nella vita di quale principe non se ne trovano?).
Una complessa individualità si sviluppa e via via emerge dalle pagine del Maiuri, venendoci direttamente incontro. Sono lettere alla cognata Antonia, a Seiano,
al Senato, a Macrone... in cui motiva il suo esilio caprese, parla della costruzione
di Villa Jovis e di Damecuta, dell'aria, dell'acqua di Capri, delle grotte, della vita
quotidiana della piccola isola, di quella gente legata a lui non dalla riconoscenza
ma dal calcolo («...il solo di cui sia capace la natura umana. »); e accanto alla
minuta esistenza che gli fermenta d'attorno vibra quella ben più vasta del mondo,
con i suoi smisurati egoismi, le passioni, le congiure, gli sconvolgimenti, le insuperabili miserie: la gran vita dell'impero, colta e fermata ancora più acutamente
dal solitario, minuscolo osservatorio. Passano i personaggi foschi di Agrippina
maggiore, di Seiano; s'intravede il dramma del Golgota; si sente il tormento insanabile per il figlio proditoriamente ucciso (« né potrò mai perdonarmi... Mi sono
chiuso nella più solitaria villa di Capri per essere solo, più solo e più lontano da
tutti... »): fino a quel gran grido d'angoscia che opportunamente Maiuri riporta
da Tacito e da Svetonio senza nulla metterci di suo, senza nulla commentare
(« ...che gli dèi e le dee mi facciano più crudelmente morire di quanto io stesso
non mi senta di giorno in giorno morire... »): che è cosa da lasciare muti, intensamente pensosi dell'uomo « tradito da tutti, orbato del figlio, offeso dalle nefandezze
di chi ebbe la folle ambizione del potere »), di un individuo che pur nei più alti
fastigi di un'incontrollata autorità e contro la piaggeria degli adulatori, non esitava
(anche qua è lo stesso Tacito ad attestarlo) a dichiararsi pubblicamente « uomo
tra gli uomini », confidando (ultima delle illusioni, ma perciò eroica fra tutte)
nella giustizia delle opere proprie e della posterità.
La posterità, sappiamo, non gli fu benigna. Maiuri sembra voler riparare oggi,
con questo suo libro, al secolare torto. E non lo ha fatto da archeologo, da storico: lo ha fatto da artista, da quel sensibilissimo artista che in fondo egli è (e
soltanto noi avremmo gradito che la limpida evidenza delle lettere non fosse
inframmezzata dalle note documentarie ed esplicative: non potrebbero, queste ultime, nelle successive edizioni, essere poste altrove, magari in appendice?).
Così dalla pietra è emerso un uomo, dal silenzio è sgorgata una voce: non
sappiamo se proprio quella di Tiberio, ma indubbiamente di Amedeo Maiuri,
della perspicacia, della cordialità, della umanità sua semplice e profonda.
BRUNO LUCREZI
Ain Zara MAGNO, Betelgeuse, Cappelli 1955.
Singolare poesia, quella di A. Zara Magno, già conosciuta a noi, e cara, per un
suo libriccino: Parole d'amore (Milano, 1956) che ci aveva colpiti con la sua fresca,
incantata e pur intensa femminilità (« ...Mi stai saccheggiando come un albero
luminoso di mandarini... »). Ma in Betelgeuse l'apertura si rivela subito d'una vastità impensata; tanto che siamo andati avanti in essa più, forse, per la curiosità
di vedere come l'A. avrebbe retto sino in fondo alla impostazione del 'tema che
per la innegabile suggestione di quanto già sentivamo poeticamente realizzato
nelle liriche che si succedevano. La prima parte dell'opera infatti (« La creazione»)
ti riporta alla Bibbia, parte dalla origine del mondo (e abbiamo allora inteso
l'interesse vivo e il positivo giudizio di Francesco Flora, il quale non per niente ha
scritto tra l'altro quei suoi due volumi su « La poesia della. Bibbia »). i\fla nella
serie dei quadri,. ci è parso, quel che manca o difetta è appunto la convinzione
religiosa, che è poi la nota senza la quale la Bibbia finirebbe, Con tutte le sue bellezze poetiche, di essere quel libro unico che è. In « Alba» già tutto è ridotto a
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senso. Ancora senso è in « Il vento », pur nell'accensione di una fantasia vibrante:
e tutto si fa senso in « La luce» (con quella « polpa dei mari », con quelle « buie
lame / nel pallido cielo dell'acqua... »). E abbiamo pensato (pensiero antico) che
soltanto una donna poteva così tutto ridurre a natura (« Gli alberi », « Il firmamento », « L'acqua »). Abbiamo anche riflettuto, è vero, che la Bibbia si divide in
due parti, e che nell'Antico Testamento la spiritualità ebraica si palesa negata all'astrazione (donde, anche, la sua incomparabile liricità): ma qua, se le affinità di
imaginazione e di linguaggio ci sono parse evidenti e non di rado bellissime, ci
siamo pur confermati, poi, nel sospetto d'un'invalicabile chiusura all'essenza del
gran libro, che, ripetiamo, è nella sua religiosità. E questo è stato quando abbiamo letto « Mattino » (in cui l'imagine smarrisce la sua evidenza rappresentativa e
sentimentale), « Tramonto » e il finale « Il fuoco », che indica un altro animo da
quello antico. Che sarebbe ovvio. Ma la nota caratterizzante del libro è appunto
qua, in questa presenza-assenza della religiosità: non è forse il grande equivoco di
tutta la nostra epoca? Ed è qua la forza che ci ha presi. Perché proprio entro questi limiti e per essi la poesia di A. Zara Magno rappresenta una condizione universale.
Tratti di grande suggestione ha la seconda parte (« L'esilio »), con intuizioni
che lasciano il segno (come profonda questa, nella lirica che dà nome alla raccolta: « ... ed il fragore delle comete / e le ellissi accecanti / in vertiginose fughe /
e le leggi che le comandano / non più ignote saranno / di questa piccola vita /
che giorno per giorno mi perde »i). Misteriosa e bella « Nascita ». Nemmeno qua il
limite è varcato; la creatura è anzi più che mai dentro di esso: ma lo avverte
come sofferenza. E questo è molto importante; dà alla poesia una carica straordinaria (« ...Disse una voce: è nata / è bella e bianca / Ma perché tanto piange? »).
Vien fatto di pensare che l'eredità del Vangelo sia nei secoli, ma oggi più che mai,
ineliminabile e terribile: quell'eredità che nel Nuovo Testamento ha per molti
aspetti rovesciato radicalmente il Primo. L'uomo antico era nei limiti della sua
carne come in un infinito: dopo non fu più possibile. E per quanto la scienza della
natura abbia poi fatto e continui a fare passi da gigante, questo non toglie ma
acuisce la disperazione della contingenza (al punto che la stessa Eva comincia ad
aver paura: leggete attentamente « Io sono », con quel finale « Io sono nulla nulla
/ nulla », dove l'angoscia della condizione umana serrata entro la sua mortale fragilità porta alla più dolorosa delle lacerazioni spirituali).
In questo sentimento di fondo, una più personale e definita vicenda, che si
concreta particolarmente da « La lampada» in poi, l'abbiamo perciò avvertita quasi come uno stacco, una specie di cambiamento di tema che ci ha lasciati a volte
perplessi: colpa e merito di quel gran respiro iniziale che non abbiamo saputo
dimenticare, di quella smarrita, umana paura che difficilmente dimenticheremo.
