I diari delle streghe: L`iniziazione

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I diari delle streghe: L`iniziazione
Lisa Jane Smith
I diari delle streghe
L'iniziazione
(The Secret Circle: The Initiation, 1992)
Traduzione di Paolo Falcone
A mia madre, paziente e amorevole come Madre Natura
A mio padre, cavaliere senza macchia e senza paura
INDICE
Capitolo 1...................................................................................................2
Capitolo 2...................................................................................................7
Capitolo 3.................................................................................................17
Capitolo 4.................................................................................................25
Capitolo 5.................................................................................................34
Capitolo 6.................................................................................................43
Capitolo 7.................................................................................................52
Capitolo 8.................................................................................................62
Capitolo 9.................................................................................................71
Capitolo 10...............................................................................................81
Capitolo 11............................................................................................... 90
Capitolo 12.............................................................................................100
Capitolo 13............................................................................................. 111
Capitolo 14.............................................................................................122
Capitolo 15.............................................................................................133
Capitolo 16.............................................................................................143
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Cape Cod non avrebbe dovuto essere così calda e umida. Cassie lo
aveva letto sulla guida turistica; tutto avrebbe dovuto essere perfetto lì,
come a Camelot.
Tranne, aggiungeva distrattamente la guida, per l'edera velenosa, le
zecche, i pidocchi, i molluschi tossici e le correnti sottomarine nelle acque
apparentemente tranquille.
La guida consigliava inoltre di non avventurarsi sulle lingue di terra che
scivolavano in mare perché c'era il rischio che arrivasse l'alta marea e ti
trascinasse via. In quel preciso istante, però, Cassie avrebbe dato qualsiasi
cosa pur di trovarsi arenata in qualche penisola in mezzo all'oceano
Atlantico, sempre che Portia Bainbridge rimanesse dall'altra parte del
mondo.
Non era mai stata così infelice in vita sua.
«...e l'altro mio fratello, quello del gruppo di dibattito del MIT e che due
anni fa ha partecipato al torneo di Dibattito mondiale in Scozia...», stava
dicendo Portia. Cassie sentì gli occhi chiudersi e scivolò di nuovo
nell'apatia. Entrambi i fratelli di Portia frequentavano il MIT con risultati
eccellenti, tanto nel campo intellettuale che in quello sportivo. Portia non
era da meno, anche se stava per iscriversi soltanto al primo anno del liceo,
come Cassie. E, visto che l'argomento preferito di Portia era Portia,
nell'ultimo mese non aveva fatto altro che parlare di sé a Cassie.
«...e dopo che lo scorso anno mi sono classificata al quinto posto al
National Forensic League Championship per la sezione di dizione
improvvisata, il mio ragazzo ha detto: "Be', diventerai un'eroina
americana..."».
"Un'altra settimana", pensò Cassie. "Solo un'altra settimana e tornerò a
casa". Il pensiero le provocò una tale nostalgia che le vennero le lacrime
agli occhi. A casa, dove vivevano i suoi amici, dove non si sentiva
un'estranea e un'analfabeta noiosa e stupida solo perché non sapeva cosa
fosse un quahog. Dove avrebbe riso di tutto questo: la sua meravigliosa
vacanza sulla costa orientale.
«...così mio padre ha detto: "Perché non lasci semplicemente che io te lo
compri?". Ma io gli ho detto: "No... be', magari..."».
Cassie fissava il mare.
Non che Cape Cod fosse un brutto posto. I cottage con i tetti in cedro, le
palizzate bianche ricoperte di rose, le sedie a dondolo di vimini sui portici
e i gerani che pendevano dalle travi, erano deliziosi come quelli che si
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vedono in cartolina. E i prati, le chiese con gli alti campanili e gli edifici
scolastici all'antica davano a Cassie l'impressione di essere tornata indietro
nel tempo.
Ogni giorno, però, c'era Portia con cui doversela vedere. E anche se tutte
le notti Cassie pensava a qualche commento incredibilmente sarcastico da
rivolgerle il mattino seguente, chissà perché decideva sempre di rimandare.
Di gran lunga peggiore di qualunque cosa Portia potesse farle, era la forte
sensazione di non appartenenza che provava. Di essere un'estranea in quel
posto, di essere approdata sulla costa sbagliata, di essere completamente
fuori dal proprio elemento. Il suo piccolo appartamento californiano ormai
le sembrava un luogo paradisiaco.
"Un'altra settimana", pensò. "Devi resistere solo un'altra settimana".
E poi c'era sua madre, ultimamente così pallida e silenziosa... Cassie
avvertì una morsa di preoccupazione e scacciò subito quel pensiero. "La
mamma sta bene", si disse. "È nata qui, ma anche lei, come te, non si sente
a suo agio. Forse sta contando i giorni che ci separano da casa nostra,
proprio come fai tu".
Le cose stavano così, naturalmente, era questo il motivo per cui sua
madre sembrava tanto infelice quando Cassie le diceva di provare
nostalgia di casa. Si sentiva in colpa per averla portata a Cape Cod, per
averle fatto credere che fosse un paradiso turistico. Una volta a casa, tutto
si sarebbe aggiustato: per entrambe.
«Cassie! Mi stai ascoltando? O stai sognando di nuovo a occhi aperti?»
«Oh, sì, ti stavo ascoltando», rispose subito Cassie.
«Cos'è che ho appena detto?».
Cassie s'impappinò. "Ragazzi", pensò disperata, "il gruppo di dibattito, il
college, il National Forensic League...". Spesso la gente le dava della
sognatrice, ma mai come da quelle parti.
«Stavo dicendo che non dovrebbero permettere a certe persone di venire
in spiaggia», disse Portia. «Soprattutto se hanno un cane. Cioè, so che non
siamo a Oyster Harbors, ma almeno la spiaggia è pulita. E ora, guarda».
Cassie seguì lo sguardo di Portia. Tutto ciò che vedeva era un ragazzo che
camminava sulla spiaggia. Si voltò verso Portia esitando.
«Lavora su un peschereccio», disse Portia tirando su col naso come
annusando un cattivo odore. «L'ho visto stamattina sul molo mentre
scaricava la merce da una barca. Credo che non si sia neppure cambiato i
vestiti. Che soggetto sgradevole e rivoltante».
A Cassie, il ragazzo non sembrava così sgradevole. Aveva i capelli rosso
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scuro, era alto, e anche a quella distanza si vedeva che stava sorridendo.
Dietro di lui c'era un cane.
«Non parliamo mai con chi lavora sui pescherecci. Non li guardiamo
nemmeno», disse Portia. Cassie sapeva che era la verità. In spiaggia c'era
un'altra dozzina di ragazze, in gruppi di due o tre, qualcuna in compagnia
di ragazzi, la maggior parte no. Al passaggio del giovane, tutte
distoglievano lo sguardo, girando la testa dall'altra parte. Ma non era il
tipico sguardo civettuolo delle ragazze che ammirano un ragazzo e poi
ridacchiano con le amiche. Era un rifiuto sprezzante. Quando lui le fu
abbastanza vicino, Cassie notò che il suo sorriso stava assumendo una
piega amara.
Le due ragazze vicino a Cassie e Portia si girarono, quasi tirando su col
naso. Cassie vide che il ragazzo scrollava leggermente le spalle, come non
si aspettasse altro. Non riusciva ancora a capire cosa ci fosse di tanto
odioso in lui. Indossava un paio di pantaloni logori tagliati al ginocchio e
una maglietta che aveva visto giorni migliori, ma molti giovani vestivano
alla stessa maniera. E il suo cane, che gli trotterellava dietro scodinzolante,
era amichevole e vivace. Non stava infastidendo nessuno. Cassie alzò la
testa verso il volto del ragazzo, curiosa di vedere i suoi occhi.
«Abbassa lo sguardo», bisbigliò Portia. Il ragazzo stava passando
proprio davanti a loro. Cassie si affrettò a guardare per terra, obbedendo
meccanicamente, ma avvertì un moto di ribellione nel cuore. Sembrava un
comportamento scorretto e inutile e crudele. Si vergognava di comportarsi
come le altre ragazze, di essere come loro, ma non poteva fare a meno di
assecondare Portia.
Guardava le sue dita che giocavano con la sabbia. Riusciva a distinguere
ogni singolo granello illuminato dai brillanti raggi del sole. Da lontano, la
sabbia sembrava bianca, ma osservandola con attenzione si vedeva che era
ricca di colori vivaci: granelli di mica nera e verde, frammenti di
conchiglie pastello, schegge di quarzo rosso come minuscoli granati. "Non
è giusto", pensò, ma ovviamente il ragazzo non poteva sentirla. "Mi
dispiace, tutto questo è disonesto. Vorrei poter fare qualcosa, ma non
posso".
Un naso umido le spinse la mano.
Cassie trasalì e un risolino le morì in gola. Il cane le spinse di nuovo la
mano, reclamando la sua attenzione. Cassie lo accarezzò e gli lisciò i
baffetti ispidi sul naso. Era un pastore tedesco, o almeno qualcosa di
simile, un grosso e bellissimo cane con occhi marroni limpidi e intelligenti
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e un muso allegro. Cassie sentì sciogliersi la rigida maschera di imbarazzo
che aveva indossato fino ad allora e cominciò a ridere.
Poi, incapace di trattenersi, alzò gli occhi verso il proprietario
dell'animale. Incontrò il suo sguardo.
In seguito, Cassie avrebbe ripensato spesso a quel momento, il momento
in cui lei aveva alzato la testa verso di lui e lui aveva chinato il capo verso
di lei. I suoi occhi erano tra il grigio e l'azzurro, come il mare in tempesta,
misteriosi. Aveva un volto particolare: non una bellezza convenzionale, ma
affascinante e intrigante, con zigomi alti e un'espressione decisa.
Orgoglioso, indipendente, arguto, sensibile: tutto allo stesso tempo. Mentre
guardava Cassie, il suo sorriso amaro si addolcì e una scintilla balenò in
quegli strani occhi, come il sole che risplende sulle onde.
Solitamente Cassie era timida con i ragazzi, soprattutto con quelli che
non conosceva, ma in questo caso aveva di fronte solo un povero mozzo
che lavorava sulle navi da pesca; si sentì dispiaciuta per lui, voleva essere
carina e, in realtà, non poteva farne a meno. Così, quando sentì che stava
per restituirgli la stessa espressione intensa e contraccambiare il suo
sorriso, non fece nulla per trattenersi. In quel momento era come se lei e il
ragazzo stessero condividendo un segreto, qualcosa che nessun altro sulla
spiaggia potesse comprendere. Il cane si dimenò eccitato, come se la cosa
riguardasse anche lui.
«Cassie», sibilò Portia, fumante di rabbia.
Cassie si sentì avvampare e distolse lo sguardo dal viso del giovane.
Portia la stava squadrando furibonda.
«Raj!», disse il ragazzo. Il sorriso era sparito. «Andiamo!».
Con apparente riluttanza, il cane si allontanò da Cassie, ancora
scodinzolando. Poi, in una nuvola di sabbia, corse dal suo padrone. "Non è
giusto", pensò di nuovo Cassie. La voce del ragazzo la fece sobbalzare.
«La vita non è giusta», disse.
Scioccata, la ragazza cercò con lo sguardo il volto del giovane.
I suoi occhi erano cupi come il mare in burrasca. Cassie li vide
chiaramente, e per un attimo ne fu quasi spaventata, come se vi avesse
visto qualcosa di proibito, qualcosa che andava ben oltre la sua
comprensione. Qualcosa di potente. Qualcosa di potente e inaccessibile.
Poi il ragazzo si allontanò, con il cane che gli saltellava dietro. Non si
voltò più.
Sbalordita, Cassie lo guardò andar via. Non aveva parlato ad alta voce,
ne era certa. Allora lui come aveva fatto a sentirla?
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I suoi pensieri vennero interrotti bruscamente da un sibilo accanto a lei.
Si fece piccola, ben sapendo cosa Portia stava per dirle. Che quel cane
probabilmente aveva la rogna e le pulci, oltre ai vermi e alla scrofola. Che
il suo asciugamano da mare adesso brulicava di parassiti.
Portia, però, non disse niente. Anche lei stava fissando il ragazzo e il
cane che, dopo essersi arrampicati su una duna, avevano imboccato uno
stretto sentiero scomparendo tra la vegetazione che lambiva la spiaggia.
Benché fosse chiaramente disgustata, c'era qualcosa sul suo volto – una
sorta di lugubre attenzione e cupo sospetto che Cassie non aveva mai visto
prima.
«Portia, che ti succede?».
Portia socchiuse gli occhi. «Credo», disse lentamente, a labbra strette,
«di averlo già visto una volta».
«Lo hai visto sul molo. Me lo hai detto prima».
Portia scosse la testa con impazienza. «Non quella, intendevo un'altra
volta. Adesso sta' zitta e lasciami pensare».
Confusa, Cassie si zittì.
Portia continuava a fissare il ragazzo, e dopo qualche secondo cominciò
ad annuire, piccoli cenni per confermare qualcosa a se stessa. Aveva le
guance in fiamme, e non per via del sole.
Improvvisamente, mentre continuava ad annuire, bisbigliò qualcosa e
scattò in piedi. Adesso respirava affannosamente.
«Portia?»
«Devo andare, ho qualcosa da fare», disse, stringendo la mano a Cassie
senza guardarla. «Tu resta qui».
«Che sta succedendo?»
«Niente!». Portia le rivolse uno sguardo ostile. «Non sta succedendo
niente. Dimentica tutto. Ci vediamo dopo». Corse via, diretta verso le dune
oltre le quali si trovava il cottage di proprietà della sua famiglia.
Solo dieci minuti prima, Cassie avrebbe fatto i salti di gioia se Portia
fosse sparita dalla circolazione e l'avesse lasciata sola. Ma adesso si
accorse che la cosa non le procurava alcun piacere. Aveva la mente in
subbuglio, come il mare increspato e nero prima di una burrasca. Era
agitata e turbata, quasi spaventata.
La cosa più strana era la parola che Portia aveva bisbigliato prima di
andarsene. L'aveva pronunciata con un filo di voce, e Cassie non era sicura
di aver sentito bene. Doveva trattarsi certamente di qualcos'altro, qualcosa
come "sega", o "strema", o "frega".
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Doveva aver sentito male. Santo cielo, non si può chiamare un ragazzo
"strega"!
"Adesso sta' calma", si disse. "Non preoccuparti. Almeno Portia se n'è
andata, e adesso finalmente sei sola. Don't worry, be happy!".
Per qualche ragione, però, non riusciva a rilassarsi. Si alzò e raccolse
l'asciugamano. Dopo esserselo avvolto intorno alla vita, s'incamminò nella
direzione presa dal ragazzo.
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Quando arrivò al punto in cui il ragazzo aveva svoltato, Cassie si
arrampicò sulle dune destreggiandosi nel groviglio di vegetazione
selvaggia che si stendeva tutto intorno alla spiaggia. Arrivata in cima, si
guardò intorno. Non c'erano che pini e querce. Nessun ragazzo. Nessun
cane. Silenzio.
Aveva caldo.
"Va bene", si disse, "tutto ok". Si girò verso il mare, ignorando la morsa
di disagio e la strana sensazione di vuoto che l'attanagliarono
all'improvviso. Avrebbe nuotato un po' per rinfrescarsi. I problemi di Portia
non la riguardavano. In quanto al ragazzo coi capelli rossi... be',
probabilmente non l'avrebbe più rivisto, e comunque neanche quello era un
suo problema.
Un brivido leggero le attraversò il corpo, di quelli che ti fanno chiedere
se per caso non stai male. "Ho troppo caldo", decise; tanto caldo che
cominciava a sentire freddo. "Ho bisogno di un bel tuffo in acqua".
Il mare era freddo, perché in quel punto Cape Cod si affacciava
direttamente sull'Atlantico. Cassie s'immerse fino alle ginocchia e
cominciò a camminare in acqua parallelamente alla spiaggia.
Quando raggiunse un pontile, uscì dal mare e ci si arrampicò. C'erano
solo tre barche: due a remi e una a motore. Il pontile era deserto.
Proprio ciò di cui aveva bisogno.
Sganciò la fune spessa e logora che doveva tenere lontani quelli come
lei, ed entrò. Arrivò quasi in fondo alla passerella, il legno consumato da
pioggia e vento che le scricchiolava sotto i piedi, l'acqua che si stendeva
tutt'intorno. Quando si voltò verso la spiaggia, si accorse di essersi
allontanata molto dagli altri bagnanti. Una brezza leggera le accarezzò il
volto, sollevandole i capelli e facendole rabbrividire le gambe bagnate.
All'improvviso sentì qualcosa di... indefinibile. Come un palloncino
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catturato dal vento e sollevato in aria. Si sentiva leggera, eterea. Si sentiva
libera.
Avrebbe voluto abbracciare il vento e l'oceano, ma non ebbe il coraggio
di farlo. Non era così libera. Ma sorrise quando arrivò in fondo al pontile.
Il cielo e l'oceano erano dello stesso blu zaffiro intenso, anche se il
primo era più chiaro all'orizzonte, dove s'incontrava con l'acqua. Cassie
pensò di riuscire a vedere chiaramente la curvatura della terra, ma doveva
essere solo la sua immaginazione. Rondini di mare e gabbiani reali
danzavano in cielo.
"Dovrei scrivere una poesia", pensò. A casa, sotto il letto, conservava un
quaderno pieno di poesie. Le aveva mostrate a qualcuno pochissime volte,
quasi mai, ma le leggeva ogni sera. In quel momento, però, non riusciva a
pensare a nessuna parola.
Eppure era meraviglioso trovarsi là, annusando l'odore del sale marino,
sentendo il calore delle tavole di legno sotto i piedi, ascoltando il lieve
infrangersi delle onde contro i piloni di legno.
Era un suono ipnotico e ritmato, come il gigantesco battito cardiaco del
pianeta, o il suo respiro, e stranamente familiare. Quando si sedette ad
ascoltare e a osservare, si accorse che il suo respiro stava rallentando. Per
la prima volta da quando era arrivata nel New England, sentì di
appartenere a quel luogo. Era parte dell'immensità del cielo, della terra e
del mare; una parte minuscola, certo, ma pur sempre una parte.
Dopo un po' si rese conto che forse non era una parte così piccola. Se
prima si era sentita immersa nel ritmo della terra, adesso le sembrava quasi
di poterlo controllare. Era come se si fosse unita agli elementi, come se
fosse in grado di dominarli. Riusciva a sentire il battito della vita del
pianeta pulsare dentro di lei, intenso e profondo e vibrante. Il palpito
cresceva lentamente, aumentava la tensione, come se aspettasse...
qualcosa.
Ma cosa?
Mentre fissava il mare, le vennero alla mente alcune parole. Solo una
semplice filastrocca, come quelle che impari da bambino, ma pur sempre
una poesia.
Cielo e mare, allontanate il male.
La cosa strana era che non sembravano parole sue, ma qualcosa che
aveva letto o sentito tanto tempo prima. Le sovvenne un'immagine fugace:
era abbracciata a qualcuno, gli occhi rivolti all'oceano. Qualcuno la
stringeva e lei sentiva delle parole.
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Cielo e mare, allontanate il male, fuoco e terra, ne ho bisogno,
portatemi...
"No".
La pelle cominciò a formicolarle. Riusciva a percepire, in un modo fino
ad allora sconosciuto, la volta del cielo, la solidità granitica della terra e la
sterminata vastità dell'oceano, onda su onda su onda, fino all'orizzonte e
oltre. Ed era come se gli elementi la stessero aspettando, osservando,
ascoltando.
"Non continuare", pensò. "Non dire altro". Un'improvvisa certezza
irrazionale s'impossessò di lei. Fino a che non avesse pensato le ultime
parole di quella poesia, era al sicuro. Tutto sarebbe rimasto come prima;
sarebbe tornata a casa, alla sua vita tranquilla e ordinaria, in pace. Finché
fosse riuscita a non pronunciare quelle parole, tutto sarebbe andato bene.
Ma la poesia continuava a girarle nella testa, come l'eco di una musica
gelida in lontananza, e le ultime parole arrivarono. Non riuscì a bloccarle.
Cielo e mare, allontanate il male, fuoco e terra, ne ho bisogno,
portatemi... il mio sogno.
"Sì".
Oddio, cosa ho fatto?
Fu come se un filo si fosse spezzato. Cassie si ritrovò in piedi a fissare
l'oceano. Era successo qualcosa, lo aveva sentito. E ora poteva percepire
gli elementi che l'abbandonavano: il legame che la univa a loro si era
spezzato.
Non si sentiva più libera e leggera, ma confusa e fuori fase, pervasa di
elettricità statica. Improvvisamente l'oceano sembrava più vasto che mai e
non necessariamente benevolo. Si voltò di scatto e si diresse a riva.
"Idiota", pensò, mentre si avvicinava di nuovo alla spiaggia bianca e
ogni timore scivolava via. "Di cosa avevi paura? Che il cielo e il mare ti
stessero davvero ascoltando? Che quelle parole avrebbero davvero fatto
succedere qualcosa?".
Adesso riusciva quasi a riderne, ed era imbarazzata e infastidita dal
proprio comportamento. "Quando si dice un'immaginazione troppo
fervida", si rimproverò. Era al sicuro, e il mondo era quello di sempre. Le
parole erano solo parole.
Poi un movimento catturò la sua attenzione, e in seguito avrebbe sempre
ricordato che la cosa non l'aveva sorpresa.
Qualcosa stava succedendo. C'era del fermento a riva.
Il ragazzo con i capelli rossi era sbucato tra i pini e stava scendendo di
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corsa la china di una duna. Improvvisamente e inspiegabilmente calma,
Cassie si affrettò per incrociarlo sulla spiaggia.
Il cane correva agilmente accanto al suo padrone, guardandolo come se
volesse dirgli che si stava divertendo un mondo, che quel gioco gli piaceva
tantissimo. Dall'espressione del ragazzo e dal modo in cui correva, però,
Cassie capì che non stavano giocando.
Il ragazzo squadrò da cima a fondo la spiaggia deserta. A un centinaio di
metri sulla sinistra c'era un promontorio che bloccava la visuale. Quando
guardò nella direzione di Cassie, i loro sguardi s'incrociarono. Poi,
girandosi di scatto, il ragazzo iniziò a correre verso il promontorio.
Il cuore di Cassie batteva all'impazzata.
«Aspetta!», urlò.
Quello si voltò, esaminandola in fretta con i suoi occhi grigio-azzurri.
«Chi ti corre dietro?», chiese Cassie, anche se credeva di saperlo.
La voce del ragazzo era ferma, le sue parole essenziali: «Due tizi che
sembrano i difensori dei New York Giants».
Cassie annuì, avvertendo il rumore sordo del suo cuore che accelerava.
La sua voce, però, era ancora calma: «Si chiamano Jordan e Logan
Bainbridge».
«Ma pensa».
«Li conosci?»
«No. Ma pensavo potessero avere nomi simili».
Ci mancò un soffio che Cassie scoppiasse a ridere. Le piaceva l'aspetto
di quel ragazzo, arruffato e sveglio, ancora pieno di fiato nonostante la
corsa. E le piaceva l'aria temeraria dei suoi occhi e il modo in cui
scherzava anche se era in pericolo.
«Raj e io avremmo potuto affrontarli, ma quelli hanno portato un paio di
amici», disse voltandosi di nuovo. Poi, facendo qualche passo indietro,
aggiunse: «È meglio se prendi un'altra strada... Non sono tipi che ti
piacerebbe incontrare. E sarebbe carino se facessi finta di non avermi
visto».
«Aspetta!», urlò Cassie.
Qualunque cosa stesse succedendo non erano affari suoi... ma si ritrovò
a parlare senza alcuna esitazione. C'era qualcosa in quel ragazzo, qualcosa
che la spingeva ad aiutarlo.
«Di là non si va da nessuna parte, è un vicolo cieco... Dietro il
promontorio ci sono solo rocce. Finirai in trappola».
«Ma dall'altra parte non c'è niente dietro cui possa nascondermi. Mi
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vedrebbero. Non sono molto lontani».
I pensieri di Cassie frullavano veloci nella sua testa, ma all'improvviso la
ragazza seppe cosa fare. «Nasconditi nella barca».
«Cosa?»
«Nella barca. Nella barca a motore attraccata vicino al pontile». La
indicò con la mano. «Se ti nascondi nella cabina, non ti vedrà nessuno».
Gli occhi del ragazzo seguirono i suoi. Scosse la testa. «Se scoprono che
sono nascosto lì dentro, allora sì che sarò in trappola. E a Raj non piace
nuotare».
«Non ti troveranno», disse Cassie. «Non si avvicineranno neppure. Dirò
loro che sei scappato».
La guardò, con il sorriso che gli stava morendo negli occhi. «Non
capisci», bisbigliò. «Quei tizi fanno sul serio».
«Non m'interessa», disse Cassie, quasi spingendolo verso il pontile.
"Presto, presto, presto", urlava una voce nella sua testa. La timidezza era
sparita. Adesso le importava solo che quel ragazzo si nascondesse. «Cosa
credi, che mi picchieranno? Sono una passante innocente», disse.
«Ma...».
«Oh, per favore. Non discutere. Fallo e basta!».
Il ragazzo la guardò un'ultima volta, poi si voltò e si diede una pacca su
una coscia per richiamare l'attenzione del cane. «Andiamo, bello!». Corse
sul pontile, saltò agilmente a bordo della barca a motore e si accucciò nella
cabina, scomparendo alla vista. Il cane abbaiò e lo seguì con uno scatto
straordinario.
"Zitto! ", pensò Cassie. I due nella barca ora erano ben nascosti, ma se
qualcuno si fosse avventurato sul pontile li avrebbe visti senz'altro. Cassie
agganciò la corda logora all'ultima bitta e bloccò l'accesso al pontile.
Dopo aver dato un'occhiata frenetica in giro si diresse verso il mare ed
entrò in acqua. S'inginocchiò, raccolse una manciata di sabbia e poi la
lasciò scivolare tra le dita dischiuse. Un paio di piccole conchiglie le
rimasero in mano. Si chinò di nuovo e prese un'altra manciata di sabbia.
Fu allora che sentì delle grida che provenivano dalle dune.
"Sto raccogliendo conchiglie, sto solo raccogliendo conchiglie", pensò.
"Non ho bisogno di guardare che succede. Non sono affari che mi
riguardano".
«Ehi!».
Cassie alzò la testa.
Erano in quattro; i due davanti erano i fratelli di Portia. Jordan, che
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faceva parte del gruppo di dibattito, e Logan, iscritto al Club delle armi. O
era il contrario?
«Ehi, hai visto un tipo che correva da questa parte?», chiese Jordan.
Stavano guardando in tutte le direzioni, eccitati come cani che seguono
una pista, e improvvisamente un altro verso della poesia si materializzò
nella mente di Cassie. Quattro agili segugi acquattati e felici. Solo che
questi quattro non erano agili, ma robusti e sudati. "E senza fiato", notò
Cassie con una punta di disprezzo.
«È un'amica di Portia... Cathy», disse Logan. «Ehi, Cathy, hai visto un
tipo che correva da questa parte?».
Cassie si avvicinò lentamente ai quattro con le mani piene di conchiglie.
Il cuore le batteva contro la gabbia toracica con una tale forza che era
sicura potessero vederlo. Aveva la lingua paralizzata.
«Non riesci a parlare? Che ci fai qui?».
Cassie aprì le mani e le tese verso di loro senza dire nulla.
I quattro si scambiarono occhiate e grugniti, e in quel momento Cassie si
rese conto di come doveva apparire a questi ragazzi in età da college: una
ragazzina con banali capelli castani e occhi azzurri, una sciocca liceale
californiana la cui idea di divertimento consisteva nel raccogliere inutili
conchiglie.
«Hai visto qualcuno passare di qui?», chiese Jordan, con impazienza ma
lentamente, come se Cassie avesse problemi di udito.
Con la bocca secca, Cassie annuì e guardò in direzione del promontorio.
Jordan indossava una giacca a vento aperta sulla maglietta, una stranezza,
con quel caldo. Ancor più strano era il rigonfiamento sotto la giacca.
Quando il ragazzo si voltò, Cassie notò un luccichio metallico.
Una pistola?
"Jordan dev'essere quello del Club delle armi", pensò distrattamente.
Avendo visto qualcosa che davvero la spaventava, Cassie ritrovò la voce
e disse debolmente: «Pochi minuti fa è passato un ragazzo con un cane.
Sono andati di là».
«È nostro! Di là ci sono solo le rocce!», disse Logan e cominciò a
correre seguito dai due che Cassie non conosceva. Jordan, però, non si
mosse.
«Ne sei certa?».
Cassie lo guardò con aria sorpresa. Perché quella domanda? Sgranò
palesemente gli occhi e cercò di assumere l'espressione più infantile e
stupida possibile. «Sì...».
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«Perché è importante», disse il ragazzo afferrandole un polso
all'improvviso. Cassie abbassò lo sguardo, troppo stupita per dire qualcosa.
Le conchiglie le caddero sulla sabbia. «Molto importante», disse Jordan.
Cassie percepì la tensione che scorreva nel corpo del ragazzo, ne annusò
l'asprezza del sudore. Un moto di repulsione l'aggredì e si sforzò di
mantenere l'espressione inespressiva e stupefatta. Temeva che Jordan
l'avrebbe tirata a sé, ma quello si limitò a torcerle il polso.
Avrebbe preferito non urlare, ma non poté farne a meno. In parte fu una
reazione al dolore e in parte qualcosa che vide nei suoi occhi, qualcosa di
folle e terribile che ardeva come un fuoco. Cominciò ad ansimare; non si
sentiva così spaventata da quando era bambina.
«Sì, sono sicura», disse senza fiato, fissando quegli occhi malvagi senza
distogliere lo sguardo. «È andato da quella parte, oltre il promontorio».
«Andiamo, Jordan, lasciala in pace!», urlò Logan. «È solo una bambina.
Muoviti!».
Jordan esitò. "Sa che sto mentendo", pensò Cassie provando una strana
attrazione. "Lo sa, ma ha paura di credere a quello che sa perché non sa
come fa a saperlo".
"Credimi", pensò, fissandolo in profondità, cercando di convincerlo a
fidarsi di lei. "Credimi e vattene. Credimi. Credimi".
Jordan le lasciò il polso.
«Scusami», bisbigliò goffamente. Poi si voltò e raggiunse gli amici ad
ampie falcate.
«Figurati», sussurrò Cassie, senza muoversi di un centimetro.
Osservò con un brivido i quattro che correvano sulla sabbia bagnata, con
i gomiti e le ginocchia che andavano su e giù, la giacca a vento di Jordan
che svolazzava. La sensazione di debolezza si estese dallo stomaco alle
gambe, e fu come se le ginocchia le fossero diventate di gelatina.
Improvvisamente tornò a essere cosciente del rumore dell'oceano, un
suono rassicurante che sembrava avvolgerla. Quando le quattro sagome
sparirono oltre il promontorio, Cassie si voltò verso il pontile per dire al
ragazzo con i capelli rossi che adesso poteva uscire.
Ma lui era già fuori.
Lentamente, Cassie riuscì a muovere le gambe gelatinose fino al molo,
dove il ragazzo la stava aspettando con un'espressione che la metteva a
disagio.
«Faresti meglio a levarti da lì... o forse a nasconderti di nuovo», disse
Cassie perplessa. «Potrebbero tornare da un momento all'altro...».
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«Non credo».
«Be'...», farfugliò Cassie fissandolo, quasi spaventata. «Il tuo cane se n'è
stato buono», riuscì a dire alla fine con voce incerta. «Cioè, non ha mai
abbaiato».
«Sa come deve comportarsi».
«Oh». Cassie abbassò gli occhi sulla sabbia, cercando di pensare a
qualcos'altro da dire. La voce del ragazzo era dolce, tutt'altro che brusca,
ma c'era un'espressione penetrante e sinistra che non lo abbandonava mai.
«Credo che se ne siano andati», disse.
«Grazie», rispose lui. I loro sguardi s'incrociarono. «Non so come
ringraziarti», aggiunse, «di aver corso questo rischio per me. Nemmeno mi
conosci».
Cassie si sentiva sempre più strana. Guardarlo la faceva sentire stordita,
eppure non riusciva a togliergli gli occhi di dosso. La scintilla che ardeva
prima nel suo sguardo era sparita: adesso aveva le iridi grigie come
l'acciaio. Irresistibili, ipnotiche. L'attiravano a sé.
"Ma io ti conosco", pensò Cassie. In quell'istante, una strana immagine
le balenò nella mente. Stava fluttuando fuori dal proprio corpo e riusciva a
vedere entrambi, sé e il ragazzo, in piedi sulla spiaggia, il sole che brillava
sui capelli di lui e lei che lo guardava. Tra loro c'era un filo d'argento che
vibrava e riecheggiava di forza.
Un fascio di energia che li collegava. Era così reale che quasi allungò
una mano per toccarlo. Correva da cuore a cuore, e stava cercando di
avvicinarli l'uno all'altra.
Un pensiero, quasi una debole voce che veniva dal profondo del suo
essere, le attraversò la mente. La voce diceva: "Il filo d'argento non potrà
mai essere spezzato, le vostre vite sono collegate. Non potete fuggire l'uno
dall'altra più di quanto non potete sfuggire al destino".
All'improvviso, con la stessa velocità con cui erano comparsi,
l'immagine e la voce si dissolsero. Cassie sbatté le palpebre e scosse la
testa per schiarirsi le idee. Il ragazzo, in attesa di una risposta, la stava
ancora fissando.
«È stato un piacere aiutarti», disse Cassie, accorgendosi di quanto
fossero deboli e inadeguate le sue parole. «E, non mi interessa... quel che è
successo». Il ragazzo le guardò il polso e un lampo argentato gli balenò
negli occhi.
«A me sì», disse. «Sarei dovuto uscire prima».
Cassie scosse di nuovo la testa. Per nulla al mondo avrebbe permesso
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che qualcuno facesse del male a quel ragazzo. «Volevo solo aiutarti»,
ripeté con un filo di voce, leggermente confusa. Poi chiese: «Perché ti
stanno inseguendo?».
Lui distolse lo sguardo, respirando a pieni polmoni. Cassie ebbe la
sensazione di aver osato troppo. «Va bene. Non avrei dovuto
chiedertelo...», cominciò.
«No». Il ragazzo le rivolse un mezzo sorriso beffardo. «Se qualcuno ha
il diritto di chiederlo, sei tu. Ma non è facile da spiegare. Qui... sono un po'
fuori dalla mia zona. Da dove vengo, nessuno avrebbe il coraggio di darmi
la caccia. Non oserebbero neppure guardarmi negli occhi. Ma qui sono
una preda facile».
Cassie ancora non capiva. «A questa gente non piacciono i... diversi»,
disse. «E io sono diverso da loro. Sono molto, molto diverso».
"Sì", pensò lei. Chiunque lui fosse, di certo non era come Jordan o
Logan. Era diverso da chiunque avesse mai incontrato in vita sua.
«Mi dispiace. Mi rendo conto che come spiegazione non è un granché»,
disse. «Soprattutto dopo quello che hai fatto. Mi hai aiutato e io non lo
dimenticherò». Abbassò gli occhi e le rivolse un sorriso. «Certo, non
sembra che ci sia molto che io possa fare per te, vero? Non qui, almeno.
Tuttavia...», fece una breve pausa, poi aggiunse: «Aspetta un attimo».
Infilò una mano in tasca in cerca di qualcosa. Cassie ebbe quasi un
mancamento: il sangue le fluì con forza verso le guance. Stava cercando
delle monete? Pensava davvero di ripagarla per l'aiuto con del denaro? Si
sentiva umiliata, peggio di quando Jordan le aveva afferrato il polso, e
quasi non riuscì a trattenere le lacrime.
Ma il ragazzo tirò fuori dalla tasca una pietra, di quelle che si trovano sul
fondo dell'oceano. Almeno questo era quel che sembrava a una prima
occhiata. Un lato, simile al guscio di una piccola conchiglia, era ruvido e
grigio, con minuscole spirali nere all'interno. Ma poi lui la girò. L'altro lato
era grigio con striature azzurre, cristallizzato, e brillava sotto la luce del
sole come se fosse ricoperto di zucchero candito. Era meravigliosa.
Il ragazzo la posò sul palmo della mano di Cassie, chiudendo le dita
della ragazza intorno alla pietra. Appena la toccò, Cassie avvertì una specie
di scossa elettrica che dalla mano si propagò al braccio. La pietra sembrava
viva in un modo che non riusciva a spiegare. Nonostante le pulsassero le
tempie, riuscì a sentire le parole del ragazzo, che parlò velocemente e con
un filo di voce.
«È calcedonio, una... pietra della fortuna. Se mai dovessi trovarti nei
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guai o in pericolo o qualcosa di simile, se mai dovessi sentirti sola e non
c'è nessuno a cui chiedere aiuto, stringila forte – forte – e pensa a me».
Cassie era rapita. Respirava a fatica e il petto le pesava. Erano così
vicini; Cassie riusciva a vedere i suoi occhi, lo stesso colore del cristallo, e
poteva sentiva il suo respiro sulla pelle e il calore del suo corpo che
rifletteva quello del sole. I suoi capelli non erano solo rossi, ma ricchi di
ogni sorta di colore e sfumatura, alcuni ciuffi talmente scuri da essere
quasi viola, altri bordeaux, altri ancora dorati.
"Diverso", pensò di nuovo Cassie; era diverso da qualsiasi ragazzo
avesse mai conosciuto. Sentì una dolce sensazione di calore lungo il corpo,
che sapeva di libertà e possibilità. Stava tremando, riusciva a sentire il
battito del cuore nelle dita, ma non era in grado di dire se fosse il suo o
quello del ragazzo. Sembrava che prima le avesse letto nel pensiero, ma
adesso aveva la sensazione che le fosse penetrato nella mente. Era così
vicino e la stava fissando...
«E cosa succede dopo?», bisbigliò Cassie.
«E poi... forse la tua fortuna girerà». Il ragazzo fece un brusco passo
all'indietro, come se si fosse ricordato qualcosa, e il tono della voce si fece
più aspro. Il momento era passato. «Vale la pena provarci, non credi?»,
disse allegramente.
Incapace di aprire bocca, Cassie annuì. A differenza di prima, adesso
sembrava che la stesse schernendo. Ma prima no, prima stava parlando
molto seriamente.
«Devo andare. Non mi sarei dovuto fermare così a lungo», disse.
Cassie deglutì. «Fa' attenzione. Credo che Jordan abbia una pistola...».
«Non mi sorprenderebbe», la interruppe, impedendole di aggiungere
altro. «Non preoccuparti, sto per lasciare Cape Cod. Per il momento,
almeno. Tornerò e, chissà, forse ci rivedremo». Si girò per andarsene. Poi
si fermò, all'ultimo momento, e prese di nuovo la mano di Cassie tra le
sue. Cassie fu troppo sorpresa dal contatto con la sua pelle per fare
qualcosa. Il ragazzo girò la sua mano e guardò i segni rossi che aveva sul
polso, poi li sfiorò con la punta delle dita. Quando la guardò, i suoi occhi
erano di nuovo freddi, pieni di quella luce metallica. «Credimi», le
sussurrò, «un giorno mi sdebiterò anche per questo. Te lo prometto».
E poi fece qualcosa che scioccò Cassie più di ogni altra cosa successa in
quel giorno sconvolgente. Avvicinò il polso ferito alle labbra e lo baciò. Fu
il più lieve, il più delicato dei tocchi, e avvampò dentro Cassie come un
incendio. Lei lo guardò, confusa e incredula, incapace di parlare. Non
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riusciva nemmeno a muoversi o a pensare; poteva solo restare lì e
percepire, sentire.
Poi il ragazzo si decise ad andarsene davvero. Fischiò per richiamare il
suo cane, che intanto correva intorno a Cassie, e s'incamminò con lui.
Cassie rimase sola, gli occhi fissi sulla schiena del ragazzo, le dita che
stringevano con forza la piccola pietra ruvida contro il palmo della mano.
Solo allora si rese conto di non avergli chiesto come si chiamava.
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Solo qualche istante dopo Cassie si riscosse da quello stupore che
l'aveva come frastornata. Avrebbe fatto meglio ad andarsene, Logan e
Jordan potevano tornare da un momento all'altro. E se avessero scoperto
che aveva mentito...
La ragazza si arrampicò con un po' di difficoltà sul fianco ripido della
duna. Il mondo intorno a lei sembrava di nuovo banale, ordinario, privo
della magia e del mistero di qualche istante prima. Era come se tutto fosse
accaduto in sogno e ora si fosse svegliata. Cos'aveva pensato? Qualche
stupidaggine su fili d'argento, destini incrociati e un ragazzo diverso da
tutti gli altri. Che sciocchezze. La pietra nella sua mano era solo una pietra.
E le parole non erano che parole. Persino quel ragazzo... Non poteva averle
letto nel pensiero, era ovvio. Nessuno è in grado di farlo, doveva esserci
una spiegazione razionale...
Allentò la presa sulla piccola pietra. La mano era intorpidita nel punto in
cui aveva stretto il dono di quello strano individuo, e la pelle che lui le
aveva toccato sentiva in modo diverso da tutto il resto del suo corpo.
Cassie pensò che qualsiasi cosa le fosse accaduta in futuro, non importava:
avrebbe avvertito per sempre quel tocco.
Entrò nel cottage che lei e sua madre avevano affittato per l'estate e
chiuse a chiave la porta. Si fermò. Riusciva a distinguere la voce della
madre in cucina; dal tono intuì che qualcosa non andava.
La signora Blake era al telefono, schiena alla porta, la testa leggermente
inclinata per bloccare la cornetta tra l'orecchio e la spalla. Cassie restò
come al solito a bocca aperta davanti alla figura snella e slanciata della
madre. Coi lunghi capelli neri fermati sulla nuca da un semplice fermaglio,
la signora Blake sembrava una ragazzina. Per questo motivo Cassie era
protettiva nei suoi confronti, e a volte si comportava come se lei fosse la
madre e la madre fosse sua figlia.