E segno di poesia autentica.
BRUNO LUCREZI
Mons. Grazio GIANFREDA, Il mosaico pavimentale della Basilica Cattedrale
di Otranto, Milano, Istit. di Prop. libraria, 1962, pp. 64 in 8' con ill.ni.
Una cinquantina d'anni addietro Carlo Alberto Garufi rivelava quale alto valore
rivestisse per la storia della cultura meridionale nell'età normanna il mosaico
pavimentale della Cattedrale di. Otranto. Per la felice sintesi dell'identificazione
iconografica, dell'esegesi degli episodi e della fedele attribuzione al prete Pantaleone del musaico pavimentale della Cattedrale di Brindisi, di cui laceri brandelli
ancora sopravanzavano, lo studio dell'insigne medievalista siciliano è a giusta
ragione considerato il più attento contributo scientifico sull'argomento e ha ser112
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vito al compianto Giovanni Antonucci da ispirazione e da guida all'illustrazione del
musaico, anch'esso pavimentale, della Cattedrale tarentina.
Ora, mentre del saggio del Garufi si va preparando una nuova edizione nella
ristampa dei gloriosi Studi Medievali, compare, ad opera di un dotto e pio sacerdote idruntino, mons. Grazio Gianfreda, una dignitosa e sobria guida del musaico
pavimentale della Cattedrale di Otranto.
E' opportuno riferire che l'A. non ha inteso fare opera di erudizione, sebbene
anche agli eruditi il libro, che offre una ricca e in parte inedita documentazione
fotografica, possa giovare. Ma il libro si rivolge innanzi tutto al non specialista,
purchè non sordo ai richiami della storia e dell'arte, per scoprirgli, oltre l'intricato
viluppo dei simboli e degli episodi figurati nel musaico, il senso e il nesso delle
figure e della trama e a dare ragione dei motivi ideali che, tra il 1163 e il 1165,
guidarono Pantaleone a comporre, nella ruvida ingenuità del suo ductus, una
summa pauperum di sorprendente interesse e di rilevantissimo fascino.
Al G., che al lavoro esegetico non lieve né breve si è posto con diligente impegno e fervida passione, sono davvero valsi il lungo studio e il grande amore che
lo hanno tratto a rievocare quali suggerimenti e stimoli fossero venuti alla cultura sacerdotale dell'artefice dalle fonti bibliche e dal più vario, eclettico sapere
dell'età sua, a scoprire come un ideale sincretistico di altissima ispirazione eticoreligiosa ne avesse guidato l'esecuzione e, infine, come tale reductio ad unum compendiantesi nella figurazione della lotta fra il bene e il male, temperi armonicamente l'eterogenea animazione del singolare musaico.
Entro i limiti suggestivi di questa tematica, tanto più convincente ove si ponga mente all'ambiente culturale, largamente permeato dal bizantinismo basiliano,
di « quella penisola salentina che fu sempre così tenacemente greca » (1), al gusto
dello splendido presule committente Gionata, alla medesima formazione spirituale
del presbiter Pantaleon, trovano logica interpretazione e organica concordantia
argomenti e spunti che eran fin qui apparsi orditi con disinvolta, selvatica indisciplina e collocati come senza ordine prestabilito, inseguendo con estro bizzarro
le chimere di un fantastico sogno o, peggio, realizzati nell'ansia e nel timore del
vuoto.
Certo, Pantaleone, come tenne conto degli sviluppi e delle variazioni del suo
sermone musivo e degli effetti che esso aveva a produrre nello spirito degli umili
cui l'opera era destinata, ebbe vivissimo il senso delle citazioni e degli esempi.
Per un'esigenza di ordine formale che fermasse in punti stabiliti la vasta mole
dell'argomento, egli, certo, dové tracciare in cartoni preliminari l'ordito della sua
composizione ed io amo credere che egli guardò, quanto ai modelli compositivi,
alle preziose stoffe ricamate (a chi, infatti, non torna alla mente, nel fissare la rota,
col pardo che atterra l'ariete, la lotta ferina ricamata sullo stupendo mantello del
gran re Ruggero II al Museo già imperiale dì Vienna?), ai pesanti cortinaggi e
agli arazzi cari al gusto arabo e normanno e alle squisite miniature, folte di belli,
orridi mostri, dei codici alluminati negli scriptoria dei cenobi basiliani.
Da arazzi, forse, (di un certo interesse mi pare l'analogia stilistica che corre
tra il corteo dei militi carolingici eseguito in Brindisi il 1178 e conservatoci dallo
Schulz e dal Millin e l'eroica galoppata dei soldati normanni di Guglielmo il Conquistatore dell'arazzo di Bayeux, pure della seconda metà del sec. XII) come provano le deformate scritte arabiche della rota della Sirena o l'impossibile impugnatura dei bastoni in quella che è forse la figurazione di una pugna giudiziaria,
Pantaleone derivò, in una versione dialettale dì buon sapore popolaresco, episodi
di cultura biblica, di epica antica e di favoleggiare moderno quali l'Arca di Noè,
(1) A. DE STEFANO, La cultura in Sicilia nel periodo normanno, Bologna 1954, p. 87.
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che eseguì anche in Brindisi, i fatti di Giona, che gli furono forse richiesti dall'arcivescovo cui il profeta era ad un tempo nomen e numen, l'enigmatico duetto
di Marguacius e del profeta Daniele studiato dal ( Ribezzo e dal Parlangèli, l'assunzione in cielo di Alessandro Magno, riscontrabile nel musaico di Taranto, e il
più celebre episodio di re Artù e del gatto di Losanna riconosciuto dal Novati.
Ma, come non fu insensibile alle voci e alle correnti più varie della cultura
dell'età sua, Pantaleone non seppe sottrarsi all'incanto che l'orrido e il favoloso
esercitarono sulle coscienza collettiva di quella primavera dello spirito europeo
che fu l'età romanica, ed amò, l'umile prete idruntino, rappresentare con accesa
immaginazione, nelle mostruose fattezze di fiere irreali, le passioni, i vizi e i peccati dell'umana natura.
Certo operarono, in quel generale compiacimento figurativo che S. Bernardo
considerò sospetto o, quanto meno, pericoloso per l'ordine morale delle coscienze,
con la tendenza tutta medievale di rendere per simboli gli atteggiamenti dello
spirito, le grandi passioni che animarono l'età romanica e che gli artisti, sensibili
interpreti di tutta un'epoca, tradussero nei gihgni mostruosi di esseri irreali.
Nulla del loro fascino, tuttavia, hanno perduto ai nostri occhi quei bestiari;
davvero, come scrive il Màle, essi « ci appaiono meravigliosamente poetici, carichi
come sono dei sogni di quattro o cinque popoli che se li trasmisero gli uni agli
altri lungo millenni. Essi introducono nella Chiesa romanica la Caldea e l'Assiria,
la Persia degli Achemenidi e la Persia dei Sassanidi, l'Oriente greco e l'Oriente
arabo. Tutta l'Asia porta i suoi doni al Cristianesimo, come un tempo i Magì al
Fanciullo ».
Il bene, come il male, volle spiegasse alla posterità l'opera sua Pantaleone,
onde egli accostò, in quello Zodiaco che ha l'armoniosa cadenza dei Mesi antelamiei, l'operoso travaglio del contadino meridionale allo stridor dei denti e ai
lamenti disperati del regno infernale ove, « orrida maestà nel fero aspetto »,
siede Satana.
A quelle figure angosciate che il peccato ha spinto all'ultimo, eterno strazio,
guardò forse l'idruntino Guglielmotto e da lì certo trasse i versi stupendi di quel
suo sonetto eucaristico:
Tu se' quell'arme per cui noi vencimo
l'antico primo perfido serpente
percutiente spirito dannato.
In quella terribilità piena di sgomento e di forza, cui dovette far capo, nelle
parti perdute del musaico, il Giudizio finale, nel richiamo costante, attraverso gli
esempi delle pene e dei castighi, all'osservanza dei precetti della vita cristiana,
alla cosciente responsabilità del lavoro, all'esaltazione delle virtù, per cui a Sansone fu dato di squarciare il leone di Tamma e a Noè di sottrarsi al Diluvio, alla
riprovazione della disobbedienza, della lussuria e dell'orgoglio, onde i Progenitori furono cacciati dall'Eden, Cleopatra morì di veleno e furono confuse le lingue a Babele, al pentimento che ridona la grazia, sta tutt'intero il messaggio che con la sua
opera Pantaleone affidò ai secoli venturi.
Ed è quello un messaggio che, a distanza di otto secoli, nulla ha perduto del
suo vigore, nulla dell'efficace suo monito e che all'umanità del nostro tempo, come
già alle trascorse generazioni, addita le vie che una libera scelta conduce all'eterna salvezza o all'eterna disperazione.
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ANNUARIO
1961-62 (del) Liceo-Ginnasio statale "G. Palmieri „ (di) Lecce, 1962.
E' il quarto annuario dell'istituto leccese retto, quest'anno, dal prof. Pasquale
D'Elia.
Fra i vari saggi rileviamo quelli d'argomento salentino di: Mario D'Elia,
Linguaggio giuridico e struttura sociale nei capitoli della Bagliva di Galatina (14961499), pp. 51-67 (è un ulteriore articolo che il D'Elia dedica allo studio dei capitoli
baiulari di S. Pietro in Galatina, di cui si attende ormai da anni l'edizione del
testo), di Anna Schilardi, Antonio De Ferraris poeta, pp. 99-125 (modesto e frettoloso elaborato sulla già nota opera poetica del Galateo; lacunoso l'apparato
bibliografico e folte inverosimiglianze nel testo e nelle citazioni) e di Paolo Stomeo.
La Madonna del cattivo tempo. Un canto greco di Martano pubblicato da D. Comparetti, pp. 127-141 (è l'edizione critica diligentemente condotta dall'illustre ellenista salentino di un interessante poemetto in dialetto greco-calimerese).
MICHELE PAONE
Q. S. F. TERTULLIANI, Ad Martyras, Prolegomeni, Testo Critico, Traduzione
e Commento di A. Quacquarelli, Roma, Desclée, 1963.
Con gli stessi criteri e la stessa profondità di analisi già adottati nello studio
di un'altra opera di Tertulliano (Ad Scapulam, Roma, Desclée, 1957), l'A. presenta
ora l'Ad Martyras.
Com'è noto, le opere del polemista africano, un po' per il suo stile troppo personale e spesso difficile, ma specialmente per le sue intemperanze rigoriste, che lo
condussero alla finale deviazione montanistica, furono in passato poco lette. Già
Cipriano, che pure accusa con evidenza gli influssi del pensiero di Tertulliano, suo
« maestro » (Jeron. de vir. inl., 53), non lo citava nemmeno. I Padri e in genere
gli scrittori ecclesiastici gli hanno sempre dimostrata scarsa simpatia e s. Agostino era piuttosto infastidito dal suo stile: « buccis sonantibus non sapientibus
Tertullianus inflavit » (De bono viduitatis, IV, 6). Il primo ad avere parole di lode
per lui è Vincenzo . Lerino del V secolo (Commonitorium, 18 (24)). E l'unico onore
concesso alle opere di Tertulliano fu, sembra, la loro citazione insieme a quelle di
Cipriano e di Novaziano al concilio di Efeso (p. 42).
La riabilitazione e lo studio sempre più approfondito del presbitero africano,
che pure ha preparato la lingua ufficiale e la tecnica di alcune formule dottrinarie
della Chiesa, si può dire che sia un fatto recente. In quest'ultimo quindicennio
poi si nota un crescente interesse sia da parte degli studiosi di patristica che di
quelli di storia del Cristianesimo in genere, i quali si sono rivolti al fecondo scrittore con particolare attenzione per comprenderne e approfondirne la complessa
e poliedrica personalità.
L'opera di Quacquarelli si pone nella scia di questi nuovi contributi e severe
ricerche, che anno per anno si sviluppano attorno all'enorme produzione tertullinea. L'A., prima di affrontare lo studio particolareggiato delle singole opere del
polemista, gli aveva già dedicato alcuni saggi per coglierne determinati aspetti
dottrinari e ideologici. Passare perciò allo studio e all'analisi delle singole opere
era più che naturale e secondo uno sviluppo organico di metodo.
Il presente lavoro dunque si articola in tre parti: nei Prolegomeni l'A. riassume, sulla base dei più recenti studi critici, tutte le questioni riguardanti l'anno
di composizione (che è un po' la « crux interpretum » per tutte le opere di Tertulliano), il genere letterario, i rapporti con la Sacra Scrittura, il concetto di martire e le leggi del martirio alla luce della dottrina patristica.
Si hanno buoni argomenti ormai per riportare la redazione dell'Ad Martyras
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al febbraio del 197, anno già proposto dall'Harnack, dall'Aubé, dall'Allard e dal
Monceaux (p. 22). Contro il Buonaiuti, il quale, sull'interpretazione personale di
« stadia opaca », proponeva invece l'estate dello stesso anno, l'A. osserva che tale
espressione contiene più un riferimento di luogo che di tempo (p. 22). Per le tracce
montanistiche sottolineate da parecchi critici (Tillemont, De Labriolle) e che consiglierebbero altra data, si deve convenire che « il montanismo di Tertulliano non
è un fatto che balza d'improvviso... ma un fenomeno lento che, a poco a poco, si
matura in lui ed ha un processo di acceleramento nell'allargamento della comunità
cristiana del primo decennio del terzo secolo » (p. 21).
Per quanto riguarda lo stile e là brevità poi l'operetta « fa parte di una speciale letteratura del Cristianesimo antico, che va sotto il nome di esortazione o,
meglio di preparazione al martirio » (p. 25). Esempi di « exhortationes » non mancavano nella letteratura classica sia greca che latina: Platone,. Cicerone, Seneca ne
han lasciati ottimi esempi. Tuttavia l'Ad Martyras, dice l'A., inaugura un genere
letterario nuovo librato tra la consolazione, il discorso protrettico e la diatriba.
« Ha un po' della consolazione, ma del genere dimostrativo che supera Seneca; ha
del protrettico, ma di una forma approfondita che si discosta da quella pagana;
ha pure della diatriba che non è né filosofica né retorica, ma originale » (p. 30). Lontana dalle meditazioni etico-filosofiche del « De senectute » di Cicerone e anche dagli elogi funebri coltivati dai Cappadoci Gregorio di Nazianzo e Gregorio di
Nissa (p. 28), l'exhortatio tertullianea è accostata, felicemente ci sembra, più alle
« allocutiones » dei generali ai soldati prima della battaglia (p. 29). Vista sotto
questo profilo l'opera appare perciò più congeniale all'emotività dell'animo africano, predisposto per natura ad azioni improvvise di questo genere.