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Decise di non interromperla. La signora Blake era sconvolta, e a
intervalli diceva nel microfono «Sì», o «Lo so», con la voce piena di
dolore.
Cassie si girò e andò nella sua camera.
Si affacciò alla finestra e guardò fuori, chiedendosi distrattamente cosa
stesse succedendo a sua madre. Ma non riusciva a togliersi dalla mente il
ragazzo incontrato in spiaggia: in realtà, pensava solo a quello.
Anche nel caso in cui Portia avesse conosciuto il suo nome, non glielo
avrebbe mai rivelato, Cassie ne era certa. E senza il nome, come poteva
riuscire a ritrovarlo?
Non poteva. Quella era la cruda verità ed era meglio affrontarla subito.
Anche se avesse scoperto come si chiamava, non era una di quelle che
vanno a caccia di ragazzi. Non avrebbe saputo nemmeno da cosa iniziare.
«E tra una settimana torno a casa», bisbigliò. Per la prima volta queste
parole non suscitarono in lei conforto e speranza. Poggiò il pezzo di
calcedonio grezzo sul comodino producendo un suono secco.
«Cassie? Hai detto qualcosa?».
Cassie si voltò di scatto e vide sua madre sulla porta. «Mamma! Pensavo
che fossi ancora al telefono». Siccome la madre continuava a guardarla
con aria interrogativa, Cassie aggiunse: «Stavo pensando ad alta voce.
Dicevo che tra una settimana torneremo a casa».
Una strana espressione attraversò il volto della madre, come un lampo di
dolore represso. Poi cominciò a camminare nervosamente per la stanza, le
profonde occhiaie scure che le circondavano i larghi occhi neri.
«Mamma, che sta succedendo?», chiese Cassie.
«Ero al telefono con tua nonna. Ti ricordi che stavo pensando di andare a
trovarla insieme a te, la settimana prossima?».
Cassie lo ricordava perfettamente. Aveva detto a Portia che lei e la
mamma sarebbero partite per la costa settentrionale, e Portia era scattata
dicendo che non era così che si chiamava. Da Boston fino a Cape Cod
c'era la "riva meridionale", da Boston fino al New Hampshire c'era la "riva
settentrionale", mentre se andavi nel Maine eri diretta a "sud-est". «E
comunque, dov'è che vive tua nonna?», le aveva chiesto Portia. Cassie non
lo sapeva: sua madre non glielo aveva mai detto.
«Sì», disse. «Ricordo».
«Era lei al telefono. È vecchia, Cassie, e non sta molto bene. Sta peggio
di quanto pensassi».
«Oh, mamma. Mi dispiace». Cassie non aveva mai incontrato sua nonna,
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non l'aveva mai vista neanche in foto, eppure era molto dispiaciuta. Sapeva
che la madre e la nonna si erano allontanate anni prima, quando era nata
lei. Era a conoscenza del fatto che il litigio tra la nonna e sua madre
c'entrasse con la decisione della signora Blake di lasciare la casa di
famiglia, ma non sapeva altro. Negli ultimi anni, tuttavia, c'era stato uno
scambio di lettere, e Cassie pensava che in fondo si volessero ancora bene. Sperava
che fosse così e comunque non vedeva l'ora di conoscere la nonna. «Mi
dispiace davvero, mamma», disse. «Credi che si riprenderà?»
«Non lo so. Vive da sola in quella casa enorme e soffre di solitudine... Ci
sono giorni in cui per colpa della flebite non può neanche camminare». Il
volto della madre era percorso da strisce di luce e ombra. Parlava con
lentezza, quasi formalmente, come se si stesse sforzando di trattenere una
forte emozione.
«Cassie, tua nonna e io abbiamo avuto i nostri problemi, ma siamo pur
sempre una famiglia e lei non ha nessun altro. È tempo di seppellire i
nostri dissidi».
La madre non aveva mai parlato così apertamente del suo
allontanamento. «Cosa successe, mamma?»
«Adesso non ha più importanza. Tua nonna voleva che... seguissi una
strada che non m'interessava. Pensava che fosse la cosa giusta... Ma adesso
è sola e ha bisogno di aiuto».
Un brivido di paura s'insinuò nella mente di Cassie. Paura per la nonna
che non aveva mai conosciuto... e per qualcos'altro. Un lampo cupo
illuminò gli occhi di sua madre: la signora Blake ora aveva uno sguardo
triste, perso, sembrava dovesse darle una brutta notizia e non riuscisse a
trovare le parole. Cassie si allarmò.
«Cassie, ci ho pensato a lungo, ma la soluzione è una sola. E mi
dispiace, perché ti sconvolgerà la vita, e non sarà facile ... Ma tu sei
giovane. Ti adatterai. So che ce la farai».
Una fitta di panico trapassò Cassie come un pugno. «Mamma, è tutto
ok», disse in fretta. «Tu resta pure qui e fa' quel che devi fare. Alla scuola
penserò io. Non sarà un problema, mi farò aiutare da Beth e dalla signora
Freeman...». La madre di Cassie stava scuotendo la testa, e all'improvviso
Cassie capì che non doveva fermarsi, che doveva sommergerla con un
fiume di parole. «Non ho bisogno delle nuove divise scolastiche...».
«Cassie, mi dispiace così tanto. Ho bisogno che tu cerchi di capire,
tesoro, e che ti comporti da adulta. So che i tuoi amici ti mancheranno. Ma
dobbiamo provare entrambe a fare la cosa migliore». Gli occhi di sua
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madre erano fissi sulla finestra, come se non riuscisse a reggere lo sguardo
della figlia.
Cassie parlò con prudenza: «Mamma, che stai cercando di dirmi?»
«Sto dicendo che non torneremo a casa, almeno non in quella di Reseda.
Andremo a casa mia, dove vive tua nonna. Ha bisogno di noi. Vivremo là,
con lei».
Cassie non sentì niente: torpore, forse, e stupore, nulla di più. Riuscì a
dire scioccamente, come fosse la cosa più importante: «"Là" dove? Dove
vive la nonna?».
Per la prima volta la mamma si allontanò dalla finestra e si girò verso di
lei. I suoi occhi sembravano più grandi e più scuri del solito. Cassie non
l'aveva mai vista così, prima di allora.
«A New Salem», disse in un fil di voce. «La città si chiama New
Salem».
Qualche ora dopo, Cassie era ancora seduta vicino alla finestra con lo
sguardo perso nel vuoto e i pensieri che si accavallavano nella sua mente.
"Restare qui... Restare nel New England...".
Una scossa elettrica le attraversò il corpo. "Lui. Sapevo che ci saremmo
incontrati ancora", disse una voce dentro di lei, ed era una voce felice. Ma
era solo una voce tra le tante, e tutte parlavano contemporaneamente.
"Restare. Non tornare a casa. E che importa se quel ragazzo è qui, da
qualche parte nel Massachusetts? Non conosci il suo nome, o dove vive.
Non lo ritroverai mai".
"Ma c'è una possibilità", pensò disperatamente. E la voce dentro di sé,
quella felice, sussurrò: "Più di una possibilità. È il tuo destino".
"Il destino!", risposero beffardamente le altre voci. "Non essere ridicola!
Il tuo destino è passare il primo anno del college nel New England. Dove
non conosci nessuno. Dove sarai sola".
"Sola, sola, sola", intonarono le voci, tutte insieme.
Quella felice venne sopraffatta e ridotta al silenzio. Scomparve. Cassie
sentì scivolare via ogni speranza di rivedere il ragazzo con i capelli rossi.
Dentro di lei non rimase che disperazione.
"Non potrò neppure salutare le mie amiche", pensò. Aveva pregato la
madre di tornare a casa per poterle vedere, ma la signora Blake le aveva
detto che non avevano né il tempo né il denaro per farlo. I biglietti aerei
erano stati già rimborsati. Una sua amica avrebbe spedito le loro cose a
New Salem.
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«Se torni a casa», le disse la madre con dolcezza, «partire una seconda
volta ti farà sentire peggio. Almeno così il distacco sarà indolore. E potrai
rivedere i tuoi amici l'estate prossima».
"L'estate prossima?", si disse Cassie. Mancava un secolo all'estate
successiva. Cassie pensò alle sue amiche: l'innocente, buonissima Beth, la
silenziosa Clover, e Miriam, la prima della classe. Aggiungeteci la timida e
sognante Cassie, e avrete un'idea del loro gruppo. Forse non frequentavano
le compagnie giuste, ma se la spassavano e si conoscevano dalle
elementari. Come avrebbe fatto senza di loro fino all'estate successiva?
Ma la voce di sua madre era stata così lieve e distratta, e i suoi occhi si
erano mossi per la stanza in modo talmente vago e preoccupato che Cassie
non aveva avuto cuore di fare una scenata come avrebbe desiderato.
In verità, Cassie aveva avuto la tentazione di gettare le braccia al collo
della madre e dirle che tutto si sarebbe risolto per il meglio. Ma non ci era
riuscita. Il piccolo ma cocente focolaio di risentimento che le bruciava nel
petto non glielo aveva permesso. Per quanto sua madre potesse essere
preoccupata, pure non sarebbe stata lei madre a dover affrontare la
prospettiva di andare in una scuola tutta nuova in uno Stato a cinquemila
chilometri da casa.
A differenza di Cassie. "Nuovi corridoi, nuovi armadietti, nuove classi,
nuovi banchi", pensò. "Nuovi volti al posto delle amiche che conosco da
una vita". Oh, non poteva essere vero.
Quel pomeriggio Cassie non aveva alzato la voce con la madre, ma non
l'aveva neppure abbracciata. Si era voltata silenziosamente verso la finestra
e lì era rimasta, mentre la luce moriva poco alla volta e il cielo diventava
rosa salmone, poi viola, e infine nero.
Era passato molto tempo, quando andò a letto. Si rese conto che aveva
dimenticato completamente il calcedonio della fortuna. Prese la pietra dal
comodino e la infilò sotto il cuscino.
Portia arrivò mentre Cassie e la madre stavano caricando i bagagli
nell'auto a noleggio.
«Andate a casa?», chiese.
Cassie diede un ultimo spintone alla sua valigia affinché entrasse nel
portabagagli. In quel momento capì di non volere che Portia sapesse che
sarebbe rimasta nel New England. Non voleva metterla a parte della sua
infelicità: sarebbe stato come servirle su un piatto d'argento una sorta di
vittoria su di lei.
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Quando alzò gli occhi per guardarla, fece del suo meglio per sorridere.
«Sì», disse lanciando un'occhiata veloce alla madre che stava sistemando
delle valigie sul sedile posteriore dopo aver inclinato quello del guidatore.
«Credevo saresti rimasta fino al prossimo weekend».
«Abbiamo cambiato idea». Cassie guardò gli occhi color nocciola di
Portia, sorpresa dalla loro freddezza. «Non che non mi sia divertita. È stato
bello», si affrettò stupidamente ad aggiungere.
Portia si spostò un ciuffo di capelli color paglia dalla fronte. «Forse è
meglio se non ti fai più vedere da queste parti», disse. «Qui i bugiardi non
ci piacciono».
Cassie aprì la bocca ma la richiuse immediatamente, le guance in
fiamme. Quindi sapevano che aveva mentito in spiaggia. Era il momento
giusto per uno di quei commenti terribilmente caustici a cui pensava la
notte ma, ovviamente, non riuscì a spiccicare parola e serrò con forza le
labbra.
«Fa' buon viaggio», concluse Portia. Dopo aver lanciato un'ultima
occhiata a Cassie, si voltò per andarsene.
«Portia!». Lo stomaco di Cassie era contratto per la tensione,
l'imbarazzo e la rabbia, ma non poteva lasciarsi sfuggire una simile
occasione. «Mi diresti una cosa, prima che io parta?»
«Cosa?»
«Ormai non fa alcuna differenza, ma volevo sapere... mi chiedevo... se
conosci il suo nome».
«Il nome di chi?».
Cassie sentì di nuovo le guance che avvampavano, ma continuò
caparbiamente. «Il suo nome. Quello del ragazzo con i capelli rossi che
abbiamo visto in spiaggia».
Gli occhi nocciola di Portia non si mossero. Continuavano a fissare
quelli di Cassie, le pupille contratte simili a capocchie di spillo. Cassie
sapeva di non avere alcuna speranza.
Aveva ragione.
«Quale ragazzo con i capelli rossi sulla spiaggia?», disse Portia
scandendo le parole. Ciò detto, girò sui tacchi e se ne andò. Questa volta
Cassie non la fermò.
Verde. Questo è quel che Cassie notò durante il viaggio da Cape Cod
verso nord. Su entrambi i lati della strada cresceva una vera foresta. In
California, alberi così alti si vedevano solo in un parco nazionale...
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«Quelli sono aceri da zucchero», disse sua madre con allegria forzata,
mentre Cassie girava leggermente la testa per guardare un gruppo di piante
particolarmente belle. «E quelli più bassi sono aceri rossi. Diventano rossi
in autunno, un meraviglioso e lucente rosso tramonto. Aspetta e vedrai».
Cassie non rispose. Non voleva vedere gli alberi in autunno perché in
autunno non voleva essere là.
Dopo aver attraversato Boston, si diressero verso la costa settentrionale
– la "riva settentrionale", si corresse Cassie con decisione – superando
villaggi pittoreschi, pontili e spiagge rocciose. Cassie sospettava che la
madre avesse preso la strada panoramica, e sentì del risentimento ribollirle
nel petto. Perché non si sbrigava, così la facevano finita?
«Non c'è una strada più veloce?», disse, aprendo il vano portaoggetti e
prendendo la mappa in dotazione con l'auto noleggiata. «Perché non prendi
la Route 1? O l'Interstate 95?».
La madre guidava con gli occhi incollati sulla strada. «È passato molto
tempo dall'ultima volta che sono stata qui, Cassie. Questa è l'unica strada
che conosco».
«Ma se tagli di qua, per Salem...», disse Cassie osservando l'uscita che si
allontanava. «Ok, come non detto». Tra tutti i posti del Massachusetts,
Salem era l'unico che forse avrebbe avuto voglia di visitare. La sua storia
macabra si adattava perfettamente al suo umore attuale. «È qui che
bruciavano le streghe, vero?», disse. «New Salem prende il nome da
questo posto? Anche a New Salem bruciavano le streghe?»
«Non hanno mai bruciato nessuna strega, semmai le impiccavano. E poi
non erano streghe, ma donne innocenti che avevano la sfortuna di essere
antipatiche ai propri vicini». La voce della madre era fiacca e paziente.
«Inoltre Salem era un nome comune ai tempi delle colonie; deriva da
"Jerusalem"».
La mappa tremava sotto gli occhi di Cassie. «Dove si trova? Qui non
c'è», disse.
Ci fu un breve silenzio, prima che la madre rispondesse. «È una piccola
città, e la maggior parte delle mappe non la riporta. A dire la verità, si tratta
di un'isola».
«Un'isola?»
«Non preoccuparti. C'è un ponte che la collega alla terraferma».
Ma tutto quello a cui Cassie riusciva a pensare era: "Un'isola. Sto
andando a vivere su un'isola. In una città che non è segnata neppure sulle
mappe".
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Dopo aver svoltato su una strada senza nome e attraversato un ponte,
Cassie e la madre arrivarono a New Salem. Quando la ragazza si accorse
che non era minuscola come se l'aspettava, il suo umore migliorò un poco.
C'erano negozi normali – non solo chioschi turistici – ammucchiati in
quello che doveva essere il centro della città. C'era un Dunkin' Donuts e
una International House of Pancakes con un cartello che annunciava una
STRAORDINARIA INAUGURAZIONE. Davanti al cartello, c'era un
tizio vestito da frittella gigante che ballava.
Il nodo allo stomaco di Cassie si stava sciogliendo. Una città con una
frittella che balla non poteva essere poi così malvagia, no?
Ma subito dopo sua madre imboccò un'altra strada, che s'inerpicava
verso l'alto e diventava sempre più desolata man mano che la città
scompariva alle loro spalle.
Cassie si rese conto che la madre stava guidando verso l'estremità
dell'isola, dove il sole tingeva di rosso le finestre di un gruppo di case sulla
scogliera. Cassie le vide avvicinarsi: prima provò una sensazione di
disagio, poi di ansia e infine di sgomento.
Perché quelle case erano vecchie. Terribilmente vecchie. Non pittoresche
o carine, ma antiche. Qualcuna era in buono stato, ma altre sembravano sul
punto di crollare in una nuvola di polvere e detriti di legno.
"Ti prego, fa' che sia quella", pensò Cassie guardando una bellissima
costruzione gialla con numerose torri e finestroni. Ma sua madre la superò
senza rallentare. E fece lo stesso con un'altra, e un'altra ancora.
Finché non ne rimase soltanto una, l'ultima casa sulla scogliera. E la
madre stava andando proprio in quella direzione. Sembrava una grossa T
capovolta, con un'ala che si affacciava sulla strada e l'altra sul retro.
Quando la madre girò introno alla costruzione, Cassie notò che l'ala
posteriore era molto diversa da quella anteriore. Aveva un tetto a spiovente
e finestrelle a forma di diamante sistemate quasi a casaccio. Le pareti non
erano neppure dipinte, ma rivestite di pannelli grigio spento.
L'ala anteriore, invece, era stata verniciata... un giorno di tanto tempo fa.
Il colore residuo veniva via a striscioline. I due comignoli erano instabili e
malmessi, il tetto con le tegole di ardesia sembrava sul punto di cedere. Le
finestre erano disposte in modo regolare, ma sembrava che nessuno le
lavasse da anni.
Cassie ammutolì. Non aveva mai visto una casa più deprimente in tutta
la sua vita. Non poteva essere proprio quella.
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«Be'», disse la madre con la stessa allegria forzata di poco prima, mentre
imboccava il vialetto ghiaioso, «eccola, la casa in cui sono cresciuta.
Siamo arrivate».
Cassie non riusciva a parlare. La bolla di orrore, rabbia e risentimento
dentro di lei stava crescendo sempre più, e la ragazza pensò che di lì a
poco, pochissimo, sarebbe esplosa.
4
Sua madre stava ancora parlando con il suo tono di finta allegria, ma
Cassie riusciva a sentire solo brandelli di frasi: «...ala originale prerivoluzionaria, un piano e mezzo... ala anteriore georgiana postrivoluzionaria...».
E così via. Cassie spalancò lo sportello dell'auto e poté finalmente dare
un'occhiata completa alla casa. Più la guardava e peggio le sembrava.
Sua madre, con voce concitata e ansiosa, stava dicendo qualcosa a
proposito di un traverso sopra la porta principale: «...rettangolare, non
come le lunette a ventaglio che sono venute dopo...».
«La odio!», urlò Cassie interrompendola, la voce troppo alta –
straordinariamente alta – in quell'atmosfera tranquilla. Non si riferiva alla
lunetta a ventaglio, qualunque cosa fosse. «La odio!», urlò di nuovo con
forza. La madre, alle sue spalle, non disse nulla, ma Cassie non si girò a
guardarla; stava fissando la casa, le finestre sporche, i cornicioni cadenti,
la mole mostruosa, piatta e orribile. Tremava. «È la cosa più brutta che
abbia mai visto in vita mia, e la odio. Voglio tornare a casa. Voglio tornare
a casa!».
Si voltò e vide il volto pallido e gli occhi pieni di pena di sua madre.
Scoppiò a piangere.
«Oh, Cassie», la signora Blake allungò un braccio sopra il tettuccio di
vinile dell'auto. «Cassie, tesoro». Anche lei aveva le lacrime agli occhi.
Quando alzò la testa per guardare la casa, la sua espressione lasciò Cassie
a bocca aperta. Era uno sguardo carico di odio e di paura, più intenso di
qualunque emozione stesse provando Cassie in quel momento.
«Cassie, tesoro, ascoltami», disse. «Se davvero non ti va di restare...».
Si bloccò. Cassie stava ancora piangendo, ma sentì un rumore dietro di
lei. Quando si girò, vide che la porta della casa si era aperta. Sull'uscio
c'era una donna anziana con i capelli grigi, in piedi, con la mano poggiata
su un bastone da passeggio.
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Cassie si voltò verso sua madre: «Mamma?», quasi supplicò.
Ma la madre stava fissando la porta. Pian piano, un'espressione di
rassegnazione le invase il volto. Quando si girò per parlare a Cassie, la sua
voce era di nuovo falsamente spensierata e allegra.
«Quella è tua nonna, cara», disse. «Non facciamola aspettare, dài».
«Mamma...», bisbigliò Cassie. Era una preghiera disperata. Gli occhi
della madre, però, erano diventati spenti e opachi. Bianchi.
«Andiamo, Cassie», disse.
Cassie avvertì la folle tentazione di chiudersi nell'auto e rimanere lì
dentro finché qualcuno non fosse andato a salvarla. Ma la stessa
sensazione di sconforto che si era abbattuta su sua madre sembrò colpire
anche lei. Erano arrivate. Non c'era più nulla da fare. Cassie chiuse lo
sportello e seguì la madre in silenzio sino alla casa.
La donna sull'ingresso era molto vecchia. Abbastanza da poter essere
almeno la sua bisnonna. Cassie cercò invano di individuare qualche tratto
in comune con la madre.
«Cassie, lei è nonna Howard».
Cassie riuscì a biascicare qualcosa. La vecchia fece un passo verso di
loro, puntando gli occhi incavati su Cassie. Un pensiero bizzarro balenò
nella mente della ragazza: "M'infilerà nel forno". Ma poi sentì delle
braccia intorno alle sue spalle, un abbraccio sorprendentemente deciso.
Allungò meccanicamente le braccia per rispondere al gesto della vecchia.
La nonna indietreggiò per guardarla. «Cassie! Finalmente, dopo tutti
questi anni!». Cassie notò con inquietudine che la donna continuava a
fissarla con quello che sembrava un misto di preoccupazione e speranza
ansiosa. «Finalmente», sussurrò di nuovo, quasi tra sé.
«È bello rivederti, mamma», disse la signora Blake con voce pacata e
formale. Solo allora i vecchi occhi intensi si allontanarono da Cassie.
«Alexandre. Oh, mia cara, è passato tanto tempo, troppo». Le due donne
si abbracciarono, anche se un'indefinibile atmosfera di tensione rimase tra
loro, vibrando.
«Ma non restiamo qui fuori. Entrate, entrate in casa voi due», disse la
nonna asciugandosi gli occhi. «Temo che questo vecchio posto non sia uno
splendore, ma vi ho riservato le camere migliori. Vieni, Cassie, ti mostro la
tua».
La luce rossastra del tramonto donava all'interno della casa un'atmosfera
oscura e cupa. Tutto sembrava trasandato, dalle logore imbottiture delle
sedie al liso tappeto orientale sul pavimento di pino.
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Percorsero prima una scalinata – lentamente, con la nonna di Cassie che
si teneva alla ringhiera – e poi un lungo corridoio. Il pavimento di legno
scricchiolava sotto le Reebok di Cassie e le lampade in alto, fissate alle
pareti, tremolavano al loro passaggio. "Le manca solo un candelabro in
mano", pensò Cassie. Da un momento all'altro si aspettava di veder
sopraggiungere dall'altra parte del corridoio Lurch o il cugino It.
«L'impianto d'illuminazione è opera di tuo nonno», si scusò la nonna.
«Voleva fare tutto lui. Ecco la tua stanza, Cassie. Spero ti piaccia il rosa».
Quando la nonna aprì la porta, Cassie sentì i suoi occhi spalancarsi.
Sembrava una camera da letto allestita per un museo. C'era un letto a
baldacchino con tanto di tende, piedi e tettuccio – il tutto decorato con un
motivo floreale rosa pallido. C'erano delle sedie rosa antico in tinta col
baldacchino, con alti schienali imbottiti. Sopra un camino con una cappa
molto alta, c'erano un candeliere di peltro, un orologio di ceramica cinese
e, per finire, un intero corredo di mobili antichi, massicci e tirati a lucido.
L'insieme era meraviglioso, ma davvero eccessivo...
«Puoi mettere i vestiti in questa cassapanca... È di solido mogano», stava
dicendo la nonna. «È bombé, uno stile tipico del Massachusetts... l'unica
regione delle colonie in cui veniva realizzato».
"Le colonie?", pensò Cassie fissando il coperchio decorato della
cassapanca.
«E qui ci sono il comò e l'armadio... Ti sei già affacciata alle finestre?
Ho pensato che potesse piacerti una camera ad angolo, perché è esposta sia
a sud che a est».
Cassie guardò fuori. Una finestra dava sulla strada, l'altra sull'oceano,
che in quel momento era una cupa distesa grigio piombo sotto un cielo
nero, in perfetta sintonia con il suo umore.
«Adesso ti lascio sola, così potrai ambientarti», disse la nonna.
«Alexandra, per te ho scelto la camera verde dall'altra parte del
corridoio...».
La mamma di Cassie le diede un abbraccio veloce e quasi timido. E
Cassie rimase finalmente sola. Sola con gli enormi mobili luccicanti, il
camino spento e i pesanti drappeggi. Si sedette cautamente su una sedia
perché il letto le incuteva timore.
Ripensò alla sua vecchia camera, ai mobili bianchi di legno compresso,
ai poster del Fantasma dell'Opera e al lettore CD che aveva comprato con
i soldi guadagnati facendo la babysitter. Aveva dipinto la libreria di azzurro
per abbinarla alla sua collezione di unicorni. Collezionava unicorni d'ogni
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tipo – di peluche, di vetro soffiato, di ceramica, di peltro. Una volta Clover
aveva detto che anche Cassie era un unicorno: occhi azzurri, timida, e
unica. Tutto questo sembrava ormai appartenere a una vita precedente.
Cassie non sapeva da quanto era seduta, ma a un certo punto si accorse
di avere il pezzo di calcedonio in mano. Doveva averlo tirato fuori dalla
tasca, e ora lo stava stringendo con forza.
"Se mai dovessi trovarti nei guai o in pericolo", pensò, e fu invasa da
un'ondata di desiderio, seguita da un moto di rabbia. "Non fare la sciocca",
si disse con fermezza. "Non sei in pericolo. E soprattutto nessuna pietra ti
aiuterà". Resistette all'impulso di scagliarla lontano. Invece, se la strofinò
sulla guancia, avvertendo le fredda e irregolare levigatezza dei cristalli.
Ciò le riportò alla mente il tocco del ragazzo: com'era stato delicato,
com'era riuscito a penetrare nella sua anima. Si passò audacemente la
pietra sulle labbra, e sentì un improvviso torpore sulla pelle, in un ogni
singolo punto che il ragazzo aveva toccato. La mano che lui aveva stretto...
Riusciva ancora a sentire le sue dita impresse sul palmo, sul polso, come
un marchio... Percepì nuovamente il tocco leggero delle sue dita fredde,
che le avevano fatto rizzare i peli del braccio... Chiuse gli occhi e trattenne
il respiro mentre ricordava il bacio. Come sarebbe stato, si chiese, se le
labbra di quel ragazzo avessero sfiorato il punto in cui il cristallo, adesso,
era a contatto con la sua pelle? Lasciò che la testa le scivolasse indietro,
verso le spalle, guidando la pietra fredda dalle sue labbra alla gola fino al
petto, nel punto in cui le batteva il cuore. Le sembrava che lui la stesse
baciando, come nessun altro aveva mai fatto; le sembrava che le labbra del
ragazzo coi capelli rossi fossero davvero sulle sue. "A te lo permetterei",
pensò, "a te e a nessun altro... Di te mi fiderei...".
Ma lui se n'era andato. Improvvisamente, Cassie tornò alla realtà. Fu un
forte shock. Lui l'aveva lasciata e se n'era andato, proprio come aveva fatto
l'unico altro uomo davvero importante della sua vita.
Raramente Cassie pensava a suo padre. Raramente permetteva a se
stessa di farlo. Se n'era andato quando Cassie era solo una bambina,
lasciando lei e sua madre a vedersela da sole su tutto. La signora Blake
raccontava in giro che suo marito era morto, ma a Cassie aveva detto la
verità: semplicemente, le aveva abbandonate. Poteva anche essere che
ormai fosse morto davvero, o che fosse andato a vivere da qualche altra
parte, o che si fosse fatto un'altra famiglia, che avesse un'altra figlia. Non
l'avrebbero mai saputo. E benché sua madre non affrontasse mai
l'argomento, a meno che qualcuno non le domandasse qualcosa in merito,
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Cassie sapeva che il padre le aveva spezzato il cuore.
"Gli uomini ti abbandonano sempre", pensò Cassie con un groppo in
gola. "Sono stata lasciata da entrambi. E adesso sono sola... in questo
posto. Se solo potessi confidarmi con qualcuno... una sorella, un'amica...".
Chiuse gli occhi e lasciò scivolare sulle gambe la mano che stringeva il
cristallo. Tutte quelle emozioni l'avevano spossata al punto che non aveva
neanche la forza di raggiungere il letto. Rimase semplicemente seduta, con
il respiro che rallentava sempre di più, finché non si addormentò quando
ormai era buio.
Quella notte fece un sogno – o forse non era un sogno. Sognò che la
madre e la nonna entravano nella sua camera, senza fare rumore, quasi
fluttuando sul pavimento. Nel sogno era cosciente della loro presenza, ma
non riusciva a muoversi quando loro la sollevavano dalla sedia, la
svestivano e la mettevano sotto le coperte. Le due donne rimanevano ai
piedi del letto a guardarla dormire. Gli occhi della madre, oscuri e
impenetrabili, avevano un'aria strana.
«Piccola Cassie», sospirava la nonna. «Finalmente. Ma che peccato...».
«Shhh!», diceva bruscamente la mamma. «La sveglierai».
La nonna sospirava di nuovo. «Sai che non c'è altra via...».
«Sì», diceva la madre con voce spenta e rassegnata. «So che al proprio
destino non si può sfuggire. Io per prima non avrei dovuto provarci».
"È quel che ho pensato anch'io", pensò Cassie mentre il sogno si
dissolveva. "Non puoi sfuggire al tuo destino". Riuscì a distinguere come
attraverso una nebbia vaga la madre e la nonna che si dirigevano alla porta
sussurrando tra loro. Non capiva cosa si dicevano, finché un'unica parola
arrivò sibilando alle sue orecchie.
«...sacrificio...».
Non sapeva chi l'avesse pronunciata, ma quella parola continuò a
riecheggiarle nella mente a lungo, molto a lungo. Mentre le tenebre
l'avvolgevano, ancora la sentiva. "Sacrificio... sacrificio... sacrificio...".
Il mattino dopo Cassie si risvegliò nel letto a baldacchino con il sole che
entrava dalla finestra a est. I suoi raggi facevano sembrare la stanza un
petalo di rosa illuminato. Cassie avvertiva una sensazione calda e
luminosa. Oltre la finestra, fuori, un uccellino cinguettava.
Si mise a sedere. Ricordava stralci di uno strano sogno, ma erano vaghi
e indistinti. Aveva il naso tappato – probabilmente a causa delle lacrime –
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e le girava leggermente la testa. Era come se si fosse svegliata da un sonno
profondo e riposante in seguito a una malattia o a un avvenimento
scioccante: si sentiva stranamente disorientata e in pace con se stessa. La
quiete dopo la tempesta.
Si vestì. Stava per uscire dalla stanza, quando vide il pezzo di calcedonio
sul pavimento. Lo raccolse e se lo mise in tasca.
Sembrava che tutti dormissero ancora. Nonostante fosse giorno, il lungo
corridoio era buio e freddo, illuminato solo dalla luce che penetrava
attraverso le finestre poste alle due estremità. Cassie tremava mentre
scendeva al piano di sotto, e le deboli luci delle lampade a muro
tremolavano con lei, quasi a dimostrare la loro solidarietà.
Il piano di sotto era più soleggiato. Ma c'erano così tante stanze che
Cassie si perse quando provò a esplorarle. Alla fine, decise di imboccare il
corridoio centrale e di uscire.
Lo fece senza domandarsene il perché – forse voleva conoscere il
quartiere. Imboccò la lunga e stretta strada sterrata, lasciandosi alle spalle
una costruzione dopo l'altra. Era presto, e non c'era nessuno nei paraggi. Si
fermò davanti alla bella casa gialla con le torri.
Una finestra in una delle torri era illuminata.
Cassie la stava fissando, chiedendosi il motivo di quella luce accesa,
quando un movimento dietro una finestra al pianoterra catturò la sua
attenzione. Si trattava forse di una biblioteca o di uno studio, e dentro c'era
una ragazza alta e snella, con un'incredibile cascata di capelli che le
nascondeva il volto chino su una scrivania sotto la finestra. Quei capelli...
Cassie non riusciva a distogliere lo sguardo. Era come se racchiudessero la
luce del sole e quella della luna. Ed erano naturali. Nessuna radice scura.
Cassie non aveva mai visto nulla di così bello.
Erano talmente vicine: Cassie in piedi dietro una siepe, e la ragazza
dall'altra parte della finestra, ma con lo sguardo rivolto verso il basso.
Cassie guardò, rapita, l'operazione che la ragazza stava compiendo seduta
alla scrivania. Le sue mani muovevano con grazia un attrezzo, macinando
qualcosa con un pestello che batteva ritmicamente in un mortaio. Spezie?
Qualunque cosa fosse, i suoi movimenti erano rapidi e precisi e le mani
agili ed eleganti.
Cassie provò una stranissima sensazione ... "Se solo alzasse la testa e
guardasse verso di me", pensò. "Se solo lanciasse un'occhiata fuori dalla
finestra". Se l'avesse fatto, allora... sarebbe successo certamente qualcosa.
Cassie non sapeva cosa, ma aveva la pelle d'oca. Avvertiva un legame tra
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lei e la ragazza, una certa... affinità. Se solo avesse alzato la testa e
guardato verso di lei...
"Urla. Lancia un sassolino contro la finestra". Cassie stava cercando un
sasso quando un altro movimento dietro la finestra la bloccò. La ragazza
con i capelli luccicanti si era voltata, come se qualcuno all'interno della
casa l'avesse chiamata. Cassie intravide per un brevissimo istante un volto
fresco e delizioso. Poi la ragazza si girò e corse via, i capelli che le
sventolavano dietro le spalle come seta.
Cassie sospirò.
Sarebbe stato comunque stupido, si disse mentre tornava a casa. Che bel
modo di presentarsi ai vicini – lanciare pietre contro le loro finestre. Ma la
sensazione di cocente delusione restò. Per qualche motivo, sentiva che non
avrebbe avuto un'altra occasione – che non avrebbe mai trovato il coraggio
di presentarsi a quella ragazza. Certamente una persona così bella era
piena di amici e non aveva alcun bisogno di Cassie. Senza dubbio,
frequentava gente ben al di fuori, e al di sopra, dell'orbita di Cassie.
La casa banale e squadrata della nonna sembrava più brutta dopo la
luminosa costruzione vittoriana. Sconsolata, Cassie deviò verso la
scogliera per guardare l'oceano.
Blu. Un colore così intenso che non trovava le parole per descriverlo.
Osservando le onde che s'infrangevano su una roccia scura, provò uno
strano brivido. Il vento le spingeva indietro i capelli mentre lei osservava il
sole del mattino che luccicava sulle onde. Avvertiva ancora quella...
affinità. Come se una voce parlasse al suo sangue, a qualcosa che si
trovava nascosta, nel profondo, dentro lei. Cos'aveva quel posto – e quella
ragazza? Sentiva di essere sul punto di capirlo...
«Cassie!».
Spaventata, Cassie si voltò di scatto. La nonna la stava chiamando
dall'ingresso dell'ala più vecchia.
«Stai bene? Per l'amor del cielo, allontanati dal ciglio della scogliera!».
Cassie guardò di sotto provando un'improvvisa vertigine. Le punte dei
piedi erano quasi nel vuoto. «Non mi ero accorta di essere così vicina»,
disse, facendo un passo indietro.
La nonna la guardò, poi annuì. «Be', entra in casa, così ti preparo la
colazione», disse. «Ti piacciono le frittelle?».
Cassie, un po' intimorita, annuì. Nonostante ricordasse vagamente un
sogno che la faceva sentire ancora a disagio, stava decisamente meglio del
giorno prima. Seguì la nonna oltre la porta, più spessa e pesante di quelle
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moderne.
«Questo era l'ingresso principale della casa, in origine», le spiegò la
nonna. Cassie notò che la gamba malata oggi non le dava molti problemi.
«È strano che porti direttamente nella cucina, vero? Ma in passato si usava
così. Siediti. Intanto ti preparo le frittelle».
Ma Cassie non riusciva a muoversi. Era sbalordita: non aveva mai visto
una cucina simile. C'era una cucina a gas e un frigorifero, persino un forno
a microonde in bella vista su una mensola di legno – ma il resto sembrava
provenire da un set cinematografico. Un enorme camino incassato nella
parete, grosso quanto un armadio, occupava gran parte della stanza; era
spento, ma lo spesso strato di cenere dimostrava che era ancora attivo. Al
suo interno c'era una pentola di metallo agganciata a una traversa di ferro.
Sulla mensola fiori e piante secche sprigionavano una gradevole fragranza.
In quanto alla donna davanti al focolare...
Le nonne dovrebbero essere rosa e rassicuranti, con un grembo morbido
e un conto corrente abbondante. Quella donna, invece, era curva e rugosa,
con i capelli grigi e un enorme neo su una guancia. Cassie si aspettava che
da un momento all'altro si sarebbe avvicinata alla pentola di metallo e
avrebbe iniziato a mescolare mormorando: «Aumenta, aumenta, fatica e
tormenta...».
Subito, si vergognò di quel brutto pensiero. "È tua nonna", si disse con
rabbia. "Oltre sua figlia, sei l'unica parente che le è rimasta. Non è colpa
sua se è vecchia e brutta. Quindi non restartene seduta e dì qualcosa di
carino".
«Oh, grazie», disse, mentre la nonna le metteva davanti un piatto di
frittelle fumanti. Poi aggiunse: «Uh, sono fiori secchi quelli sul camino?
Hanno un buon odore».
«Lavanda e issopo», disse la nonna. «Se ti va, quando finisci di
mangiare potrei mostrarti il giardino».
«Mi piacerebbe tantissimo», disse Cassie sinceramente.
Quando la nonna la condusse di fuori, però, ciò che Cassie vide era
molto diverso da come se l'era immaginato. C'era qualche fiore, ma per lo
più il "giardino" consisteva di erbacce e piante – cespugli su cespugli di
erbacce e piante incolte.
«Oh... gradevole», disse Cassie. Forse la nonna soffriva di demenza
senile. «Che piante... insolite».
La nonna le lanciò un'occhiata furba e divertita. «È solo erba», disse.
«Ecco, questa è melissa. Annusa».
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Cassie prese la foglia a forma di cuore, grinzosa come una foglia di
menta ma un po' più grande, e l'annusò. Odorava di limone fresco appena
sbucciato. «Questo è davvero gradevole», disse sorpresa.
«E questa è acetosella. Assaggiala».
Cassie prese con prudenza la piccola foglia tondeggiante e ne
mangiucchiò un'estremità. Il sapore era deciso e rinfrescante. «È buona...
Sembra erba brusca», disse, guardando la nonna che le sorrideva di
rimando. «E queste», chiese, indicando alcuni fiori gialli mentre masticava
un altro pezzo di foglia, «cosa sono?»
«Quello è tanaceto. E quelle che sembrano margherite sono amarelle. Le
foglie di amarella sono ottime per l'insalata».
Cassie era molto incuriosita. «E quelle?», domandò ancora, additando
dei fiori color crema avvolti ad altre piante.
«Caprifogli. Li coltivo solo per l'odore. Le api e le farfalle lo adorano. In
estate qui sembra di essere alla Grand Central Station».
Cassie si chinò per cogliere un gambo profumato da cui sbocciavo dei
germogli delicati, ma si fermò. «Potrei... Pensavo di portarne un po' in
camera. Sempre che non ti dispiaccia».
«Oh, santo cielo, prendine quanti ne vuoi. Sono qui apposta».
"Dopo tutto non è così vecchia e brutta", pensò Cassie, cogliendo un po'
di quei fiori color crema. "È solo... diversa, e diverso non vuol dire
necessariamente cattivo".
«Grazie... nonna», disse mentre rientravano in casa. Poi aprì la bocca per
chiederle notizie sulla casa gialla e su chi ci abitava, ma la nonna andò a
prendere qualcosa accanto al forno a microonde.
«Sono per te, Cassie. Sono arrivati ieri per posta». Così dicendo, le
passò due opuscoli, uno rosso e uno bianco, avvolti in un foglio di carta.
Il primo era il Manuale per gli studenti e i genitori della New Salem
High School e l'altro era l'Ordine degli studi della New Salem High
School.
"Oh, mio Dio", pensò Cassie. "La scuola".
Nuovi corridoi, nuovi armadietti, nuove classi, nuove facce. Tra i due
opuscoli c'era un foglio con su scritto, a lettere grandi e vivaci, Orario
delle lezioni. E sotto c'erano il suo nome e il suo indirizzo: Crowhaven
Road n. 12, New Salem.
Magari la nonna non era poi così male come aveva pensato; e anche la
casa non era terribile. Ma la scuola? Come poteva affrontare la scuola qui
a New Salem?
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5
Il pullover di cachemire grigio o il cardigan blu e bianco Fair Isle,
questo era il dilemma. Cassie era davanti allo specchio con la cornice
dorata, con un capo in ciascuna mano. Il cardigan blu, decise; il blu era il
suo colore preferito, e metteva in risalto l'azzurro dei suoi occhi. I paffuti
cherubini che le sorridevano con approvazione dalla cima dello specchio
antiquato sembravano essere d'accordo con lei.
Adesso che il primo giorno di scuola era arrivato, Cassie scoprì di essere
eccitata. Era anche nervosa, certo, ma non c'era traccia di quel terrore
cieco che si aspettava di provare. Andare a scuola in un posto nuovo aveva
degli aspetti interessanti. Era come cominciare una nuova vita. Forse
avrebbe esibito una nuova personalità. Probabilmente le sue amiche
l'avrebbero descritta come una ragazza "carina ma timida", oppure
"divertente ma tranquilla". Qui, però, nessuno lo sapeva. Forse quest'anno
sarebbe stata Cassie l'Estroversa o persino Cassie la Festaiola. Forse
sarebbe stata anche all'altezza della ragazza con i capelli luccicanti. A
quell'idea il cuore cominciò a batterle più forte.