L'A. passa ad esaminare il significato e l'estensione del termine « martire »
nelle opere e nel pensiero di Tertulliano, per il quale il martirio resta sempre una
testimonianza cruenta della fede, mentre Origene e Clemente Alessandrino interiorizzano la nozione di martirio (p. 35), fino a significare anche la purezza di vita.
Tertulliano non parla a martiri o a confessori, ma a coloro che attendono l'estremo supplizio: perciò le sue parole colgono quel particolare stato d'animo fatto di
attese, di trepidazioni, d'incertezze e spesso di vacillamenti, dal superamento dei
quali dipende se i cristiani, ai quali egli si rivolge, saranno o no dei martiri. L'accostamento alle allocuzioni militari è pertanto esatto. L'esempio principale che
Tertulliano fa balenare davanti agli occhi di questi atleti in attesa dell'ultimo
certame, è quello del Cristo (p. 37), secondo lo spirito di s. Paolo, che invitava i
suoi fedeli a modellarsi al Cristo (Phil. 2, 5).
Lo scrittore, tutto intento a trovare le parole più adatte per consolidare nella
fede gli araldi di Cristo, tralascia per un momento la polemica contro le eresie,
in particolare contro lo gnosticismo. Di qui la semplicità e la linearità delle sue
espressioni, che diventano via via più immediate ed efficaci. Ma stabilendo come
punto di riferimento del martirio il Cristo, che aveva patito ed era morto realmente dando per primo l'esempio del martirio, la polemica antieretica affiora naturalmente ed è sottintesa ad ogni passo. Tra le righe si leggono facilmente i nomi
di Valentino, che riteneva inutile il martirio, di Basilide, per il quale la passione
del Cristo era un'apparenza, di Prassea convinto che il. Cristo non avesse mai sofferto. Questo è un punto che l'A. coglie con felice intuizione e con particolare
sensibilità (p. 40).
Dopo aver sottolineata la grande funzione esercitata dalla Bibbia nell'apologeta cartaginese (p. 30), i Prolegomeni si chiudono con una rassegna minuziosa e
precisa delle figure retoriche e delle clausole metriche adoperate da Tertulliano
(p. 45-60). L'A., rintracciando tutti gli schemi e i vari ritmi della prosa tertullianea
(espedienti peraltro familiari a tutti gli autori antichi, latini e greci), ha indugiato
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con attento esame nell'analisi della forma letteraria non per sfoggio di erudizione
umanistica, ma perché « le clausole e le figure retoriche non sono in funzione passiva... ma in funzione dinamica, formando un tutto col contenuto stesso » (p. 45).
Figure e clausole gli sono naturali, e l'autore attinge dall'interno la concinnitas
del suo periodare.
Per questo motivo nella seconda parte del libro il testo latino (di cui a pie
di pagina son riportate tutte le varianti dei codici) è diviso sticometricamente, in
quanto la successione dei cola e dei commata, mentre facilita allo studioso l'uso
del testo, consente di seguire meglio la « elocutio », di cogliere le peculiarità stilistiche e di seguire i moti dell'animo del cartaginese (p. 45). Bisogna riconoscere
che in questo paziente lavoro di ricerca e di scoprimento di tutti i giochi degli
schemi e delle alternanze metriche l'A. si muove a suo agio e con solida competenza.
Nella traduzione italiana, affiancata al testo criticamente ricostruito, è evidente
l'intenzione dell'A. di darci più un esempio di fedeltà e di stretta aderenza al pensiero del polemista, anziché un saggio di prosa fluida e indipendente. Tale impegno lo porta sino al rischio di darci una traduzione-calco pur di non tradire la
g enuinità del pensiero dello scrittore, così pazientemente studiato e analizzato.
La terza e più ampia parte del lavoro è quella che ha impegnato maggiormente l'A., il quale, parola per parola, commenta l'Ad Martyras con ricchezza di
riferimenti, di citazioni, di richiami e di raffronti che spaziano in tutte le opere
della letteratura patristica e di quella profana. L'aridità della semplice rassegna
o della pura erudizione è « ad abundantiam » superata dall'avvertita necessità di
penetrare sempre più tutti gli atteggiamenti mentali del difficile scrittore africano.
Sorprendere perciò tutte le sfumature e le diverse gradazioni fin nelle parole e
sovente delle stesse parole nei diversi periodi e in frasi lontane vuol dire oggettivare e dare risalto prospettico all'immagine e a tutto il pensiero inteso dallo scrittore. Lo scritto antico acquista così una rinnovata vita e un'attualità inattesa,
disvelate da un'ermeneutica che fa appello a tutti i mezzi e si avvale di tutti i
sussidi esegetici che le ricerche attente e severe offrono.
L'abbondante bibliografia, l'apparato scritturistico e gli indici preziosi raccomandano in modo particolare questo lavoro a quanti alla letteratura cristiana
antica si dedicano con intenti scientifici.
°RONZO GIORDANO
Raffaele PERNA, Ricordi di Puglia in Orazio, (Quaderni di "Clizia „ diretti
da D. Lattanzio e A. Papagni, III), Bari, Ediz. Levante, 1960. pp. 71 L. 700.
Fondato su una larga conoscenza dell'opera oraziana e della letteratura eri,
tica relativa e sorretto da un vivo impegno scientifico, non soltanto dettato da
amore per la propria terra, il presente quaderno del Perna non appartiene alla
categoria sempre numerosa dei lavori intesi — secondo gli ingenui moduli di certa
storiografia letteraria particolare del primo ottocento — alla rivendicazione delle
glorie locali.
La ricognizione che l'A. vi persegue,, ispirandosi ad analogo studio del Festa (1),
dei ricordi di Puglia in Orazio, e che lo porta ad accertare la presenza di un rapporto continuo e vario, oltreché facendo ai peni creativi, del poeta con la sua terra
(contro le frettolose conclusioni del Wili e di vari scrittori locali, e secondo che
avevano sostenuto, e. g., Lenormant, De Lorenzo, Malcovati, Villeneuve (2), come
Ricordi lucani in Orazio, in: « Miscellanea di studi critici in onore
di E. Stampini, Torino, 1921. Cfr. PERNA, Ricordi, p. 7.
(2) Per i dati bibliografici relativi si rinvia al quaderno del Perna, pp. 14-16.
(1) N.
FESTA,
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trapassa correttamente dall'accertamento dei « ricordi » all'interpretazione delle
situazioni spirituali donde di volta in volta essi germinano„ così viene a concernere la personalità poetica e umana di Orazio e ritrova una sua precisa giustificazione metodologica. Ché se la Puglia (paesaggio, prodotti, uomíní e costumi)
costituisce positivamente un tema della poesia di Orazio, dunque un elemento
della sua esperienza di vita, ne è lecito e doveroso, come per ogni altro tema, lo
studio — vale a dire, lo studio del suo tradursi nell'espressione, e della sua distribuzione e risonanza nel complesso dell'opera —, e può contribuire all'intelligenza
dell'uomo e dello scrittore.