Tutto dipendeva dalla prima impressione. Era di vitale importanza
cominciare con il piede giusto. Indossò il cardigan blu e si rimirò nello
specchio, ansiosa.
Avrebbe voluto fare qualcosa ai capelli. Erano soffici e leggermente
ondulati, con delle belle meches, ma avrebbe desiderato qualcosa di più
elaborato. "Come la ragazza in questa pubblicità", pensò, guardando la
rivista che aveva acquistato la settimana prima, quando era andata in città
per dare un'occhiata ai vestiti e agli accessori più in voga per il ritorno a
scuola. Non aveva avuto più il coraggio di avventurarsi a piedi fino alla
casa gialla, ma ci era passata accanto nella Golf della nonna, sperando di
imbattersi casualmente nella ragazza.
Alla fine decise: il giorno dopo si sarebbe pettinata i capelli all'indietro,
come la modella della rivista.
Stava per andarsene, quando qualcosa sulla pagina successiva della
rivista catturò la sua attenzione. L'oroscopo. Il suo segno, il cancro,
sembrava fissarla. I suoi occhi andarono automaticamente alle parole sotto
il disegno.
Quello spiacevole senso di insicurezza che credevate passato è tornato alla ribalta.
È tempo di pensare positivo! Se non dovesse funzionare, ricordate che nulla dura per
sempre. Cercate di non complicare le vostre relazioni. Avete già abbastanza problemi
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di cui occuparvi.
"Gli oroscopi sono spazzatura", pensò Cassie chiudendo la rivista con
una manata. Lo diceva sempre sua madre, e aveva ragione. "Lo spiacevole
senso di insicurezza": dire a una persona che è un'insicura contribuisce a
renderla tale! Non c'era niente di soprannaturale in tutto questo.
Ma, se non credeva al soprannaturale, che ci faceva quel pezzo di
calcedonio nel suo zaino? Serrò la mascella, prese la pietra e la mise nel
portagioie; poi scese a salutare la madre e la nonna.
La scuola era un imponente edificio di tre piani in mattoni rossi.
Talmente imponente che Cassie, dopo aver parcheggiato la Golf, aveva
quasi timore ad avvicinarsi. C'erano diverse stradine che salivano lungo il
fianco della collina, e la ragazza alla fine si decise a imboccarne una. In
cima alla collina, mentre fissava la scuola, le si chiuse la gola.
Dio, sembrava un college o qualcosa del genere. Una specie di luogo
storico. Sulla lastra massiccia all'entrata c'era scritto NEW SALEM HIGH
SCHOOL, e sotto, su una specie di targa, CITTÀ DI NEW SALEM,
FONDATA NEL 1693. Era davvero così antica? Trecento anni? A Reseda,
gli edifici più vecchi ne avevano al massimo una cinquantina.
"Non sono timida", si disse Cassie, costringendosi a muoversi. "Io sono
Cassie l'Intrepida".
Un rombo incredibilmente fragoroso le fece voltare di scatto la testa; si
scansò istintivamente un attimo prima di essere investita. Con il cuore che
le martellava in petto, guardò intontita ciò che le era quasi finito addosso.
C'era una motocicletta, sul viale pedonale. E, cosa ancor più sorprendente,
il pilota era una ragazza. Indossava jeans neri attillati e una giacca da
motociclista; aveva un fisico slanciato e atletico che sembrava molto
robusto. Ma, quando si voltò, dopo aver parcheggiato la moto al posto
riservato alle biciclette, Cassie vide che la ragazza aveva un volto
straordinariamente bello. Era minuto e femminile, incorniciato da riccioli
neri, e rovinato solo da un'espressione imbronciata e aggressiva.
«Che hai da guardare?», chiese bruscamente la ragazza.
Cassie sobbalzò, accorgendosi che la motociclista la stava fissando. La
ragazza fece un passo in avanti e Cassie si scoprì a indietreggiare.
«Mi spiace... Non volevo...». Cercò di ricacciare indietro le lacrime, ma
non era facile. La ragazza indossava uno striminzito top nero alla vita,
sotto il quale Cassie intravide quello che sembrava un tatuaggio. Il
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tatuaggio di una luna crescente. «Mi dispiace», ripeté Cassie, impotente.
«Vorrei vedere. Non capitarmi mai più tra i piedi, intesi?».
"Sei stata tu che mi hai quasi investita", pensò Cassie. Ma si affrettò ad
annuire vigorosamente e, con suo grande sollievo, la ragazza se ne andò.
"Dio, che modo orribile di cominciare la scuola", pensò Cassie,
raggiungendo in fretta l'ingresso. "E che persona orribile con cui scambiare
le prime parole". Be', dopo un simile inizio, però, le cose potevano solo
migliorare.
Intorno a Cassie, gruppi di teenager si baciavano e salutavano gli uni
con gli altri: le ragazze ridacchiando e abbracciandosi, i ragazzi
prendendosi in giro. Era una confusione euforica, e sembrava che tutti
conoscessero tutti.
Tranne Cassie. Avvolta dalle fragranze dei numerosi profumi e dei
dopobarba non necessari, la neofita fissava i tagli impeccabili dei ragazzi e
i vestiti nuovi di zecca delle ragazze. Non si era mai sentita così sola in
vita sua.
"Continua a camminare", si disse con decisione. "Non pensare a quella
ragazza, cerca la tua classe. Forse troverai qualcuno con cui parlare. Devi
sembrare estroversa se vuoi che la gente pensi che tu lo sia".
La prima lezione era un corso di scrittura propedeutico alla
pubblicazione, e Cassie era felice di poterlo frequentare. Le piaceva la
scrittura creativa, e sull'ordine degli studi c'era scritto che seguendo il
corso sarebbe stato possibile pubblicare sulla rivista letteraria o sul
giornalino della scuola. Aveva scritto per il giornale della sua vecchia
scuola; forse poteva farlo anche qui.
Ovviamente sugli opuscoli c'era scritto anche che, per partecipare alle
lezioni, bisognava iscriversi in primavera, e Cassie non riusciva a capire
come avesse fatto la nonna a registrarla pochi giorni prima dell'inizio della
scuola. Forse aveva una certa influenza sui membri dell'amministrazione o
qualcosa del genere.
Dopo aver trovato l'aula senza troppi problemi, Cassie scelse un banco
nelle ultime file per non dare troppo nell'occhio. L'aula stava cominciando
a riempirsi, e chiunque sembrava avere qualcuno con cui parlare. Nessuno
le prestò la minima attenzione.
Cassie iniziò a scribacchiare frenetica sul quaderno, cercando di
sembrare completamente presa da quel che faceva, e sperando che nessuno
si accorgesse che lei era l'unica nell'aula a non avere un compagno di
banco.
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«Sei nuova, vero?».
Il ragazzo seduto davanti a lei si era voltato. Il suo sorriso era
sinceramente amichevole, e abbagliante, e Cassie aveva l'impressione che
lui ne fosse pienamente consapevole. I capelli ricci castano chiaro
mandavano riflessi ramati e, anche se era seduto, era chiaro che doveva
essere molto alto.
«Sei nuova», ripeté.
«Sì», disse Cassie, furiosa perché le tremava la voce. Ma quel ragazzo
era così affascinante... «Mi chiamo Cassie Blake. Mi sono trasferita da
poco dalla California».
«Io sono Jeffrey Lovejoy».
«Oh», disse Cassie, fingendo di aver già sentito il suo nome, poiché
sembrava che lui se l'aspettasse.
«Pivot della squadra di basket», aggiunse. «E capitano».
«Oh, che bello». Oh, che stupida. Doveva fare di meglio. Sembrava una
cerebrolesa. «Volevo dire... dev'essere davvero interessante».
«Ti piace il basket? Forse potremmo parlarne qualche volta». Cassie
provò un'improvvisa gratitudine per quel ragazzo che stava ignorando la
sua goffaggine e il suo imbarazzo. Ok, forse gli piaceva essere ammirato
dalle ragazze, ma che importava? Era carino, e la popolarità di Cassie
sarebbe certo migliorata se l'avessero vista in giro per il campus al suo
fianco.
«Sarebbe bello», disse, desiderando di riuscire a pensare a un altro
aggettivo. «Forse... forse durante l'intervallo...».
Un'ombra cadde su di lei. O almeno fu ciò che Cassie avvertì. In ogni
caso, sentì, tutto in un colpo, dal nulla, una presenza al suo fianco, una
presenza che la fece ammutolire mentre si voltava con gli occhi spalancati.
C'era una ragazza vicino a lei, la ragazza più bella che Cassie avesse mai
visto. Una ragazza meravigliosa, alta e sensuale. Aveva capelli neri come
la pece e la sua carnagione pallida sprigionava sicurezza e potere.
«Ciao, Jeffrey», disse. Aveva un tono basso per una ragazza, vibrante e
quasi maschile.
«Faye». La voce di Jeffrey, invece, era decisamente priva di entusiasmo.
Sembrava nervoso. «Ciao».
La ragazza si chinò su di lui, poggiando una mano sullo schienale della
sedia. Cassie sentì la sua scia di profumo inebriante. «Non ti sei fatto
vedere molto durante le vacanze estive», disse. «Dove sei stato?»
«In giro», rispose Jeffrey allegramente, ma il sorriso era forzato e il
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corpo rigido.
«Non dovresti nasconderti. Sei un ragazzaccio». Faye si chinò un altro
po'. Indossava un top che le lasciava scoperte le spalle, completamente.
C'era un bel po' di pelle nuda all'altezza degli occhi di Jeffrey. Ma era il
suo volto che Cassie non poteva fare a meno di guardare. Aveva labbra
carnose e sensuali e straordinari occhi color miele. Sembravano brillare di
una strana luce dorata. «Al Capri danno un nuovo film dell'orrore, questa
settimana, lo sapevi?», disse. «Io adoro gli horror, Jeffrey».
«A me non fanno né caldo né freddo», rispose Jeffrey.
Faye ridacchiò, un suono intenso e fastidioso. «Forse non ne hai ancora
visto uno con la ragazza giusta», sussurrò. «In certe circostanze, credo che
possano essere molto... stimolanti».
Cassie, imbarazzata, sentì il sangue che le arrossava le guance, anche se
nemmeno lei sapeva perché. Jeffrey si passò la lingua sulle labbra.
Sembrava attratto da quella ragazza contro la sua stessa volontà, ma anche
spaventato. Come un coniglio in trappola.
«Ho in programma di portare Sally a Gloucester per il weekend...»,
cominciò Jeffrey, tirato.
«Be', dovrai dire a Sally che... c'è stato un cambio di programma», disse
Faye, squadrandolo da cima a fondo. «Puoi passare a prendermi sabato alle
sette».
«Faye, io...».
«Oh, e non fare tardi, va bene? Odio i ragazzi che mi fanno aspettare».
Fino a quel momento, la ragazza con i capelli neri non aveva mai
guardato Cassie. Ma ora, mentre si tirava su per andarsene, la guardò. Fu
uno sguardo d'intesa, come se sapesse perfettamente che Cassie aveva
ascoltato ogni parola. Sembrava che la cosa le procurasse piacere. Poi si
voltò di nuovo verso Jeffrey.
«Oh, e comunque», disse, sollevando una mano con un gesto languido
che mise in mostra le sue lunghe unghie rosse, «anche lei abita in
Crowhaven Road».
Jeffrey spalancò la bocca, guardando Cassie con un'espressione
scioccata e disgustata, e poi si voltò di scatto fissando il muro. Faye andò a
sedersi in ultima fila ridacchiando.
"Ma che succede?", pensò Cassie disorientata. "Che importanza può
avere il mio indirizzo?". L'unica cosa che adesso riusciva a vedere di
Jeffrey-sorriso-abbagliante era la sua schiena rigida.
Non aveva tempo per pensarci, perché l'insegnante stava già parlando.
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Era un uomo dall'aspetto mite con un paio di occhiali e una barba
brizzolata. Si presentò come il professor Humphries.
«E poiché avete avuto tutti la possibilità di parlare durante le vacanze
estive, adesso vi darò l'occasione di scrivere», disse. «Componete una
poesia, in modo spontaneo. Dopo ne leggeremo qualcuna alla classe.
Potete affrontare qualunque argomento, ma se avete difficoltà a trovarne,
scrivete dei vostri sogni».
I mugugni che si levarono nell'aula cedettero poco alla volta il passo al
silenzio e alle penne mordicchiate. Cassie si chinò sul quaderno con il
cuore che le batteva velocemente nel petto. Il vago ricordo del sogno della
settimana prima – quello in cui la madre e la nonna entravano nella sua
camera – cercò di insinuarsi nella sua mente. Cassie, però, non voleva
scrivere di quel sogno. Voleva scrivere di lui.
Dopo qualche minuto buttò giù un verso. Quando il professor
Humphries disse che il tempo era scaduto, Cassie aveva la sua poesia, e
rileggendola provò un leggero brivido di eccitazione. Era buona – o
almeno lei pensava che lo fosse.
Cosa sarebbe successo se l'insegnante le avesse chiesto di leggere la
poesia davanti a tutti? Ovviamente Cassie non se lo augurava, ma se fosse
stata costretta? E se qualcun altro avesse pensato che la sua poesia era
valida e avesse voluto parlarne con lei al termine della lezione? Se le
avessero chiesto del protagonista della poesia, avrebbe potuto raccontare la
romantica e misteriosa storia che lo riguardava. Forse avrebbe cominciato
a girare la voce che anche lei era una tipa romantica e misteriosa. Forse la
ragazza nella casa vittoriana avrebbe sentito parlare di lei...
Il professor Humphries stava cercando qualche volontario. Com'era
prevedibile, nessuno si offrì. Finché qualcuno, dal fondo dell'aula, alzò la
mano.
L'insegnante esitò. Cassie si girò e vide che la mano alzata aveva lunghe
unghie rosse.
«Faye Chamberlain», disse finalmente il professor Humphries. Si sedette
sul bordo della scrivania mentre l'alta e affascinante ragazza si piazzava in
piedi al suo fianco. Cassie ebbe l'impressione che, se avesse potuto, il
professore avrebbe preferito allontanarsi. Una tensione quasi palpabile
riempì l'aula; tutti gli occhi erano puntati su Faye.
Faye si gettò la sua splendida chioma nera sulla schiena e scrollò le
spalle, facendo scivolare un poco più giù il top scollato. Inclinò con grazia
la testa all'indietro e sorrise debolmente alla classe. «Questa è la mia
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poesia», disse con voce roca e indolente. «Parla del fuoco».
Sconvolta, Cassie guardò la poesia sul suo banco. Poi la voce di Faye
catturò la sua attenzione.
Ho sognato il fuoco...
lingue di fuoco a lambirmi.
I miei capelli ardono come una torcia;
il mio corpo brucia per te.
Toccami e le tue dita mi resteranno attaccate
brucerai come cenere.
Ma ti spegnerai sorridendo;
e allora, anche tu sarai parte del fuoco.
Mentre la classe ancora la guardava stordita, sbalordita, Faye tirò fuori
un fiammifero, lo accese e in qualche modo – Cassie non capì come –
diede fuoco al foglio di carta. Toccò la carta, e la carta prese fuoco. Poi,
camminando lentamente, si diresse al banco dov'era seduto Jeffrey
Lovejoy e si fermò davanti a lui, sventolandogli davanti agli occhi il foglio
che bruciava.
L'aula cominciò a urlare, fischiare e battere le mani sui banchi. Molti
erano spaventati, ma la maggior parte di loro sembrava anche eccitata.
Pareva che alcune delle ragazze avrebbero desiderato trovare il coraggio di
fare qualcosa di simile.
Una voce urlò: «Così impari a essere tanto carino, Jeffrey!», «Dacci
dentro, fratello!», «Sta' attento, Jeff. Sally verrà a saperlo!».
Jeffrey non si mosse, non parlò, ma poco alla volta il suo viso assumeva
un colorito sempre più rosso, a chiazze.
Quando il foglio stava per bruciarle le dita, Faye lo gettò nel cestino di
metallo accanto alla scrivania dell'insegnante. Il professor Humphries non
batté ciglio quando il contenuto del cestino prese fuoco. Cassie lo ammirò
per il suo comportamento.
«Grazie, Faye», disse con calma. «Ragazzi, credo che possiamo definire
quello cui abbiamo appena assistito un esempio di... poesia concreta.
Domani affronteremo metodi più tradizionali. Potete andare».
Faye fu la prima a uscire. Ci fu una pausa e poi, come fossero stati
sganciati da una molla che li tratteneva, tutti gli altri la seguirono. Jeffrey
afferrò il suo quaderno e sparì.
Cassie guardò il foglio con la sua poesia. Fuoco. Anche lei aveva scritto
una poesia sul fuoco, come Faye...
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Strappò la pagina, l'accartocciò e la infilò nello zaino. E tanti saluti ai
suoi sogni di apparire romantica e misteriosa. Con una ragazza come
quella in giro, chi mai si sarebbe accorto di lei?
"Eppure, tutti sembrano temerla", pensò. Persino l'insegnante. "Perché
non l'ha messa in punizione? Oppure dare fuoco ai fogli di carta è normale,
qui a New Salem?".
"E perché Jeffrey si è fatto trattare in quel modo? E che gliene importa
di dove abito io, per l'amor del cielo?".
Nel corridoio, si fece coraggio e chiese a una ragazza dove fosse l'aula
C310.
«È al terzo piano», le rispose la ragazza. «Le lezioni di matematica sono
tutte al terzo piano. Prendi quella rampa di scale e...».
Uno scoppio di urla la interruppe. «Yo! Attenti! Scansatevi». Qualcuno
stava sfrecciando per il corridoio, costringendo chiunque a farsi da parte.
Erano due ragazzi. Sbalordita, Cassie si accorse che avevano dei
rollerblade ai piedi. Ridevano e urlavano mentre si facevano largo tra gli
studenti. Cassie intravide dei capelli biondi scarmigliati lunghi fino alle
spalle e un paio di occhi turchesi a mandorla – e poi, di nuovo, gli stessi
tratti anche nel secondo ragazzo. I due erano identici, tranne per una
particolarità: uno indossava una maglietta dei Megadeth e l'altro una dei
Mötley Crüe.
I due stavano causando un putiferio, facendo cascare i libri dalle mani
degli studenti e afferrando le gonne delle ragazze. Raggiunta la fine del
corridoio, uno dei due afferrò la minigonna di una graziosa studentessa dai
capelli rossi e gliela sollevò in alto, scoprendola sino alla vita. La ragazza
lanciò un urlo e lasciò cadere lo zaino per abbassarsela.
«Perché qualcuno non fa qualcosa?», sbottò Cassie. Ma erano tutti matti,
in quella scuola? «Perché qualcuno non li ferma, non chiama il preside, o
fa qualcosa...?»
«Stai scherzando? Quelli sono i fratelli Henderson», disse la ragazza
allontanandosi da Cassie e avvicinandosi un'amica. Cassie colse uno
stralcio della loro conversazione: «...non sa neppure del club...». Le due
ragazze si allontanarono dopo averla guardata un'ultima volta.
Quale club? La ragazza aveva pronunciato quella parola come se avesse
la maiuscola. Che relazione poteva esserci tra appartenere a un club e
infrangere le regole di una scuola? Che razza di posto era quello?
Suonò la campanella e Cassie si rese conto di essere in ritardo per la
lezione. Prese lo zaino, se lo lanciò in fretta sulle spalle, e raggiunse di
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corsa le scale.
Per quanto ci avesse provato, al momento dell'intervallo aveva
scambiato poco più di un "ciao" o di un "ehi" con gli altri studenti.
Nient'altro. E non aveva nemmeno visto la ragazza con i capelli luccicanti,
ma, considerati i tre piani e i numerosi corridoi della scuola, la cosa non la
meravigliava. Nel suo attuale stato d'insicurezza, Cassie non avrebbe avuto
il coraggio di avvicinarla neanche se l'avesse vista. Una sensazione
opprimente e mortificante le strinse lo stomaco.
E un'occhiata alla mensa con le pareti in vetro, brulicante di studenti
vivaci, le fece tremare le gambe.
Non ce la poteva fare. Semplicemente, non ne aveva il coraggio.
Si allontanò con le braccia incrociate sul petto. Si diresse all'entrata
principale e uscì dall'edificio. Non aveva idea di dove stesse andando –
forse a casa. Fu allora che notò il rigoglioso manto erboso della collina.
"No", decise. "Mangerò all'aperto". C'erano grosse rocce che affioravano
dal terreno. Cassie scoprì che poteva sedersi comodamente in un piccolo
incavo sotto una di esse, all'ombra di un albero. La roccia la proteggeva
dalla scuola, ed era come se quest'ultima non esistesse. Dal posto in cui era
seduta riusciva a vedere la serpeggiante rampa di scale che portava ai piedi
della collina e alla strada di sotto, ma dall'alto nessuno poteva vedere lei.
Si sedette. Mentre osservava i denti di leone sul prato, la tensione
lentamente le scivolava fuori dal corpo. Chi se ne importava se la giornata
non era cominciata nel migliore dei modi. Nel pomeriggio le cose
sarebbero migliorate. Il cielo blu sembrava dirle questo.
E la roccia alle sue spalle – il famoso granito rosso del New England –
le donò una sensazione di sicurezza. Era strano, ma riusciva quasi a sentire
un ronzio al suo interno, come un battito cardiaco iper-accelerato. Un
suono vitale. "Chissà che succederebbe se ci poggiassi sopra una guancia",
pensò Cassie con una strana eccitazione.
Delle voci la riportarono alla realtà. Impaurita, Cassie guardò oltre la
pietra... e si irrigidì.
Era quella ragazza, Faye. Con lei c'erano due amiche: la motociclista che
quella mattina per poco non l'aveva investita e un'altra ragazza con capelli
biondo paglia, una vita sottile e il seno più sviluppato che Cassie avesse
mai visto addosso a un'adolescente. Ridevano e scendevano i gradini,
dirigendosi verso di lei.
"Adesso mi alzo e le saluto", pensò Cassie, ma non lo fece. Il ricordo di
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quegli inquietanti occhi color miele non l'aveva ancora abbandonata.
Rimase in silenzio, calma, sperando che le tre passassero oltre senza
notarla e si allontanassero dal campus scendendo per il dorso della collina.
Si fermarono invece sulla radura dov'era la roccia dietro la quale si era
accucciata Cassie, si sedettero poggiando i piedi sui gradini e tirarono fuori
i sacchetti di carta con il pranzo.
Erano così vicine che Cassie riusciva a distinguere una gemma rossa che
luccicava sul petto di Faye. Anche se in quel momento era all'ombra se si
fosse mossa l'avrebbero vista. Era in trappola.
«Deborah, ci ha seguite qualcuno?», chiese Faye con indolenza mentre
rovistava nel suo zaino.
La motociclista grugnì. «Nessuno è così stupido da provarci».
«Bene. Perché quel che ci diremo è top secret. Non voglio che tu-sai-chi
senta quel che abbiamo da dirci», disse Faye. Tirò fuori un quaderno da
stenografo con una copertina rossa e se lo posò sulle ginocchia. «Allora,
vediamo, come lo inauguriamo quest'anno? Ho voglia di qualcosa di
davvero perfido».
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«Be', ci sarebbe Jeffrey...», disse la ragazza con i capelli biondo paglia.
«Già iniziato», disse Faye sorridendo. «Non perdo tempo, io, Suzan».
Suzan rise. Quando lo fece, il suo seno straordinario sobbalzò in un
modo strano: Cassie capì che la ragazza non indossava nulla, sotto il
maglioncino color albicocca.
«Ancora non capisco cosa ci troviate in Jeffrey Lovejoy», disse la
motociclista con lo sguardo corrucciato.
«Tu non trovi niente in nessun ragazzo, Deborah, è questo il tuo
problema», disse Suzan.
«E il tuo è che non riesci a pensare ad altro», ribatté Deborah. «Jeffrey è
uno dei peggiori. Ha più denti che cervello».
«I suoi denti non m'interessano», disse Faye pensierosa. «Suzan, tu con
chi hai intenzione di cominciare?»
«Oh, non saprei. Non è facile decidere. Ci sono Mark Flemming, Brant
Hegerwood e David Downey – lui è nel mio corso di recupero d'inglese, e
durante l'estate ha sviluppato un corpo da infarto. Poi ci sarebbe sempre
Nick...».
Deborah fischiò. «Il nostro Nick? Ti degnerebbe della sua attenzione
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solo se avessi quattro ruote e la frizione».
«E poi è già prenotato», disse Faye. Il suo sorriso ricordò a Cassie un
felino pronto ad attaccare.
«Ma se hai appena detto che a te interessa Jeffrey...».
«Servono entrambi a qualcosa. Chiariamo una cosa, Suzan. Io e Nick
abbiamo un... accordo. Quindi lascialo stare e scegliti un bell'esterno,
ok?».
Ci fu un momento di tensione, dopo di che la ragazza con i capelli
biondo paglia scrollò le spalle. «Ok, allora vada per David Downey. E poi
Nick non mi piaceva davvero. È un'iguana».
Deborah alzò la testa. «Ma è mio cugino!».
«È comunque un'iguana. Ci siamo baciati all'ultimo ballo studentesco,
ed è stato come baciare un rettile».
«Possiamo tornare ai nostri affari?», disse Faye. «Chi c'è sulla lista
nera?»
«Sally Waltman», disse subito Suzan. «Siccome è rappresentante di
classe crede di poterci tenere testa. E se gli soffi Jeffrey, andrà su tutte le
furie».
«Sally...», ripeté Faye tra sé. «Sì, dobbiamo pensare a qualcosa di
speciale per la nostra piccola Sally... Che succede, Deborah?».
Deborah si era irrigidita e si era voltata verso la scuola. «Allarme
intrusi», disse. «Ha l'aria di essere una vera e propria delegazione».
Anche Cassie si era accorta che un gruppo di studenti stava scendendo i
gradini, procedendo verso di loro dall'entrata principale della scuola.
Avvertì un'ondata di speranza. Forse, mentre Faye e le altre due erano
occupate con loro, lei poteva filarsela di nascosto. Con il cuore che le
batteva forte, guardò il gruppo che si avvicinava.
Un ragazzo con le spalle larghe, che era davanti agli altri e che sembrava
il leader, parlò:
«Faye, la mensa è piena zeppa. Oggi mangeremo qui... Ok?». Il suo
tono, aggressivo all'inizio, si era attenuato verso la fine, trasformando
l'affermazione in una domanda.
Faye lo guardò con indolenza, poi gli rivolse il suo solito sorriso pigro e
meraviglioso. «No», disse delicatamente. «Non è ok». E tornò a
concentrarsi sul suo pranzo.
«E perché?», urlò il ragazzo, cercando di mantenere un tono deciso.
«L'anno scorso non ce lo impedivi».
«L'anno scorso», disse Faye, «eravamo ancora matricole». Quest'anno
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siamo veterane – e siamo più cattive. Più cattive di quanto potresti mai
immaginare».
Deborah e Suzan sorrisero.
Frustrata, Cassie spostò il peso del corpo da una parte all'altra. Non c'era
stato ancora un momento in cui tutte e tre avevano guardato da un'altra
parte. "Andiamo, voltatevi", pensò disperatamente.
Gli studenti si attardarono qualche altro minuto, scambiandosi sguardi
pieni di rabbia. Ma alla fine girarono sui tacchi e tornarono alla scuola –
tranne uno.
«Ehi, Faye? Devo andarmene anche io?», chiese. Era una ragazza molto
carina, con il volto arrossato, forse una studentessa del secondo anno.
Cassie pensò che sarebbe stata allontanata come gli altri, ma con sua
sorpresa Faye inarcò le sopracciglia e la invitò a sedersi.
«Cavolo, Kori», disse, «certo che puoi restare. Pensavo che preferissi
mangiare in mensa con la Principessa della purezza e gli altri santarellini».
Kori si sedette. «Troppa bontà può annoiare», disse.
Faye inclinò la testa e sorrise. «E io che credevo che fossi una piccola e
leziosa puritana. Che sciocca sono stata», disse. «Be', lo sai che qui sei
sempre la benvenuta. Sei quasi una di noi, dico bene?».
Kori piegò la testa. «Tra due settimane compio quindici anni».
«Visto?», disse Faye alle altre. «Ha quasi tutti i requisiti. Allora, di che
stavamo parlando? Di quel nuovo film pulp, vero?».
«Esatto», disse Deborah mostrando i denti. «Quello in cui quel tipo fa a
pezzi la gente e ci fa hamburger per il suo ristorante».
Suzan stava scartando un Kit Kat. «Oh, Deborah, smettila. Mi fai venire
il voltastomaco».
«Be', tu me lo fai venire con quella roba», disse Deborah. «Non fai che
mangiarne. Ecco di cosa sono fatte le sue tette», disse a Kori indicando il
seno di Suzan. «Due Kit Kat giganti. Se la Nestlé dovesse fallire,
porterebbe di nuovo una prima».
Faye emise una risata gutturale, e persino Suzan ridacchiò. Anche Kori
stava sorridendo, anche se sembrava a disagio.
«Kori! Non ti stiamo mettendo in imbarazzo, vero?», esclamò Faye
spalancando gli occhi dorati.
«Non essere sciocca. Non m'imbarazzo per così poco», rispose Kori.
«Be', con i fratelli che hai, credo proprio di no. Eppure», proseguì Faye,
«sembri così giovane, quasi... verginale. Ma probabilmente è solo
un'impressione sbagliata, dico bene?».
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Kori arrossì. Le tre ragazze la stavano guardando con sorrisi insinuanti.
«Be', certo – cioè, è un'impressione sbagliata – non sono poi così
giovane...». Kori deglutì; sembrava confusa. «In estate sono uscita con
Jimmy Clark», concluse sulla difensiva.
«Perché non ce ne parli?», sussurrò Faye. Kori sembrava sempre più
confusa.
«Io, be', io credo che sia meglio che vada, ora. Ho una lezione di
ginnastica e devo arrivare all'ala E. Ci vediamo, ragazze». Si alzò di scatto
e se ne andò.
«Strano, ha lasciato qui il suo pranzo», constatò Faye, aggrottando
leggermente la fronte. «Oh, be'». Tirò fuori dal sacchetto di Kori un
pacchetto di tortini e li lanciò a Suzan, che ridacchiò.
Deborah era accigliata. «Non è stata una bella mossa, Faye. Avremo
bisogno di lei – tipo tra due settimane. Un posto vacante, un candidato,
ricordi?»
«Vero», disse Faye. «Oh, be', penserò io a Kori. Non preoccuparti,
quando sarà il momento si schiererà dalla nostra parte».
«Mi sa che anche noi dovremmo andare», disse Suzan. Dietro la roccia,
Cassie chiuse gli occhi per il sollievo. «Devo sbattermi fino al terzo piano
per la lezione di algebra».
«Ti ci vorranno delle ore», disse Deborah malignamente. «Ma non è
ancora il momento. Abbiamo un'altra visita».
Faye sospirò esasperata, senza voltarsi. «Chi è, ora? Che bisogna fare
per avere un po' di pace in questo posto?»
«È Madame Rappresentante d'Istituto in persona. Sally. E le stanno
fumando le orecchie».
L'espressione di fastidio sul volto di Faye si trasformò in qualcosa di più
affascinante e infinitamente pericoloso. Senza voltarsi, Faye sorrise e
mosse le lunghe dita con le unghie rosse come un gatto che agita i suoi
artigli. «E io che pensavo che sarebbe stata una giornata noiosa», mormorò
schioccando la lingua. «È proprio vero che non si può mai dire, nella vita.
Be', ciao, Sally», disse ad alta voce, alzandosi e voltandosi in un unico
movimento fluido. «Che magnifica sorpresa. Come hai trascorso le
vacanze estive?»
«Risparmiati i convenevoli, Faye», disse la nuova arrivata. Era più bassa
di Faye di circa dieci centimetri e aveva una corporatura più esile, ma le
braccia e le gambe sembravano più robuste. Teneva i pugni serrati, come
fosse pronta allo scontro fisico. «Non sono qui per chiacchierare».
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«Ma non parliamo da così tanto tempo... Cos'hai fatto ai capelli? Sono...
interessanti».
Cassie guardò i capelli di Sally. Avevano una sfumatura ramata e
sembravano arricciati e troppo gonfi. Quando Sally sollevò una mano per
nascondersi la testa, Cassie avrebbe anche riso, se non si fosse trovata in
quella orribile situazione.
«Non sono venuta per parlare dei miei capelli!», sbottò Sally. Aveva una
voce stridula che saliva di tono a ogni frase. «Sono qui per parlare di
Jeffrey. Lascialo in pace!».
Faye sorrise molto lentamente. «Perché?», bisbigliò. In contrasto con la
voce di Sally, la sua sembrava più bassa e sensuale. «Hai paura di quello
che potrebbe fare se non ci sei tu a tenergli la mano?»
«Non gli interessi!».
«È questo che ti ha detto? Mmm... Stamattina sembrava invece molto
interessato. Sabato sera mi porta al cinema».
«Lo hai costretto».
«Costretto? Stai dicendo che un ragazzo grande e grosso come Jeffrey
non è capace di dire di no?». Faye scosse la testa. «E perché non è venuto
a parlarmi di persona? Ti svelerò una cosa, Sally», aggiunse, abbassando la
voce come se stesse per rivelarle un segreto. «Oggi non si è opposto più di
tanto. Anzi, non si è opposto per niente».
Sally sollevò un braccio e prese la rincorsa come se avesse intenzione di
colpire la ragazza più grossa, ma si trattenne. «Credi di poter fare come
vuoi, Faye – tu e il resto del tuo club! Be', è ora che qualcuno ti dimostri
che le cose non stanno così. Siamo di più, molti di più, e siamo stanchi di
essere trattati a questa maniera. È ora che qualcuno faccia qualcosa».
«È questo che hai intenzione di fare?», disse Faye affabilmente. Sally le
stava girando intorno come un bulldog che cerca un varco; poi si fermò sul
limite della radura, con la schiena rivolta ai gradini che portavano ai piedi
della collina. «Sì!», urlò Sally con aria di sfida.
«Divertente», mormorò Faye, «perché avrai dei problemi stando a terra
sulla schiena». E così dicendo, allungò le lunghe dita con le unghie rosse
verso il volto di Sally.
Non la toccò. Cassie, che stava osservando attentamente la scena in
disperata attesa di un'opportunità per scappare, ne fu sicura.
Ma qualcosa colpì Sally. O almeno fu come se qualcosa l'avesse colpita.
Qualcosa d'invisibile. Di grosso. Sally, spinta all'indietro, cercò
disperatamente di mantenere l'equilibrio sul bordo del gradino. Agitando
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convulsamente le braccia, barcollò per un istante interminabile e infine
cadde schiena a terra.
In seguito, Cassie non avrebbe mai ricordato esattamente quel che era
successo dopo. Un attimo prima era accucciata dietro la roccia, al sicuro, e
un attimo dopo si era lanciata sulla ragazza e l'aveva spinta sul prato.
Cassie pensò che sarebbero rotolate entrambe ai piedi della collina, ma
chissà come si fermarono su una radura, con Cassie sotto il corpo di Sally.
«Lasciami! Mi hai strappato la maglia», esclamò una voce stridula. Un
colpo ingrato colpì lo stomaco di Cassie, mentre Sally si rialzava in piedi a
fatica. Cassie la guardò con la bocca spalancata. Era stata proprio lei a
colpirla. Quando si dice la gratitudine...
«In quanto a te, Faye Chamberlain, hai cercato di uccidermi. Ma avrai
quel che ti meriti, aspetta e vedrai!».
«Anche tu, Sally», promise Faye, sorridendo, ma la tranquillità del suo
sorriso non era più sincera. Sembrava che dietro le labbra stesse
digrignando i denti.
«Aspetta e vedrai», ripeté Sally con veemenza. «Un giorno potrebbero
trovare te in fondo alla collina con il collo spezzato». Detto questo,
cominciò a salire i gradini battendo i piedi su ognuno di essi come se
stesse calpestando il volto di Faye. Non si voltò a guardare Cassie, anzi: fu
come se non si fosse nemmeno accorta della sua esistenza.
Cassie si alzò lentamente, lanciando un'occhiata alla lunga e
serpeggiante rampa di scale che portava ai piedi della collina. Si rese conto
che non avrebbe potuto fare altro. Sally sarebbe stata fortunata se si fosse
spezzata solo il collo prima di raggiungere il fondo del burrone. Ma ora...
Si voltò a guardare le tre veterane sopra di lei.
Erano ancora ferme in una posa spontanea e naturale, ma dietro la loro
disinvolta eleganza covava la violenza. Cassie la vide nella cupa oscurità
degli occhi di Deborah e nelle labbra ricurve e perfide di Suzan. Ma,
soprattutto, la vide in Faye.
Pensò, quasi per caso, che probabilmente erano le ragazze più belle che
avesse mai visto in vita sua. Non solo per via della loro carnagione
perfetta, priva di qualsiasi traccia dei tipici difetti adolescenziali. E
neppure per gli splendidi capelli: i riccioli scuri e ribelli di Deborah, la
chioma nera come la pece di Faye e la nuvola rossiccia di Suzan. E
neppure per come vestivano, con lo stile di ciascuna che esaltava quello
delle altre anziché sminuirlo. Si trattava di qualcos'altro, qualcosa che
veniva da dentro. Un tipo di sicurezza e di padronanza che nessuna ragazza
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di sedici o diciassette anni avrebbe dovuto possedere. Una forza interiore,
una specie di energia. Un potere.
Che la terrorizzava.
«Bene, bene, guarda un po'. Chi abbiamo qui?», disse Faye con voce
roca. «Una spia? O un topolino bianco?».
"Scappa", pensò Cassie, ma le sue gambe non volevano saperne di
muoversi.
«L'ho vista stamattina», disse Deborah. «Era ferma davanti al
parcheggio delle bici e mi fissava».
«Oh, io l'ho vista ancora prima, Debby», disse Faye. «La settimana
scorsa, al numero 12. È una nostra vicina».
«Vuoi dire che lei è...», sbottò Suzan.
«Sì».
«Chiunque sia, adesso è carne morta», disse Deborah. Il suo volto
minuto era distorto da una smorfia.
«Non c'è nessuna fretta», mormorò Faye. «Anche i topi possono servire
a qualcosa. Da quanto eri nascosta dietro quella roccia?».
C'era una sola risposta a quella domanda, e Cassie si sforzò di
allontanarla. Non era il momento per fare un commento ironico. Alla fine
cedette, perché era la verità, e perché non riuscì a pensare di meglio.
«Abbastanza», disse chiudendo gli occhi.
Faye scese lentamente i gradini fino a che non fu all'altezza degli occhi
di Cassie. «Origliare le conversazioni altrui è una cosa che fai spesso?»
«Ero qui prima di voi», disse Cassie, con tutto il coraggio che riusci a
trovare. Se solo Faye avesse smesso di fissarla a quel modo. Gli occhi
della ragazza sembravano brillare di una luce innaturale e inquietante.
Erano puntati su Cassie come raggi laser che le succhiavano la volontà, le
prosciugavano ogni goccia di energia. Era come se Faye volesse
costringere Cassie a fare qualcosa – o volesse qualcosa da lei. La faceva
sentire disorientata, spiazzata e debole...
E poi avvertì un'improvvisa scarica di energia che sembrò salirle dalla
punta dei piedi. O meglio dal terreno sotto di loro, dal granito rosso del
New England che poco prima aveva sentito pulsare di vita. Quella terra le
diede forza, raddrizzandole la spina dorsale, così che la ragazza poté alzare
la testa e guardare dritta in quegli occhi dorati senza battere ciglio.
«Ero qui da prima di voi», disse con aria di sfida.
«Molto bene», mormorò Faye. C'era una strana espressione nei suoi
occhi. Poi la ragazza si voltò. «Qualcosa d'interessante nel suo zaino?».
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Cassie constatò con indignazione che Deborah stava frugando nel suo
zaino, tirando fuori le sue cose una alla volta. «Niente di che», disse la
motociclista, lanciando la borsa a terra e sparpagliandone il contenuto
sull'erba.
«Va bene». Faye stava sorridendo di nuovo, un sorriso particolarmente
spiacevole che conferiva alle sue labbra una sfumatura di crudeltà. «Avevi
ragione tu, Deborah. È carne morta». Poi guardò Cassie. «Sei nuova, e
forse non ti rendi conto dell'errore che hai commesso. E io non ho tempo
per spiegartelo. Ma lo scoprirai. Lo scoprirai da te... Cassie».
Allungò le lunghe dita con lo smalto rosso e agguantò il mento di
Cassie. Cassie avrebbe voluto scansarsi, ma i suoi muscoli erano bloccati.
Avvertì la forza di quelle dita e la durezza delle unghie lunghe e
leggermente ricurve. "Sembrano artigli", pensò. Gli artigli di un rapace.
Cassie notò che nella pietra rossa che Faye portava al collo c'era
l'immagine di una stella, una sorta di gemma a forma di stella. Lo zaffiro
brillava sotto i raggi del sole, e Cassie si accorse che non riusciva a
distogliere lo sguardo da quel bagliore.
Faye scoppiò improvvisamente a ridere e lasciò la presa.
«Andiamo», disse alle sue amiche. Le tre si girarono e cominciarono a
salire i gradini.
L'aria esplose dai polmoni di Cassie come fossero palloncini appena
bucati. Dentro di sé stava tremando. Era stato... Era stato assolutamente...
"Riprenditi! È solo la leader di una banda di adolescenti", si disse.
"Almeno il mistero del club è risolto. È una gang. Sapevi della loro
esistenza, ci sono gang di bulli dappertutto, anche se non eri mai stata in
una scuola in cui ce ne fosse una. Fintanto che starai lontana da loro e non
gli darai fastidio, andrà tutto bene".