Così è per noi del più alto interesse, importando un opportuno correttivo della
diffusa raffigurazione di Orazio come poeta di ispirazione libresca, il fatto — che
emerge chiaramente dall'indagine del P.; benché non su di esso cada in questa sede l'accento dello studioso (3) —, che il Venosino ami concretare più spesso di
quanto comunemente non si creda con specifici riferimenti ai fiumi monti mari
prodotti della sua regione, cioè con dati attinti dalla propria personale esperienza,
modi e forme del suo discorso poetico (ad es.: Sat. I, 1, 58 cum ripasimul avolsos
fersat Aufidus acer; Carm. I V,14, 25 sic tauriformis volvitur Aufidus; Carm. II,
14, 13 s. frustra... carebimus... fractis... rauci fluctibus Hadriae; Carni. III, 9, 22
improbo iracundior Hadria; Carm. II, 9, 6 s. non semper] aquilonibus querceta
Gargani laborant; Ep. II, 1,202 Garganum mugire putes nemus) (4), e non solo si
appelli, genericamente, ai vari Myrtoum mare (Carm. I, 1, 14), Icarii fluctus (ibid.,
v. 15), Zephyris agitata Tempe (Carm. III, 1, 24)Cypriae Tyriaeque merces (Carm.
III 29, 60) della tradizione letteraria. Se poi anche queste ultime fossero da intendere non come espressioni antonomastiche, ma come determinazioni concrete assunte a evitare il generico, secondo una tecnica alessandrina usuale nell'età augustea (5), non par dubbio che un siffatto orientamento espressivo e spirituale sia
ben più vivamente rappresentato dalle altre determinazioni, derivate dai ricordi
concreti della vita del poeta.
Ciò che lascia perplessi son le conclusioni generali che il P. raggiunge. Egli ritiene di poter distinguere, nell'atteggiamento di Orazio verso la propria terra un'evoluzione per cui si passerebbe da una giovanile presa di posizione ironica e canzonatoria, attestata partic. da Sat. I, 5, vv. 87-89, 92, 97-103 [pp. 17-22], a un sempre
più vivo e insistente sentimento di nostalgia e simpatia e poi di vero e proprio
orgoglio per essa: « ...come, man mano ch'egli si allontanava dagli anni delle lotte
e delle polemiche, apprezzava sempre più la serenità, la pace d'una vita tranquilla
e appartata e cresceva in lui la nostalgia della sua terra lontana, così, a grado
a grado, si veniva formando e sviluppando nel suo animo un sentimento che costituisce una vera e propria antitesi con quel tono tra lo scherzo e l'ironia che, nella
satira quinta del libro primo, cogliemmo nei confronti dei suoi conterranei. Pare
che egli ormai vada sentendosi orgoglioso della sua terra d'origine, se spesso e
volentieri ne congiunge il ricordo con le manifestazioni più alte e significative dei
suoi vanti di poeta » [p. 49] (6). Epperò in Carm. III, 30 « il Poeta... mentre si
volge a guardare soddisfatto il monumento innalzato dalla sua operosità poetica »
(3) Per una considerazione più puntuale del fenomeno si veda, del medesimo A.,
Della località designata con l'aggettivo « Matinus », in: « Clizia » IV (1958, passim
e partic. pp. 1154 s.
(4) La documentazione completa a pp. 25-33, 34-42, 61-64 del quaderno.
(5) Così, e. g., V. UssAmr, Orazio. Odi ed Epodi, I, Torino, rist. 2' ed., 1952, p. 58
(per Carm. I, 1, 14 s.); e I. CAllANIGA, Le Odi di Orazio nel commento di I. C., Milano, 1954, pp. 16 e 140 (per Carm. I, 1, 14 s. e III, 29, 60). In generale si cfr. A.
KIESSLING - R. HEINZE, Hoz. Oden und Epoden erkffirt von K. - H., Berlin,
pp. 5 s.
(6) Si cfr. inoltre pp. 25, 34, 39, 43, 4(, 54, 65 e passim.
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congiunge « il suo sentimento di giusto orgoglio col ricordo della sua patria d'origine » p. 51];in Eu. I, 20 « nel nostalgico commiato da tutta la sua attività di
poeta, ricordando, con compiaciuta soddisfazione... l'alto volo nei campi dell'arte,
non dimentica di far menzione dei suoi umili natali e di suo padre liberto » [ibid.];
e in Carm. IV, 2, nella menzione della apis Matina « congiunge solennemente... la
sua fama di poeta e il ricordo della terra natia (...) e implicitamente confessa...
di dover ad essa i suoi caratteri propri e distintivi » [pp. 52 s.1 (7). Finalmente, « il
rifiorire del ricordo nostalgico della sua terra d'origine » nella fase della cosiddetta
poesia celebrativa, « quando cerca [sc. Orazio] di dare alla vita un valore etico e
politico » trova a giudizio del P. « la sua ragion d'essere nell'ammirazione che egli
dimostra per la sanità morale e fisica della antica gente di Puglia » [p. 55].
Come sia difficile prestar fede a tale ricostruzione mostrano i seguenti rilievi:
a) la Satira 5' del I libro, del 30 o 37 a. Cr., contiene, accanto agli spunti che
il P. giudica ironici o beffardi nei confronti della Puglia, accenti inequivocabili di
nostalgia: sono i vv. 77 s. incipit ex illo mortis Apulia notos / ostentare mihi, che
già il Pascoli segnalava (8), e la finezza e probità del P. non può fare a meno di
richiamare [p. 18].
b) un elogio caldo ed entusiastico dei costumi della sua gente è messo dal
poeta in bocca ad Alfio [secondo P., pp. 62-64] nell'epodo II, di cronologia contestata, ma in ogni caso non posteriore al 30 a. Cr.; ma ironiche frecciate all'indirizzo dei propri conterranei si leggono successivamente in Ep. I, 7 del 25-23 a. Cr.,
ai vv. 14-20 (9); le quali, poi, si trovano a concorrere con i toni nostalgici e orgogliosi rispettivamente di Carm. II, 6, vv. 9-24 e III, 30, se la composizione di queste
odi cade nel medesimo periodo (per l'esegesi della seconda v. peraltro infra).
c) in Carm. III, 30 vv. 10 ss. ed Ep. I, 20, vv. 20 ss., la menzione della terra
natia e dell'umiltà delle proprie origini, che il poeta congiunge a quella della fama
da lui conseguita, sembra introdotta soprattutto al fine di sottolineare e per così
dire misurare l'altezza raggiunta: è indicativa, al riguardo, proprio la testimonianza di Ep. I, 20, vv. 20 ss. me libertino natum patre et in tenui re / maiores pinnas
nidos extendisse loqueris, / ut, quantum generi damas, virtutis addas (10).
Non si direbbe che l'evoluzione ricostruita dal P. resista alla prova del testo
e della cronologia.
Che poi in Carm. IV, 2, vv. 27-32 Orazio confessi di ripetere dalla terra d'origine i caratteri distintivi della sua poesia, e in Carm. III, 30, vv. 10 ss. quasi dichiari di dovere « alla laboriosità e alla tenacia di un buon pugliese, se poté assurgere ai più alti fastigi della poesia italica » [Perna, pp. 52 s., 50, cit supra], questa
resta, manifestamente, una presunzione indimostrata, e indimostrabile. La carità
del natio loco ha qui forzato la mano, se mal non ci apponiamo, allo studioso, e
lo ha portato troppo al di là delle intenzioni dell'autore. Ma è uno dei rari momenti di abbandono sentimentale di un'opera che costituisce più spesso un bell'e(7) Analogamente, l'A. amerebbe interpretare i vv. 10-14 di Carm. III, 30 quale
dichiarazione aperta e solenne del poeta « che egli deve alla laboriosità e alla
tenacia di buon pugliese, se poté assurgere ai più alti fastigi della poesia italica »
[p. 50].