Ma quell'esortazione suonava vuota nella sua testa. Le ultime parole di
Faye erano sembrate una minaccia. Ma che tipo di minaccia?
Nel pomeriggio, quando Cassie tornò a casa, sua madre non era al piano
di sotto. Dopo aver girato di stanza in stanza chiamandola, vide sua nonna
sulle scale. La sua espressione le fece venire un nodo allo stomaco.
«Che succede? Dov'è la mamma?»
«È di sopra, nella sua stanza. Non si sente molto bene. Ma non devi
preoccuparti...».
Cassie salì di corsa i vecchi gradini cigolanti fino alla stanza verde. La
madre, con gli occhi chiusi e il volto pallido, era distesa sopra l'enorme
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letto a baldacchino. Era leggermente sudata.
«Mamma?».
I larghi occhi neri si aprirono. La madre deglutì e si sforzò di sorridere.
Un sorriso pieno di dolore. «Credo sia solo un po' di influenza», disse, ma
la sua voce era debole e distante, una voce che ben si intonava al pallore
del volto. «Tra un paio di giorni starò meglio, tesoro. Com'è andata a
scuola?».
La bontà d'animo di Cassie lottò con la voglia di scaricarle addosso il
suo tormento. La madre sospirò debolmente e chiuse gli occhi, come se la
luce le provocasse dolore.
Vinse la bontà d'animo. Cassie si piantò le unghie nei palmi delle mani e
disse con calma: «Oh, bene».
«Hai conosciuto qualcuno di interessante?»
«Oh, puoi dirlo forte».
Non voleva preoccupare neppure la nonna. A cena, però, quando la
nonna le chiese perché fosse così silenziosa, le parole sembrarono uscire
spontaneamente dalla sua bocca.
«C'è questa ragazza a scuola... Si chiama Faye, ed è terribile. Un Attila
al femminile. E il mio primo giorno di scuola sono già riuscita a
inimicarmela». Poi le raccontò tutta la storia. Quando finì, la nonna guardò
nel camino come se fosse preoccupata.
«Le cose si sistemeranno, Cassie», disse.
"E se non fosse così?", pensò Cassie. «Oh, ne sono certa», disse.
Poi la nonna fece una cosa che la sorprese. Si guardò intorno come se
volesse accertarsi che nessuno potesse sentirla e si chinò su Cassie. «No,
Cassie, dico davvero. Lo so. Vedi, tu hai... un vantaggio speciale. Qualcosa
di molto speciale...». La voce si ridusse a un sussurro.
Cassie si sporse in avanti. «Di che si tratta?».
La nonna aprì la bocca, ma poi un lieve crepitio nel camino la distrasse e
le fece distogliere lo sguardo. Andò a sistemare i ciocchi di legno.
«Nonna, di che si tratta?»
«Lo scoprirai».
Cassie era scioccata. Era la seconda volta in un giorno che sentiva quelle
parole. «Nonna...».
«Per prima cosa, sei giudiziosa», disse la nonna, questa volta con tono
allegro. «E hai due gambe sane. Ecco, porta questo brodo a tua madre.
Non ha mangiato nulla tutto il giorno».
Quella notte Cassie non riuscì a dormire. La paura la tenne sveglia
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facendole notare più scricchiolii e tintinnii del solito, oppure c'era dell'altro
oltre ai tipici rumori di una casa antica. Ma non sapeva cosa, e non le
importava; continuava ad addormentarsi e a risvegliarsi all'improvviso.
Ogni tanto infilava una mano sotto il cuscino per toccare il pezzo di
calcedonio. Se solo fosse riuscita a dormire... avrebbe sognato lui.
Si tirò a sedere sul letto.
Poi si alzò e camminò scalza sul pavimento di legno fino allo zaino. Tirò
fuori le cose che aveva raccolto dal prato della collina, ogni penna, ogni
libro. Alla fine osservò il materiale che aveva poggiato sul copriletto.
Non si era sbagliata. Non se n'era accorta subito, era troppo preoccupata
dalla minaccia di Faye. Ma la poesia che aveva scritto quella mattina e che
aveva appallottolato per la rabbia era sparita.
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Il giorno dopo, la prima persona che Cassie vide a scuola fu Faye. Era
con altri studenti davanti all'ingresso secondario da cui Cassie aveva
deciso di entrare per non dare nell'occhio.
Del gruppo facevano parte Deborah, la motociclista, e Suzan, la bionda
pneumatica. Cassie riconobbe anche i due biondi che il giorno prima erano
sfrecciati per i corridoi della scuola con i rollerblade ai piedi. C'erano altri
due ragazzi, uno basso con un'espressione furtiva e un sorriso scaltro, e un
altro più alto, con i capelli neri e un volto freddo e affascinante. Il secondo
indossava una maglietta con le maniche arrotolate e un paio di jeans neri
come quelli di Deborah e stava fumando una sigaretta. "Nick?", pensò
Cassie, ricordando la conversazione del giorno prima. "Il rettile?".
Cassie si appiattì contro il muro di mattoni rossi e indietreggiò il più
velocemente e silenziosamente possibile. Prese l'entrata principale e corse
alla lezione di inglese.
Si sfiorò la tasca posteriore con una mano, quasi sentendosi in colpa. Era
da stupidi portarselo dietro, ma il piccolo pezzo di calcedonio la fece
sentire davvero meglio. E ovviamente era ridicolo pensare che portasse
fortuna – eppure era riuscita a entrare senza imbattersi in Faye, no?
Trovò un banco libero in fondo all'aula, sul lato opposto a quello dove
Faye era seduta il giorno prima. Non voleva trovarsi accanto a lei e
neppure averla alle spalle. Lì era protetta da un gruppo nutrito di studenti.
Ma quando si sedette, attorno a lei ci fu una specie di tramestio. Due
ragazze si spostarono più avanti, e anche il ragazzo accanto cambiò posto.
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Per un istante non riuscì a muoversi, o a respirare.
"Non essere paranoica. Solo perché si spostano non significa che tu
c'entri qualcosa". Ma non poteva fare a meno di notare che intorno a lei si
era creato il vuoto.
Faye entrò nell'aula parlando disinvolta con un Jeffrey Lovejoy
imbronciato. Cassie la vide con la coda dell'occhio e distolse subito lo
sguardo.
Non riusciva a concentrarsi sulla lezione del professor Humphrey. Come
poteva pensare con tutto quello spazio intorno a lei? Doveva trattarsi di
una coincidenza, ma la cosa la turbava lo stesso.
Al termine della lezione, quando si alzò, si sentì osservata. Faye la stava
guardando con un sorriso sulle labbra.
Poi, la ragazza abbassò lentamente una palpebra e le fece l'occhiolino.
Cassie lasciò l'aula e andò al suo armadietto. Mentre digitava la
combinazione, si accorse che c'era qualcuno vicino a lei e, sobbalzando,
riconobbe il ragazzo basso e con l'aria furtiva che quella mattina aveva
visto in compagnia di Faye.
Il suo armadietto era aperto e Cassie intravide alcuni annunci
pubblicitari di attrezzi per addominali attaccati con del nastro adesivo alla
porta. Il ragazzo le stava sorridendo. Sulla fibbia della cinta argentata e
decorata con pietre brillanti e specchiate era inciso il nome "SEAN".
Cassie gli rivolse la tipica occhiata distaccata che riservava ai bambini
cui faceva la babysitter a Reseda e aprì il suo armadietto.
E urlò.
In realtà fu più una specie di urlo strozzato, perché la gola le si chiuse.
Nel suo armadietto c'era una bambola impiccata con dello spago. La testa
della bambola, strappata via dal resto del corpo, ciondolava goffamente da
un lato. Un occhio azzurro era aperto, l'altro era socchiuso in modo
grottesco.
Sembrava che le stesse facendo l'occhiolino.
Il ragazzo la stava guardando con una strana espressione di impazienza.
Come se stesse assaporando il suo orrore. Come se questo lo inebriasse.
«Non dovresti andare dal preside a riferire l'accaduto?», disse. La sua
voce era alta ed eccitata.
Cassie lo fissò, il respiro che accelerava.
«Sì, certo, sto andando», disse subito dopo liberando la bambola dallo
spago. Dopo aver chiuso di schianto l'armadietto, si diresse verso le scale.
L'ufficio del preside era al secondo piano. Cassie pensò che avrebbe
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dovuto aspettare, ma il preside la fece accomodare appena la segretaria gli
comunicò il suo nome.
«Come posso aiutarti?». Il preside era alto, con un volto severo e ostile.
Nell'ufficio c'era un camino, notò Cassie distrattamente, e l'uomo era in
piedi, lì di fronte, con le mani dietro la schiena.
«Oh», disse Cassie con voce tremante. Non era più convinta che la sua
fosse stata una buona idea. «Sono nuova, qui a scuola. Mi chiamo Cassie
Blake...».
«So come ti chiami». La sua voce suonava secca e brusca.
«B-be'...», Cassie balbettò. «Volevo solo riferirle che... Ieri ho visto due
ragazze che litigavano, e una è stata spinta...». Ma di che stava parlando?
Stava blaterando. «E io l'ho vista, e lei mi ha minacciata. Fa parte di un
club – ma il punto è che mi ha minacciata. Avrei fatto finta di niente, ma
oggi ho trovato questa nel mio armadietto».
Il preside prese la bambola con due dita, reggendola per il vestito, come
se Cassie gli avesse dato qualcosa che il cane aveva seppellito in giardino.
Le sue labbra arricciate le ricordavano quelle di Portia.
«Molto divertente», disse. «E decisamente appropriato».
Cassie non aveva idea di cosa il preside intendesse. In che senso era
"appropriato"? Era appropriato che qualcuno impiccasse bambole nel suo
armadietto?
«È stata Faye Chamberlain», disse Cassie.
«Oh, non lo metto in dubbio», disse il preside. «Sono perfettamente
conscio dei problemi d'interazione tra la signorina Chamberlain e gli altri
studenti. Ma di questa storia – di come hai cercato di spingere Sally
Waltman giù per i gradini – sono già stato informato ieri».
Cassie lo fissò un istante, prima di esplodere: «Che avrei fatto io? Chi
gliel'ha raccontato?»
«Suzan Whittier, se non ricordo male».
«Non è vero! Non ho mai...».
«Sia quel che sia», la interruppe il preside, «credo che sarebbe meglio se
i vostri problemi ve li risolveste da voi, non credi? Invece di chiedere...
aiuto esterno».
Cassie continuava a guardarlo, ammutolita.
«È tutto». Il preside gettò la bambola nel cestino della spazzatura
provocando un rumore di plastica sordo e rimbombante.
Cassie capì che era stata congedata. Non c'era altro da fare che
andarsene.
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Era in ritardo per la lezione successiva. Mentre camminava per il
corridoio, tutti gli occhi si voltavano a guardarla. Sentì un'improvvisa
ondata di paranoia. In aula, però, nessuno cambiò banco quando si sedette.
L'insegnante stava illustrando una serie di esempi alla lavagna, quando il
suo zaino si mosse.
Si trovava per terra, dietro di lei, e con la coda dell'occhio Cassie vide un
rigonfiamento sotto il tessuto di nylon blu. O almeno pensò di averlo visto.
Quando si girò a guardare, lo zaino era immobile.
"Immaginazione.
Appena la ragazza tornò a concentrarsi sulla lavagna, lo zaino si mosse
di nuovo.
Se lo guardava non succedeva niente, ma quando si voltava verso la
lavagna, ecco che quello si muoveva. Come se qualcosa si dimenasse al
suo interno.
Dovevano essere le correnti di aria calda, o qualcosa non andava coi suoi
occhi.
Cassie spostò con molta attenzione e molto, molto lentamente, un piede
verso lo zaino. Poi, senza allontanare gli occhi dalla lavagna, sollevò il
piede e lo abbassò di colpo sul "rigonfiamento".
Sotto il piede, sentì solo la copertina dura del libro di francese.
Si rese conto che stava trattenendo il fiato solo quando buttò fuori l'aria.
I suoi occhi si chiusero per il sollievo...
E poi, qualcosa sotto il piede si mosse. Lo sentì sotto la sua Reebok.
Cassie balzò in piedi lanciando un urlo lacerante.
«Qual è il problema?», urlò l'insegnante. Adesso tutti la stavano
fissando.
«C'è qualcosa.... qualcosa nel mio zaino. Si è mosso». Cassie fece un
grosso sforzo per non afferrare il braccio dell'insegnante. «No, non... Non
lo tocchi...».
L'insegnante allontanò Cassie, aprì lo zaino, vi infilò una mano dentro e
tirò fuori un serpente di gomma.
Gomma.
«Dovrebbe essere divertente?», le chiese l'insegnante.
«Non è mio», disse stupidamente Cassie. «Non ce l'ho messo io».
Fissava ipnotizzata la testa floscia e ciondolante del serpente di gomma,
la lingua nera che gli pendeva fuori dalla bocca. Sembrava vero, ma era
inanimato. "Carne morta?".
«Si è mosso», sussurrò. «L'ho sentito muoversi... O almeno così
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credevo. Dev'essermi scivolato il piede».
La classe la guardava in silenzio. Cassie credette di vedere qualcosa di
simile alla pietà negli occhi dell'insegnante, ma durò solo un istante.
«Va bene, ragazzi. Torniamo al lavoro», disse l'insegnante, poggiando il
serpente sulla scrivania e tornando alla lavagna. Cassie passò il resto della
lezione con gli occhi incollati sull'animale di gomma. Ma quello non si
mosse più.
Dalle pareti in vetro della mensa Cassie vedeva gli studenti che
scherzavano e parlavano tra loro. La lezione di francese era passata in un
attimo. E la paranoia, la sensazione che la gente la evitasse di proposito,
aumentava.
"Devo uscire", pensò, ma ovviamente era una sciocchezza. Ricordò le
conseguenze della decisione di mangiare all'aperto del giorno prima. No,
oggi avrebbe fatto quel che avrebbe dovuto fare ieri: sarebbe entrata e
avrebbe chiesto a qualcuno di sedersi accanto a lui.
"Va bene. Fallo". Sarebbe stato più facile senza quel mal di testa.
"Mancanza di sonno", pensò Cassie.
Si fermò con il vassoio pieno davanti a un tavolo quadrato occupato da
due ragazze. Sembravano tipe a posto e, cosa più importante, avevano
l'aria di essere studentesse del secondo anno. Sarebbero state felici di avere
una matricola al loro tavolo.
«Ciao», si sentì dire con voce impersonale ma educata. «Posso
sedermi?».
Le ragazze si scambiarono un'occhiata. Cassie quasi riuscì a interpretare
i loro sguardi telegrafici e frenetici. Poi, una di loro parlò: «Certo... siediti
pure. Ma noi stavamo andando via», disse. Prese il vassoio e si diresse al
bidone della spazzatura. L'altra ragazza guardò il proprio vassoio per un
istante, confusa. Poi imitò l'amica.
Cassie rimase ferma, come avesse messo radici in quel quadrato di
mattonelle.
"Ok... Non ti è andata bene... Hai beccato due che se ne stavano
andando, ok. Ma non c'è motivo di allarmarsi".
Anche se erano andate via a metà del pranzo?
Compiendo uno sforzo supremo, Cassie si spostò verso un tavolo
rotondo con sei posti a sedere. C'era solo una sedia libera.
"Non chiedere", pensò. "Siediti e basta". Poggiò il vassoio davanti alla
sedia, si sfilò lo zaino dalle spalle e si sedette. Gli occhi incollati sul
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vassoio, si concentrò su un pezzo di salame piccante che le faceva
l'occhiolino dal trancio di pizza. Non voleva dare l'impressione di chiedere
il permesso a chiunque.
La conversazione al tavolo morì. Poi Cassie sentì un rumore di sedie
spostate.
"Oh mio Dio, non ci credo non ci credo non sta succedendo non è
vero...".
Ma era così. Il suo incubo peggiore. Qualcosa di molto peggio di una
bambola impiccata o di un serpente di gomma.
In una nube di irrealtà, alzò la testa e vide che tutti stavano lasciando il
proprio posto, portandosi dietro il pranzo. A differenza delle due ragazze
del secondo anno, però, non stavano andando al bidone della spazzatura.
Semplicemente, si sedevano ad altri tavoli, uno qui, uno là, ovunque ci
fosse un posto libero.
Lontano da lei. Ovunque, ma lontano da lei.
«Mamma?», disse Cassie fissando gli occhi chiusi sotto le folte ciglia
nere che risaltavano sul volto pallido.
Non capiva come avesse fatto a trascorrere il resto della giornata a
scuola. Ma il peggio era che, tornata a casa, la nonna le aveva detto che le
condizioni di sua madre si erano aggravate. Non di molto, niente di cui
preoccuparsi, ma erano peggiorate. Aveva bisogno di pace e tranquillità.
Aveva preso un sonnifero.
Cassie guardava le occhiaie scure di sua madre sotto gli occhi chiusi. La
donna aveva una brutta cera. Sembrava fragile. Vulnerabile. E talmente
giovane.
«Mamma...», disse con tono supplichevole ma vuoto. La madre si agitò,
e una fitta di dolore le attraversò il volto. Poi s'immobilizzò di nuovo.
Cassie notò che sua madre scivolava sempre più nel suo torpore. Non
c'era nessuno che potesse aiutarla.
Si girò e lasciò la stanza.
Nella sua camera, mise il pezzo di calcedonio nel portagioie e non lo
toccò più. E tanti saluti alla fortuna.
Gli scricchiolii e i fruscii della casa la tennero sveglia anche quella notte.
Giovedì mattina trovò un uccello nel suo armadietto. Un gufo impagliato
che la fissava con i suoi scintillanti occhi gialli e tondi. Cassie richiamò
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l'attenzione di un bidello e glielo indicò con la mano che le tremava. Il
bidello se ne sbarazzò.
Nel pomeriggio trovò un pesce rosso morto. Lo raccolse con un foglio di
carta piegato a mo' di imbuto. Non si avvicinò più al suo armadietto per il
resto della giornata.
E non si avvicinò neppure alla mensa. Trascorse l'ora dell'intervallo
nell'angolo più remoto della biblioteca.
Fu lì che rivide la ragazza.
La ragazza con i capelli luccicanti, la ragazza che credeva non avrebbe
mai più incontrato. Non c'era da meravigliarsi che non l'avesse mai vista
fino a quel momento. In quei giorni, Cassie si stava muovendo per la
scuola come un'ombra, camminando con gli occhi fissi sul pavimento, e
non rivolgendo la parola a nessuno. Non sapeva neppure perché ci
restasse, a scuola. Forse perché non sapeva dove altro andare. E se la
ragazza l'avesse vista, probabilmente avrebbe cambiato direzione. Il
pensiero di essere respinta anche da lei, come aveva fatto chiunque altro
nella scuola, risultò intollerabile a Cassie.
Ma in quel momento, Cassie sollevò la testa dal banco in fondo alla
biblioteca e vide qualcosa che riluceva, come un fascio di raggi solari.
Quei capelli. Erano esattamente come li ricordava, incredibilmente
lunghi, di un colore irreale. La ragazza stava scherzando con la
bibliotecaria al banco dell'accoglienza. Cassie avvertiva la radiosità della
sua presenza dall'altra parte della sala.
Ebbe l'impulso sfrenato di saltare in piedi e correrle incontro. E poi...
cosa? Non lo sapeva. Ma era quasi impossibile tenere a bada
quell'impulso. La gola le faceva male, le lacrime le riempirono gli occhi.
Si rese conto di essere in piedi. Le sarebbe corsa incontro, e poi... e poi...
Una miriade di immagini si accumulò nella sua mente: la madre che
l'abbracciava quando era bambina, che le medicava un ginocchio
sbucciato, che la riempiva di baci. Benessere. Aiuto. Amore.
«Diana!».
Una seconda ragazza la raggiunse di corsa. «Diana, ma lo sai che ore
sono? Muoviti!».
Cominciò a spintonare la ragazza con i capelli luccicanti, ridendo e
salutando la bibliotecaria. Un istante dopo erano sparite.
Cassie rimase sola. La ragazza non aveva mai guardato dalla sua parte.
Venerdì mattina Cassie si fermò davanti al suo armadietto. Non aveva
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nessuna voglia di aprirlo, anche se esercitava su di lei uno strano fascino.
Non riusciva a sopportare l'idea di non sapere cosa ci fosse dentro.
Digitò lentamente la combinazione. Ogni suo movimento era ben
marcato.
La porta dell'armadietto si aprì.
Questa volta, Cassie non riuscì neppure a urlare. Sentì i suoi occhi che si
spalancavano come quelli del gufo impagliato. Dalla bocca le uscì un
gemito sordo. Lo stomaco le si rivoltò. Il tanfo...
Il suo armadietto era pieno di hamburger. Crudi e rossi come pezzi di
carne spellati, con una sfumatura violacea nei punti in cui stavano
marcendo. Chili e chili di carne. Puzzavano come...
Carne. Carne morta.
Cassie chiuse l'armadietto di colpo, facendo cadere alcuni hamburger
gocciolanti sul fondo. Si voltò di scatto e scappò via, con la vista
annebbiata.
Una mano la bloccò. Cassie pensò a un'offerta di aiuto. Poi qualcuno le
strappò lo zaino dalle spalle.
Si girò e vide un bellissimo viso imbronciato. Occhi scuri e maliziosi.
Una giacca da motociclista. Deborah lanciò lo zaino oltre la testa di
Cassie, che cercò di prenderlo al volo seguendone la traiettoria
istintivamente.
Girandosi per afferrare lo zaino, vide dei capelli biondi lunghi fino alle
spalle. Occhi a mandorla turchesi con un pizzico di follia. Una bocca che
rideva. Era uno dei ragazzi con i rollerblade... Uno dei fratelli Henderson.
«Welcome to the jungle», cantò. Poi lanciò lo zaino a Deborah che lo
prese al volo intonando un altro verso della canzone.
Cassie non poteva fare altro che correre da una parte all'altra, tra i due
ragazzi che si scambiavano il suo zaino, avanti e indietro, come un gatto
che insegue un topo o un gomitolo.
Gli occhi le si riempirono di lacrime. Le risate e la canzone risuonavano
nelle sue orecchie, sempre più alte e più veloci.
Un braccio scuro entrò improvvisamente nel suo campo visivo. Una
mano afferrò lo zaino al volo. Le risate morirono.
Cassie si voltò, e attraverso una coltre di lacrime vide il volto freddo e
affascinate del ragazzo con i capelli neri che due giorni prima aveva notato
insieme a Faye... Davvero erano passati solo due giorni?
Indossava una maglietta diversa dalla volta precedente, con le maniche
arrotolate, e gli stessi jeans neri e logori.
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«Ehi, Nick», si lamentò uno dei fratelli Henderson. «C'hai rovinato il
divertimento».
«Sparite», fece Nick.
«Sparisci tu», ringhiò Deborah alle spalle di Cassie. «Io e Doug stavamo
solo...».
«Sì, "stavamo solo"...».
«Sta' zitto». Nick guardò l'armadietto di Cassie con i brandelli di carne
che penzolavano dal bordo di metallo, e restituì lo zaino a Cassie. «Tu,
vattene», ordinò.
Cassie lo guardò negli occhi. Erano marroni, come il mogano dei mobili
della nonna. E, come i mobili, sembravano riflettere le luci del soffitto su
di lei. Non erano ostili, non proprio. Solo... distaccati. Come se nulla
riuscisse a toccarli.
«Grazie», gli disse, ricacciando indietro le lacrime.
Vide qualcosa brillare in quegli occhi scuri. «Non devi ringraziarmi»,
disse Nick. La sua voce era come un vento gelido, ma a Cassie non
interessava. Prese lo zaino e se ne andò.
Fu durante l'ora di fisica che le consegnarono il biglietto.
Una certa Tina lo lasciò cadere sul suo banco, cercando di farlo sembrare
un gesto casuale. Poi andò a sedersi al lato opposto dell'aula. Cassie
squadrò il foglio di carta piegato come se, toccandolo, potesse bruciarsi le
dita. Sopra, con una calligrafia che riusciva a essere elaborata e discreta
allo stesso tempo, c'era il suo nome.
Cassie spiegò il foglio con molta lentezza.
Cassie, vediamoci alla fine delle lezioni nel vecchio istituto di scienze, al secondo
piano. Credo che potremmo aiutarci a vicenda.
Un'amica.
Cassie fissò le parole fino a che non cominciarono a sfocarsi. Terminata
la lezione, costrinse Tina in un angolo.
«Chi ti ha detto di darmelo?».
La ragazza guardò il bigliettino come se ne ignorasse l'esistenza. «Di che
stai parlando? Io non...».
«Sì che lo sai. Chi te l'ha dato?».
Tina si guardò intorno. Poi sussurrò: «Sally Waltman, va bene? Ma mi
ha detto di non dirlo a nessuno. Ora devo andare».
Cassie la bloccò. «Dov'è il vecchio istituto di scienze?»
«Senti...».
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«Dov'è?».
Tina sibilò: «Sull'altro lato dell'ala E, dietro il parcheggio. Lasciami
andare, ora!». Dopo essersi liberata dalla presa di Cassie, Tina si allontanò
di corsa.
"Un'amica", pensò Cassie ironicamente. Un'amica le avrebbe parlato
davanti a tutti, un'amica quel giorno non l'avrebbe abbandonata da sola con
Faye. Le avrebbe detto: "Grazie per avermi salvato la vita".
Ma forse era pentita.
Il vecchio istituto di scienze sembrava abbandonato; c'era un lucchetto
all'entrata, ma qualcuno l'aveva forzato. Cassie spinse la porta e quella si
aprì.
Dentro era buio, e la ragazza riuscì a distinguere solo una rampa di scale.
Cominciò a salirle usando una mano appoggiata al muro come guida.
Arrivata in cima, notò qualcosa di strano. Le sue dita stavano toccando
qualcosa di... morbido. Quasi peloso. Mosse le dita davanti alla faccia,
aguzzando la vista. Fuliggine?
Qualcosa si mosse nella stanza, proprio di fronte a lei.
«Sally?». Cassie fece un passo prudente. Si chiese per quale motivo
dalle finestre entrasse così poca luce. Riusciva a intravedere solo qualche
spiraglio di sole che penetrava qua e là nella stanza. Mosse un altro passo
strascicato, poi un altro, e un altro ancora.
«Sally?».
Quando pronunciò di nuovo il suo nome, il suo cervello stanco capì.
Non si trattava di Sally. Chiunque – o qualunque cosa – ci fosse là dentro,
non era Sally.
"Torna indietro, idiota. Esci. Adesso".
Si voltò goffamente e sgranò gli occhi che si stavano abituando al buio,
in cerca dell'oscurità più fitta della rampa di scale...
E improvvisamente entrò una luce fortissima, aggredendola,
accecandola. Sentì uno scricchiolio straziante e nella sala entrò altra luce.
Capì che proveniva da una delle finestre chiusa con le assi. Davanti a lei
c'era qualcuno con un pezzo di legno in mano.
Si girò di nuovo verso le scale. Ma alle sue spalle c'era qualcun altro.
Ormai la sala era abbastanza illuminata da permetterle di distinguere i
lineamenti della ragazza che le andava incontro.
«Ciao, Cassie», disse Faye. «Temo che Sally non ce l'abbia fatta a
venire. Ma forse noi due potremmo aiutarci a vicenda».
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«L'hai mandato tu, il bigliettino», disse Cassie con voce piatta.
Faye le rivolse il suo terribile sorriso indolente. «Chissà perché ho
pensato che se lo avessi firmato col mio nome non saresti venuta», rispose.
"E io ci sono cascata!", pensò Cassie. "Ha istruito quella Tina su cosa
doveva dirmi... E io mi sono bevuta tutto".
«Ti sono piaciuti i miei regalini?».
Gli occhi di Cassie si bagnarono di lacrime. Non riusciva a
controbattere. Si sentiva logorata, indifesa... Se solo fosse riuscita a
pensare.
«Hai dormito male di recente?», continuò Faye con voce roca e
innocente. «Hai una bruttissima cera. O forse sono i sogni a tenerti
sveglia?».
Cassie si gettò una veloce occhiata alle spalle. L'unica via di fuga era
bloccata da Suzan.
«Oh, non è ancora il momento di andare», disse Faye. «Non mi sognerei
neppure di lasciarti andare».
Cassie la fissò: «Faye, lasciami in pace...».
«Continua a sognare», disse Deborah ridendo selvaggiamente.
Cassie non capiva, ma poi si accorse che Faye aveva un foglio in mano.
Era spiegato, ma era chiaro che in precedenza era stato appallottolato.
La sua poesia.
La rabbia ebbe il sopravvento sulla stanchezza. Divampò con così tanta
forza che per un istante Cassie si sentì piena di energia, come spinta in
avanti dal furore. Si lanciò su Faye urlando: «È mia!».
Faye fu colta di sorpresa. Barcollò all'indietro per schivarla, tenendo la
poesia fuori dalla sua portata.
Qualcuno afferrò le braccia di Cassie e gliele bloccò dietro la schiena.
«Grazie, Deborah», disse Faye leggermente senza fiato. Poi si rivolse a
Cassie: «Immagino che anche un topolino bianco sia in grado di reagire.
Bisogna che me lo ricordi. Ma ora», continuò, «è tempo di improvvisare
un reading di poesia. Mi dispiace che l'atmosfera non sia più... appropriata,
ma che vogliamo farci? Un tempo questo era il laboratorio di scienze, ma
ormai è abbandonato da tempo. Da quando Doug e Chris Henderson fecero
un piccolo errore nel corso di un esperimento di chimica. Probabilmente
hai conosciuto i fratelli Henderson – è difficile che passino inosservati.
Sono carini, ma un po' imprudenti. Costruirono accidentalmente una
bomba».
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Adesso che i suoi occhi si erano abituati alle tenebre, Cassie vide che il
laboratorio era bruciato. Le pareti erano nere di fuliggine.
«Ovviamente qualcuno pensa che questo non sia un posto sicuro»,
continuò Faye, «così lo tengono chiuso a chiave. Ma una sciocchezza del
genere non può certo fermarci. E poi è riservato. Possiamo fare tutto il
rumore che vogliamo e nessuno ci sentirà».
La stretta di Deborah le faceva male, ma Cassie riprese a dimenarsi
quando Faye si schiarì la gola per cominciare a leggere.
«Vediamo... I miei sogni, di Cassie Blake. Be', è un titolo originale, devo
dire».
«Non hai nessun diritto...», cominciò Cassie, ma Faye la ignorò. Prese a
leggere con voce melodrammatica e teatrale: «"Ogni notte mi addormento
e ho un'unica speranza"...».
«È personale!», urlò Cassie.
«"Rivedere colui che mi baciò risvegliando la mia fantasia"...».
«Lasciami andare!».
«"Ho trascorso un'ora sola in sua compagnia"...».
«Non è giusto...».
«"E da allora nei miei giorni il fuoco avvampa e danza"». Faye alzò la
testa. «Che te ne pare, Deborah?»
«Fa schifo», disse Deborah strattonando le braccia di Cassie che cercava
di divincolarsi. «È una cretinata».
«Oh, non direi. C'è qualche bella immagine. Quella del fuoco, per
esempio. Ti piace il fuoco, Cassie?».
Cassie s'irrigidì. La voce roca e indolente aveva una sfumatura nuova
che Cassie riconobbe all'istante. "Pericolo", si disse.
«Pensi spesso al fuoco, Cassie? Lo sogni la notte?».
Cassie guardò Faye con la bocca secca. I suoi occhi color miele erano
caldi, brillanti. Eccitati.
«Ti va di vedere un trucco pirotecnico?».
Cassie scosse la testa. In quel momento si rese conto che l'umiliazione
non era il male peggiore. Per la prima volta in quella settimana aveva
paura, ma per la sua vita, non per l'orgoglio.
Faye fece schioccare il foglio di carta e lo trasformò in un cono da cui
fuoriuscivano delle fiamme.
«Perché non ci dici a chi è dedicata, Cassie? Questo ragazzo che ti ha
risvegliata... Chi è?».
Cassie spostò la testa indietro per sfuggire alle fiamme che le
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guizzavano davanti al viso.
«Fa' attenzione», disse ironicamente Deborah. «Non avvicinarla troppo
ai capelli».
«Intendi così vicino?», disse Faye. «O così?».
Cassie fu costretta a torcere il collo per evitare la fiamma. Brandelli di
carta bruciata volavano in tutte le direzioni. La luce viva del fuoco le
rimase impressa nell'iride, come quando si guarda troppo a lungo il sole.
Avvertiva il calore che le bruciava la pelle.
«Ops, era troppo vicino. Credo comunque che le sue ciglia siano
decisamente lunghe, vero, Deborah?».
Adesso Cassie stava lottando per liberarsi, ma Deborah era
incredibilmente forte. E più si dimenava, più la stretta della ragazza le
procurava dolore.
«Lasciami andare», annaspò.
«Credevo che il fuoco ti piacesse, Cassie. Guardalo. Cosa vedi?».
Cassie non voleva obbedire, ma non riuscì a trattenersi. Il foglio avrebbe
già dovuto essersi consumato, ma continuava a bruciare. "Giallo", pensò
Cassie. "Il fuoco è giallo e arancione, non rosso come dicono".
Tutti i suoi sensi erano concentrati sulla fiamma. Il calore le intorpidiva
le guance, sentiva la pelle sempre più secca. Udiva il foglio che crepitava,
la puzza di bruciato. Ma non riusciva a vedere altro.
Cenere grigia e fiamme gialle. Sul fondo la fiamma era blu, come quella
sprigionata da una macchina a gas. Il fuoco cambiava forma ogni secondo,
la sua radiosità saliva all'infinito verso l'alto. Sfogando tutta la sua
energia...
Energia.
"Il fuoco è potere", pensò. Riusciva quasi a sentire la forza della fiamma
dorata. Non era nulla di simile alla vasta quiete del cielo e del mare, o alla
solidità della roccia. Questa era una forza attiva. Un potere di cui
approfittare, da usare...
«Sì», sussurrò Faye.
Quel suono risvegliò Cassie dalla sua trance. "Non essere folle", si disse.
Le sue fantasie sul fuoco si dissolsero. "Questo è ciò che ti succede quando
dormi poco. Quando lo stress si fa insopportabile e scopri di aver esaurito
ogni risorsa". Cassie stava impazzendo.
Cominciò a piangere; le lacrime le scivolarono lungo le guance.
«Oh, dopotutto è solo una bambina», disse Faye, con una nota di feroce
disgusto nella voce. Disgusto, certo, e qualcosa che poteva sembrare
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delusione. «Andiamo, bambina, non sei capace di piangere più forte? Se
piangi più forte, forse riuscirai a spegnerla».
Cassie singhiozzava dondolando la testa avanti e indietro mentre le
fiamme si facevano sempre più vicine. Così vicine che qualche lacrima vi
cadde sopra. Cassie non stava più pensando; era semplicemente
terrorizzata. Come un animale in trappola, un disperato e patetico animale
in trappola.
Carne morta carne morta carne morta carne morta.
«Che state facendo? Lasciala andare... Subito!».
La voce arrivò dal nulla, e sulle prime Cassie non cercò neppure di
localizzarla. Tutto il suo essere era concentrato sul fuoco che, dopo
un'ultima e improvvisa fiammata, si spense in una nuvola soffice di cenere
grigia. Faye rimase con un cono di carta bruciacchiato in mano.
«Ti ho detto di lasciarla!». Qualcosa di splendente investì Deborah, ma
non splendente come il fuoco. Splendente come i raggi del sole. O della
luna, quando è piena e talmente luminosa che puoi addirittura leggere.
Era lei.
La ragazza della casa gialla, la ragazza con i capelli scintillanti. Cassie
era sbalordita, la fissava come se la vedesse per la prima volta.
Era alta quasi quanto Faye, ma per il resto erano completamente diverse.
Faye era prosperosa, lei era magra. Faye era vestita di rosso e lei di bianco.
Faye aveva una folta chioma di capelli neri, lei aveva capelli lunghi, lisci e
scintillanti – come la luce che filtrava dalle finestre.
E ovviamente era bellissima, più bella da vicino di quanto aveva intuito
Cassie quando l'aveva vista da lontano. Ma era una bellezza così diversa
da quella di Faye che difficilmente si poteva pensare che fossero la stessa
cosa. Quella di Faye era mozzafiato ma spaventosa. I suoi strani occhi
dorati erano incantevoli, ma ti facevano venir voglia di fuggire.
Questa ragazza, invece, sembrava appena uscita da una vetrata colorata.
Per la prima volta Cassie vide i suoi occhi, verdi e brillanti, come se
qualcosa li illuminasse dall'interno. Il rosa sulle guance era il suo colore
naturale, non si trattava di trucco.
Il petto le andava su e giù per l'indignazione, e la voce, benché chiara e
musicale, era piena di rabbia.
«Quando Tina mi ha detto di aver consegnato un bigliettino da parte tua,
ho capito che avevi qualcosa in mente», disse. «Ma questo è inconcepibile!
Per l'ultima volta, Deborah, lasciala andare!».
Lentamente, con riluttanza, Deborah allentò la presa.
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«Guardatevi... Avreste potuto farle davvero male!», esplose la ragazza
con i capelli biondi. Stava ripulendo il volto di Cassie dalla cenere e dalle
lacrime con un fazzoletto. «Stai bene?», le chiese dolcemente.
Cassie riusciva solo a guardarla. La ragazza scintillante era venuta a
salvarla. Era come se fosse uscita da un sogno.
«È spaventata a morte», disse la ragazza a Faye. «Come hai potuto,
Faye? Come puoi essere così crudele?»
«Mi viene naturale», mormorò Faye. I suoi occhi socchiusi erano scuri.
Come il volto di Deborah.
«In quanto a te, Suzan... Sono veramente stupita. Non ti rendi conto che
tutto questo è sbagliato?».
Suzan biascicò qualcosa e distolse lo sguardo.
«Perché volevate farle del male? Chi è questa ragazza?». Mentre
spostava lo sguardo da Faye alle altre, teneva un braccio intorno alle spalle
di Cassie, in un gesto protettivo. Nessuna delle tre rispose.
«Mi chiamo Cassie», disse Cassie. La voce le tremò e lei provò a
fermarla. Sentiva solo il braccio della ragazza sulle sue spalle. «Cassie
Blake», riuscì a finire. «Mi sono trasferita a New Salem un paio di
settimane fa. Sono la nipote della signora Howard».
La ragazza sembrava sorpresa. «La signora Howard? Quella del numero
12? Vivi con lei?».
La paura attanagliò Cassie. Ricordava ancora la reazione di Jeffrey
quando aveva scoperto dove abitava. Sarebbe morta, se la ragazza avesse
reagito allo stesso modo. Annuì con aria triste.
La ragazza bionda si voltò di scatto verso Faye. «Allora è una di noi!
Una nostra vicina!», disse seccamente mentre Faye strabuzzava gli occhi.
«Oh, non credo proprio», disse Faye.
«È solo mezza...», cominciò Suzan.
«Sta' zitta!», sbottò Deborah.
«È una vicina», ripeté la bionda caparbiamente. Poi guardò Cassie. «Mi
dispiace; non sapevo che ti fossi trasferita a New Salem. Se lo avessi
saputo», disse, lanciando un'occhiata piena di rabbia a Faye, «sarei venuta
a salutarti. Io abito all'inizio di Crowhaven Road, al numero 1». Strinse
Cassie in un altro abbraccio protettivo. «Andiamo. Se vuoi, ora ti
riaccompagno a casa».
Cassie annuì. Avrebbe accettato felicemente anche se le avesse chiesto di
buttarsi da una finestra.
«Non mi sono ancora presentata», disse la ragazza, fermandosi un attimo
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prima di imboccare le scale. «Mi chiamo Diana».
«Lo so».
Diana aveva una Integra Acura blu. Prima di salirci, chiese a Cassie se
voleva prendere qualcosa dal suo armadietto.
Cassie scosse la testa e scrollò le spalle.
«Perché no?».
Dopo una breve esitazione, Cassie le raccontò ogni cosa.
Diana ascoltava con le braccia conserte, tamburellando con le dita
sempre più velocemente mano a mano che la storia proseguiva. I suoi
occhi verdi cominciarono a brillare di una furia quasi incandescente.
«Non preoccuparti di niente», fu tutto quello che Diana disse alla fine
del racconto. «Dirò al bidello di ripulirti l'armadietto. Per ora,
andiamocene da qui».
Si sedette al posto di guida dicendo a Cassie di non stare in pensiero per
la Golf. «Sistemeremo anche questo, dopo». E Cassie le credette. Se Diana
diceva che avrebbero sistemato anche questo, allora così sarebbe stato.
Sicuro.
Durante il tragitto, Cassie non riuscì a far altro che guardare una ciocca
dei lunghi e lucenti capelli di Diana che le era scivolata sul freno a mano.
Sembrava di seta, del colore dei raggi del sole. O, meglio, dei raggi del
sole e della luna. Per un istante, in un angolo della mente di Cassie spuntò
un pensiero su qualcun altro i cui capelli non erano di un solo colore, ma
quando cercò di afferrarlo quello era già andato via.
Per quanto desiderasse scoprire se quei capelli fossero anche soffici
come la seta, non ebbe il coraggio di toccarli. Invece, tentava di prestare
ascolto alle parole di Diana.
«...E non capisco cosa le prenda, a Faye. A volte non pensa. Non si
rende conto di cosa fa».
Lo sguardo di Cassie si spostò prudentemente sul volto di Diana. Era
convinta che Faye sapesse benissimo quel che faceva, ma non lo disse. Si
stavano avvicinando alla bella casa vittoriana.
«Andiamo», disse Diana smontando dall'auto. «È meglio che ti dai una
ripulita prima di tornare a casa tua».
Una ripulita? Cassie si rese conto di quello che intendeva quando Diana
l'accompagnò nel bagno in stile antico al secondo piano. Il cardigan grigio,
le mani e i jeans erano ricoperti di fuliggine. I capelli erano un disastro. Il
trucco e le lacrime le avevano impiastricciato il volto. Sembrava un'orfana
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di guerra.
«Ti presto qualcosa da metterti mentre diamo una pulita ai tuoi vestiti.
Intanto puoi lavarti qui». Diana stava rovesciando dell'acqua calda e
qualcosa di profumato in una vasca da bagno con i piedi a zampa di leone.
Poi preparò un asciugamano, il bagnoschiuma e lo shampoo con una
velocità che stupì Cassie.
«Lascia i tuoi vestiti fuori. Dopo, potrai mettere questo», disse,
appendendo un accappatoio bianco e soffice sulla maniglia della porta.
«Ok, hai tutto quello che ti occorre».
Quando la ragazza uscì, Cassie rimase a fissare la porta chiusa del
bagno. Poi guardò lo specchio leggermente appannato e la vasca. Aveva
freddo e si sentiva indolenzita. I muscoli le tremavano per la tensione.
L'acqua calda e profumata sembrava perfetta e quando vi si immerse emise
un sospiro involontario di beatitudine.
"Oh, che meraviglia", pensò mentre scivolava nell'acqua calda. "Proprio
ciò che ci voleva". Rimase per un po' a mollo, lasciando che il calore le
penetrasse nelle ossa e il profumo le riempisse i polmoni. Quel bagno
sembrò staccare le ultime ragnatele dalla sua mente.
Si grattò la sporcizia dal viso e dal corpo con una spugna da bagno.
Anche lo shampoo aveva un buon odore. Quando uscì dalla vasca e si
avvolse nell'ampio accappatoio bianco e spugnoso, si sentiva più pulita,
calda e rilassata di quanto riuscisse a ricordare a partire dal momento in cui
sua madre le aveva annunciato che sarebbero partite. Ancora non era
convinta che tutto questo stesse succedendo per davvero, ma si sentiva
comunque riempita di luce.
"Il bagno è all'antica, ma non in un'accezione negativa: più vintage che
vecchio", decise Cassie. Asciugamani graziosi, barattoli colorati con sali
da bagno e quel che sembrava un potpourri lo rendevano molto
accogliente.
Dopo aver infilato le soffici pantofole che Diana le aveva prestato, uscì
dal bagno.
La porta dall'altra parte del corridoio era socchiusa. Cassie bussò piano,
esitando; poi l'aprì e si fermò sulla soglia.
Diana era seduta alla finestra, china sul cardigan grigio di Cassie che
teneva fermo sulle ginocchia. Sopra di lei, davanti al vetro, dondolavano
dei prismi cullati dal vento. Trapassandoli, il sole creava nella stanza
piccoli triangoli dei colori dell'arcobaleno: sfumature violetto, verde e
arancione che scivolavano in strisce di luce sui muri e danzavano sul
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pavimento, sulle braccia di Diana, sulla sedia. Era come se Diana fosse nel
mezzo di un caleidoscopio. "Ecco perché la finestra risplendeva a quel
modo", pensò Cassie.
Diana alzò la testa e sorrise.
«Entra pure. Stavo togliendo la fuliggine dal cardigan».
«Oh, è di cachemire...».
«Lo so. Non preoccuparti». Diana prese il libro aperto sul davanzale
della finestra e lo mise dentro un grosso armadio a muro. "Lo sta
chiudendo a chiave", notò Cassie. Poi la ragazza uscì dalla stanza con il
cardigan in mano.
Cassie guardava incuriosita la sedia sotto la finestra. Non c'era nessuno
smacchiatore. Solo un sacchetto di potpourri e quella che sembrava una
parte di una collezione di pietre.
La stanza era magnifica. Riusciva ad abbinare bei mobili dall'aria antica
con oggetti moderni, come se in quello spazio il passato e il presente
coesistessero in armonia.
Le tende del letto erano azzurro pallido, leggere e ariose, con un delicato
motivo di piante rampicanti. Sulle pareti, invece dei poster cinematografici
o delle foto dei modelli, c'erano stampe artistiche. Quel posto sembrava
avere... classe. Era elegante e raffinato, ma anche accogliente.
«Ti piacciono le stampe?».
Cassie si girò e vide che Diana era rientrata nella stanza senza far
rumore. Annuì, desiderando di poter pensare a qualcosa d'intelligente da
dire a quella ragazza che sembrava esserle così superiore. «Chi sono?»,
chiese, sperando che non fosse qualcosa che avrebbe dovuto già sapere.
«Sono dèi greci. O meglio, dee. Questa è Afrodite, la dea dell'amore.
Vedi i cherubini e le colombe che le svolazzano intorno?».
Cassie osservò la donna adagiata su una specie di divano, bellissima e
indolente. Quella posa – o forse il seno scoperto – le ricordò Suzan.
«E questa è Artemide», disse Diana indicando un'altra stampa. «Era la
dea della caccia. Non si sposò mai e mandava i suoi cani a sbranare tutti
gli uomini che la spiavano mentre faceva il bagno».
La donna nella seconda stampa era magra e agile, con braccia e gambe
toniche. Era inginocchiata e imbracciava un arco. I capelli neri le
scendevano come onde sulla schiena; sul volto aveva un'espressione
intensa e piena di sfida. "Come Deborah, a volte", pensò Cassie. Poi
guardò la stampa successiva e disse: «E questa?»
«Lei è Era, la regina degli dèi. Una donna molto... gelosa».
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Cassie ci avrebbe scommesso. La giovane donna era alta e orgogliosa,
con un mento pronunciato. Ma furono i suoi occhi a catturare l'attenzione
di Cassie. Sembravano fuoriuscire dalla stampa, ricchi di passione e
volontà, e molto pericolosi. Come un felino pronto a saltarti addosso...
Cassie si voltò tremando incontrollabilmente.
«Stai bene?», chiese Diana. Cassie annuì, deglutendo. Adesso che era al
sicuro, le stava tornando tutto alla mente. Non solo gli avvenimenti di quel
giorno, ma tutto quanto le era successo nell'ultima settimana. Il dolore,
l'umiliazione. La bambola impiccata nel suo armadietto. La mensa. Il
serpente di gomma. Lo zaino lanciato da una parte all'altra...
«Cassie?». Una mano le sfiorò la spalla.
Era troppo. Cassie si voltò e si lanciò tra le braccia di Diana, scoppiando
a piangere.
«È tutto ok. Sistemeremo ogni cosa, davvero. Non preoccuparti...».
Diana le accarezzava la schiena. Cassie stava versando tutte le lacrime che
non era riuscita a versare davanti alla madre e alla nonna. Abbracciata a
Diana, singhiozzava come una bambina.
Di colpo, si sentì di nuovo come si era sentita in biblioteca, quando
aveva avuto quella visione. Si sentì come se avesse sette anni e sua madre
la stesse confortando. Diana riusciva a convincerla davvero che tutto
sarebbe andato bene.
Dopo un po', quando i singhiozzi diminuirono, Cassie alzò la testa.
«Ascolta», disse Diana porgendole un fazzoletto. «Perché non resti per
cena? Mio padre rincasa tardi... Fa l'avvocato. Chiamo un paio di amiche e
ordiniamo della pizze. Che te ne pare?»
«Oh... grande», disse Cassie mordendosi un labbro. «Grande, davvero».
«Puoi metterti questi vestiti aspettando che i tuoi si asciughino – ti
andranno un po' grandi, ma non sono così male. Raggiungimi di sotto
quando sei pronta». Diana fece una pausa, i suoi occhi verde smeraldo fissi
sul volto di Cassie. «C'è qualcosa che non va?»
«No... non proprio, ma...». S'impappinò; poi scosse la testa con rabbia.
«È solo che... solo che... Perché sei così gentile con me?», sbottò. Le
sembrava ancora che fosse un sogno.
Diana la guardò per un minuto, poi le sorrise con gli occhi, anche se
l'espressione rimase seria. «Non lo so... Credo che tu sia una persona
carina e che te lo meriti. Se vuoi, posso provare a comportarmi male».
Cassie scosse di nuovo la testa, ma questa volta senza rabbia. Sentì le
sue labbra che si contraevano in una smorfia.
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«E...». Diana aveva gli occhi verdi persi nel vuoto, distanti. «Siamo tutte
sorelle, sai?».
Cassie trattenne il respiro. «Davvero?», sussurrò.
«Sì», disse Diana con decisione, sempre con lo sguardo perso in
lontananza. «Sì, lo siamo. Nonostante tutto». Poi cambiò espressione e
guardò Cassie. «Puoi chiamare tua madre da qui», disse, indicando un
telefono. «Io scendo di sotto a ordinare la pizza». Così dicendo, se ne
andò.
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Le amiche di Diana erano Laurel e Melanie. Laurel era la ragazza che
Cassie aveva visto in biblioteca in compagnia di Diana. Da vicino era
molto magra, con capelli castano chiaro lunghi quasi quanto quelli di
Diana e con un viso allegro e delizioso. Indossava un abito floreale e un
paio di scarpe rosa alte sulla caviglia.
«È pizza vegetariana, vero?», disse, chiudendosi la porta alle spalle con
un calcio, dal momento che aveva una pila di contenitori di plastica tra le
braccia. «Non avrai mica ordinato una virile pizza al salame piccante o ai
peperoni, vero?»
«Niente carne», la tranquillizzò Diana riaprendo la porta, dietro la quale
c'era un'altra ragazza in paziente attesa.
«Ops... scusa!», urlò Laurel filando in cucina. «Ho portato qualcosa per
fare un'insalata».
Diana e la nuova ragazza si voltarono e dissero all'unisono: «Niente
tofu!».
«Solo verdura», rispose Laurel. Diana e la nuova ragazza si scambiarono
un'occhiata sollevata.
Cassie stava lottando contro la sua timidezza. La nuova ragazza era
decisamente una veterana, alta e affascinante in modo sofisticato. Aveva
capelli lisci e castani tirati indietro da un cerchietto, e occhi grigi freddi e
calcolatori. Era l'unica persona che Cassie avesse mai visto che sembrava
portare gli occhiali anche se non li aveva.
«Questa è Melanie», disse Diana. «Abita al numero 4. Melanie, lei è
Cassie Blake... Si è trasferita da poco al numero 12. È la nipote della
signora Howard».
Gli occhi grigi e pensierosi erano puntati su Cassie; poi Melanie fece un
cenno col capo. «Ciao».
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«Ciao», disse Cassie. Era felice di aver fatto un bagno e sperava di non
sembrare sciocca negli abiti di Diana.
«Melanie è il nostro cervello», disse orgogliosamente Diana. «È sveglia
da morire. E sa tutto quello che c'è da sapere sui computer».
«Non tutto», disse Melanie seriamente. «A volte penso di non saperne
niente». Guardò Diana. «Avevo sentito parlare in giro di una certa Cassie,
e c'era anche Faye di mezzo, ma nessuno ha voluto dirmi di più».
«Lo so. Io sono venuta a saperlo solo oggi. Forse sto perdendo contatto
con quello che succede a scuola, ma almeno tu avresti dovuto dirmi che
avevi sentito qualcosa».
«Non puoi combattere le battaglie di chiunque, Diana».
Diana la guardò senza dire niente e poi scosse leggermente la testa.
«Cassie, perché non vai ad aiutare Laurel con l'insalata? Andrete
d'accordo, anche lei è una matricola».
Laurel stava affettando la verdura in cucina.
«Diana mi ha detto di darti una mano», disse Cassie.
Laurel si voltò. «Grande! Occupati della borsapastore – è fresca, potresti
trovare qualche insetto tra le foglie».
"Borsapastore? Cos'è?", si disse Cassie, e osservò incerta alcuni
mucchietti di verdure. Era qualcosa che avrebbe dovuto conoscere?
«Uh... questa?», disse prendendo una foglia triangolare verde scuro con
il lato inferiore pallido.
«No, quelli sono spinaci selvatici», disse Laurel. Sollevando un gomito,
indicò un mucchio di foglie lunghe e affusolate dai bordi irregolari. «La
borsapastore è quella. Ma puoi lavarle entrambe».
«Ci mettete mai la – mmm – amarella, nell'insalata?», chiese Cassie con
esitazione mentre sciacquava la verdura. Era felice di poter contribuire in
qualche modo. Queste ragazze erano così sveglie, così competenti, così
unite; voleva disperatamente dar loro una buona impressione di sé.
Laurel sorrise e annuì: «Sì, ma bisogna fare attenzione a non mangiarne
troppa, potrebbe causarti uno sfogo cutaneo. L'amarella è buona anche per
altro; è un ottimo rimedio contro le punture degli insetti e un grande
amore...». Laurel si interruppe bruscamente e prese a tagliuzzare più in
fretta. «Ecco, la salvastrella è pronta. È meglio mangiarla fresca», si
affrettò ad aggiungere, «perché ha un sapore migliore e conserva l'essenza
vitale della Madre Terra».
Cassie la guardò con diffidenza. Forse questa ragazza non era poi così
equilibrata. "'Essenza vitale della Madre Terra'? Ma come parla?", si disse.
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Poi improvvisamente ricordò quando aveva poggiato l'orecchio sul granito
rosso e aveva sentito quel suono al suo interno. O meglio: quando aveva
immaginato di sentirlo. Sì, riusciva a capire in che senso quella verdura
fresca era piena di vita.
«Ok, finito. Puoi dire a Di e Melanie che è pronto in tavola. Intanto io
preparo i piatti», disse Laurel.
Cassie tornò nello spazioso ingresso. Melanie e Diana erano assorte in
una conversazione, e non si accorsero del suo arrivo.
«...raccolta dalla strada come un cucciolo. Sei sempre la solita», stava
dicendo Melanie con veemenza. Diana la ascoltava con le braccia conserte.
«Ma cosa succederà, dopo...».
Melanie s'interruppe quando Diana vide Cassie e si toccò la fronte.
«È pronto», disse Cassie imbarazzata. Stavano parlando di lei? Avevano
detto che era un cucciolo raccolto dalla strada? No, lo aveva detto Melanie,
non Diana. Disse a se stessa che non le importava quel che pensava
Melanie.
A cena, tuttavia, i freddi occhi grigi di Melanie non sembravano ostili.
Solo... inquieti. E quando arrivò la pizza, Cassie non poté fare a meno di
non ammirare la disinvoltura con cui le tre parlarono e scherzarono con il
fattorino in età da college. Il ragazzo era talmente interessato a Melanie
che praticamente si autoinvitò in casa, ma Diana, ridendo, gli chiuse la
porta in faccia.
Dopo, Melanie raccontò numerosi aneddoti divertenti sulle vacanze
estive in Canada, e Cassie quasi dimenticò il suo commento. Era piacevole
chiacchierare in maniera così amichevole e semplice, non sentirsi esclusa.
Ed essere lì perché era stata invitata da Diana, con lei che le sorrideva...
Ancora non riusciva a crederci.
Quando si stava preparando ad andare via, però, le prese un colpo. Diana
le porse una pila di vestiti puliti – sul cardigan grigio non c'erano più
tracce di fuliggine – e disse: «Ti accompagno a casa. Non preoccuparti
dell'auto di tua nonna. Se mi lasci le chiavi, dirò a uno dei fratelli
Henderson di riportarla a casa».
Cassie s'irrigidì mentre le consegnava le chiavi. «Henderson? Vuoi
dire... Stai parlando di quei fratelli Henderson?».
Diana sorrise mentre apriva la Integra. «Quindi hai sentito parlare di
loro. Chris è davvero carino, solo un po' irresponsabile. Non preoccuparti».
In auto, Cassie ricordò che quello che aveva giocato con il suo zaino si
chiamava Doug, non Chris. Ma non poteva fare a meno di essere
73
spaventata.
«In Crowhaven Road ci conosciamo tutti», le spiegò Diana con tono
rassicurante. «Vedi, quella è casa di Laurel, e accanto abita Faye. Diciamo
che i ragazzi che sono cresciuti in questa strada fanno comunella. Andrà
tutto bene».
«Comunella?». Cassie ebbe un pensiero improvviso e inquietante.
«Sì». La voce di Diana era volutamente spensierata. «Facciamo parte di
una specie di club...».
«Il club?». Cassie era talmente sorpresa che la interruppe. «Vuoi dire...
che anche tu ne fai parte? Tu, Laurel e Melanie?»
«Mm», disse Diana. «Siamo arrivate. Ti chiamo domani – forse passo a
trovarti. E lunedì potremmo andare a scuola insieme...». Si fermò a causa
dell'espressione di Cassie. «Che c'è, Cassie?», disse delicatamente.
Cassie stava scuotendo la testa. «Non lo so... Sì, in realtà lo so. Ti ho
raccontato del mio primo giorno di scuola, di quando ho ascoltato la
conversazione tra Faye, Deborah e Suzan... di come sono cominciati i miei
guai. Ho sentito di cosa parlavano, e so che fanno parte del club. È stata
un'esperienza terribile... Non capisco come tu possa far parte dello stesso
circolo».
«Non è come pensi...». La voce gentile di Diana si affievolì. «E non
posso spiegarti tutto. Ma ti dirò quanto basta... Non giudicare il club a
partire da Faye. Nonostante abbia anche lei un sacco di pregi, se cerchi
bene».
Cassie pensò che le sarebbe servito un microscopio a scansione
elettronica per trovare qualcosa. Aspettò una manciata di secondi e lo disse
a Diana.
Diana rise. «No, davvero. La conosco da quando eravamo in fasce. Qui
ci conosciamo tutti da quando eravamo bambini».
«Ma...», Cassie la guardò preoccupata. «Non hai paura di lei? Non pensi
che potrebbe farti qualcosa di terribile?»
«No», disse Diana. «Non lo penso. Per prima cosa, lei ha... promesso di
non farlo. E poi...», fissò lo sguardo su Cassie quasi scusandosi, anche se
un sorriso fece capolino da un angolo della bocca, «Be', non odiarmi, ma
io e Faye siamo cugine di primo grado».
Cassie rimase senza fiato.
«Qui siamo quasi tutti cugini», disse Diana con calma. «A volte di
secondo grado, o di terzo, e così via, ma molti anche di primo. Eccoti un
infuso alle erbe che Laurel mi ha preparato quest'estate», aggiunse
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porgendo qualcosa a Cassie. «Bevine un po' se hai problemi ad
addormentarti. Potrebbe aiutarti. Ci vediamo domani mattina».
Diana si presentò alla porta con i capelli raccolti in una lunga e
splendida coda di cavallo. Sembrava una nappa di seta. In mano aveva
delle foglie secche e profumate avvolte nella mussola.
«Ieri hai detto che tua madre ha l'influenza, così le ho portato un po' di
tè. È buono per la tosse e i brividi. Hai provato la tisana che ti ho dato ieri
sera?».
Cassie annuì. «È stato incredibile. Sono andata a dormire e questa
mattina mi sono svegliata in gran forma. Che c'era dentro?»
«Be', per prima cosa, erba gatta triturata», disse Diana sorridendo di
fronte alla reazione di Cassie. «Non preoccuparti, sugli esseri umani non
agisce come sui gatti. Ha un effetto rilassante».
Era questo che stava facendo la prima mattina che Cassie l'aveva vista?
Stava preparando un qualche tipo di infuso? Cassie non ebbe il coraggio di
confessarle che quel giorno l'aveva spiata, ma fu felice quando Diana le
disse che le avrebbe fatto piacere preparare il tè e portarlo personalmente a
sua madre.
«È una normale tisana di erbe e gemme per l'influenza», disse Diana alla
signora Blake. C'era qualcosa di rassicurante nella sua voce. La madre di
Cassie ebbe una piccola esitazione, poi prese la tazza. Dopo averlo
assaggiato, alzò la testa e sorrise a Diana. Cassie si sentì inondata di
calore.
Persino il volto invecchiato e stanco della nonna si aprì in un sorriso,
quando incrociò Diana e Cassie dirette nella stanza della sua nipotina.
«Dev'essere meraviglioso avere una nonna così», disse Diana.
«Conoscerà sicuramente un mucchio di storie».
Cassie era sollevata. Temeva che Diana non sarebbe andata oltre il neo,
la schiena ingobbita e la zazzera di capelli grigi della nonna. «È davvero
grande», disse, meravigliandosi di come il suo atteggiamento fosse
cambiato dal primo giorno in cui l'aveva vista sull'uscio della porta. «Ed è
bello averla finalmente conosciuta, visto che è l'unica che mi è rimasta. Gli
altri nonni sono tutti morti».
«Anche i miei», disse Diana. «E anche la mia mamma. È triste, perché
ho sempre desiderato avere una sorellina, ma mia madre morì lo stesso
anno in cui nacqui io, e mio padre non si è mai risposato. Quindi non c'è
mai stata nessuna possibilità».
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«Anch'io avrei desiderato una sorella», mormorò Cassie.
Ci fu un attimo di silenzio. Poi Diana disse: «Hai una camera
meravigliosa».
«Lo so», disse Cassie guardando i mobili massicci e lucenti, le tende
eleganti e le sedie con lo schienale rigido. «È bellissima, ma sembra di
essere in un museo. Quella è la roba che mi hanno spedito dalla mia
vecchia casa». Indicò una pila di cartoni in un angolo. «Ho provato a
sistemarla, ma ho paura di graffiare o rompere qualcosa».
Diana rise. «Fossi in te, non me ne preoccuperei. Questi mobili sono
sopravvissuti per tre secoli, resisteranno ancora un po'. Hai solo bisogno di
sistemare la stanza in modo che le tue cose trovino il giusto spazio.
Potremmo provarci nel fine settimana. Sono certa che anche Laurel e
Melanie ci daranno una mano. Ci divertiremo».
Cassie pensò alla camera ariosa, luminosa e armoniosa di Diana e sentì
un'ondata di speranza. Se la sua camera fosse diventata bella solo la metà
di quella di Diana, avrebbe fatto i salti di gioia.
«Sei troppo carina con me», disse Cassie senza riflettere. Poi trasalì e si
portò una mano alla fronte. «Mi rendo conto di quanto possa suonare
stupido quello che ho detto», disse sconsolata, «ma è vero. Voglio dire, stai
facendo tutto questo per me, senza chiedere nulla in cambio. E... io non
capisco per quale motivo lo fai».
Diana rivolse il suo sguardo verso l'oceano che brontolava e riluceva,
riflettendo il cielo settembrino terso e azzurro. «Te l'ho già detto», sorrise.
«Credo che tu sia una bella persona. Hai aiutato Sally, e sei stata
coraggiosa ad affrontare Faye. Sono cose che ammiro. Inoltre», aggiunse
scrollando le spalle, «mi piace essere carina con la gente. E poi non è vero
che non ottengo nulla in cambio. Non faccio che chiedermi per quale
motivo le persone siano sempre così gentili con me».
Cassie le lanciò un'occhiata. Diana era inondata dai raggi del sole che
producevano un'aura sfolgorante tutto intorno a lei. I suoi capelli
sembravano brillare letteralmente, il profilo era perfetto, come un cammeo
delicatamente intagliato. Davvero Diana non lo immaginava?
«Be', penso che uno dei motivi potrebbe essere che tu cerchi di trovare
del buono in chiunque», disse Cassie. «Forse le persone trovano
irresistibile questa tua propensione verso il prossimo. E poi non sei
vanitosa e sei davvero interessata a quello che gli altri hanno da dire... E
credo che aiuti anche il fatto che tu sia la persona più bella che io abbia
mai visto in tutta la mia vita», concluse.
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Diana scoppiò a ridere. «Mi dispiace che tu sia cresciuta tra brutte
persone», disse. Poi si ricompose e tornò a guardare l'oceano e a giocare
con il cordone della tenda. «Ma, sai», iniziò, con un tono che la faceva
sembrare insicura, timida. Poi si voltò verso Cassie, gli occhi di un verde
tanto brillante che Cassie rimase senza fiato.
«Sai, è strano che entrambe desideriamo una sorella», disse. «Da quando
ti ho vista nel laboratorio di scienze... Be', mi è parso di sentire che tu sei
la mia sorellina. Sembra strano, ma è la verità».
A Cassie non sembrava strano. Sin dal primo momento che l'aveva vista,
aveva sentito che in qualche modo loro due erano legate.
«E... non so come dirlo. Sento che con te posso parlare, in qualche
modo. Anche se ci conosciamo solo da un giorno, e più che con Laurel e
Melanie. Sento che in qualche modo tu mi capisci e che... posso fidarmi di
te».
«Puoi», disse Cassie con calma, ma con un impeto che sorprese lei per
prima. «Anche io non so perché, ma so che puoi fidarti di me, e potrai
farlo sempre e comunque».
«Se vuoi, quindi...». Diana aggrottò leggermente la fronte, mordendosi
le labbra, con lo sguardo ancora rivolto verso il basso mentre giocherellava
con le frange della tenda. «Be'... Stavo pensando che potremmo essere
sorellastre. Adottarci l'un l'altra. Così io avrei una sorellina e tu una sorella
maggiore. Ma solo se lo desideri», aggiunse velocemente, alzando di
nuovo lo sguardo.
"Se lo desidero?". Il problema di Cassie era che non sapeva che fare: se
gettarle le braccia al collo, ballare per la stanza, scoppiare a ridere o
piangere.
«Sarebbe ok», riuscì a dire dopo un minuto. Quindi, con il cuore che
cantava dalla gioia, sorrise timidamente a Diana e la guardò dritta negli
occhi: «No, sarebbe... grandioso».
«Oggi sembri più in forma, mamma», disse Cassie. Sua madre, seduta
sul bordo del letto, le sorrise.
«Si è trattato di una brutta influenza, ma adesso sto meglio», rispose la
donna. «Anche tu mi sembri più felice, tesoro».
«Sì», ammise Cassie baciando la madre su una guancia. "Non
immagineresti mai quanto", pensò.
A proposito di euforia e trepidazione, quella mattina le ricordava il suo
primo giorno di scuola. "Non m'interessa se tutti gli altri in questa scuola
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mi odiano", pensò Cassie. "Ci sarà Diana al mio fianco". Quel semplice
pensiero faceva passare tutto il resto in secondo piano.
Quel giorno Diana sembrava particolarmente bella: indossava una giacca
di pelle verde scamosciata con nastrini di seta blu e un paio di pantaloni
sbiaditi, quasi bianchi. Al collo portava una collana con una pietra color
latte dai riflessi bianchi e blu. Cassie era orgogliosa di entrare a scuola con
lei.
Nei corridoi si accorse di qualcosa di strano. Era difficile fare più di tre
passi senza che qualcuno le fermasse.
«Oh, ciao, Diana! Hai un minuto?». «Diana! Sono così felice di
vederti...». «Diana, mi stai facendo impazzire. Vuoi almeno pensarci, per
quanto riguarda questo fine settimana?» (questo lo disse un ragazzo). Tutti
volevano parlare con Diana, e chi non aveva nulla da dirle si limitava ad
ascoltare.
Diana, osservò Cassie, non ignorava nessuno. Gli unici che allontanava,
ma sempre con un sorriso, erano i ragazzi che le chiedevano di uscire.
Qualcuno lanciava occhiate nervose a Cassie, ma nessuno si scansò o
pronunciò qualche cattiveria. A quanto pareva, Diana aveva il potere di
neutralizzare persino Faye.
Qualche minuto prima che suonasse la campanella, Diana si allontanò
dalla ressa e accompagnò Cassie alla lezione di inglese. Non solo entrò
con lei, ma si sedette nel posto accanto a quello di Cassie e chiacchierò
affabilmente con lei, ignorando tutti quelli che la guardavano.
«Dovremmo organizzare un'altra pizza, questa settimana», disse con
voce chiara e vivace. «E ho già parlato con Laurel di come potremmo
ridecorare la tua camera, sempre che a te vada. Laurel ha un certo gusto
artistico. E poi penso che dovresti passare al mio corso di storia. È
all'ultima ora, e l'insegnante, la professoressa Lanning, è davvero
grande...».
Diana continuò a parlare, apparentemente incurante del resto della
classe. Ma Cassie riusciva a sentire qualcosa che le ribolliva dentro come
il bicarbonato sul fondo di una bottiglia di acqua gassata. Quelle stesse
ragazze che la scorsa settimana l'avevano evitata ed erano scappate al suo
passaggio, adesso stavano ascoltando avidamente il monologo di Diana,
annuendo come se anche loro stessero prendendo parte alla conversazione.
«Be', è meglio che adesso vada. Ci vediamo alle undici e un quarto per il
pranzo», disse Diana.
«Dove?», chiese Cassie andando quasi nel panico. Non aveva mai visto
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Diana – o Laurel, o Melanie – durante l'intervallo.
«Oh, in mensa... sul retro. Dietro la porta a vetri. Lo chiamiamo "il
salottino". Vedrai», disse Diana. Le ragazze che circondavano il suo banco
si stavano scambiando occhiate piene di meraviglia. Dopo che Diana fu
uscita dall'aula, qualcuno le chiese con invidia: «Mangerai nel salottino?»
«Immagino di sì», rispose Cassie con aria assente, gli occhi incollati su
Diana.
«Ma...». Le ragazze si scambiarono un'altra occhiata. «Fai parte del
club?», chiese una di loro.
Cassie si sentiva a disagio. «No... non proprio. Sono solo amica di
Diana».
Una pausa. Poi le ragazze si voltarono, confuse e impressionate.
Cassie quasi non se ne rese conto. Era concentrata sulla ragazza che
Diana, uscendo, aveva incrociato sulla porta.
Anche Faye quella mattina sembrava più bella del solito. I suoi capelli
neri splendevano, la sua carnagione pallida luccicava. Le sue labbra,
evidenziate da un nuovo rossetto color ciliegia, sembravano più sensuali
che mai. Indossava un maglioncino rosso che le metteva in risalto le
forme.
Si fermò sull'ingresso, bloccando il passaggio a Diana. Poi lei e Diana si
guardarono negli occhi a vicenda.
Fu un'occhiata lunga e misurata, occhi dorati socchiusi che fissavano
occhi verdi ridotti a fessure. Nessuna delle due disse niente, ma l'aria tra
loro sembrava crepitare di elettricità. Cassie quasi riuscì a sentire le due
forti volontà che lottavano per avere il sopravvento. Alla fine fu Faye a
farsi da parte, ma accompagnò Diana fuori dall'aula con un gesto ironico
della mano che sembrava più di disprezzo che di cortesia. Quando Diana la
superò, Faye disse qualcosa senza girarsi.
«Cosa le ha detto?», chiese una delle ragazze a Cassie.
«Non ho sentito», rispose Cassie.
Ma era una bugia. Aveva sentito, anche se non aveva capito. Faye aveva
detto: "Vinci una battaglia, perdi la guerra".
A pranzo, Cassie si chiese come avesse fatto a non notare mai il
salottino, anche se capiva come mai Diana e le sue amiche non avessero
mai visto lei: l'entrata era piena di studenti. Studenti in piedi, studenti che
speravano di essere invitati a entrare, o studenti che semplicemente
passavano lì il loro tempo, coprendo a chi era seduto dentro qualsiasi
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visuale della mensa vera e propria.
Non era difficile capire perché questa sala facesse così gola a tutti. C'era
un televisore montato su una parete, anche se l'eccessivo rumore impediva
di sentire una parola. C'erano persino un forno a microonde e un
distributore di succhi di frutta. Quando entrò e andò a sedersi accanto a
Diana, Cassie era consapevole degli sguardi che le si incollavano addosso
come sempre: ma oggi erano sguardi di invidia.
C'erano anche Laurel, Melanie, Sean – il ragazzo basso e con
l'espressione furba che l'aveva sollecitata ad andare dal preside – e uno
studente con capelli biondi scarmigliati e occhi turchesi leggermente a
mandorla. "Oh, Dio", pensò Cassie "è uno dei fratelli Henderson!". Cassie
cercò di non guardarlo con aria allarmata, quando Diana gli rivolse un
cenno e li presentò: «Questo è Christopher Henderson. Dì ciao, Chris. Lei
invece è Cassie. Hai guidato la sua Golf».
Il ragazzo biondo si mise sulla difensiva. «Io non ne so niente. Non l'ho
neanche vista, ok? Ero da un'altra parte».
Diane e Melanie si scambiarono un'occhiata paziente. «Chris», disse
Diana, «di che stai parlando?»
«L'auto di questa tipa. Non l'ho rubata. Io non rubo auto. Siamo tutti
fratelli, giusto?».
Diana lo fissò per un istante, poi scosse la testa. «Continua a mangiare,
Chris. Lascia stare».
Chris aggrottò la fronte, scrollò le spalle e tornò a parlare con Sean.
«Allora, c'è questo nuovo gruppo, i Colera, che ha fatto questo nuovo
album...».
«Qualcuno deve aver guidato la mia auto», provò a dire timidamente
Cassie.
«È stato lui», disse Laurel. «Solo che non ha una buona memoria per le
cose quotidiane. Però conosce un sacco di gruppi musicali».
Cassie notò che Sean era diverso da come lo ricordava quel giorno
vicino agli armadietti. Sembrava oltremodo educato, desideroso di piacere
a tutti, e spesso si offriva di dare una mano alle ragazze che, invece, lo
trattavano come un fratello minore fastidioso. Oltre Cassie, Sean e Laurel
erano le uniche matricole del gruppo.
Stavano mangiando da qualche minuto, quando una testa ricoperta di
capelli biondo paglia apparve sulla porta. Era Suzan.
«Deborah è in punizione e Faye ha da fare. Mangio qui», annunciò.
Diana alzò la testa. «Bene», disse tranquillamente, poi aggiunse: «Lei è
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la mia amica Cassie, Suzan. Cassie, lei è Suzan Whittier».
«Ciao», disse Cassie cercando di apparire disinvolta.
Ci fu un attimo di tensione. Poi Suzan alzò gli occhi azzurri su di lei.
«Ciao», disse. Quindi si sedette e cominciò a tirare fuori il pranzo dal suo
sacchetto.
Cassie rivolse lo sguardo su Suzan che si preparava per mangiare e poi
lanciò un'occhiata veloce a Laurel. Quindi guardò Diana e sollevò le
sopracciglia con aria interrogativa.
Sentì un rumore di plastica che s'increspava mentre Suzan estraeva
qualcosa dal suo sacchetto; poi un urlo stridulo da parte di Laurel.
«Oh, mio Dio... Non mangerai quella roba! Lo sai che c'è lì dentro,
Suzan? Grasso di manzo, lardo e olio di palma... e il cinquanta per cento di
zuccheri...».
Diana si morse le labbra e Cassie prese a scuotere silenziosamente la
testa, cercando di mantenere un'espressione di contegno. Ma la situazione
era troppo grottesca, e alla fine si lasciò sfuggire una risatina. Anche Diana
scoppiò a ridere.
Le guardavano tutti, confusi.
Cassie sorrise fissando il suo panino al tonno. Dopo tante settimane di
solitudine, finalmente aveva capito qual era il luogo cui sentiva di
appartenere. Era un'amica di Diana, la sua sorella adottiva. Il suo posto era
accanto a Diana.
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Quel venerdì Kori pranzò nel salottino. Sembrava intimorita dalle
ragazze più grandi ed era quasi riverente nei confronti di Cassie, e questo
non era male. Suzan e Deborah non mostravano certo lo stesso rispetto. La
ragazza con i capelli biondo paglia sembrava accorgersi della sua esistenza
solo quando le chiedeva di passarle qualcosa attraverso il tavolo; la
motociclista le lanciava occhiate cupe ogni volta che la incrociava nei
corridoi. Deborah e Doug – l'altro fratello Henderson – si erano fatti
vedere nel salottino solo una volta da quando Cassie aveva cominciato a
frequentarlo, e avevano passato tutto il tempo a discutere animatamente di
una band heavy-metal.
Faye e Nick, il ragazzo alto e di una bellezza glaciale che aveva
recuperato lo zaino di Cassie, non si erano visti per niente, quella
settimana.
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Ma Kori Henderson era carina. Dopo aver scoperto che era la sorella di
Chris e Doug, Cassie individuò qualche somiglianza tra di loro: oltre ai
capelli biondi, gli occhi turchesi che Kori metteva in risalto indossando
sempre una collana e un anello dello stesso colore. Kori, però, non era
irresponsabile come i fratelli. Sembrava una normale e tranquilla ragazza
di quasi quindici anni.
«Lo aspetto da così tanto tempo che ancora non riesco a credere che stia
per succedere», disse alla fine dell'intervallo. «Cioè, pensateci, martedì è il
gran giorno! E mio padre ha detto che possiamo fare un party in spiaggia –
o, meglio, non ha detto che non possiamo – e io voglio che sia davvero
speciale, perché sarà una festa e...». La sua voce si affievolì fino a sparire.
Cassie, seguendone lo sguardo, vide che Diana si stava mordicchiando un
labbro e scuoteva il capo in maniera quasi impercettibile.
"Che ha detto di sbagliato?", si chiese Cassie. Poi capì: era la prima
volta che sentiva parlare di un party, anche se era chiaro che per gli altri
non si trattava di una novità. Lei non era stata invitata?
«Allora, mmm, credi che Adam tornerà in tempo per... per... cioè,
quando credi che tornerà Adam?», farfugliò Kori.
«Non saprei. Spero presto, ma...». Diana scrollò leggermente le spalle.
«Chi può dirlo? Chi lo sa?».
«Chi è Adam?», domandò Cassie. Voleva dimostrare di non essere
interessata al party.
«Stai dicendo che Diana non ti ha parlato di Adam? Diana, c'è un limite
anche alla modestia», disse Melanie, i freddi occhi grigi increduli.
Diana avvampò per l'imbarazzo. «Non c'è stato ancora il tempo...»,
cominciò. Laurel e Melanie fischiarono.
Cassie era sorpresa. Era la prima volta che vedeva Diana reagire a quel
modo. «No, davvero», disse. «Chi è? È il tuo ragazzo?»
«Solo dall'infanzia», disse Laurel. «Stanno insieme da sempre».
«Ma dov'è? Al college? Che aspetto ha?»
«No, è andato a... trovare delle persone», disse Diana. «È un veterano,
anche se non ha ancora cominciato l'anno. In quanto al suo aspetto... Be', è
carino. Credo che ti piacerà». Sorrise.
Cassie guardò Laurel in cerca di altre informazioni. Laurel stava facendo
roteare una forchetta con un pezzo di zucchina. «Adam è...».
Kori disse: «Sì, è...».
Persino Melanie sembrava non trovare le parole giuste. «Devi vederlo»,
disse.
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Cassie era curiosa. «Hai una sua foto?», chiese a Diana.
«A dire la verità, no», disse Diana. Poi si accorse della delusione di
Cassie e proseguì: «Vedi, da queste parti la gente ha una sciocca
superstizione sulle fotografie... Non ci piacciono molto. E così molti di noi
evitano di farsi fotografare».
Cassie provò a fingere che la cosa non fosse bizzarra. "Come gli
aborigeni", pensò con meraviglia. "Gli aborigeni credono che le fotografie
rubino le loro anime. Chi può credere ancora a una cosa del genere nel XX
secolo?".
«Comunque è carino», disse Kori di slancio.
Suzan, concentrata sul pranzo, alzò la testa e dichiarò con tono
appassionato: «Che fisico».
«Che occhi», disse Laurel.
«Andateci piano», disse Melanie sorridendo. «Diana impazzirà prima
che ritorni».
«Al punto da dare a qualcun altro una possibilità?», chiese Sean con
voce stridula. Le ragazze si scambiarono sguardi comprensivi.
«Forse, Sean... Nel prossimo millennio», commentò Laurel. Ma,
siccome era una ragazza educata, non parlò a voce troppo alta.
Melanie spiegò a Cassie divertita: «Diana e Adam non considerano
proprio altre persone dell'altro sesso. Per anni Adam ha pensato che noi
fossimo tutti ragazzi».
«Cosa che, nel caso di Suzan, richiede moltissima immaginazione»,
aggiunse Laurel.
Suzan tirò su col naso squadrando il petto piatto di Laurel. «Mentre, nel
caso di altre persone, l'immaginazione non serve affatto».
«E tu, Cassie?», intervenne Diana prima che le due iniziassero a
bisticciare. «Hai lasciato un ragazzo, a casa?»
«Non esattamente», disse Cassie. «Però ne ho conosciuto uno in estate.
Era...». Si fermò. Non voleva raccontare la sua storia davanti a Suzan.
«Era... era... un tipo a posto. Allora, com'è andato l'appuntamento di Faye
con Jeffrey?», chiese improvvisamente a Suzan.
Dalla sua espressione, Cassie capì che Suzan non era stata ingannata
dall'improvviso cambio di argomento, anche se non poté resistere alla
tentazione di rispondere. «Il pesce ha abboccato», disse con un sorriso
compiaciuto. «Adesso Faye non deve far altro che tirarlo a riva».
Suonò la campanella e le conversazioni su ragazzi e appuntamenti
terminarono. Ma Cassie notò un'espressione negli occhi di Diana – una
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tenera e malinconica aria sognante – che non l'abbandonò per il resto della
giornata.
Dopo la scuola, Diana e Cassie tornarono in Crowhaven Road con la
macchina. Mentre passavano davanti alla casa dei fratelli Henderson – una
delle costruzioni più malandate – Cassie si accorse che Diana si stava
mordendo le labbra. Era chiaro che qualcosa turbava la sua migliore amica.
Cassie credeva di sapere cosa fosse. «Non m'interessa il party di Kori»,
disse affabilmente. Diana la guardò con aria meravigliata. «Io non...»,
insisté, «io Kori non la conosco neppure. L'ho vista solo quella volta con
Faye, sulla collina. Ma, che ti succede?», aggiunse, perché Diana sembrava
ancor più sorpresa.
«C'era anche Kori, quel giorno che Faye, Deborah e Suzan hanno
pranzato sui gradini della collina?»
«Sì... Be', in realtà Kori è arrivata quando avevano quasi finito. Era con
un gruppo di ragazzi, ma Faye ha permesso solo a lei di restare. Faye ha
detto...».
«Faye ha detto cosa?». Diana sembrava rassegnata.
«Ha detto: "Pensavo volessi mangiare in mensa con il resto dei
santarellini"». Cassie tralasciò la parte riguardante la Principessa della
purezza.