(8) G. PASCOLI, Lyra, Livorno, 1924 7 , p. 234. Ma si legga anche là penetrante'
traduzione del WIELAND, Horazens Satyren... iibersetzt... con C. M. W., I, LiepzigFrankfurt, 1787; p. 149: « Nunmehr begann mein Wàterlich Apulien / die wohlbekannten Berge mir zu zeigen ».
(9) Ci cfr. del resto, in proposito, le pp. 22-24 del quaderno.
(10) Così intendevano già gli antichi scoliasti (cfr. Pseudacr. a Carni. III, 30,
v. 12,: « [ex humili potens] gloriatur se libertino patre natum ad tantam studiorum claritatern venisse », p. 324, 4 s., KELLER Porph. ad loc., p. 120, 15 ss.
MEYER1), vanamente osteggiati dal. BENTLEY, Q. Horatius Flaccus..., I, Lipsiae, 1826',
p. 238, che riferisce potens a Daunus del v. 11.
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sempio (si legga, in proposito, l'indagine sull'uso oraziano di Sabellus, a pp. 5962) (11) di come scienza e amore possano fruttuosamente equilibrarsi e coesistere.
Giacché l'amore può offuscare ma anche rendere più penetrante, lo sguardo e
il giudizio (12).
(11) Si veda, più diffusamente, Renuit nigitatque Sabellus, in: « Clizia » III
(1957), pp. 816-22.
(12) Qualche osservazione particolare:
— a p. 9 e n. 17: in Carm. III, 4, vv. 9-13 (me fabulosae Volture in Apulo
nutricis extra limina Pulliae [il P. difende con la maggioranza degli editori la lezione de codd. Ambrosianus 136, Bernensis 363, Parisinus 7900/A, Vaticanus 1703]
ludos fatigatumque somno / fronde nova puerum palumbes / texere etc.) fabulosae, del v. 9, andrà più verosimilmente riferito a palumbes (v. 12) che a Pulliae
(v. 10); come suggerisce non solo la connessione, che il P. non ignora, delle palumbes con miti e leggende religiose, e il riscontro di Carm. I, 22, v. 7 fabulosus
Hydaspes (per cui cfr. KIESSLING - HEINZE, op. cit., p. 273), ma anche, se non cí
inganniamo, l'impianto stilistico della strofe, la quale inizia con fabulosae e conclude con palumbes la sua
. (Naturalmente, il riferimento di fabulosae a
palumbes è pacifico ove al v. 10 si legga altricis extra limen Apuliae).
— a p. 44 n. 120: non tradurremmo vignette [« a vignette sever to be forgotten », FRANK, Catullus and Horace, New York, 1928, p.. 194] con vignetta, ma con
« scenetta » o « quadretto ».
— a p. 50: i vv. 10-14 di Carm. III, 30 (dicar qua violens obstrepit Aufidus etc.)
vanno intesi, a giudizio del P., secondo l'UssANI, op. cit., II, p. 136: « Dirà la fama
di me che io, seguendo il corso torrenzialedell'Aufido fragoroso e il cammino per
il quale Dauno assetato giunse al regno di popoli agresti, da umili ori gini potente
signore, condussi la colonia delle canzoni eolie alle armonie italiane ». L'interpretazione più diffusa, che sottintende natus dopo dicar, è peraltro decisivamente
suffragata, ci sembra, da Carm. IV, 9, vv. 1 ss.: Ne forte credas interitura quae I
longe sonantem natus a dAufidum / non ante volgatas per artis verba loquor
socianda chordis etc. (Il riscontro primamente in ORELLI - HIRSCHFELDER, Horatius...,
I, Lipsia, 1886 4 , p. 306 ad loc.).
Gli errori di stampa sono relativamente pochi e facilmente rimediabili dal
lettore.
GIUSEPPE BROCCIA
Sabino D'AcuNTo, I giorni indefiniti, Carpena edit., Sarzana pagg. 61 L. 1200.
Sabino D'Acunto è un poeta la cui natura rifugge da ogni violento accostamento alla realtà, per ascoltare le voci di dentro che gli urgono e che pare vogliano estrinsecarsi nelle cose impalpabili, confondersi ed espandersi in un'infinita
isola quale è l'anima. Della realtà appena qualche eco, ma come sfondo a uno
stato d'animo, pretesto ad un discorso poetico concluso in se stesso. Anche il
tempo non è che un'entità fisica (giorni, ore, stagioni) anche se qualche volta sta
a significare il trascorrere dei sentimenti, quasi a voler riproporre una memoria,
una speranza, il nome e il volto di una donna ormai lontana, l'amore, i sogni.
Ma l'amore è la matrice che è all'origine della poesia di D'Acunto, amore come
sentimento sempre nuovo e inarrestabile, il solo forse ancora capace a mantenere
in piedi questo nostro mondo d'oggi alienato e stanco ad un tempo. Guai se D'Acunto cercasse di forzare il timbro ed esulasse in un'altra problematica differente
da questa che gli è congeniale. E il clima e l'ambiente della sua terra sono riproposti al lettore in tutta la loro poetica solitudine « Sulla mia gente veglia la montagna — assorta testimone — di primavere sacre e di memorie ». (Elegia Molisana) oppure « Il sole muore nel canale — e la corrente — dissolvenze sanguigne
di luci — trasporta lontano » (Con me sono i ricordi) e ancora « ...Sulla collina si
levava il vento — a sera ed era saturo di aromi — la terra ancora tiepida di
sole ». (Sulla collina). Clima e paesaggio come vediamo che non imbrigliano l'ispirazione, il volo di un verso, né rallentano il ritmo e ne appesantiscono il senso.
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Al contrario, suggeriscono il ricordo d'un amore intensamente vissuto e poi finito,
la memoria di cose care e non più vicine.
Una poesia, quella di Sabino D'Acunto, che emana brividi di dolcezza e di tenerezza, appena velate di tristezza e di rimpianto, ma mai dolciastra e patetica.
Una poesia virile invece di un poeta che soffre con dignità.
NERIO TEBANO
"
Il re e l'indovino „ di L. Sinisgalli - Disegno di copertina : Una acquaforte
e sei litografie bianco e nero di F. Gentilini - Ed. numerata 80 esemplari - Stampato dalla Tipografia Staderini, Roma.
Quello che a prima vista sembrerebbe un libro di fiabe, e il bel titolo, « Il Re
e l'Indovino » si presta all'equivoco, altro non è che un libro di dialoghi in cui filosofiche argomentazioni, metafore, parabole, motti e proverbi di tutti i tempi e di
tutti i luoghi fan bella mostra di sé. Autore del testo letterario è il poeta Leonardo
Sinisgalli, l'anno scorso vincitore dell'ambitissimo Premio internazionale di Poesia
Taormina-Etna », non nuovo a imprese del genere. La copertina dipinta è di
Franco Gentilini, che ha anche collaborato ad illustrare il volume con una litografia a colori e sei acqueforti in bianco e nero di suggestiva bellezza tutte quante.
Il volume, è ovvio, rappresenta una ghiottoneria per i bibliofili, anche perché
l'edizione curata è dì soli ottanta esemplari numerati ed è fuori commercio. Tra
un paio di anni, « Il Re e l'Indovino » entrerà a far parte delle rarità e sono in
parecchi quelli che vogliono accaparrarsene qualche copia. E se ne parla in giro,
nei salotti e nei ritrovi, tra gli amici comuni del poeta e del pittore, come di cosa
di cui val la pena occuparsene, da tenere in ogni modo in biblioteca, ben nascosta
s'intende e da tirar fuori a tempo debito.