«Mmm... E Kori come ha reagito?».
Cassie si sentiva a disagio. «Ha detto una cosa come: "Troppa bontà
annoia". Comunque non è rimasta a lungo. Credo che Faye e Suzan
stessero cercando di metterla a disagio».
«Mmm...», disse Diana. Si stava mordendo di nuovo il labbro.
«Comunque», continuò Cassie, «non mi interessa di non essere stata
invitata al party, ma credi che... che un giorno ci sarà la possibilità che io
faccia parte del club?».
Gli occhi verdi di Diana si schiusero leggermente. «Oh, Cassie. Ma tu
non vuoi farne parte», disse.
«So che la scorsa settimana ho detto qualcosa che potrebbe fartelo
pensare. Ma tu mi hai detto di non giudicare il club in base a Faye, e infatti
non lo sto facendo. E tu, Laurel, Melanie e Kori mi piacete – e anche
Suzan non è poi così male. Anche Chris Henderson. Così ho pensato che,
forse...». Lasciò morire delicatamente la frase. Sentiva il cuore che le
batteva più forte.
«Non è questo che intendevo», rispose Diana. «Ho detto che non vuoi
farne parte perché quando ne avrai la possibilità tornerai a casa, in
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California. È così, no? Hai detto che hai intenzione di andare al college in
California».
«Be', sì, ma...». Cassie l'aveva detto, la prima sera a casa di Diana.
Adesso in realtà non ne era più così sicura, ma non sapeva come spiegarlo
all'amica. «Cosa c'entra questo?», disse. «Voglio dire, unirsi al club non
vuol mica dire restare qui tutta la vita, no?».
Gli occhi di Diana erano incollati sulla strada. «Non è facile da
spiegare». Poi aggiunse debolmente: «E in ogni caso... Be', mi dispiace,
ma le adesioni sono limitate».
Improvvisamente Cassie ricordò le parole che Deborah aveva
pronunciato quel giorno, dopo che Kori era andata via: «Un posto vacante,
un candidato, ricordi?». E Kori, be', Kori era nata su quella strada. Ci era
cresciuta. Era la sorella di Chris e Doug, non un'estranea accettata solo per
l'insistenza di Diana, un cucciolo raccolto dalla strada.
«Capisco», disse Cassie. Cercò di parlare con noncuranza, come se la
cosa non le importasse. Ma le importava. Le importava terribilmente.
«No, non capisci», mormorò Diana. «Ma credo che sia meglio così.
Davvero, Cassie, credimi».
«Oh, no», disse Diana. «Non ce l'ho, lo scotch. Dev'essere scivolato
sotto il sedile della macchina. Aspettami qui, è inutile che torniamo
indietro tutte e due». Si girò e corse verso il parcheggio.
Quella mattina erano in anticipo. Diana aveva uno striscione che
avevano preparato lei e Laurel, su cui c'era scritto: BUON
COMPLEANNO, KORI. Voleva appenderlo sopra l'ingresso principale
della scuola, e Cassie si era offerta di aiutarla. Cassie pensava che il suo
fosse un gesto particolarmente nobile e altruistico, considerando che non
era stata ancora invitata alla festa di Kori. Inoltre, adoperandosi per la sua
riuscita, avrebbero dimostrato che la cosa non le interessava.
Adesso, stava fissando l'ingresso principale dell'edificio scolastico che
due settimane prima l'aveva spaventata a morte.
Due settimane. La prima l'aveva trascorsa come un paria, una reietta,
qualcuno con cui era troppo pericoloso parlare senza attirare l'ira di Faye.
Ma la seconda settimana...
Diana non influenzava la gente terrorizzandola. Era molto più sottile, lo
faceva con amore. Suonava incredibilmente stupido e melenso, ma era
vero. Tutti volevano bene a Diana – tanto le ragazze quanto i ragazzi – e la
maggior parte di loro avrebbe camminato sui carboni ardenti per lei.
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Quando Diana l'aveva adottata come "sorellina", Cassie aveva guadagnato
immediatamente uno status superiore a quello che avrebbe potuto mai
ottenere da sola. Adesso girava per la scuola con il gruppo più fico in
circolazione – e che non ne faceva davvero parte lo sapevano soltanto i
membri del club.
«Sei quasi una di noi». Le parole che Faye aveva detto Kori le
risuonarono in mente. Be', oggi era il compleanno di Kori, e oggi Kori
sarebbe diventata una di loro. Oggi Kori si sarebbe unita al club.
Cassie, invece, non ne avrebbe mai fatto parte.
Curvò le spalle in avanti, cercando di scacciare quel pensiero, e un
brivido le corse lungo la schiena. Incrociò le braccia sul petto, stringendo
le mani sui gomiti. Per essere la fine di settembre, faceva più freddo di
quanto era abituata a sopportare. Durante il weekend, Laurel e Melanie
avevano parlato dell'equinozio autunnale che cadeva proprio quel giorno.
Melanie le aveva spiegato che durante l'equinozio – l'inizio dell'autunno –
il giorno e la notte avevano la medesima durata. Cassie pensò che quel
freddo fosse normale. Chiunque diceva che presto le foglie si sarebbero
ingiallite.
Melanie e Laurel avevano discusso animatamente di questo giorno
speciale. Sembrava che per loro rivestisse grande importanza, anche se
Cassie non riusciva a capirne il motivo. Era uno dei tanti piccoli misteri
degli abitanti di New Salem, misteri che la stavano facendo impazzire.
Rabbrividì di nuovo e cominciò a camminare, strofinandosi le braccia.
La collina si estendeva sotto i suoi piedi. Cassie raggiunse la cima dei
gradini e cominciò a sollevarsi sulle punte. Era una giornata chiara e
frizzante, e qua e là riusciva a intuire sfumature di colori autunnali sparse
tra il verde lussureggiante. Gli arbusti sul lato opposto della strada – come
li aveva chiamati Laurel? Sommacchi. I sommacchi dall'altra parte della
strada erano già rossi. Anche alcuni aceri stavano ingiallendo, e ai piedi
della collina il rosso era molto più forte e persistente...
Cassie aggrottò la fronte dimenticandosi di strofinarsi le braccia. Scese
un paio di gradini e sporse il corpo in avanti per guardare meglio. Il rosso
in fondo alla collina era troppo intenso, troppo vivo. Mai avrebbe creduto
che le foglie potessero assumere quel colore. Non era naturale.
Un brivido violento le attraversò il corpo. Dio, che freddo. Qualunque
cosa fosse era seminascosta nel sottobosco, ma Cassie decise che non era
un cespuglio. Sembrava più un maglione.
"Si rovinerà, sul terreno bagnato", pensò. "Il proprietario non ne sarà di
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certo contento".
Scese un altro gradino. Probabilmente si era già rovinato – o forse era
solo uno straccio. In effetti sembrava un fagotto di abiti. C'era anche un
paio di jeans...
Improvvisamente le si bloccò il respiro.
"È strano, è davvero strano, perché sembra quasi una persona. Ma
sarebbe sciocco... Fa freddo e il terreno è bagnato. Chiunque morirebbe di
freddo.
Adesso stava scendendo i gradini di corsa.
"Che sciocchezza... Ma sembra davvero una persona. Guarda, un paio di
gambe. Quel giallo potrebbero essere i capelli. Forse sta dormendo... Ma
chi si addormenterebbe sul ciglio di una strada? Certo, l'erba e gli arbusti
offrono un certo riparo...".
Adesso era molto vicina al mucchietto rosso, e tutto sembrava procedere
al rallentatore tranne i suoi pensieri che turbinavano impetuosi.
"Oh, grazie a Dio non è una persona, è solo un manichino. Come uno di
quegli spaventapasseri imbottiti di Halloween per spaventare la gente.
Vedi, è tutto floscio nel mezzo. Nessuna persona potrebbe essere così... Il
collo... Sembra la bambola nel mio armadietto. Come se qualcuno le
avesse sfilato la testa".
Il corpo di Cassie stava reagendo in modo strano. Il petto si era fatto più
pesante e le ginocchia le tremavano così forte che quasi non riusciva a
rimanere in piedi. E vedeva delle luci ai lati degli occhi, come se stesse per
svenire.
"Grazie a Dio non è una persona... Oh mio Dio, ma quella è una mano? I
manichini non hanno mani del genere, con piccole dita rosa... E i
manichini non portano anelli, anelli turchesi.
Dove aveva già visto un anello simile?
"Avvicinati; no, non guardare, non guardare...".
Ma era troppo tardi. La mano, rigida come un artiglio, apparteneva a un
essere umano. E l'anello apparteneva a Kori.
Cassie si rese conto che stava urlando solo quando era a metà della
collina. Le sue gambe, che fino a poco prima tremavano
incontrollabilmente, la stavano trascinando verso la scuola a tutta velocità.
Continuava a urlare: «Aiuto, aiuto, aiuto». Solo che erano urla deboli e
patetiche... Non c'era da sorprendersi che nessuno la sentisse. Sembrava
uno di quegli incubi in cui le corde vocali si paralizzano.
Ma qualcuno l'aveva sentita. Mentre stava per raggiungere la sommità
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della collina, vide Diana che arrivava di corsa. Afferrò Cassie per le spalle.
«Che è successo?»
«Kori!», ansimò Cassie con voce strozzata. Quasi non riusciva a parlare.
«Diana, va' ad aiutare Kori! Non sta bene. Ha qualcosa che non va...».
Sapeva che la situazione era ben più grave, ma non riusciva a mettere
insieme le parole. «Aiutala, ti prego...».
«Dov'è?», tagliò corto Diana.
«Giù. Ai piedi della collina. Ma non andare», ansimò in modo
sconnesso. Oh, Dio, stava cedendo completamente. Non ce la faceva... Ma
non poteva lasciar andare Diana da sola.
Diana stava scendendo i gradini di corsa. Cassie la seguiva con le gambe
rigide. Vide Diana raggiungere la strada, esitare, inginocchiarsi e piegarsi
in avanti.
«È...», disse Cassie torcendosi le mani.
Diana si tirò su. Cassie lesse la risposta nel modo in cui la ragazza
incurvava le spalle. «È fredda. È morta».
Poi Diana si voltò. Il viso era pallido, gli occhi verdi ardevano. Qualcosa
nella sua espressione diede a Cassie la forza necessaria per scendere di
slancio gli ultimi due gradini e abbracciarla.
Diana stava tremando, si teneva a lei. Kori era un'amica di Diana, non
sua.
«Andrà tutto bene. Si sistemerà tutto», sussurrò. No, non si sarebbe
sistemato nulla. E nella mente di Cassie continuavano a riecheggiare altre
parole: "Un giorno potrebbero trovare te in fondo ai gradini con il collo
spezzato. Un giorno potrebbero trovare te...".
Il collo di Kori si era spezzato.
Era questo il referto del medico della polizia. Da quando Diana e Cassie
erano tornate in cima alla collina, il resto della giornata era trascorso come
in un sogno. Erano arrivati gli adulti. Dirigenti scolastici, poliziotti, il
dottore. Avevano fatto delle domande. Avevano preso appunti sui loro
taccuini. I ragazzi avevano osservato in disparte. Loro non facevano parte
del processo degli adulti. Avevano domande proprie da porre.
«Che stiamo aspettando? Perché non andiamo a prenderla?», disse
Deborah mentre Cassie entrava nel salottino. Non era il momento
dell'intervallo, ma quel giorno sembrava che tutte le regole non valessero
più.
«L'abbiamo sentita tutti», stava continuando Deborah. «Suzan, io e
Faye... persino lei». Indicò Cassie che, con i riflessi rallentati, stava
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cercando di prendere una lattina di succo di frutta dal distributore. «Quella
stronza ha detto che lo avrebbe fatto e l'ha fatto. Cosa stiamo aspettando?»
«La verità», disse Melanie con calma e freddezza.
«Da loro? Dagli esterni? Non stai parlando seriamente. Loro non
ammetterebbero mai che è stata Sally. La polizia dice che si è trattato di un
incidente. Un incidente! Nessun segno di lotta, dicono, è scivolata su un
gradino bagnato. E sapete la voce che gira a scuola. Dicono che è stato uno
di noi!».
Laurel, che stava versando acqua calda in una tazza con delle foglie
secche, sollevò la testa. Aveva la punta del naso rosa. «Forse è stato uno di
noi», disse.
«Tipo chi?», rispose Deborah con rabbia.
«Tipo qualcuno che non la voleva nel club. Qualcuno che temeva che
avrebbe scelto la fazione sbagliata», disse Laurel.
«E sappiamo tutti qual è questa fazione», disse una voce nuova. Cassie
si voltò di scatto, facendo quasi cadere la lattina che aveva in mano.
Era Faye. Prima di allora Cassie non l'aveva mai vista nel salottino, ma
adesso era lì, con gli occhi socchiusi e ardenti di rabbia.
«Be', di certo la fazione di Diana non aveva nulla da temere», disse
Laurel. «Kori idolatrava Diana».
«Davvero? Allora per quale motivo nell'ultima settimana Kori ha
pranzato sempre con me?», disse Faye con la sua voce indolente e roca.
Laurel la guardò incerta. Poi si ricompose e scosse la testa. «Non
m'interessa quel che dici; non riuscirai mai a convincermi che Diana
avrebbe potuto far del male a Kori».
«Ha ragione», intervenne Suzan sorprendendo Cassie. «Diana non
l'avrebbe mai fatto».
«E poi sappiamo già chi avrebbe potuto», disse seccamente Deborah. «È
stata Sally... O forse quell'idiota del suo ragazzo. Io dico di andare a
prenderli... Adesso!».
«Ha ragione», disse Sean.
Laurel guardò Sean, poi Deborah e infine Faye. «Che ne pensi,
Melanie?», disse alla fine.
La voce di Melanie era ancora calma e distaccata. «Io dico che
dovremmo fare una riunione», disse.
Sean annuì. «Ha ragione».
Diana entrò proprio in quel momento con i fratelli Henderson.
Sembravano devastati e sconcertati. Come se non riuscissero ad accettare
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che una simile disgrazia fosse successa proprio a loro. Gli occhi di Chris
erano cerchiati di rosso.
Alla vista dei due fratelli, tutti si calmarono. I due si sedettero al tavolo
nel silenzio più totale.
Poi Faye si voltò verso Diana. Dai suoi occhi dorati sembravano uscire
delle fiamme. «Siediti», disse con voce piatta. «Dobbiamo parlare».
«Sì», disse Diana.
Diana si sedette, subito imitata da Faye. Laurel, dopo aver servito due
tazze di liquido bollente ai fratelli Henderson, fece lo stesso. Deborah tirò
fuori una sedia da sotto il tavolo con un calcio e si sedette. Suzan e
Melanie erano giù sedute.
Tutti si voltarono verso Cassie.
I loro volti erano strani. Alieni. Il viso delizioso di Laurel era contratto. I
freddi occhi di Melanie erano più distanti che mai; le labbra imbronciate di
Suzan erano serrate; la ferocia di Deborah era trattenuta a stento. Persino la
classica espressione furtiva di Sean aveva ceduto il passo a un'inedita
dignità. Diana era pallida e rigida.
La porta a vetri si spalancò ed entrò Nick. Il suo volto, simile a una
roccia fredda e bellissima, non lasciava trapelare nulla. Si sedette accanto a
Doug.
Cassie era l'unica ancora in piedi. Guardò i membri del club, e loro le
restituirono lo sguardo. Nessuno aveva bisogno di dire niente. Cassie si
voltò e uscì.
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Cassie non sapeva che fare. La scuola stava cercando di garantire il
corso delle lezioni, anche se probabilmente c'erano più ragazzi fuori dalle
aule che dentro. Nei corridoi, sulle scale, all'entrata. Cassie lanciò
un'occhiata stordita a un orologio a e poi andò alla lezione di fisica.
Avrebbe potuto chiamare la madre e tornare a casa, ma non aveva voglia di
affrontarla in quel momento. Voleva solo provare a fingere che tutto fosse
normale.
Seduta al suo posto, mentre prendeva appunti privi di significato, sentiva
di avere addosso gli occhi di tutta la classe. Aveva la strana sensazione di
essere stata trasportata due settimane indietro nel tempo, quando Faye
l'aveva bandita. Ma dopo la lezione si accorse della differenza. Gli studenti
le andavano incontro dicendole: «Stai bene?» e «Come va?». Sembravano
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a disagio, come se non volessero parlarle ma sentissero che forse era il
caso di farlo. Al termine dell'ultima lezione ci furono altre piccole visite,
gruppetti di due o tre studenti che le dicevano: «Ci dispiace», oppure:
«Volevamo solo farti sapere che mancherà anche a noi».
La verità la colpì all'improvviso e quasi scoppiò a ridere per l'ironia della
situazione. Erano condoglianze! In quel momento, Cassie rappresentava il
club! E quegli esterni le parlavano senza sapere che anche lei era
un'esterna.
Quando una cheerleader le disse: «Oh, dev'essere così dura per te»,
Cassie perse la pazienza.
«Non la conoscevo neppure!», esplose. «In vita mia le avrò rivolto la
parola una volta!».
La cheerleader indietreggiò in fretta. Le condoglianze terminarono in
quell'istante.
La professoressa Lanning, insegnante di storia, riaccompagnò a casa
Cassie. La ragazza evitò le domande ansiose della madre – a quanto
pareva, la scuola l'aveva chiamata per informarla – e uscì. Scese la ripida
scogliera fino alla spiaggia.
L'oceano non era mai stato così scuro, una pesante e scintillante distesa
argentata, come il mercurio nei termometri. Il cielo, limpido nelle prime
ore della giornata, adesso era coperto di nuvole. Stava diventando sempre
più buio.
Cassie passeggiava. La spiaggia era uno degli aspetti positivi della vita lì
ma adesso a cosa le serviva? Era sola.
Il petto le stava scoppiando. Era come se gli orribili eventi della giornata
fossero rinchiusi dentro di lei e stessero lottando per liberarsi. Ma non
avevano modo di uscire.
Aveva pensato che essere una reietta a scuola potesse essere la cosa
peggiore che poteva capitarle. Ma ancor peggio era quasi appartenere a
qualcosa e sapere dentro di sé che non era così e mai lo sarebbe stato.
Sapeva che era estremamente egoista pensare a se stessa dopo quanto era
successo a Kori, ma non poteva farci niente. Con la rabbia, la confusione e
il dolore che aveva dentro, quasi invidiava Kori. Kori era morta, ma
apparteneva ancora a qualcosa.
Cassie, invece, non si era mai sentita così sola.
Il cielo era grigio scuro. L'oceano, ancora più scuro, era una distesa che
si allungava all'infinito. Guardandolo, Cassie avvertì una strana e terribile
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attrazione. Se avesse camminato verso l'oceano, dentro l'oceano...
"Basta!", pensò furiosamente. "Riprenditi".
Ma sarebbe stato così semplice...
"Sì, e poi saresti davvero sola. Sola per sempre, nell'oscurità. Ti sembra
bello, Cassie?".
Tremando, si costrinse ad allontanarsi dalle grigie acque sciabordanti. I
piedi erano intorpiditi e freddi, le dita sembravano di ghiaccio. Si
arrampicò incespicando lungo lo stretto sentiero roccioso.
Quella notte chiuse le tende della stanza per non vedere l'oceano o il
buio. Con il petto che le faceva male, aprì il portagioie e tirò fuori il pezzo
di calcedonio.
"È da un po' che non toccavo il tuo dono. Ma ti ho pensato. Qualunque
cosa io faccia, ovunque mi trovi, tu sei da qualche parte nella mia testa.
Oh, come vorrei...".
Quando chiuse gli occhi e si portò la pietra alle labbra, la mano le tremò.
Avvertì la familiare irregolarità dei cristalli, la freddezza della pietra
attenuata dal calore sprigionato dal suo corpo. Il respiro accelerò e gli
occhi si bagnarono di lacrime. "Oh, un giorno", pensò, "...un giorno...".
La bocca le si contorse per il dolore. Un'ondata di qualcosa di simile alla
lava le invase il petto; Cassie lanciò con tutta la sua forza la pietra che
colpì la parete con un suono secco e poi cadde sul pavimento.
"Un giorno un bel niente!", urlò una voce crudele dentro di lei. "Smettila
di illuderti! Non lo rivedrai mai più!".
Cassie si distese sul letto con gli occhi arrossati, a fissare il buio della
stanza rischiarata solo da una piccola lampada da notte sulla parete
opposta. Non riusciva a piangere. Le lacrime si erano ormai seccate. Ma
era come se qualcosa le avesse squarciato il cuore.
Cassie stava sognando l'oceano – la nave era nei guai, nell'oceano
infinito e oscuro. Riusciva a sentire le travi sotto i suoi piedi che
scricchiolavano. Stavano per arenarsi. E qualcosa era andato perduto...
perduto...
Si risvegliò all'improvviso, inspirando con forza. Cos'era quel rumore?
Il corpo rigido, rimase in ascolto. Silenzio. Gli occhi si sforzarono di
penetrare le tenebre. La lampada era spenta.
Perché aveva paura soltanto adesso? Cosa le era successo quella sera?
Era scesa in spiaggia da sola, senza pensare che chi aveva ucciso Kori
forse era lì a osservarla, ad aspettarla...
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"Un incidente", pensò, tutti i sensi in allerta e in tensione. Avevano detto
che con tutta probabilità si era trattato di un incidente. Ma il cuore adesso
le batteva all'impazzata. Le sembrava di vedere delle luci che brillavano
nell'oscurità. E riusciva a sentire...
Una presenza. Come se davanti a lei ci fosse un'ombra. Oh, Dio, riusciva
a sentirla. L'avvertiva come una pressione sulla pelle, come una ventata
gelida. C'era qualcosa nella sua stanza.
I suoi occhi fissavano l'oscurità più completa; il corpo tremante per la
tensione. Anche se era un'idea folle, pensò che se non si fosse mossa, se
non avesse fatto rumore, quella cosa non l'avrebbero trovata.
Ma si sbagliava.
Udì un suono strano, come una serie di passi che avanzavano strisciando
per terra, furtivamente. Dopo, l'inconfondibile scricchiolio di un'asse del
pavimento.
Qualunque cosa fosse, stava avanzando verso di lei.
All'improvviso, Cassie non riuscì più a muoversi. Il silenzio e il buio
furono rotti da un repentino scalpiccio. Cassie prese fiato per urlare, ma
qualcosa le tappò la bocca.
Immediatamente, ogni cosa cambiò. Prima tutto si era svolto con
estrema lentezza, ora la realtà correva vorticosamente. Cassie lottò, ma
inutilmente; qualcuno le bloccò le braccia dietro la schiena. Qualcun altro
le cinse le gambe.
La fecero rotolare sul letto. L'avvolsero nelle lenzuola. Cassie non
riusciva più a muoversi. Le sue braccia erano bloccate dal lenzuolo.
Tentava di scalciare, ma anche i suoi piedi erano bloccati.
Venne sollevata in aria. Non riusciva a urlare, stava soffocando. Aveva
qualcosa in testa che le impediva di respirare. E la cosa più terribile era il
silenzio, il silenzio più totale. Qualunque cosa l'avesse afferrata, era
silenziosa come un fantasma.
Come un fantasma... E lei adesso era avvolta in un lenzuolo. Pensieri
bizzarri si alternavano nella sua testa in un vortice sempre più folle.
La cosa la portò via dalla sua stanza, la trascinò al pian terreno e poi
fuori dalla casa. L'avevano condotta all'esterno per seppellirla.
Prima aveva invidiato Kori... ora stava per raggiungerla. Qualcuno aveva
intenzione di seppellirla sotto terra – o di affogarla in mare. Cercò di
battersi freneticamente, con tutte le forze che aveva, ma il lenzuolo era
troppo stretto.
Non era mai stata tanto terrorizzata in vita sua.
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Col trascorrere dei minuti, però, la violenza iniziale dovuta al panico
cominciò a esaurirsi. Era come cercare di liberarsi da una camicia di forza;
i tentativi convulsi di svincolarsi riuscivano solo a sfiancarla. E a
surriscaldarla. Stava soffocando e aveva caldo... Se solo fosse riuscita a
respirare...
Annaspando, Cassie sentì il suo corpo che si afflosciava. Nei minuti
successivi, si concentrò esclusivamente sul proprio respiro. Poi, poco alla
volta, riprese a pensare.
Era trasportata da più di una persona. Questo era certo. Le gambe e le
braccia erano costrette non solo dal lenzuolo ma anche da mani.
Mani umane? Oppure... Diverse immagini le invasero la mente. Scene di
film horror. Mani scheletriche ricoperte di brandelli di carne. Mani oscure
con unghie cianotiche come la morte. Mani mutilate, mani provenienti
dall'oltretomba...
"Oh, Dio, ti prego... Sto per impazzire. Ti prego, aiutami o per me sarà la
fine. Morirò di terrore. Nessuno può sopravvivere a questo".
Ma morire non era così facile. Era come un incubo, ma Cassie sapeva
che non stava dormendo. Poteva pregare quanto voleva, ma non si sarebbe
svegliata.
Poi, tutto si fermò.
La inclinarono verso il basso... Le sue gambe toccarono terra. Era in
piedi. Le stavano sfilando il lenzuolo; sentì la brezza sulle gambe, e il
vento che faceva sventolare l'orlo della sua camicia da notte. Le braccia,
finalmente, erano libere.
Le tese debolmente in avanti, ma qualcuno le afferrò i polsi e glieli
bloccò dietro la schiena. Non riusciva ancora a vedere niente. Le avevano
infilato una specie di cappuccio in testa. Aveva caldo, respirava la propria
anidride carbonica. Cercò di scalciare, di lottare, ma sapeva di non avere la
forza necessaria.
Poi, alle sue spalle, sentì un rumore che cambiò ogni cosa.
Era una risata strozzata.
Lenta e intensa. Compiaciuta. Ma con una sfumatura sinistra.
Inconfondibile.
Faye.
Cassie credeva di aver avuto paura, prima. Aveva immaginato fantasmi,
morti viventi venuti a trascinarla sotto terra. Ma quelle paure
sovrannaturali e selvagge erano nulla rispetto al terrore puro che provava
adesso.
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Fece due più due in un attimo atroce. Faye aveva ucciso Kori. E adesso
stava per uccidere anche lei.
«Cammina», disse Faye, e Cassie sentì una spinta sulla schiena,
all'altezza delle mani legate. Fece un passo vacillando. «Sta' dritta», le
ordinò Faye.
Cassie fece un altro passo, con un braccio che la reggeva. C'era qualcuno
al suo fianco. Faye non era sola. Be', ovvio che non lo era, altrimenti non
avrebbe potuto trasportarla.
Fino a quel momento, Cassie non si era mai resa conto di quanto fosse
importante la vista. Era terrificante muoversi nelle tenebre. Per quel che ne
sapeva, Faye la stava facendo camminare verso una scogliera.
No, non una scogliera. Erano su un promontorio, in spiaggia. Anche se
non riusciva a vedere, adesso che non c'era più il lenzuolo ad avvolgerla
gli altri sensi funzionavano a dovere. Da sinistra le arrivava lo sciabordio
lento e ritmato delle onde. Molto vicine. Sotto i piedi riusciva a sentire la
sabbia bagnata. La brezza che le sollevava la camicia da notte sui polpacci
era fredda. Sapeva di sale e alghe.
«Fermati».
Cassie obbedì meccanicamente. Cercò di deglutire e scoprì che l'interno
della sua bocca era come rivestito di colla.
«Faye...», riuscì a dire.
«Sta' zitta!». La voce era asciutta, secca. Come un gatto che sfodera gli
artigli. Un'improvvisa pressione sul collo la fece irrigidire – qualcuno
aveva afferrato la parte inferiore del cappuccio e lo stava stringendo a mo'
di avvertimento. «Non parlare, a meno che non ti sia posta una domanda.
Non muoverti, a meno che non ti venga detto di fare altrimenti. Hai
capito?».
Cassie annuì, stordita.
«Adesso fa' un passo avanti. Gira a sinistra, fermati. Non ti muovere.
Non fiatare».
Delle mani stavano armeggiando intorno al suo collo. Poi, quando il
cappuccio le venne tolto, sentì una meravigliosa ventata di aria fresca. La
luce le aggredì gli occhi, e Cassie fissò con stupore la scena irreale che
aveva davanti.
"Nero e bianco", fu il primo pensiero che le venne in mente. Tutto era
bianco o nero, come una foto della superficie lunare.
E davanti ai suoi occhi c'era proprio la luna. Bianca, immacolata, appena
sorta, si rispecchiava perfettamente sulla superficie dell'oceano. L'oceano
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era nero come il cielo, tranne che per la schiuma bianca e spettrale delle
onde. Davanti al mare, c'era una figura che sembrava brillare di luce
pallida.
"Diana?".
Diana vestiva un leggero chemisier bianco che le lasciava scoperte le
braccia. Su un braccio indossava un largo bracciale d'argento con su incisa
una strana effigie. In testa portava una sorta di diadema che riproduceva
una luna crescente, con le estremità puntate verso l'alto. I suoi lunghi
capelli sembravano intessuti di luce lunare.
Aveva un pugnale in mano.
Cassie ricordò con terrificante precisione il sogno della madre e della
nonna nella sua stanza. "Sacrificio", aveva detto una della due. E lei aveva
sentito. Era per questo che si trovava lì? Per un sacrificio?
Fissava come ipnotizzata il pugnale, il riflesso della luna sulla lama. Poi
guardò il volto di Diana.
"Non l'avrei mai creduto, no, non sarei mai arrivata a credere che avresti
aiutato Faye. E invece eccoti qui, con un coltello in mano. Lo vedo. Come
posso non credere ai miei stessi occhi?".
«Vòltati», disse una voce.
Cassie sentì il proprio corpo che si voltava.
Qualcuno tracciò un grosso cerchio sulla sabbia, al cui interno ed esterno
furono infilate delle candele direttamente nella sabbiar, dove c'erano delle
pozze di cera. Le candele variavano di colore e misura. Dall'accumulo di
cera alla base, e dal modo in cui erano consumate, sembrava che alcune di
loro fossero accese da tempo. Le fiammelle guizzavano nella brezza
leggera.
All'interno del cerchio c'erano i membri del club. La mente terrorizzata
di Cassie registrò scorci di volti e null'altro, come immagini illuminate da
una scarica di fulmini e poi oscurate. Erano gli stessi volti che aveva visto
intorno al tavolo del salottino nel pomeriggio. Orgogliosi. Affascinanti.
Alieni.
Faye era vestita completamente di nero. Se i capelli di Diana
sembravano intessuti di luce lunare, i suoi parevano intrecciati di tenebre.
Diana passò accanto a Cassie ed entrò nel cerchio. Cassie si rese conto
che l'anello sulla sabbia non era completo. C'era un'apertura nell'angolo a
nord-est, proprio davanti ai suoi piedi.
Cassie era appena fuori dal cerchio.
Cercò con gli occhi sgranati dalla paura lo sguardo di Diana.
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L'espressione dell'amica, però, non lasciava trapelare nulla; il suo volto era
pallido e distante. Il cuore di Cassie, che fino a un attimo prima batteva a
stento, adesso stava accelerando.
Diana iniziò a parlare, ma non a Cassie. La sua voce era limpida e
musicale:
«Chi vuole metterla alla prova?».
La voce roca di Faye si levò in risposta: «Io».
Cassie vide il pugnale solo quando Faye glielo puntò alla gola. La lama
premeva leggermente, pizzicandola, e Cassie sentì i propri occhi che si
sgranavano. Cercò di rimanere completamente immobile. Gli occhi
socchiusi ed enigmatici di Faye erano fissi nei suoi. C'era una specie
d'intenso piacere nella loro profondità, e lo stesso calore che Cassie aveva
percepito nel laboratorio di scienze quando Faye l'aveva minacciata con il
fuoco.
Faye le rivolse il suo sorriso indolente e terribile, e la pressione del
pugnale contro la gola aumentò. «Ti sto mettendo alla prova», le disse. «Se
c'è paura nel tuo cuore, faresti meglio a lanciarti contro questo pugnale
invece di continuare. Che mi dici, Cassie?», aggiunse, e il suo tono si fece
sempre più flebile, sino a diventare un mormorio intimo e tranquillo, a
malapena udibile dagli altri. «C'è paura nel tuo cuore? Fa' attenzione a
come rispondi».
Confusa, Cassie si limitò a guardarla. Paura nel suo cuore? Come poteva
non esserci paura nel suo cuore? Avevano fatto di tutto per terrorizzarla,
certo che c'era paura nel suo cuore.
Poi, spostando soltanto gli occhi, guardò Diana.
Ricordò quel che Laurel aveva detto nel salottino quel pomeriggio,
quando Faye aveva detto che Diana poteva avere qualcosa a che fare con la
morte di Kori. Laurel dapprima era sembrata confusa, poi aveva cambiato
espressione e aveva detto: «Non m'interessa quel che dici; non riuscirai
mai a convincermi che Diana avrebbe potuto far del male a Kori».
"Questa è fede", pensò Cassie. Credere a prescindere. Lei nutriva quel
tipo di fede in Diana?
"Sì", pensò, continuando a fissare gli occhi verdi e concentrati di Diana.
"Quindi mi fido di lei a prescindere? Mi fido di lei al punto da non avere
più paura?".
La riposta doveva arrivarle da dentro. Cassie frugò nella propria mente,
in cerca della verità. Tutto ciò che era successo quella notte – era stata
portata via dal suo letto di peso, condotta in quel posto senza una
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spiegazione, e poi il pugnale, la cerimonia bizzarra – sembrava malvagio.
E qualcuno aveva ucciso Kori...
"Mi fido di te, Diana", pensò.
Fu la riposta che trovò in fondo alla sua mente. "Nonostante tutto, a
prescindere dalle apparenze, mi fido di te".
Tornò a guardare Faye, che aveva ancora un sorriso felino sul volto.
Fissando quegli occhi color miele, Cassie disse con voce chiara: «Va'
avanti. Non c'è paura nel mio cuore».
Sentì subito la morsa del terrore che l'abbandonava. Così come la
debolezza, le vertigini, la pesantezza sul cuore. Raddrizzò la schiena,
anche se aveva ancora i polsi bloccati e il pugnale sulla gola.
Qualcosa s'illuminò negli occhi di Faye. Qualcosa di simile a una forma
sinistra di rispetto. Il sorriso cambiò, e la ragazza annuì, anche se in
maniera quasi impercettibile. Un momento dopo, quando parlò, stava
inarcando le sopracciglia in un'espressione ironica.
«Allora fa' un passo in avanti, verso di me, dentro il cerchio», disse.
Un passo in avanti? Verso la lama del pugnale? Cassie si sforzò di non
distogliere lo sguardo dagli occhi dorati di Faye. Esitò un istante, poi fece
il passo.
La lama si tirò indietro. Cassie sentì una leggera sensazione di umido
sulla gola mentre Faye indietreggiava.
Poi abbassò lo sguardo. Era all'interno del cerchio.
Diana prese il pugnale dalle mani di Faye e si spostò verso l'apertura alle
spalle di Cassie. Dopo aver infilzato il pugnale nella sabbia con la lama
rivolta verso l'alto, chiuse l'apertura. Cassie provò una strana sensazione
claustrofobica, come se qualcosa fosse stato sigillato. Come se alle sue
spalle qualcuno avesse chiuso una porta a chiave. Come se ciò che si
trovava all'interno del cerchio fosse diverso da qualunque cosa era al suo
esterno.
«Cammina sino al centro», disse Diana.
Cassie cercò di incedere a testa alta. Adesso riusciva a vedere che il
chemisier di Diana aveva uno spacco lungo la coscia. C'era qualcosa sulla
parte superiore della gamba lunga e perfetta di Diana. Una giarrettiera?
Sembrava uno di quei nastri di merletto che le spose lanciano dopo il
matrimonio. Questa però sembrava di camoscio verde con strisce di seta
blu. Aveva anche una fibbia argentata.
«Vòltati», le ordinò Diana.
Cassie sperò che le liberassero i polsi. Sentì invece delle mani che
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premevano sulle sue spalle e poi iniziavano a farla roteare sempre più
velocemente. Per un attimo fu presa di nuovo dal panico. Le girava la
testa, era disorientata. Con le braccia legate, se avesse perso l'equilibrio
non avrebbe potuto attutire la caduta. E da qualche parte c'era ancora quel
pugnale...
"Lasciati andare. Rilassati", si disse. E, come per magia, la paura si
dissolse. Si lasciò sballottare da una parte all'altra, ruotando sempre più in
fretta. E se fosse caduta, bene, sarebbe caduta.
Qualcuno la fermò e la spostò di nuovo davanti a Diana. Era
leggermente senza fiato e il mondo le vorticava davanti agli occhi, ma
cercò di mantenersi diritta.
«Sei stata sfidata e hai superato le prove», la informò Diana. Adesso
c'era un piccolo sorriso nei suoi occhi verdi, anche se l'espressione era
seria. «Ora sei pronta per il giuramento?».
Giurare cosa? Ma Cassie annuì.
«Giuri di essere fedele al club? Di non danneggiare nessuno che ne
faccia parte? Di proteggere e difendere i suoi membri, anche al costo della
tua stessa vita?»
«Sì», disse Cassie con un filo di voce.
«Lo giuri sull'oceano, sulla luna e sul tuo stesso sangue?»
«Sì».
«Ripeti: "Questo io giuro"».
«Questo io giuro».
«È stata sfidata e ha superato le prove, e ora ha giurato», disse Diana,
indietreggiando e parlando ai membri del club. «Ora, dal momento che
siamo tutti d'accordo, invoco i Poteri».
Diana sollevò il pugnale sulla sua testa, puntando la lama verso il cielo.
Poi la diresse verso est, in direzione dell'oceano, quindi a sud, poi verso la
scogliera occidentale, e ancora a nord. Infine, la puntò verso Cassie. Le
parole che pronunciò in quel momento provocarono una serie di brividi
lungo la colonna vertebrale di Cassie:
Aria e fuoco, acqua e terra,
vostra figlia qui s'afferma.
Luce di sole, buio di luna,
che lei incontri la vostra fortuna.
Sfida, prove e giuramenti,
che nel Circolo lei ora entri.
99
Sangue e ossa, carne e potenza,
una di noi adesso Cassie...
«Ma non siamo tutti d'accordo», la interruppe una voce rabbiosa. «Io
sono ancora convinta che lei non sia una di noi, e credo che non potrà mai
esserlo».
12
Diana si girò di scatto verso Deborah. «Non puoi interrompere il
rituale!».
«Non dovrebbe neppure esserci, un rituale», replicò ferocemente
Deborah con il volto nero e infervorato.
«Avevi detto di essere d'accordo...».
«Ero d'accordo sul fatto che dobbiamo fare qualunque cosa per diventare
più forti. Ma...», Deborah s'interruppe e guardò gli altri accigliata.
«Forse qualcuno pensa che Cassie non abbia superato davvero le prove»,
chiarì Faye con un sorriso.
Il volto di Diana era pallido, furioso. Il diadema che indossava le donava
qualche centimetro in più, al punto che adesso sembrava persino più alta di
Faye. I raggi della luna le facevano scintillare i capelli come prima era
accaduto con la lama del pugnale.
«Ma lei ha passato le prove», sancì freddamente. «E adesso tu hai
interrotto il rituale – lo hai spezzato – mentre stavo evocando i poteri.
Spero tu abbia una motivazione migliore di questa».
«Eccoti la mia motivazione», disse Deborah. «Non è una di noi. Sua
madre ha sposato un esterno».
«Allora, cosa proponi di fare?», chiese Diana. «Vuoi che non ci sia mai
un vero circolo? Sai bene che per qualsiasi cosa dobbiamo essere in dodici.
Che dovremmo fare, aspettare che i tuoi genitori – o quelli dei fratelli
Henderson – abbiano un altro figlio? Nessuno altro di noi ha ancora i
genitori in vita. No». Diana si voltò verso il resto del gruppo riunito
all'interno del cerchio. «Noi siamo gli ultimi», disse. «L'ultima
generazione del Mondo Nuovo. E se non completiamo il circolo, tutto
finirà qui. Con noi».
Melanie prese la parola. Indossava abiti comuni sotto uno scialle
frangiato verde pallido, lacero e delicato, come fosse molto antico. «I
nostri genitori e i nostri nonni ne sarebbero felici», disse. «Vorrebbero che
100
lasciassimo tutto nel passato, come hanno fatto loro e i loro genitori. Non
vogliono che le antiche tradizioni vengano riportate alla luce e che i Vecchi
Poteri vengano risvegliati».
«Hanno paura», disse Deborah con disprezzo.
«Saranno felici se non completiamo il circolo», disse Melanie. «Ma è
questo che vogliamo noi?». Guardò Faye.
Faye mormorò freddamente: «Si può fare molto anche singolarmente».
«Oh, falla finita», intervenne Laurel. «Non sarà mai come un vero
circolo. A meno che», aggiunse, «qualcuno non abbia intenzione di
impossessarsi degli Strumenti Supremi per un tornaconto personale».
Faye le rivolse un sorriso indolente e abbagliante. «Non sono io che sto
cercando gli Strumenti Supremi».
«Questo non c'entra niente», dichiarò bruscamente Diana. «La domanda
è: vogliamo completare il circolo oppure no?»
«Noi sì», disse uno dei fratelli Henderson. "È Chris", si corresse Cassie.
Adesso riusciva a distinguerli. I due fratelli sembravano pallidi e stanchi
sotto la luce della luna, ma gli occhi di Chris erano meno furiosi di quelli
di Doug. «Faremo tutto il possibile per scoprire chi ha ucciso Kori»,
concluse.
«E poi gli daremo una bella lezione», intervenne Doug, mimando una
coltellata.
«Allora abbiamo bisogno di un circolo completo», disse Melanie. «Un
dodicesimo membro e una settima ragazza. Cassie soddisfa entrambi i
requisiti».
«E ha superato le prove», ripeté Diana. «Sua madre era una di noi. È
andata via, è vero, ma adesso è tornata. E ci ha portato sua figlia quando ne
avevamo bisogno. Esattamente quando ne avevamo bisogno».