A nostro modesto parere, l'effetto unitario tra il testo e le illustrazioni che
lo accompagnano è davvero eccellente. Da una parte il sentimento del poeta e
dall'altra il dono immediato di liricità di un pittore che è uno dei più raffinati e
preziosi che si abbiano oggi in Italia. E tanto l'uno che l'altro estrinsecano il meglio della propria intelligenza e della propria sensibilità in questa specie di celebrazione festosa che ha resi felici loro per primi. E si capisce che l'eccellenza dei
risultati non è che il meditato frutto di una collaborazione che dura oramai da
diversi anni e che ancora promette altre comuni esperienze.
Per tornare al volume, diremo che « Il Re e l'Indovino » è una storia a temporale oppure che « i personaggi e i fatti narrati non hanno alcun riferimento con
la realtà ». Immaginate un Reame qualsiasi, all'Est o all'Ovest non ha importanza,
con un Re a cui piace « discutere » e un Indovino (una sorta di Ministro degl'Interni) a cui piace « ascoltare » e qualche volta discutere anche lui. I due « filosofi »,
sullo sfondo di una Reggia spoglia e austera come un'architettura greca o di una
cattedrale gotica o bizantina, sgranano i grani della loro sapienza in un giuoco di
sottilissima intelligenza, forse un po' fine a se stessa, dove la posta più alta è il
predominio della propria sull'altrui dialettica, una specie di partita a scacchi di
rigorosissima dialettica nella quale ciò che più contano sono le parole e ciò che
esse nascondono o rivelano. I temi di cui dialogano sono di varia attualità, profondi e arguti a seconda gli umori. Si direbbe che il Re servendosi di un testimone così ossequiente alle regole del vivere regale voglia affidare ai posteri la
summa della propria sapienza e della propria saggezza. All'indovino perciò il compito di discernere il meglio tra il meglio di così dotto dialogare, incasellando ogni
cosa al suo giusto posto, filtrate di ogni passione.
Se non fosse per le illuminate illustrazioni di Gentilini, il dialogo tra i due
personaggi si sarebbe risolto in un puro e raffinato giuoco d'alchimia astratta, irreali anch'essi. Ma gli « oggetti » che essi evocano di volta in volta: « la rosa », « la
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6 • LA ZAGAGLIA
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conchiglia », « il tavolo », « il cielo stellato », « il vaso rotto », « la lavagna » sono
fantasiose ma reali « presenze » che ridanno dimensione umana alla storia e ai
personaggi allontanandoli dal rischio della formula.
NERI°
TEBANO
Miodrag BULATOVIC, Il gallo rosso vola verso il cielo, Collana " Biblioteca
del Verri „ - Rusconi e Paolazzi editori, Milano.
Le occasioni della fantasia sono per Miodrag Bulatovic, giovane e dotato scrittore jugoslavo, più di quelle della realtà. E per un narratore slavo tale scelta è
oltremodo originale oltre che drammatica, perché presuppone una scelta difficile
tra moduli tradizionali e vocazione verso tutto ciò che è nuovo e diverso; un conflitto di ipotesi e di esitazioni tra ciò che è intuito e ciò che invece è reale. Ma non
deve essersi trattato solo di questo. Il nuovo corso della politica jugoslava da qualche anno a questa parte, i suoi rapporti e le sue relazioni oltre che diplomatici
ed economici anche culturali con l'Occidente, e i più frequenti contatti con uomini di diversa ideologia hanno incoraggiato le ultime leve di giovani letterati a
voler meglio studiare ed approfondire i movimenti culturali europei ed americani.
Lo stesso accade da noi, in Italia, nell'immediato dopoguerra, quando i giovani
narratori nostri riscoprirono la letteratura americana, per merito di Pavese e di
Vittorini soprattutto, e ne copiarono la tematica e lo stile trasferiti più o meno
efficacemente nel nostro clima e nel nostro ambiente. Hemingway, Dos Passos,
Steinbeck, Cain, Wilder furono i più illustri modelli ai quali i giovanissimi, che
s'affacciavano alla ribalta dalle pagine del « Politecnico » e nella collana « I gettoni » diretti entrambi da Vittorini, attinsero o s'ispirarono nelle loro « opere prime » dove la cronaca ancora non era diventata poesia storia e letteratura.
Anche la tematica e lo stile di Miodrag Bulatovic, giovanissimo quasi un ragazzo all'epoca della Liberazione del suo Paese, è complessa e meditata sulla scorta
delle numerose letture di autori per la maggior parte americani. E i primi nomi
che ci vengono alla mente sono quelli del Fauckner di « Sanctuary » e del Traven
di « Il tesoro della Sierra Madre » e del più recente Truman Capote di « Altre stanze, altre voci ». Ma scorrendo le ariose e suggestive pagine de « Il gallo rosso vola
verso il cielo » si sentono pure Tornton Wilder e John Steinbeck con tutto il loro
calligrafismo allusivo di una letteratura di crisi. Per sua fortuna però la materia
favolosa e crudamente realistica ad un tempo del romanzo attinge direttamente
l'ispirazione alla vita del suo popolo e del suo Paese e ciò significa riallacciarsi
alla fatalità della tradizione letteraria slava di cui egli riesce ad esprimere il meglio col massimo di carica emotiva e di integrità morale.
Miograd Bulatovic, nato trent'un anni fa a Bijelo Poli je, nel Montenegro, in
questo suo romanzo, il terzo della sua ancor giovane carriera, ha raggiunto una
sua densa e sofferta maturità con un piglio perentorio e aggressivo in cui s'avverte la impazienza di dire molte cose che abbiano valore di verità. Ciò che gli
nuoce è certa compiacenza di stile e certa disponibilità intellettuale con le quali
ritma la cadenza delle sue pagine, per cui alla fine si disperdono i termini di quel
mondo primitivo che vuol rappresentare, la solitudine e la malinconia dei suoi
personaggi « umiliati e offesi » ricacciati quasi ai margini. Ma anche così come è
impostato il romanzo, suddiviso in ventotto brevi capitoli che hanno la cadenza
e il respiro di altrettanti poemetti in prosa, si avverte tuttavia l'impazienza febbrile del Bulatovic di arrivare a un rapporto nuovo e difficile da stabilire con i
modelli cui abbiamo detto, un rapporto autonomo che dia libero sfogo alla sua
naturale ispirazione, incanalata verso un mondo a lui più congeniale, dove contano
i sentimenti dell'uomo, quella sua esistenziale disperazione che è antica quanto il
mondo, un sottinteso pessimismo ragionato ed un altrettanto ottimismo istintivo.
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Sullo sfondo di una festa di nozze tra due giovani contadini, si svolge la trama
de « Il gallo rosso vola verso il cielo », fitta di reazioni contrastanti e di avvenimenti contingenti che si dipanano sotto un sole abbacinante di una implacabile
estate, tra paesi arsi dalla calura e campi bruciati dalla siccità. Ogni storia singola, quella di Mara pazza, di Petar e Jovan i due vagabondi, di Ismet e Srecko i
due becchini, di Mrkoje a cui è stato dato l'incarico di catturare a tutti i costi il
magnifico gallo cedrone, e infine quella di Muharem, il paria disprezzato e invidiato da tutti gli abitanti dei dintorni perché suo è il gallo rosso, convergono in
una unica direzione anche se sembrano a se stanti. E' perché nelle pagine di ogni
singola? domina la presenza del gallo, quasi un simbolo, che accende cupidigie e
desideri. E' l'unica ricchezza che Muharem possiede, l'unico conforto alla sua vita
gramma e derelitta di uomo solitario. Ma è una ricchezza che gli sarà tolta, perché
il gallo cedrone preferisce fuggire verso il cielo anzicché cadere prigioniero
in mani altrui. Disperato, Muharem, mordendosi le mani dall'ira e dal dolore, lo
vedrà farsi sempre più piccolo man mano che sale verso il cielo fino a diventare
un punticino incandescente contro il sole.
Tradotto e pubblicato in undici diversi Paesi, questo romanzo di Miodrag Bulatovic — che ormai si è affermato come il più promettente e originale narratore
jugoslavo — in Italia dopo appena pochi mesi è già giunto alla seconda edizione.
La sua pubblicazione ha inoltre posto in primo piano due nuovi editori milanesi, Rusconi e Paolazzi, i quali ne hanno curata la stampa in una bellissima veste tipografica. Il volume, tradotto magistralmente da Eros Segui, fa parte
della Collana « Biblioteca del Verri » diretta da Luciano Anceschi.
NERTO TESANO
Ivo
ANDRIC,
Il ponte sulla Drina, Mondadori Editore - Milano, L. 2.000.
Nell'esemplare traduzione di Bruno Meriggi è uscito finalmente in Italia per i
tipi dell'Editore Mondadori, nella bella collana « Medusa degli stranieri », il romanzo più noto e più significativo del più importante narratore contemporaneo
jugoslavo, il quasi settantenne Ivo Andric.
Una iniziativa quanto mai pertinente quella dell'editore milanese che colma
una lacuna: la scoperta di uno dei maggiori esponenti della letteratura slava i cui
libri sono da anni tradotti ed apprezzati in moltissimi Paesi d'Europa e d'America
al punto che, l'anno scorso, egli fu in lizza per il premio Nobel per la letteratura.
Uno dei meriti di questo romanzo consiste nell'averci messo a contatto con
una delle più antiche regioni europee, la Bosnia. Infatti, la città di Visegrad, dove
l'Andric ha ambientato la vicenda, è posta alla confluenza di due mondi, l'islamico
e il cristiano, e in epoca lontana fu in mezzo a due imperi, l'absburgico e l'ottomano e cioè ad un crocicchio di civiltà, di razze e di religioni.
« Il ponte sulla Drína » è un romanzo epico, uno di quei romanzi-fiume che
ha il vasto respiro di un grande affresco storico pur indugiando nella descrizione
di fatti e di figure umani nella migliore tradizione del romanzo psicologico. Scritto
negli anni tremendi della seconda guerra mondiale, questo romanzo di Ivo Andric,
pur richiamandosi alla storia di una regione e di una città fin quasi dalle origini
ha un sapore di attualità che lo rende problematicamente più impegnato e più vivo.
Il ponte ne è l'autentico protagonista, un simbolo allusivo e stimolante, che
sta a significare la realtà concreta del male nato dalla violenza e dall'odio
che ogni guerra genera e si trascina con sé. E come il male è indistruttibile nelle
coscienze degli uomini così il ponte resiste tre secoli, dall'epoca della sua costruzione ad opera del visir Mehmed Pascià sino al tempo della sua parziale rovina
durante l'ultima guerra mondiale. Su di esso si svolgono e si enunciano e si con-
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eludono fatti ed avvenimenti. E' tutta la vita della città che si centralizza attraverso il suo arco. E' come un antico orologio di un campanile al centro della piazza principale di una cittadina o di un paese di provincia che segna il tempo storico
e umano di tutto ciò che accade di buono e di cattivo.
Dominazioni, guerre fratricide, invasioni si avvicendano da secoli, passano e
muoiono dittatori e capi, ma il ponte rimane perché attraverso la sua presenza
altre generazioni misurino la parte di male che l'epoca in cui vivono ha dalla
sua parte.
Tutto questo è visto e narrato dallo scrittore jugoslavo in chiave critica con
in più una partecipazione umana ai fatti che scaturisce dalla pietà e dalla comprensione dell'uomo per i suoi simili.
Nel solco del grande romanzo realista dell'Ottocento, la materia e il tessuto
narrativo sono intensi di fatti e di sentimenti, la cadenza è in apparenza cronistica
per quel suo stile scarno ed essenziale, ma ad una indagine più approfondita vien
fuori il meglio delle pagine che sono quelle dedicate alle creature che popolano il
romanzo siano esse protagoniste o figure marginali. Un romanzo corale? Forse sì,
perché il dramma di ognuno diventa il dramma dí tutti, scandito col ritmo di
una ballata tragica. Uomini e donne, vecchi e bambini, in fuga ogni volta sotto
l'incalzare degli eserciti invasori, in preda al terrore o alla rassegnazione; una
fuga che disperata, senza meta, che rassomiglia alla piena di un fiume che ha
rotto gli argini e dilaga ovunque tutto sommergendo e distruggendo.
Il significato etico e morale del romanzo sta nella catarsi dei numerosi personaggi. Ciascuno fugge davanti al nemico, ma fugge anche da se stesso, dal proprio
passato e dalle proprie colpe. Sopravviveranno? Avranno la forza di ritrovare se
stessi dopo la grande paura?
Nella nettezza con cui prende corpo il coro dei personaggi minori, nell'argine
spesso e continuo che serra da vicino quelle creature in preda al terrore, nella
impossibilità di superare il limite invalicabile, nella inesorabilità del destino, sta la
validità umana e artistica de « Il ponte sulla Drina ».
Ma lo scrittore non si è lasciato soverchiare dal grande assunto del suo romanzo. Vi sono pagine che sono come cesure di pausa che ne rompono il ritmo
quasi ossessivo. Ed è allora che ci troviamo di fronte a cose assai fini e belle, piene di un tralucere delicato di immagini, un discorrere piano e sommesso che è
quasi sussurro e spesso musicalità. E quel gioco sottile di parole tra l'incantato e
il disincantato, che spesso raggiunge il tono della schiettezza poetica e crea il
mordente adatto a meglio gustare l'osservazione delle cose degli eventi e delle
persone che diventano fatti vivi e reali anche se a volte pare si dissolvano in una
aurea favolosa e fuori del tempo.
A Giancarlo Vigorelli, che tempo fa presentò ai lettori romani il romanzo di Ivo Andric, alla Libreria Einaudi di via Veneto, l'apertura de « Il ponte
sulla Drina » ha fatto pensare immediatamente al Manzoni de « I promessi sposi »
non tanto per un paragone improponibile, quanto per certa cadenza di ritmo di
cui dicevamo, per il giro della frase che ricorda appunto la celebre pagina d'apertura manzoniana.
Concludendo, di questo nobile scrittore jugoslavo, di cui conoscevamo in Italia alcuni brevi racconti editi da Vallecchi col titolo « La sete » e alcune poesie
raccolte in un'Antologia della lirica jugoslava, è apparso recentemente su «L'Europa
letteraria » un racconto « Il sogno di Rajka » che hanno stimolato la nostra curiosità di lettori sensibili ad una letteratura « impegnata » e ci - auguriamo di veder
presto tradotti in Italia le sue opere più recenti « Cronache di Travnik », « Signorina », « Cortile maledetto », che pare siano sullo stesso piano de « Il ponte della
Drina » che gli ha dato notorietà internazionale.
NERIO TEBANO
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