Negli occhi di Deborah c'era ancora ostinazione. «Chi ci dice che lei è in
grado di usare i poteri?», chiese.
«Io», rispose fermamente Diana. «Riesco ad avvertirlo».
«Anch'io», disse all'improvviso Faye. Deborah si voltò a guardarla, e
sorrise candidamente.
«Credo che la ragazza possa evocare almeno la Terra e il Fuoco»,
continuò Faye, con un distacco tale che aveva dell'esasperato. «Potrebbe
dimostrare di avere anche qualche talento».
"Perché", si chiese sbalordita Cassie, "queste parole mi fanno rizzare i
capelli sulla nuca?".
Quando Diana rivolse a Faye un'occhiata lunga e indagatrice, la sua
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fronte era corrugata. Poi si voltò verso Deborah.
«Questo soddisfa la tua obiezione?».
Deborah annuì con aria minacciosa e indietreggiò.
«Allora», disse Diana con una gentilezza e una tranquillità che
sembravano nascondere gelida rabbia, «possiamo continuare, per favore?».
Tutti si scansarono, quando Diana tornò al suo posto. Sollevò il pugnale
verso il cielo, poi lo rivolse verso i quattro punti cardinali, e infine verso
Cassie. Pronunciò di nuovo le parole che avevano fatto venire i brividi a
Cassie, e questa volta finì senza che nessuno la interrompesse.
Aria e fuoco, acqua e terra,
vostra figlia qui s'afferma.
Luce di sole, buio di luna,
che lei incontri la vostra fortuna.
Sfida, prove e giuramenti,
che nel Circolo lei ora entri.
Sangue e ossa, carne e potenza,
una di noi adesso Cassie diventa.
«Ecco fatto», disse con dolcezza Laurel alle spalle di Cassie. «Sei
dentro».
Dentro. "Sono dentro". Cassie seppe, mentre una sorta di selvaggia
euforia la scuoteva tutta, che da quel momento in poi nulla sarebbe mai più
stato lo stesso.
«Cassie».
Diana si stava slacciando la collana d'argento che portava al collo. Gli
occhi di Cassie erano incollati sulla luna crescente che vi era attaccata. Era
simile a quella del diadema... e al tatuaggio di Deborah.
«Questa collana», disse Diana annodandogliela al collo, «dimostra la tua
appartenenza al circolo».
L'abbracciò. Non fu un gesto spontaneo; sembrava più che altro parte del
rituale. Poi si girò per guardare gli altri membri del club e disse: «I poteri
l'hanno accettata. Io l'ho accettata. Voi farete altrettanto».
Laurel fu la prima a congratularsi con lei. Il suo volto era serio, ma nel
profondo dei suoi occhi marroni c'erano calore e cordialità sinceri.
Abbracciò Cassie e le diede un bacio delicato su una guancia. «Sono felice
che tu sia una di noi», bisbigliò e poi si fece da parta, i lunghi capelli
castani che sventolavano leggermente nella brezza. «Grazie», mormorò
102
Cassie.
Quindi fu il turno di Melanie. Il suo abbraccio fu più formale e Cassie
era ancora intimidita dai suoi occhi freddi e indagatori. Ma quando la
ragazza disse «Benvenuta nel club», sembrò sincera.
Deborah, al contrario, si avvicinò con aria corrucciata e abbracciò Cassie
come se volesse romperle un paio di costole. Non disse nulla.
Sean sembrava impaziente di abbracciarla. Cassie trovò il suo abbraccio
un po' troppo lungo e intimo per i suoi gusti e dovette staccarselo di dosso.
«Felice di averti con noi», disse Sean con gli occhi incollati alla sua
camicia da notte in un modo così morboso che Cassie desiderò
ardentemente di aver indossato un indumento di flanella, non di leggero
cotone.
«Me ne sono accorta», disse quasi tra sé mentre Sean indietreggiava.
Diana, che era al suo fianco, dovette mordersi le labbra per non ridere.
In circostanze normali, i fratelli Henderson sarebbero andati ben oltre
l'irruenza di Sean. Non fu così. Se quella sera al posto di Cassie ci fosse
stato un pezzo di legno non se ne sarebbero neppure accorti.
L'abbracciarono meccanicamente e indietreggiarono con gli occhi sempre
distanti e furiosi.
Poi fu il turno di Nick.
Cassie sentì stringersi lo stomaco. Non le piaceva in modo particolare,
ma... non poté fare a meno di provare un brivido leggero quando lui la
guardò negli occhi. Era così bello, e la freddezza che lo avvolgeva come
uno strato sottile di ghiaccio scuro sembrava solo migliorarne l'aspetto. Era
rimasto sempre in disparte e aveva assistito alla cerimonia con distacco.
Nulla di quello che stava accadendo pareva toccarlo davvero.
Il suo abbraccio fu impersonale. Asessuato. Come se stesse pensando ad
altro. Le sue braccia erano forti, robuste... "Be', è ovvio", pensò Cassie.
"Qualsiasi ragazzo che ha un... accordo con Faye dev'essere forte".
Suzan sapeva di profumo e, quando ricevette il suo bacio, Cassie era
certa le avesse lasciato sulla guancia una macchia di rossetto color ciliegia.
Abbracciare Suzan o un cuscino profumato era la stessa cosa.
Infine toccò a Faye. I suoi occhi splendevano enigmatici sotto le
palpebre, quasi la ragazza fosse consapevole del disagio di Cassie e ne
traesse piacere. Cassie, invece, pensava solo all'altezza di Faye e a quanto
desiderasse scappare. Aveva la convinzione che Faye stesse per farle
qualcosa di terribile...
Ma, indietreggiando, Faye si limitò a mormorare: «Allora il topolino è
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più forte di quanto sembri. Avrei scommesso che non saresti arrivata alla
fine della cerimonia».
«Non sono certa di avercela fatta», bisbigliò Cassie. Desiderava
disperatamente sedersi per riordinare le idee. Erano successe così tante
cose, e in così poco tempo... Ma l'importante era che adesso anche lei
faceva parte del gruppo. Persino Faye l'aveva accettata. Quello era un
fatto, e nessuno poteva cambiarlo.
«Va bene», disse Diana pacatamente. «Il rituale d'iniziazione è
terminato. Di solito, dopo la cerimonia diamo un party o qualcosa del
genere, ma...». Guardò Cassie e alzò le mani. Cassie annuì. Un party
sarebbe stato fuori luogo. «Credo che dovremmo sciogliere formalmente il
circolo e tenere una riunione. Così potremo informare Cassie di quel che le
serve sapere».
Ci furono cenni di assenso all'interno del cerchio e un respiro
simultaneo. Diana prese una manciata di sabbia e la versò sulla linea
disegnata a terra. Gli altri la imitarono, fino a che le tracce del cerchio
sparirono. Poi tutti si sistemarono tra le candele ancora accese: chi si
sedette sulla sabbia, chi sulle rocce che affioravano dal terreno. Nick
rimase in piedi, una sigaretta a penzolargli tra le labbra.
Diana attese che calasse il silenzio, poi si voltò verso Cassie con il volto
serio e gli occhi gravi. «Adesso che sei una di noi», disse semplicemente,
«credo sia giunto il momento di dirti chi siamo».
Cassie trattenne il respiro. Da quando si era trasferita a New Salem,
l'aveva investita un mare di eventi misteriosi e bizzarri: le domande che le
frullavano nella testa erano tantissime, e adesso, finalmente, avrebbe
ascoltato le risposte. Ma, stranamente, non era sicura che ne avesse
bisogno. Da quando l'avevano trasportata lì, quella notte, un mucchio di
pensieri si erano accumulati nella sua testa. Centinaia di piccole stranezze
su New Salem, centinaia di piccoli enigmi che non era stata in grado di
risolvere. In qualche modo, il suo cervello aveva cominciato a collegare
tutti gli elementi e adesso...
Guardò i volti che la circondavano, illuminati dalla luna e dalle
fiammelle guizzanti delle candele.
«Penso», scandì Cassie, soppesando ogni parola, «di saperlo già».
L'onestà la spinse ad aggiungere: «O almeno in parte».
«Davvero?». Faye inarcò le sopracciglia. «Allora perché non lo dici tu a
noi?».
Cassie guardò Diana, che annuì. «Be', per cominciare», dichiarò
104
lentamente, «so che il vostro non è il club di Topolino».
Risate strozzate. «Puoi dirlo forte», brontolò Deborah. «E non siamo
neppure boy scout».
«Lo so...». Cassie fece una pausa. «So che siete in grado di accendere un
fuoco senza fiammiferi. E che non usate l'amarella solo per l'insalata».
Faye si esaminò le unghie con aria innocente, e Laurel sorrise
mestamente.
«So che siete in grado di far muovere oggetti inanimati».
Questa volta fu Faye a sorridere. Deborah e Suzan si scambiarono
un'occhiata compiaciuta. Suzan mormorò: «Sshh...».
«So che a scuola vi temono tutti, persino gli adulti. Hanno paura di
chiunque viva in Crowhaven Road».
«E non hanno visto ancora niente», disse Doug Henderson.
«So che tu, Diana, usi delle pietre per smacchiare gli abiti...».
«Cristalli», la corresse Diana.
«...e che nel tuo tè non ci sono solo foglie di tè. E so», Cassie deglutì,
«che siete in grado di spingere e far cadere qualcuno senza toccarlo».
Scese il silenzio. Qualcuno guardò Faye. Faye alzò la testa e contemplò
l'oceano con gli occhi socchiusi.
«Hai ragione», disse Diana. «Hai scoperto molte cose... E noi non siamo
stati molto attenti in tema di sicurezza. Ma credo che dovresti sentire la
storia dall'inizio».
«Gliela racconto io», disse Faye. Quando Diana la guardò con aria
dubbiosa, aggiunse: «Perché no? Mi piace raccontare una bella storia. E
questa la conosco benissimo».
«Va bene», disse Diana. «Ma mi faresti il piacere di attenerti ai fatti puri
e semplici? Conosco il tuo modo di raccontare».
«Certo», disse Faye con gentilezza. «Adesso, vediamo, da dove
comincio?». Rifletté per un momento con la testa inclinata e poi sorrise.
«C'era una volta», disse, «un piccolo e bizzarro villaggio di nome Salem,
abitato da piccoli e bizzarri puritani – americani tutti d'un pezzo, lavoratori
onesti, coraggiosi e sinceri».
«Faye...».
«Proprio come certi soggetti del posto che ben conosciamo», disse Faye
senza curarsi dell'interruzione. Si alzò in piedi, gettandosi la magnifica
chioma nera alle spalle. Era palesemente felice di essere al centro
dell'attenzione. L'oceano, con le sue infinite onde che s'infrangevano a
riva, faceva da perfetto sfondo a Faye che camminava avanti e indietro, la
105
camicia di seta nera scivolata verso il basso quel tanto da scoprirle una
spalla.
«La maggior parte di questi puritani aveva in testa solo pensieri puri.
Forse qualcuno non era contento della vita noiosa che conduceva, solo
lavoro e niente svago, tutti dovevano coprirsi con abiti che arrivavano fin
qui», s'indicò il collo, «e dovevano sorbirsi sei ore di chiesa ogni
domenica...».
«Faye», la rimproverò Diana.
Faye la ignorò. «Per non parlare dei vicini», disse. «Tutti quei vicini che
ti spiavano, che spettegolavano, che ti monitoravano per controllare che
sul tuo vestito non ci fosse un bottone di troppo o che non sorridessi
mentre andavi in chiesa. A quei tempi bisognava essere umili, tenere gli
occhi bassi e fare quel che ti veniva detto senza tante domande. Se eri una
ragazza, inoltre, non potevi giocare con le bambole perché erano
considerati strumenti del demonio».
Cassie, incantata suo malgrado, non riusciva a staccare gli occhi da
Faye, che passeggiava avanti e indietro. Ancora una volta, la ragazza le
riportò alla mente la figura di un felino. Questa volta, però, in gabbia. "Se
Faye fosse vissuta a quei tempi", pensò, "sarebbe stata una vera peste".
«E forse qualcuna di quelle ragazze non era molto felice», disse Faye.
«Chi lo sa? Sta di fatto che un inverno due di loro decisero di farsi predire
il futuro. È chiaro che non avrebbero dovuto farlo. Era malvagio. Ma lo
fecero lo stesso. Una delle ragazze aveva uno schiavo proveniente dalle
Indie occidentali che sapeva leggere l'avvenire. Era un modo per
ammazzare il tempo durante le lunghe e tediose notti invernali». Guardò
Nick con la coda dell'occhio, come a dirgli che lei aveva in mente un modo
migliore per far passare le sere noiose.
«Ma le loro povere e piccole menti puritane accusarono il colpo»,
continuò Faye con lo sguardo afflitto. «Si sentivano colpevoli. E alla fine
una di loro ebbe un collasso nervoso. Si ammalò, delirò, e confessò ogni
cosa. Il segreto non fu più tale. Le ragazze si ritrovarono in una brutta
situazione. A quei tempi non era una buona cosa essere sorpresi a
trastullarsi con il soprannaturale. Agli adulti non piaceva. E così le povere
e piccole ragazze puritane furono costrette a puntare il dito contro
qualcuno».
Faye puntò verso di loro indice e pollice, affusolati e ornati da un paio di
unghie scarlatte, perpendicolari tra loro, mimando una pistola. Fece
scorrere l'arma sui membri del gruppo. Poi, si fermò su Cassie.
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Cassie guardò prima il dito e poi Faye.
«E così fecero», disse Faye affabilmente. Ritirò il dito come
inguainando una spada e proseguì. «Accusarono lo schiavo delle Indie
occidentali e un paio di donne anziane che non piacevano alla maggior
parte di loro. Donne che avevano una cattiva reputazione nel villaggio. E,
quando le accusarono, le chiamarono...». Fece una pausa drammatica e
sollevò la testa a guardare la luna crescente che splendeva nel cielo.
Quindi, tornò a osservare Cassie. «Le chiamarono "streghe"».
Si levò tra i presenti un mormorio, di agitazione, di divertimento amaro,
di esasperazione. I membri del club scuotevano la testa per il disgusto.
Cassie sentì rizzarsi i capelli sulla nuca.
«E, sapete una cosa?», Faye guardò il suo pubblico ammaliato. Poi
sorrise lentamente e sussurrò: «Funzionò. Nessuno le incolpò per i loro
piccoli giochi di magia. Erano tutti impegnati a dare la caccia alle streghe
del villaggio. Ma c'era un problema», continuò Faye con le sopracciglia
nere che adesso erano inarcate per il disprezzo. «Quei puritani non
avrebbero riconosciuto una strega neppure se ci fossero caduti sopra.
Cercavano donne dall'aspetto bizzarro, o troppo indipendenti, o... ricche.
Alle donne accusate venivano confiscati i beni, quindi tacciarle di
stregoneria era un affare piuttosto redditizio. Ma le vere streghe furono
sempre sotto i loro occhi».
«Perché, vedi», disse Faye con un filo di voce, «a Salem c'erano davvero
le streghe. Ma non erano le povere donne, o gli uomini disgraziati che il
popolo accusò. Nonostante le ricerche, non ne beccarono neppure una. Ma
le streghe erano lì, sotto gli occhi di tutti, e non gradivano ciò che stava
accadendo. Si sentivano colpite troppo vicino a casa loro. Un paio di loro
tentarono anche di fermare i processi, ma servì solo ad ampliare i sospetti.
Era troppo pericoloso persino essere amici di uno dei prigionieri».
Faye fece una pausa. Il silenzio fu totale. I volti intorno a Cassie non
erano più allegri, ma freddi e arrabbiati. Come se quella storia
riecheggiasse nelle loro ossa; per loro non era un vecchio racconto di un
passato morto e sepolto, ma un avvertimento sempre attuale.
«Cosa successe?», chiese alla fine Cassie in tono sommesso.
«A coloro che erano stati accusati di stregoneria? Morirono. Quelli
sfortunati, almeno, quelli che non vollero confessare. Ne vennero impiccati
diciannove, prima che il governo decidesse di intervenire. L'ultima
esecuzione pubblica avvenne esattamente trecento anni fa, il 22 settembre
1692, giorno dell'equinozio d'autunno. No, quei poveracci accusati di
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stregoneria non furono molto fortunati, ma le vere streghe... be'...». Faye
sorrise.
«Le vere streghe se ne andarono. Con discrezione, ovviamente. Dopo
che le acque si furono calmate. Fecero i bagagli, si trasferirono a nord e
fondarono un villaggio tutto loro, dove nessuno le avrebbe accusate perché
erano tutte uguali. E chiamarono il loro piccolo villaggio...». Guardò
Cassie dritto negli occhi.
«New Salem», concluse Cassie. Nella sua mente rivide la targa davanti
all'edificio della scuola. «Fondata nel 1693», aggiunse con un filo di voce.
«Sì. Un anno dopo la fine dei processi. Quindi, vedi, è così che la nostra
piccola città è stata fondata. Dai dodici membri di quella congrega di
streghe e dalle loro famiglie. Noi», disse Faye con un gesto ampio e
sinuoso che includeva tutto il gruppo, «siamo ciò che resta dei discendenti
di quelle dodici famiglie. I loro unici discendenti. La feccia che gira a
scuola e in città...».
«Come Sally Waltman, per esempio», intervenne Deborah.
«...sono i discendenti dei servitori. Gli aiutanti», disse Faye dolcemente.
«O degli esterni che arrivarono al villaggio e a cui fu permesso di restare.
Ma le dodici case in Crowhaven Road sono le abitazioni delle dodici
famiglie originarie. Le nostre famiglie. Si sposarono tra loro per non
corrompere la linea di sangue – la maggior parte, almeno. E alla fine siamo
arrivati noi».
«Devi capire», disse Diana con calma, «che si tratta in buona parte di
ipotesi. Non sappiamo davvero cosa scatenò la caccia alle streghe del
1692. Ma sappiamo cosa è successo ai nostri antenati perché abbiamo letto
i loro diari, i loro vecchi documenti, i loro libri di magia. I loro Libri delle
ombre». Si voltò e prese qualcosa che era poggiato sulla sabbia. Cassie
riconobbe il libro che aveva visto sul davanzale della finestra quando
Diana le stava smacchiando il cardigan.
«Questo», disse Diana, «apparteneva alla mia trisavola, che a sua volta
l'aveva ricevuto dalla madre, e lei dalla sua e così via. Ognuna di loro ci ha
aggiunto qualcosa; registravano gli incantesimi che eseguivano, i rituali,
gli eventi importanti delle loro vite. E ognuna l'ha tramandato alla
generazione successiva».
«Almeno fino all'epoca delle nostre bisnonne», disse Deborah. «Più o
meno ottanta, novanta anni fa. Poi decisero che l'intera faccenda era troppo
spaventosa».
«Malvagia», intervenne Faye con gli occhi dorati che le scintillavano.
108
«Nascosero i libri e cercarono di dimenticare le conoscenze dei loro
avi», disse Diana. «Insegnarono ai propri figli che era sbagliato essere
diversi. Cercarono di diventare, di mostrarsi normali, come gli esterni».
«Ma si sbagliavano», disse Chris. Si piegò in avanti, la mascella serrata,
il dolore impresso sul volto. «Non possiamo essere come loro. Kori lo
sapeva. Lei...». Si bloccò e scosse la testa.
«È tutto ok, Chris», disse delicatamente Laurel. «Lo sappiamo».
Sean parlò con veemenza, gonfiando il petto: «Li nascosero, ma noi li
abbiamo ritrovati», disse. «Non ci siamo mai arresi».
«Noi non ci siamo mai arresi», disse Melanie lanciandogli un'occhiata
divertita. «Mentre qualcuno era impegnato a giocare a Batman, quelli più
grandi cercavano di scoprire il proprio retaggio».
«E qualcuno aveva un talento più naturale degli altri», aggiunse Faye.
Aprì la mano per ammirarsi le lunghe unghie rosse. «Una... ehm,
predisposizione... maggiore a evocare i poteri».
«Esatto», disse Laurel. Inarcò le sopracciglia e poi guardò Diana negli
occhi, e a lungo. «Per alcuni di noi è così».
«Abbiamo tutti un talento», disse Diana. «L'abbiamo scoperto quando
eravamo molto piccoli – praticamente dei mocciosi. Persino i nostri
genitori non potevano ignorarlo. Per un po' provarono a impedirci di usarli,
ma la maggior parte ci rinunciò».
«Qualcuno ci ha addirittura aiutato», disse Laurel. «Come mia nonna.
Tuttavia prendiamo gran parte di quello che ci serve dai vecchi libri».
Cassie ripensò a sua nonna. Aveva cercato di aiutarla in qualche modo?
Sì, ne era certa.
«O dalle nostre teste», ribadì Doug, mostrando un sorriso cupo e
affascinante. Per un brevissimo istante tornò a essere il ragazzo che aveva
imperversato nei corridoi della scuola sui rollerblade. «Si tratta di istinto,
sai? Puro istinto. Primitivo».
«I nostri genitori non lo sopportano», aggiunse Suzan. «Mio padre dice
che ci metteremo nei guai con gli esterni. Dice che gli esterni ci
prenderanno».
I denti bianchi di Doug brillavano sotto la luna. «Invece, saremo noi a
prendere loro», disse.
«Non capiscono», disse pacatamente Diana. «Persino tra noi non tutti
comprendono che i poteri possono essere utilizzati a fin di bene. Ma solo
noi possiamo evocarli, e lo sappiamo. E questo è quel che importa».
Laurel annuì. «Mia nonna dice che ci saranno sempre esterni che ci
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odieranno. Non possiamo far altro che tenerci lontani da loro».
Cassie ripensò al preside che reggeva la bambola con due dita.
"Appropriato", aveva detto. Be', non c'era da meravigliarsi... se già sapeva
che Cassie era una di loro. «Vuoi dire», domandò, «che anche gli adulti
sanno che siete... siamo... streghe? Gli adulti esterni?»
«Sì, ma solo gli adulti di New Salem», rispose Diana. «Quelli di loro che
sono cresciuti sull'isola. Lo sanno da secoli, in realtà... Ma non hanno mai
sollevato problemi. Se vogliono vivere qui, è così che devono comportarsi.
È così che funziona qui».
«Nel corso delle ultime generazioni, i rapporti tra la nostra gente e gli
esterni sono diventati ottimi», disse Melanie. «O almeno questo è ciò che
ci raccontano i nostri nonni. Ma adesso noi abbiamo smosso le acque. Gli
esterni potrebbero non restarsene tranquilli per sempre. Potrebbero tentare
di far qualcosa per fermarci...».
«Potrebbero? Lo hanno già fatto», disse Deborah. «Cosa credi che sia
successo a Kori?».
Quando gli Henderson, Sean, Suzan e Deborah intervennero nella
discussione, le loro voci si fusero in un brusio indistinto. Diana alzò una
mano.
«Adesso basta! Non è questo il momento», dichiarò. «La tragedia
toccata a Kori è una delle cose che il circolo dovrà scoprire. Adesso che
siamo al completo, dovremmo farcela. Ma non questa notte. E fintanto che
il leader sono io...».
«Leader temporaneo. Fino a novembre», la interruppe bruscamente
Faye.
«Ok, fintanto che sono il leader temporaneo, deciderò io cosa fare e non
salteremo a nessuna conclusione. Va bene?». Diana si guardò intorno.
Alcuni volti erano chiusi, privi d'espressione; altri, come quello di
Deborah, dichiaratamente ostili. Ma la maggior parte dei membri annuì o
fece un cenno di assenso.
«Va bene. E... questa notte è dedicata all'iniziazione di Cassie». Si
rivolse a Cassie. «Hai qualche domanda?»
«Be'...». Cassie aveva l'assillante sensazione che avrebbe dovuto
chiedere qualcosa, ma non riusciva a capire cosa. «I ragazzi del circolo...
come sono chiamati? Cioè, sono maghi, stregoni o cosa?»
«No», disse Diana. «"Stregone" è una parola obsoleta, indica un uomo
saggio che spesso agiva per conto proprio. E "mago" deriva da una parola
che vuol dire traditore, impostore. Il termine giusto è "strega", anche per i
110
ragazzi. Altro?».
Cassie scosse la testa.
«Bene, allora», disse Faye. «Adesso che sai tutto, ho una domanda per
te». Fissò Cassie con un mezzo sorriso ambiguo, e disse con un tono di
falsa dolcezza: «Sarai una strega buona o una strega cattiva?».
13
"Molto divertente", pensò Cassie. Ma in verità non lo era affatto. La
domanda di Faye aveva una sfumatura terribilmente seria. Chissà perché
non riusciva a immaginare Faye che si serviva dei poteri – qualunque cosa
fossero – a fin di bene, esattamente il contrario di Diana.
«Qualcuno ha qualcosa da aggiungere? Domande, commenti, questioni
riguardanti il club?». Diana si stava guardando intorno. «Allora dichiaro
chiuso l'incontro. Potete restare o andare, fate come credete. Domani
pomeriggio ci riuniremo di nuovo per onorare la memoria di Kori e per
studiare un piano d'azione».
Seguì un mormorio, durante il quale i membri del club si scambiarono
occhiate a vicenda. Poi tutti si alzarono. La tensione elettrica che aveva
tenuto insieme il gruppo si era dispersa, ma nell'aria era rimasta una
sensazione indefinita, come se nessuno volesse davvero andarsene.
Suzan si avvicinò a una roccia. Ci girò intorno e ne estrasse alcune
lattine di bibite dietetiche. Laurel prese un grosso termos dietro un'altra
roccia.
«È tè ai frutti di rosa», sorrise a Cassie, versandole una tazza di liquido
rosso e profumato. «In realtà le foglie di tè non ci sono, ma ti riscalderà lo
stesso e ti farà sentire meglio. Le rose hanno un effetto lenitivo e
purificante».
«Grazie», disse Cassie, accettando con piacere. Le girava la testa.
"Sovraccarico di informazioni", pensò.
"Sono una strega", si disse meravigliandosi. "O meglio: una mezza
strega. Ma la mamma e la nonna sono streghe ereditarie". Era un pensiero
bizzarro e quasi impossibile da accettare.
Bevve un altro sorso di quella dolce bevanda calda, tremando suo
malgrado.
«Tieni», le disse Melanie, sfilandosi lo scialle verde pallido e
mettendoglielo sulle spalle. «Noi siamo abituati al freddo, ma tu no. Se
vuoi, possiamo accendere un fuoco».
111
«No, lo scialle va bene», disse Cassie infilando i piedi nudi sotto il
corpo. «È bellissimo... È molto antico?»
«Apparteneva alla bisnonna della mia bisnonna, se dobbiamo credere
alle vecchie storie», disse Melanie. «Di solito agli incontri vestiamo
meglio. Possiamo indossare quel che vogliamo e a volte la cosa si fa
stravagante. Ma stanotte...».
«Già». Cassie annuì. "Melanie è più gentile del solito", pensò. Come
Laurel e Diana. Dopo un attimo di confusione, capì.
"Sono una di loro, adesso", rifletté, e per la prima volta la piena portata
della cosa la colpì. Non era più un cucciolo raccolto dalla strada, ma un
membro in piena regola del club.
Sentì di nuovo le bolle di eccitazione e di euforia nelle vene. E una
sensazione più profonda, di identificazione. Come se qualcosa dentro di sé
annuisse e dicesse: "Sì, io l'ho sempre saputo".
Guardò Melanie, che stava sorseggiando con calma il suo tè, e Laurel,
che tentava di raddrizzare una candela sciolta. Poi contemplò Diana, che si
trovava in disparte con i fratelli Henderson, le tre teste bionde una accanto
all'altra. Diana non provava imbarazzo a indossare il leggero chemisier
bianco e i gioielli sofisticati. Sembrava che per lei fosse normale vestirsi a
quel modo.
"La mia gente", pensò Cassie. L'improvvisa sensazione di appartenenza
– di amore – era talmente intensa che le vennero le lacrime agli occhi.
Cercò con gli occhi Suzan e Deborah, assorte in una conversazione, poi si
spostò su Faye, che ascoltava con un sorriso accomodante quello che un
infervorato Sean stava raccontando, e poi su Nick, che a sua volta fissava
in silenzio l'oceano, con in mano una lattina di qualcosa che non era una
bibita gassata.
"Persino loro", pensò. Era disposta a impegnarsi con tutta se stessa, per
legare anche con gli altri membri del club, con chiunque condividesse il
suo sangue. Anche con chi aveva provato a escluderla.
Tornò a guardare Laurel, e scoprì che la ragazza magra e castana la stava
guardando a sua volta, con un lieve sorriso di comprensione stampato in
faccia.
«Un mucchio di roba da affrontare tutta insieme, eh?», commentò
Laurel, con l'aria di chi la sa lunga.
«Sì, è vero. È un po' dura, ma anche molto eccitante».
Laurel sorrise. «Allora, adesso che sei una strega», disse, «qual è la
prima cosa che farai?».
112
Cassie rise, provando una sensazione simile all'ebbrezza. "Potere",
pensò. "C'è così tanto Potere là fuori – e adesso posso prenderlo". Scosse
la testa e sollevò la mano che non stava reggendo la tazza di tè. «Che
possiamo fare?», disse. «Voglio dire, che tipo di cose?».
Laurel e Melanie si scambiarono un'occhiata. «In pratica, quello che ti
pare», disse Melanie. Prese il libro che in precedenza Diana aveva
mostrato a Cassie e cominciò a sfogliarlo. Le pagine, ingiallite e friabili,
erano piene di frasi minuscole e illeggibili, e di post-it rosa e segnalibri di
plastica. Ogni foglio ne aveva almeno uno, e molte ne avevano diversi.
«È il primo Libro delle ombre che siamo riusciti a ritrovare», disse
Melanie. «Era nella soffitta di Diana. Da allora ne abbiamo trovati altri;
ogni famiglia dovrebbe possederne uno. Su questo particolare stiamo
lavorando da cinque anni, decifrando gli incantesimi e riscrivendoli in un
linguaggio attuale. Io poi sto riversando il risultato del nostro lavoro sul
computer, per facilitare i riferimenti incrociati».
«Una specie di Floppy-disk delle ombre», disse Cassie.
Laurel sorrise. «Esatto. Ed è divertente, sai, ma una volta che apprendi i
primi incantesimi e rituali, è come se dentro di te si risvegliasse qualcosa.
Cominci a trovare te stessa».
«Istinto», mormorò Cassie.
«Esatto», disse Laurel. «Ce l'abbiamo tutti, chi più chi meno. E alcuni di
noi sono migliori degli altri in alcune cose, per esempio nell'evocazione
dei vari poteri. Io mi trovo a mio agio con la Terra». Laurel prese una
manciata di sabbia e se la fece scivolare tra le dita dischiuse.
«Hai tre possibilità per indovinare con cosa Faye è più a suo agio», disse
seccamente Melanie.
«E comunque, per rispondere alla tua domanda: possiamo fare un
mucchio di cose», disse Laurel. «Dipende tutto dai tuoi gusti. Incantesimi
di protezione, di difesa...».
«O di attacco», intervenne Melanie, lanciando un'occhiata a Suzan e
Deborah.
«...Incantesimi per piccole cose, come accendere un fuoco, e per grandi
cose, come... Be', lo scoprirai. Sortilegi di guarigione, o per trovare ciò che
vuoi; divinazioni, profezie. Pozioni d'amore...». Quando Cassie alzò la
testa di scatto, Laurel sorrise. «Questo t'interessa?»
«Oh, un po', forse». Cassie arrossì. Dio, quanto desiderava riordinare le
proprie idee. Sentiva ancora la pressante sensazione di non riuscire a
cogliere qualcosa, qualcosa di ovvio che stava tralasciando e di cui
113
avrebbe dovuto chiedere. Ma cos'era?
«Ci sono molte discussioni a proposito di quanto sia etico servirsi di
pozioni e incantesimi d'amore», stava dicendo Melanie in quel momento,
con gli occhi grigi che mostravano un pizzico di disapprovazione. «Sai,
qualcuno pensa che violino il libero arbitrio. E c'è da dire che un
incantesimo usato in maniera impropria può ripercuotersi sulla persona che
l'ha lanciato, e ben tre volte tanto. Qualcuno crede che il gioco non valga la
candela».
«E qualcun altro», aggiunse Laurel con finta solennità e con gli occhi
che le brillavano, «sostiene che in amore e in guerra tutto sia lecito. Se
capisci quel che voglio dire».
Cassie si morse un labbro. Per quanto tentasse di concentrarsi sulla
preoccupazione che la tormentava, un altro pensiero spingeva per venire
alla luce. Più che un pensiero era una speranza, la manifestazione
inaspettata di una possibilità.
Pozioni d'amore. E ritrovare le cose. Esisteva un incantesimo per
ritrovare lui e portarlo da lei? Lo sentiva nelle ossa: la risposta era
affermativa.
Ritrovare lui , il ragazzo con gli occhi grigio-blu. Cassie sentì un
improvviso calore alla bocca dello stomaco; le mani cominciarono a
formicolarle. Il pensiero di quella possibilità sembrò sollevarla da terra.
"Oh, ti prego, se posso chiedere una cosa sola...".
«Supponiamo», disse, confortata di sentire che aveva una voce normale,
«che tu voglia trovare qualcuno di cui hai perso le tracce. Qualcuno che
ti... piace, e che vuoi rivedere. Esiste un incantesimo per questo?».
Gli occhi di Laurel stavano brillando di nuovo. «Questa persona... non
sarà mica un ragazzo?», chiese.
«Sì», disse Cassie, rendendosi conto che stava arrossendo.
«Be'...». Laurel lanciò un'occhiata a Melanie, che scosse la testa con aria
rassegnata, poi tornò a guardare Cassie. «Direi che potresti usare un
semplice incantesimo degli alberi. Gli alberi sono in sintonia con qualsiasi
cosa cresca e porti la vita, come l'amore e l'amicizia. E l'inverno è un buon
periodo per utilizzare ciò che hai raccolto, come le mele. Quindi
propenderei per un incantesimo delle mele. Per farla breve, spacchi una
mela in due parti uguali. Poi prendi due aghi – comuni aghi da cucito –
avvicini le due crune e ci fai passare dentro un filo. Infili gli aghi nelle due
metà della mela e le unisci. Bisogna stringere con forza ma anche con
attenzione, affinché la mela non si riapra. Riattacchi la mela al ramo da cui
114
l'hai colta e dici all'albero quel che desideri».
«Cosa gli dico?»
«Oh, una poesia o qualcosa del genere», disse Laurel. «Qualcosa che
evochi il potere dell'albero e ti aiuti a visualizzare la cosa o la persona a
cui aspiri. È meglio che sia in rima. Io non ne sono molto capace, ma
dovrebbe essere una cosa tipo: "Albero cordiale, ritrova il mio amico
speciale"».
"Mmm, forse non sarebbe abbastanza", pensò Cassie con un fremito che
le attraversò il corpo. Le parole di Laurel stavano cambiando nella sua
testa, trasformandosi, espandendosi. Le sembrò di sentire una voce,
cristallina e tuttavia remota.
Gemme e germogli, alberi e foglie,
soddisfate adesso le mie voglie.
Radici e rami, boccioli e fiori,
intrecciate per sempre i nostri cuori.
Le labbra di Cassie si mossero senza emettere alcun suono. Sì, da
qualche parte dentro di sé sapeva di avere ragione. Quello era
l'incantesimo giusto, ma avrebbe avuto davvero il coraggio di servirsene?
"Sì. Per lui rischierei qualunque cosa", pensò. Abbassò lo sguardo sulle
sue dita che si muovevano distrattamente nella sabbia. "Domani", decise.
"Lo farò domani. Dopo di che trascorrerò ogni minuto di ogni giorno a
guardare e sperare. Aspetterò il momento in cui vedrò un'ombra e alzerò la
testa per trovarmelo davanti, o sentirò dei passi alle mie spalle e mi volterò
per vederlo arrivare. O ancora.
Ciò che accadde in quel momento fu talmente sorprendente e inaspettato
che Cassie quasi urlò.
Un naso umido le sfiorò la mano.
Ciò che le impedì di urlare fu qualcosa di simile a un arresto cardiaco.
L'urlo le arrivò in gola, ma poi vide il cane e tutto divenne indistinto. La
mano, che aveva ritratto di scatto, le cadde mollemente su un fianco. Le
labbra si aprirono e si richiusero senza emettere suoni. Come attraverso
una foschia, Cassie fissava gli occhi marroni e limpidi e i baffetti ispidi del
cane. Il cane aveva la bocca aperta e il muso allegro, come a dirle: «Non
sei felice di rivedermi?».
Cassie sollevò la testa verso il padrone del cane.
Lui la stava guardando, come il giorno sulla spiaggia di Cape Cod,
115
quando si erano conosciuti. La luce della luna si perdeva nei suoi capelli
rossi creando giochi di luce meravigliosi, trasformando alcune ciocche in
fiamme e altre in zampilli di vino scuro. I suoi occhi grigio-blu
sembravano argento.
L'aveva trovata.
Il mondo si fermò. Oltre al fragore dell'oceano, che le giungeva ovattato
e distante, Cassie non riusciva a sentire altro. Persino la brezza era sparita.
Era come se il mondo intero fosse in attesa di qualcosa.
Lentamente, Cassie si alzò.
Lo scialle verde le scivolò dalle spalle. Riusciva a sentire il freddo, ma
solo perché la rendeva cosciente del proprio corpo, di ogni sua cellula, che
formicolava come fosse attraversata da scariche elettriche. Tuttavia,
benché fosse perfettamente consapevole del proprio corpo, a Cassie
sembrava anche di fluttuare al suo esterno, fuori di sé. Proprio come la
prima volta, le pareva di vedere se stessa – e lui – in piedi sulla spiaggia.
Riusciva a vedere la propria immagine, galleggiante nella camicia da
notte leggera e bianca, i piedi scalzi, i capelli sciolti sulle spalle, gli occhi
fissi su di lui. "Come Clara nello Schiaccianoci", pensò, "quando si sveglia
nel pieno della notte e vede il principe Schiaccianoci che è venuto per
portarla in un mondo di magia". Si sentiva come Clara. Come se i raggi
della luna l'avessero trasformata in qualcosa di delicato e meraviglioso,
qualcosa d'incantevole. Come se in quel momento lui potesse prenderla tra
le braccia e invitarla a ballare. Come se, insieme, potessero danzare per
sempre sotto la luna.
Si stavano davvero guardando l'un l'altro. Da quando i loro occhi si
erano incontrati, nessuno dei due aveva distolto lo sguardo. Cassie riusciva
a leggere la meraviglia sul suo volto. Sembrava che lui fosse sorpreso di
vederla quanto lei... Ma, come era possibile? Era stato lui a trovarla, era lui
che si era messo alla sua ricerca.
"Il filo d'argento", pensò. Non riusciva a vederlo, ma poteva sentire le
vibrazioni del suo potere che collegavano i due cuori, vibrazioni che si
trasmisero poi dal petto allo stomaco, e a tutto il corpo.
Man mano il filo si stringeva, si accorciava, avvicinandola a lui.
Lentamente, il ragazzo tese una mano per raggiungerla. Cassie fece
altrettanto, per stringergliela...
In quel momento, qualcuno alle sue spalle lanciò un grido. Distratto da
quel forte rumore, il ragazzo guardò sopra le spalle di Cassie. E la mano
gli ricadde lungo il fianco.
116
Qualcosa si frappose tra loro, qualcosa di splendente come la luce del
sole, che spezzò la trance in cui era caduta Cassie. Era Diana, e stava
abbracciando il ragazzo alto con i capelli rossi. Lo stava stringendo a sé.
No... L'abbraccio era reciproco. Cassie, stordita, guardò le braccia del
ragazzo strette intorno a una che non era lei. Quasi non riuscì a
comprendere le parole che sentì un attimo dopo:
«Oh, Adam... Sono così felice che tu sia tornato».
Cassie rimase di sasso.
Non aveva mai visto la sua amica Diana scoppiare in lacrime, perdere il
controllo: ma lo stava facendo proprio in quel momento. Stava piangendo.
Cassie riuscì a vedere che tremava e, non solo, vide come il ragazzo alto –
Adam – la stringeva a sé tentando di calmarla.
Lui l'abbracciò. Stava abbracciando Diana. E si chiamava Adam.
«Stai dicendo che Diana non ti ha ancora parlato di Adam? Diana, c'è
un limite anche alla modestia...».
«Chi è? E il tuo ragazzo...?»
«È carino. Credo che ti piacerà...».
Cassie cadde in ginocchio e affondò la testa nel pelo di Raj,
aggrappandosi al grosso cane. In quel momento non sarebbe riuscita a
sopportare lo sguardo di nessuno, e soprattutto non voleva che qualcuno
potesse vedere la sua faccia e notarne l'espressione distrutta. Per questo,
mentre lo stringeva, gli era riconoscente della calda solidarietà che lui le
offriva. "Oh, Dio; oh, Dio...".
Riuscì vagamente a sentire le parole di Adam: «Cos'è successo? Ho fatto
il possibile per arrivare in tempo per l'iniziazione di Kori, ma lei dov'è?
Che sta succedendo?». Poi guardò Cassie. «E...».
«Lei si chiama Cassie Blake», disse Diana. «È la nipote della signora
Howard, e si è trasferita sull'isola da poco».
«Sì, io...».
Ma Diana, la voce scossa dal dolore, non aveva ancora finito. «Ed è stata
iniziata al posto di Kori».
«Cosa?», chiese Adam. «Perché?».
Seguì un attimo di silenzio. Alla fine fu Melanie a prendere la parola, la
voce distaccata e calma come quella di un giornalista televisivo che
rilascia una dichiarazione: «Perché stamattina – o meglio ieri mattina,
visto che ormai è mercoledì – il corpo di Kori è stato trovato ai piedi della
collina della scuola. Con il collo spezzato».
«Oh, Dio». Cassie alzò la testa e vide che Adam stava stringendo Diana
117
con più forza, quasi aggrappandosi a lei. Chiuse gli occhi per un attimo,
mentre Diana riprendeva a tremare. Poi guardò i fratelli Henderson.
«Chris... Doug...».
Doug stava digrignando i denti. «Sono stati gli esterni», disse.
«È stata Sally», ringhiò Deborah.
«Non sappiamo chi è stato!», disse Diana infervorata. «E non faremo
nulla finché non scopriremo il colpevole».
Adam annuì. «E tu», disse, rivolto a qualcuno in fondo al gruppo. «Tu
che hai fatto per aiutare?»
«Un accidenti di niente», disse Nick con le braccia conserte sul petto e
l'espressione impassibile. Il suo sguardo di sfida adesso era fisso su quello
di Adam. Era evidente che tra i due non scorresse buon sangue.
«Ci sta dando una mano, Adam», disse Diana anticipando qualunque
cosa Adam avesse intenzione di dire. «È sempre venuto agli incontri ed è
presente anche stanotte. È tutto quello che possiamo chiedergli».
«Io avrei qualcos'altro da chiedergli», disse Adam.
«Chiedi pure. Non otterrai altro da me», disse Nick voltandosi. «Me ne
vado».
«Oh, non andare...», cominciò Laurel, ma Nick ormai aveva deciso.
«Sono venuto perché me l'ha chiesto Diana, ma adesso basta. Ne ho
avuto abbastanza, per stanotte», disse senza voltarsi. E se ne andò.
Faye si voltò verso Adam rivolgendogli il sorriso più indolente e
abbagliante di cui era capace. Poi applaudì. «Gran bel lavoro, Adam. Nelle
ultime tre settimane Diana ha sgobbato come una schiava per tenere unita
la truppa e tu hai distrutto tutto in tre minuti. Non avrei saputo fare di
meglio».
«Oh, falla finita, Faye», la rimproverò Laurel.
Cassie era ancora inginocchiata. Anche se continuava ad abbracciare
Raj, riusciva a vedere, a sentire e a pensare soltanto a una cosa. Le braccia
di Adam, le sue braccia, intorno alle spalle di Diana.
"Si chiama Adam. E appartiene a lei. Non a me, a lei. E sarà sempre
così".
Non poteva essere. Non era possibile. L'aveva ritrovata, contro ogni
speranza; era venuto da lei. Senza incantesimi d'amore, come attratto
dall'estremo bisogno che Cassie aveva di vederlo. Era venuto, ma non
poteva averlo.
Come poteva essere stata così stupida? Come aveva fatto a non capire?
Per tutta la notte si era parlato di completare il circolo, di dodici membri.
118
Se avesse contato, avrebbe scoperto che erano soltanto in undici. Diana,
Melanie, Laurel, Faye, Suzan e Deborah erano sei. Con i ragazzi – i fratelli
Henderson, Nick e Sean – si arrivava a dieci. E con Cassie a undici. Per
tutto quel tempo una parte di lei, nascosta in un angolo remoto della sua
mente, aveva saputo che qualcosa non andava, e aveva cercato di dirglielo.
Ma lei non aveva ascoltato.
"Ma come ho fatto a non capirlo comunque?", pensò. "Come ho fatto a
non capire che il ragazzo che avevo conosciuto era uno di loro? Gli indizi
c'erano tutti, ed erano davanti ai miei occhi. Ha i poteri – l'ho visto quel
giorno in spiaggia con Portia. Mi ha letto nella mente. Mi ha detto che
veniva da un altro luogo, mi ha detto che era diverso. Portia aveva persino
usato quella parola".
Strega.
"E stanotte ho scoperto che il club è in realtà una congrega di streghe.
L'ultima generazione di streghe del Nuovo Mondo. Avrei dovuto capirlo
allora che era uno di loro".
"Sapevo anche che Diana aveva un fidanzato, un fidanzato che era in
'vacanza'. Le tessere del puzzle c'erano tutte. Semplicemente non ho voluto
unirle".
"Perché sono innamorata di lui. Solo non sapevo quanto, fino a che non
l'ho rivisto stanotte. E appartiene alla mia migliore amica. A mia 'sorella'".
"La odio".
Quel pensiero, di una intensità terrificante, le fece serrare i pugni sotto la
pelliccia del grosso cane. Fu un primitivo, selvaggio bagno di emozione,
una sensazione talmente intensa che per un momento spazzò via persino il
dolore. Un odio micidiale, rosso come il sangue, le sgorgò da dentro e si
riversò all'esterno, verso la ragazza con i capelli luminosi come i raggi
della luna...
Come i raggi della luna e del sole intrecciati insieme. Guardandoli in
quel momento, con quella violenza acida che infuriava nel suo petto,
un'altra immagine le balenò in testa. Quegli stessi capelli incredibilmente
luccicanti sul freno a mano dell'auto di Diana. Dopo che questa l'aveva
salvata da Faye.
"Quando ti stava portando a casa per prendersi cura di te", le sussurrò
una voce. "Ti ha ripulita e ti ha offerto da mangiare, ti ha presentata alle
sue amiche. Ti ha protetta, ti ha dato un posto cui appartenere. Ti ha reso
sua sorella".
"È la stessa persona che adesso dici di odiare?".
119
Cassie sentì la rossa furia letale scivolare via. Non riusciva a trattenerla,
e non voleva neppure provarci. Non poteva odiare Diana... Perché lei
amava Diana. E amava Adam. Amava entrambi e voleva che fossero felici.
"E allora, che ne sarà di te?", chiese la voce dentro di lei.
Era molto semplice, davvero. Quei due erano fatti l'uno per l'altra. Erano
tutti e due alti: Diana era abbastanza alta da guardarlo dritto negli occhi.
Erano entrambi veterani: Diana era abbastanza matura per lui (infatti,
come aveva potuto pensare, Cassie, che un ragazzo più grande potesse
scegliere proprio lei?). Erano di una eccezionale bellezza, sicuri di sé e
predisposti al comando.
"Inoltre, sono entrambi streghe purosangue", ricordò Cassie a se stessa.
"Scommetto che lui è incredibilmente talentuoso. Certo che lo è. Diana
non sceglierebbe che il migliore. Perché anche lei lo è".
"E non dimenticare che si amano dall'infanzia. Stanno insieme da
sempre; addirittura non vedono nessuno del sesso opposto. Sono
chiaramente fatti l'uno per l'altra".
Dunque, tutto era davvero molto ovvio e molto semplice... Ma, allora,
per quale motivo Cassie aveva l'impressione che delle lame affilate le
stessero riducendo in brandelli le budella? Non doveva far altro che
augurare loro ogni felicità e accantonare qualsiasi pensiero che riguardasse
lei e Adam insieme. Rassegnarsi a una cosa che sarebbe comunque
successa. Augurare a entrambi ogni fortuna.
Fu allora che prese la sua decisione, lucida e fredda. "Non importa cosa
succederà", si promise, "Diana non verrà mai a saperlo".
E neanche Adam.
Se Diana avesse scoperto cosa provava Cassie, sarebbe rimasta
sconvolta. Era talmente altruista che forse avrebbe persino pensato che
fosse suo dovere agire in qualche modo per risolvere la situazione –
qualcosa come lasciare Adam, in modo tale che Cassie smettesse di
soffrire. E, se non lo avesse fatto, si sarebbe sentita a pezzi.
Per questo, Cassie avrebbe fatto in modo che la sua amica non venisse a
saperlo. Più facile di così.
"Per nessun motivo al mondo", si promise con forza. "Cascasse il
mondo, non renderò Diana infelice. Lo giuro".
Un nasino umido la stava spintonando e deboli guaiti le riecheggiavano
nelle orecchie. Era Raj, che si lamentava per la mancanza di attenzione.
«Cassie?».
E c'era anche Diana, che le stava parlando. Cassie si rese conto di come
120
doveva sembrare ai suoi occhi, aggrappata al grosso cane in stato
confusionale.
«Cosa?», chiese, cercando di frenare il tremore delle labbra.
«Ti ho chiesto se va tutto bene».
Diana la stava guardando, i suoi larghi occhi verdi colmi di
preoccupazione. C'erano lacrime fresche sulle sue lunghe ciglia.
Guardando in quegli occhi, Cassie fece il gesto più coraggioso di tutta la
sua vita. Più coraggioso di quando aveva affrontato Jordan Bainbridge e la
sua pistola, più coraggioso di quando si era lanciata al salvataggio di Sally,
sulla collina.
Sorrise.
«Sto bene», disse, dando un'ultima carezza a Raj e alzandosi. La sua
voce, incredibilmente falsa e stupida, sembrava non appartenerle. Ma
Diana, che non poteva sospettare che lei le stesse mentendo, si rilassò. «È
solo che... Stanotte sono successe così tante cose», proseguì Cassie.
«Credo di essere stata un po' sopraffatta dagli ultimi avvenimenti».
Adam aprì la bocca. Cassie capì che era sul punto di raccontare tutto.
Avrebbe riferito a tutti il modo in cui lui e Cassie si erano incontrati, e
avrebbe detto anche cosa era successo dopo. Allora Faye, che certo non era
stupida, avrebbe fatto due più due. Avrebbe capito che era lui, il
protagonista della sua poesia.
E questo non poteva succedere. Cassie non avrebbe lasciato che
accadesse. Nessuno avrebbe dovuto saperlo, mai.
«Non ci hai ancora presentati», disse disperatamente a Diana. «Lo sai
che è da quando me ne hai parlato che non vedevo l'ora di conoscere il tuo
ragazzo».
Ecco. L'aveva detto: "Il tuo ragazzo". Adam sembrava confuso, ma
Diana, l'innocente Diana, era mortificata.
«Davvero non te l'ho presentato? Scusami. Cassie, questo è Adam...
Sono certa che voi due andrete d'accordo. È stato via...».
«In vacanza», aggiunse febbrilmente Cassie mentre Adam apriva di
nuovo la bocca.
«No, non è stato in vacanza. So di averti detto questo, ma ora posso
raccontarti la verità. È andato in cerca di alcuni... oggetti... che
appartenevano alla vecchia congrega, quella originale. Studiando i vecchi
documenti abbiamo scoperto che esistono strumenti ricchi di potere che in
qualche modo sono andati perduti. Gli Strumenti Supremi. Adam si è
messo alla loro ricerca sin da quando ne ha sentito parlare».
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«Ed è sempre tornato a mani vuote», lo schernì Faye con la sua voce
roca. «Suppongo che questa volta non sia andata diversamente».
Le sue parole attirarono l'attenzione di Adam. Il fidanzato di Diana
guardò la ragazza dai capelli neri e sorrise. Era un sorriso malizioso, pieno
di segrete promesse.
«Cosa?», chiese Faye cinicamente. Poi, dato che Adam continuava a
sorridere, ripeté: «Cosa? Non ti aspetterai che crediamo...».
«Adam», disse Diana con un tono diverso, «stai dicendo che...».
Adam sorrise e guardò la sacca da viaggio che aveva abbandonato a
terra: «Sean, va' a prenderla».
Sean ubbidì. Quando tornò disse: «È pesante».
«Adam...», sussurrò Diana con gli occhi sgranati.
Adam prese la sacca da viaggio da Sean e la poggiò a terra. «È un
peccato che Nick abbia avuto tanta fretta di andarsene», disse. «Se fosse
rimasto, avrebbe potuto vedere questo». Infilò le mani nella sacca e ne
estrasse un teschio.
14
Era grosso quanto un teschio umano, ma sembrava fatto interamente di
cristallo. La luce della luna si rifletteva sulla superficie e riusciva anche ad
attraversarlo. Aveva denti sogghignanti, e le orbite vuote fissavano
direttamente Cassie.
Per un momento il mondo s'immobilizzò, poi Faye tese le mani per
prenderlo.
«Uh-uh», disse Adam, tirandolo via in modo che fosse fuori dalla sua
portata. «Non se ne parla».
«Dove l'hai trovato?», chiese Faye. La sua voce non era più indolente,
ma ricca di un'euforia che quasi non riusciva a controllare.
Persino Cassie, ancora confusa, avvertì una traccia di apprensione, e si
accorse dell'occhiata veloce tra Adam e Diana. Poi Adam tornò a guardare
Faye. «Su un'isola», disse.
«Quale isola?»
«Non pensavo che l'argomento t'interessasse tanto. Non lo hai mai dato a
vedere, prima d'ora».
Faye gli lanciò uno sguardo truce. «In un modo o nell'altro lo scoprirò,
Adam».
«Non c'è altro, dove l'ho trovato. Credimi, sull'isola c'era soltanto questo
122
Strumento Supremo».
Faye respirò a fondo, poi buttò fuori l'aria e sorrise. «Bene, il minimo
che puoi fare è offrire la possibilità a tutti noi di dargli un'occhiata».
«No», disse Diana. «Che nessuno lo tocchi. Non sappiamo nulla sul suo
conto, tranne che apparteneva alla vecchia congrega, a Black John in
persona. Questo significa che è pericoloso».
«Siamo certi che si tratti del teschio di cristallo descritto da Black
John?», chiese Melanie, calma e razionale.
«Sì», disse Adam. «Corrisponde in tutto e per tutto alle indicazioni
presenti nei vecchi documenti. E l'ho trovato in un punto che corrisponde a
quello segnalato da Black John. Credo sia quello originale».
«Allora va pulito, purificato e studiato, prima che qualcuno di noi lo
utilizzi», disse Diana. Poi si voltò verso Cassie. «Black John era uno dei
leader della congrega originaria», disse. «Morì poco dopo la fondazione di
New Salem, ma prima nascose gli strumenti più potenti della congrega.
Per custodirli, disse, ma in realtà li voleva solo per sé. Per un tornaconto
personale, o per vendetta», e guardò Faye con un'espressione minacciosa.
«Era un uomo malvagio, e qualunque cosa abbia toccato sarà di certo
impregnata di influenze negative. Non ce ne serviremo finché non saremo
certi che quel teschio è sicuro».
"Se Black John c'entra qualcosa con questo teschio, allora deve essere
stato un uomo molto malvagio", pensò Cassie. Anche se non riusciva a
spiegarselo, sentiva che quel teschio emanava un'energia oscura. Se non
fosse stata così scoraggiata e confusa, avrebbe esternato la sua
sensazione... Ma di certo chiunque altro se n'era già accorto.
«La vecchia congrega non trovò mai gli Strumenti Supremi», stava
dicendo Laurel. «Si misero alla loro ricerca, perché Black John aveva
lasciato degli indizi, ma non ebbero fortuna. Vennero costruiti nuovi
strumenti, ma nessuno era potente come gli originali».
«E adesso ne abbiamo trovato uno», disse Adam con un lampo di euforia
negli occhi grigio-blu.
Diana sfiorò il dorso della mano di Adam che reggeva il teschio e gli
sorrise. Il messaggio che si scambiarono con gli occhi era più eloquente di
tante parole: orgoglio e trionfo condiviso. Questo era il loro progetto,
qualcosa a cui stavano lavorando da anni, e che finalmente avevano
realizzato.
Cassie strinse i denti per il dolore che sentiva allo sterno. Meritavano la
possibilità di stare da soli e divertirsi. Con allegria fragile e forzata, disse:
123
«Sapete, comincio a essere stanca. Credo che sia ora di...».
«Certo», disse Diana, immediatamente preoccupata. «Devi essere
esausta. Lo siamo tutti. Ne riparleremo all'incontro di domani».
Cassie annuì, e nessuno sollevò obiezioni. Neppure Faye. Ma, mentre
Diana stava dando istruzioni a Laurel e Melanie su come riaccompagnarla
a casa, Cassie incrociò per caso lo sguardo di Faye. Nei suoi occhi dorati
c'era un'espressione strana e astuta che l'avrebbe preoccupata, se ormai non
si fosse considerata al sicuro.
Le finestre della casa della nonna erano tutte illuminate, anche se le
prime luci dell'alba non avevano ancora fatto capolino sopra l'oceano.
Melanie e Laurel entrarono nell'abitazione con Cassie, trovando sua madre
e sua nonna sedute entrambe nel salottino, un'austera stanza antiquata nella
zona anteriore della casa. Le due donne erano in camicia da notte e
vestaglia. I capelli della madre erano sciolti sulla schiena.
A Cassie bastò un'occhiata per capire che sapevano tutto.
"È per questo che mi hanno portato qui?", pensò. "Per far parte del
circolo?". Ormai non aveva più dubbi: era stata portata a New Salem per
una ragione precisa.
Non ebbe nessuna risposta dalle voci dentro di sé, neppure da quelle più
profonde. E questo la allarmava.
Ma non aveva il tempo di preoccuparsi. Non ora. Guardò il volto di sua
madre, scavato e ansioso, ma anche pieno di orgoglio e speranza
malcelata. Come una mamma che osserva la figlia tuffarsi dal trampolino
olimpico e attende che i giudici emettano il proprio verdetto. La nonna
aveva la stessa espressione.
Improvvisamente, nonostante il dolore lancinante nel petto, Cassie si
sentì riempire di un amore protettivo nei loro confronti. Ferma sulla soglia
della porta tra Melanie e Laurel, riuscì a sorridere.
«Allora, nonna», disse. «La nostra famiglia ce l'ha, un Libro delle
ombre?».
La tensione si sciolse in una risata mentre le due donne si alzavano.
«Non che io sappia», disse la nonna. «Ma, quando vuoi, potremmo dare
un'altra occhiata in soffitta».
L'incontro del giorno successivo fu carico di tensione. Tutti avevano i
nervi a fior di pelle. Ed era chiaro che Faye aveva un secondo fine.
Voleva parlare esclusivamente del teschio. Avrebbero dovuto usarlo,
disse, e subito. «Ok, allora, se non vogliamo usarlo, almeno diamogli
124
un'occhiata. Proviamo ad attivarlo, vediamo se ci sono delle impronte
residue».
Diana continuava a dire di no. Nessuna occhiata. Nessuna attivazione.
Prima andava purificato, e pulito. E Faye sapeva che un buon lavoro
richiedeva settimane. Fintanto che la leader era Diana...
Faye disse che di questo passo Diana non sarebbe rimasta al comando
ancora per molto. Anzi, se continuava a negare il permesso di testare il
teschio, lei stessa avrebbe chiesto il voto anticipato, senza aspettare
novembre. Era questo che voleva?
Cassie non capiva. Come si testa un teschio? Come lo si pulisce? Ma la
discussione era così accesa che nessuno pensò di spiegarglielo.
Per tutto il tempo, Cassie cercò di non guardare Adam. Prima
dell'incontro lui aveva cercato di parlarle, ma Cassie era riuscita a evitarlo.
Si attenne caparbiamente alla sua decisione, anche se l'energia necessaria a
ignorarlo la spossò. Si impose di non guardargli i capelli, che erano
cresciuti di qualche centimetro dall'ultima volta che lo aveva visto, o la
bocca, meravigliosa e attraente come mai. Cercò di non pensare al suo
corpo sinuoso e scolpito sulla spiaggia di Cape Cod, alle lunghe gambe
nude. E, soprattutto, si sforzò di non guardarlo negli occhi.
L'unica cosa che Cassie dedusse dall'incontro fu che Diana si trovava in
una posizione precaria. Leader "temporanea" significava che la congrega
poteva votare in qualunque momento e destituirla, anche se il voto
ufficiale era a novembre. E Faye, che voleva prendere il suo posto, era
chiaramente in cerca di appoggio.
Aveva convinto i fratelli Henderson dicendo loro che il teschio li
avrebbe aiutati a trovare l'assassino di Kori, ed era riuscita anche ad
accaparrarsi il favore di Sean, limitandosi a terrorizzarlo. Deborah e Suzan,
ovviamente, erano dalla sua parte.
Erano in sei. Il che avrebbe voluto significare che gli altri sei erano dalla
parte di Diana: ma Nick rifiutò di schierarsi. Si era presentato all'incontro,
ma era rimasto tutto il tempo seduto a fumare e a osservarli, come fosse
altrove. Quando gli chiesero del teschio, rispose che la cosa non gli
importava.
«Siamo la maggioranza», disse Faye a Diana, gli occhi che brillavano
trionfanti. «O ci lasci usare il teschio... oppure votiamo adesso e vediamo
se sarai ancora tu a comandare».
Diana aveva la mascella serrata. «Va bene», disse seccamente. «Sabato
proveremo ad attivarlo e basta, niente di più. È abbastanza presto per te?».
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Faye annuì con benevolenza. Aveva vinto, e lo sapeva. «Sabato sera»,
disse, e sorrise.
Il funerale di Kori si tenne il venerdì. Cassie pianse con gli altri membri
del club durante la funzione. Al cimitero, Doug Henderson e Jimmy Clark,
il ragazzo che Kori aveva frequentato durante l'estate, si azzuffarono.
Dovette intervenire l'intero club per separarli. Gli adulti sembravano
spaventati, all'idea di toccarli.
Il sabato seguente era una giornata tersa e fredda. Dopo aver trascorso la
maggior parte della giornata a fingere di leggere un libro, nel tardo
pomeriggio Cassie andò a casa di Diana. Era in ansia per la cerimonia del
teschio, ma ancor più per Adam. "Qualunque cosa succeda", si disse,
"qualunque cosa, nessuno saprà quel che provo. Resterà un segreto, anche
a costo di morirne".
Diana sembrava stanca, come se non avesse dormito a sufficienza. Dal
giorno dell'iniziazione – da quando era tornato Adam – era la prima volta
che lei e Cassie rimanevano sole. Seduta nella stanza meravigliosa di
Diana, mentre fissava i prismi appesi al cornicione della finestra, Cassie
quasi poteva illudersi che Adam non fosse mai arrivato, che neppure
esistesse. Le cose sarebbero state molto più semplici; e lei sarebbe stata
felice di rimanere sola con Diana.
Notò alcune stampe, simili a quelle viste la prima volta che aveva
visitato la stanza di Diana.
«Anche queste sono dee?», chiese.
«Sì. Questa è Persefone, figlia della dea delle messi». La voce di Diana
era debole per la stanchezza, ma sorrise. La stampa mostrava una ragazza
slanciata che raccoglieva dei fiori. Era primavera, e il suo volto gioioso: la
dea era felice semplicemente perché era viva e giovane.
«E quella?»
«Quella è Atena. Era la dea della saggezza. Come Artemide, la dea della
caccia, non si sposò mai. Gli altri dèi andavano da lei in cerca di consigli».
Era alta, con una fronte spaziosa e occhi grigi chiari e tranquilli. "Be',
certo che sono grigi, è una stampa in bianco e nero", si disse Cassie. Ma in
qualche modo sapeva che quegli occhi erano davvero grigi, pieni di una
profonda e fredda saggezza.
Passò alla stampa successiva. «E questa...».
Fu interrotta da alcune voci che venivano dal piano di sotto. «Ehi? C'è
nessuno? La porta era aperta».
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«Salite», gridò Diana. «Mio padre è al lavoro... come sempre».
«Tieni», disse Laurel fermandosi sulla porta. «Li ho raccolti per strada.
Ho pensato che potessero piacerti». Diede a Diana un mazzo di fiori
assortiti.
«Oh, delle saponarie! Guardate che bel colore rosa! Le essiccherò per
farci del sapone. E bocche di leone selvatiche e dolci meliloti. Vado a
prendere un vaso».
«Volevo portare delle rose per il tuo giardino, ma le abbiamo usate tutte
per purificare il teschio».
Melanie sorrise a Cassie. «Allora, che ci dice la nostra nuova strega?»,
disse, con una traccia di calore negli occhi grigi e freddi. «Totalmente
confusa?»
«Be', un po' sì. Cioè...». Cassie scelse a caso una delle cose che non
comprendeva. «Come si purifica un teschio con le rose?»
«Questo dovresti chiederlo a Laurel, è lei l'esperta di piante».
«E a Melanie», disse Laurel, «lei è l'esperta di pietre e cristalli, e questo
è un teschio di cristallo».
«Ma cos'è esattamente un cristallo?», chiese Cassie. «Credo di non
sapere neppure questo».
«Ok». Melanie si sedette alla scrivania, mentre Diana sistemava i fiori
nel vaso. Laurel e Cassie si accomodarono sul letto. Cassie moriva dalla
voglia di scoprire a quali ingredienti facesse ricorso il circolo per mettere
in pratica le sue magie. Anche se non avrebbe mai lanciato l'incantesimo
che desiderava, restava pur sempre una strega.
«Be', per qualcuno un cristallo non è che "acqua fossilizzata"», disse
Melanie, parlando con un finto tono di serietà. «L'acqua si combina con un
elemento dandogli modo di crescere. Ma io preferisco pensare ai cristalli
come a una spiaggia».
Laurel sbuffò; Cassie sorrise. «Una spiaggia?»
Melanie sorrise. «Sì. Una spiaggia è composta di sabbia e acqua, giusto?
E la sabbia è composta di silicio. Nelle giuste condizioni, il silicio si
combina con l'acqua e forma anidride silicica, cioè quarzi di cristallo.
Dunque, acqua più sabbia più alte temperature più pressione uguale
cristalli. I resti di un'antica spiaggia».
Cassie era incantata. «Ed è di questo che è fatto il teschio?»
«Sì, di quarzo chiaro. Ci sono anche altri tipi di quarzo, di vari colori.
L'ametista, per esempio, è viola. Laurel, per caso ne indossi?»
«Che domande. A maggior ragione con la cerimonia di stanotte». Laurel
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scostò i lunghi capelli castano chiaro per mostrare a Cassie un paio di
orecchini di cristallo viola scuro. «Adoro l'ametista», spiegò. «Ha un
effetto lenitivo e rilassante. Se l'indossi con del quarzo rosa ti aiuta ad
attirare l'amore».
Cassie sentì stringersi lo stomaco. Fintanto che non toccavano argomenti
come l'amore lei sarebbe stata bene. «Quali altri pietre esistono?», chiese a
Melanie.
«Oh, una miriade. Alla famiglia dei quarzi appartiene il citrino, che
Deborah indossa spesso. È di colore giallo e giova all'attività fisica.
Energia. Fitness. Questo genere di cose».
«Deborah avrebbe bisogno di meno energia», mormorò Laurel.
«A me piace indossare la giada», proseguì Melanie, ruotando il polso
sinistro per mostrare a Cassie una pietra ovale verde pallido incastonata in
un bracciale meraviglioso. «La giada infonde pace, calma. E migliora la
lucidità mentale».
Cassie parlò esitando: «Ma... funzionano davvero? Voglio dire, i seguaci
della New Age parlano di cristalli, ma...».
«I cristalli non sono New Age», disse Melanie rivolgendo uno sguardo
pacificatore a Laurel che sembrava sul punto di cominciare una
discussione. «Le gemme grezze venivano usate già dalle popolazioni
antiche, e a volte anche per le ragioni giuste. Il problema è che sono buone
nella misura in cui lo è chi se ne serve. Possono accumulare energia e
aiutarti a evocare i poteri, ma solo se hai il talento per farlo. E quindi per la
maggior parte della gente sono inutili».
«Ma non per noi», disse Laurel. «Anche se non sempre funzionano
come vorresti. Le cose possono sfuggirti di mano. Ricordate quando Suzan
venne quasi aggredita durante quella partita di football perché si presentò
ricoperta di cornalina? Credevo che sarebbe scoppiata una rivolta».
Melanie rise: «La cornalina è arancione e molto... stimolante», disse a
Cassie. «Se ne fai un uso sbagliato rischi di sovreccitare la gente. Suzan
stava cercando di fare colpo sul quarterback, ma riuscì ad attirare quasi
tutta la squadra. Non dimenticherò mai, quando si chiuse in bagno e
cominciò a staccarsi la cornalina dai vestiti». Cassie scoppiò a ridere
immaginandosi la scena.
«Non bisogna indossare pietre arancioni o rosse troppo a lungo»,
aggiunse Laurel ridendo. «Ma ovviamente Suzan fa sempre di testa sua.
Come Faye».
«Infatti», disse Cassie. «Faye porta una pietra rossa al collo».
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«È un rubino stellato», disse Melanie. «Sono pietre rare, e quello in
particolare è molto potente. È in grado di amplificare la passione – o la
rabbia – molto rapidamente».
C'era qualcos'altro che Cassie voleva chiedere. O meglio, che doveva
chiedere, che lo volesse o no. «Che mi dite del calcedonio?», chiese con
aria indifferente. «Ha qualche pregio?»
«Oh, sì. Ha un'influenza protettiva... Può proteggerti dalle brutture del
mondo. Ora che ci penso, Diana, non ne hai dato...?»
«Sì», disse Diana, che era rimasta seduta alla finestra ad ascoltare in
silenzio. Adesso stava sorridendo debolmente al ricordo di qualcosa. «Ho
dato a Adam una rosa di calcedonio quando è partito in estate. È un tipo
particolare di calcedonio», spiegò a Cassie. «È piatto e tondeggiante e al
suo interno ha un motivo a spirali; ricorda i petali di una rosa. Al suo
interno, sono incastonati piccoli cristalli di quarzo».
"È qualcosa di simile a piccoli gusci di conchiglia sul dorso", pensò
Cassie. Stava male. Persino il regalo di Adam apparteneva a Diana.
«Cassie?». Guardavano tutte lei.
«Scusate», disse aprendo gli occhi e fingendo un sorriso. «Sto bene. Io...
io credo di essere un po' nervosa per stanotte. Qualunque cosa faremo».
Le tre ragazze divennero immediatamente solidali. Diana annuì con
forza, mostrando più vivacità di quanta ne avesse mostrata da quando era
arrivata Cassie. «Anch'io sono preoccupata», disse. «È troppo presto. Non
è ancora il momento... Ma non abbiamo scelta».
Melanie si rivolse a Cassie: «Vedi, il teschio ha assorbito l'energia di
chiunque lo abbia utilizzato per ultimo. Come l'impronta di quello che è
stato fatto, e di chi l'ha fatto. Noi vogliamo scoprire queste impronte. Ci
concentreremo sul teschio e vedremo cosa ha da dirci. C'è la possibilità
che non saremo in grado di attivarlo. A volte solo una determinata persona
può farlo, o un codice di suoni, luci o movimenti. Ma se dovessimo
riuscirci, e se ritenessimo che è sicuro, potremmo utilizzare la sua energia
per scoprire delle cose. Come l'assassino di Kori».
«Più grosso è il cristallo e più energia c'è al suo interno», disse
tetramente Diana. «E questo cristallo è enorme».
«Ma perché la vecchia congrega gli ha dato la forma di un teschio?»,
chiese Cassie.
«Non è stata la congrega», disse Melanie. «Non sappiamo chi sia stato
l'artefice di questo teschio, ma di certo ha molto più di trecento anni. Ci
sono altri teschi di cristallo sparsi per il mondo: il Teschio britannico
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conservato al museo dell'Umanità in Inghilterra, e il Teschio dei Templari,
nelle mani di una società segreta in Francia. La nostra vecchia congrega
riuscì chissà come a ritrovare questo, e lo utilizzò».
«Lo utilizzava Black John», la corresse Diana. «Vorrei che Adam avesse
trovato qualsiasi altro Strumento Supremo. Questo era il suo, il favorito di
Black John. Ho il sospetto che lo abbia usato per sbarazzarsi di alcune
persone. Ho paura che stanotte... non so. Ho paura che succederà qualcosa
di terribile».
«Non lasceremo che accada», disse una voce nuova alla porta. Il cuore
di Cassie rallentò e il sangue le incendiò le guance.
«Adam», disse Diana. Quando lui si avvicinò alla finestra per baciarla,
la ragazza si rilassò visibilmente. Poi, Adam si sedette accanto a lei.
Sembrava sempre più tranquilla e raggiante quando c'era lui al suo fianco.
«La cerimonia di stanotte avverrà nella massima sicurezza», disse Adam.
«E, se dovesse manifestarsi qualcosa di pericoloso, la interromperemo
immediatamente. Hai già preparato il garage?»
«No, aspettavo te. Possiamo occuparcene adesso». Quando Diana aprì il
grosso armadio, Cassie vide il teschio di cristallo adagiato su un letto di
petali di rosa, sopra una pirofila di pyrex.
«Sembra la testa di Giovanni Battista», mormorò.
«L'ho pulito con acqua piovana e sale», disse Diana. «Ma avrebbe
bisogno di un trattamento completo con essenze floreali e cristalli, e poi di
essere sepolto nella sabbia umida per qualche settimana».
«Prenderemo ogni precauzione», disse Adam. «Un triplo cerchio di
protezione. Andrà tutto bene». Prese il teschio, con qualche petalo ancora
attaccato, e si diresse in garage con Diana. Cassie lo vide andar via.
«Non essere nervosa», le disse Melanie. «Non dovrai fare nulla durante
la cerimonia. Non ne saresti capace; ci vuole tempo per apprendere la
divinazione dei cristalli – anni, di solito. Non dovrai far altro che restare
seduta e non spezzare il circolo».
Cassie cercò di non far caso al tono condiscendente nella sua voce.
«Ascoltate, qualcuno potrebbe accompagnarmi a casa?», disse. «C'è
qualcosa che vorrei prendere».
Il garage di Diana era vuoto; o meglio, non c'erano auto. Il pavimento
era spoglio e pulito, tranne che per un cerchio tracciato con del gesso
bianco.
«Mi dispiace farvi sedere sul cemento», disse Diana, «ma preferisco che
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la cerimonia si tenga al chiuso. Non correremo il rischio che il vento
spenga qualche candela».
Al centro del cerchio c'erano delle candele bianche che formavano un
anello più piccolo, al cui interno c'era una scatola di scarpe con sopra un
oggetto coperto da un drappo nero.
«Va bene», disse Diana ai membri del club, che nel frattempo erano
arrivati in gruppetti. «Cominciamo».
Diana indossava l'abito bianco e i gioielli della volta precedente. Cassie
ormai sospettava che il diadema e il bracciale – e forse persino la
giarrettiera – avessero qualche significato mistico. Guardò Diana "attivare"
il cerchio percorrendone la circonferenza prima con un pugnale, poi con
acqua, poi ancora con incenso e infine con una candela accesa. Terra,
acqua, aria e fuoco. Vennero pronunciati anche degli incantesimi, che
Cassie cercò di seguire. Ma quando tutti si sedettero intorno al cerchio,
ginocchio contro ginocchio come Diana li aveva istruiti, qualsiasi interesse
nella cerimonia vera e propria si volatilizzò dalla mente di Cassie.
Sedeva tra Adam e Faye. Non sapeva come potesse essere successo.
Aveva previsto che si sarebbe sistemata accanto a Sean, ma Faye si era
intromessa tra loro. Forse Faye non voleva sedersi accanto a Adam. Be',
neppure Cassie, anche se il motivo era completamente diverso.
Il suo ginocchio premeva contro quello di Adam, come da istruzioni di
Diana. Cassie riusciva a sentire il calore che Adam sprigionava, il suo
vigore fisico. E non riusciva a pensare ad altro.
Dall'altra lato, contro il suo fianco, Faye emanava un intenso profumo
tropicale. Le dava leggermente alla testa.
Le luci si spensero.
Cassie si chiese come ciò fosse accaduto; era certa che nessuno aveva
lasciato il circolo. Ma i pannelli fluorescenti sul soffitto si erano spenti
improvvisamente.
Nel garage era calato il buio più totale. L'unica luce proveniva dalla
candela che Diana aveva in mano. Cassie riusciva a vedere solo il volto
della leader.
«Va bene», disse Diana con calma. «Ci dedicheremo soltanto alle tracce
residue. Nient'altro; nessuno cercherà più a fondo finché non sapremo con
cosa abbiamo davvero a che fare. E non ho certo bisogno di ricordarvi che,
qualunque cosa succeda, non dovete rompere il circolo». Pronunciando
queste parole, la ragazza non guardò Cassie, ma molti degli altri membri lo
fecero, come sottintendendo che invece Diana aveva bisogno di ricordarlo.
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Diana avvicinò la sua candela a quella di Melanie. La fiammella
raddoppiò. Poi Melanie avvicinò la sua a quella di Deborah, e le fiamme
divennero tre.
Il fuoco continuò a passare di candela in candela finché Laurel avvicinò
la sua a quella di Adam. La mano di Cassie tremò, quando tese la candela
verso il ragazzo con i capelli rossi. Sperava che tutti gli altri pensassero
che il suo tremito fosse dettato da semplice nervosismo.
Quando le dodici candele furono accese, vennero poggiate sulle
rispettive pozze di cera sul pavimento di cemento. Ogni candela emanava
un po' di luce e proiettava grosse ombre scure sul muro.
Diana si diresse verso l'oggetto posto al centro del circolo formato dalle
candele e tirò via il drappo nero.
Cassie rimase senza fiato.
Il teschio era rivolto nella sua direzione, le orbite cave che la fissavano.
Ma non era questa la cosa più allarmante. Il teschio stava brillando. Il
cristallo rifletteva e rifrangeva le fiammelle delle candele. Sembrava
quasi... vivo.
Tutte le schiene si raddrizzarono per la tensione.
«Adesso», disse Diana, «trovate un punto che vi interessa all'interno del
teschio. Concentratevi su di esso, osservatene i dettagli. Poi cercatene altri.
Continuate a guardare fino a che non vi sentirete attratti al suo interno».
"Un punto che vi interessa?", pensò Cassie. Ma quando guardò con più
attenzione il cristallo che brillava, si accorse che la sua superficie non era
completamente pulita. Al suo interno c'erano fili di ragnatele, quel che
sembravano volute di fumo e crepe che, simili a prismi, davano vita a
paesaggi in miniatura. Più guardava, e più dettagli individuava.
"Quella sembra una spirale o un tornado", pensò. "Mentre quella...
quella sembra quasi una porta. E lì c'è un volto.
Distolse velocemente lo sguardo con lo stomaco che le si contorceva.
Non essere sciocca, sono solo imperfezioni del cristallo, si disse.
Aveva paura a guardare di nuovo. Ma nessun altro sembrava turbato. Le
loro ombre si stagliavano e guizzavano sulle pareti, ma tutti gli occhi erano
fissi sul teschio.
"Guardalo! Ora", comandò a se stessa.
Quando si voltò nuovamente verso il teschio, il volto sfocato era sparito.
"Ecco, questo dimostra che era solo uno scherzo della luce", pensò. Il
teschio, però, aveva sviluppato un'altra qualità inquietante. Sembrava che
qualcosa al suo interno si stesse muovendo. Era come se il cranio fosse
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composto di acqua, tenuta insieme da uno spesso strato di pelle, e qualcosa
vi galleggiasse placidamente.
"Oh, smettila, e scegli un dettaglio su cui concentrati", ordinò a se
stessa. "La porta, guardala. È ferma, non si muove".
Guardò la piccola crepa prismatica nell'orbita sinistra, dove avrebbe
dovuto trovarsi la pupilla. Sembrava una porta socchiusa da cui proveniva
della luce.
"Guardala. Nota i dettagli".
Il capogiro causato dal profumo di Faye si estese a tutto il corpo. Stava
guardando – solo guardando. Riusciva a vedere la porta. Più la osservava
con attenzione, più sembrava grande. O forse si stava avvicinando.
Sì, era più vicina... Cassie stava perdendo la cognizione dello spazio. Il
teschio era enorme, adesso, sembrava che non avesse più confini o forma.
La circondava. Era diventato il mondo. La porta si trovava proprio davanti
ai suoi occhi.
Cassie era dentro il teschio.
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Ora la porta non era più piccola, ma a grandezza naturale, abbastanza
larga da poterci passare. Era socchiusa, e dall'interno, oltre l'uscio, filtrava
una luce colorata.
Dentro il teschio, Cassie guardava la porta con la testa che le
formicolava. "Se fossi in grado di aprirla, riuscirei a entrarci?", si chiese.
Ma come aprirla?
Forse se lo avesse pensato... Ma non sembrava funzionare. Che aveva
detto Melanie? Qualcosa a proposito del fatto che i cristalli aiutano a
invocare i poteri. Quali poteri potevano avere a che fare col quarzo chiaro?
Terra e acqua? Al posto di sabbia e mare?
Sembrava quasi l'inizio di una poesia.
Terra e acqua, sabbia e mare
Se io lo voglio, così deve andare...
Si concentrò sulla porta, desiderando di aprirla. E, mentre la fissava,
sembrava che dal suo interno filtrasse sempre più luce colorata. Sempre di
più... di più. "Continua ad aprirla. Lascia che ti attiri a sé". Adesso Cassie
fluttuava davanti all'ingresso. La porta era enorme, come quella di una
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cattedrale. E si stava aprendo... lentamente... Cassie era immersa nella luce
colorata.
"Ora! Entra!".
Ma un urlo riecheggiò nel garage.
Era un urlo di terrore, acuto e violento, che lacerò il silenzio. La porta si
bloccò, e Cassie si sentì spinta all'indietro. La porta prese a indietreggiare,
sempre più velocemente. Poi, un istante prima di essere sbalzata fuori dal
teschio, Cassie vide un volto. Lo stesso volto di prima. Ma questa volta
non indietreggiava, anzi: stava andando verso di lei. Stava crescendo.
Sempre più grande e più veloce... Avrebbe distrutto il cristallo. Avrebbe...
«No!», urlò Diana.
Nello stesso istante, Cassie avvertì una opprimente sensazione di
malvagità. Qualcosa che stava per arrivarle addosso a una velocità
incredibile. Qualcosa che andava fermata.
Non seppe mai con esattezza quel che successe dopo. Sean era seduto
accanto a Faye. Forse si era mosso; forse era andato nel panico e aveva
cercato di darsela a gambe. In ogni caso ci fu un tafferuglio. Sembrava che
Faye volesse fare qualcosa e che Sean stesse cercando di fermarla, o forse
era il contrario. Stavano litigando. Diana urlava: «No, no!». Cassie non
sapeva che fare.
Faye sbandò in avanti e Cassie sentì venir meno la pressione del suo
ginocchio contro il proprio. Il circolo era stato spezzato, e la candela di
Faye si era spenta.
In quel momento anche le altre candele si spensero, come se una folata
di vento avesse soffiato nel garage. Immediatamente, Cassie avvertì che la
cosa che stava andando verso di lei aveva ormai raggiunto i confini del
cristallo. Si riversò fuori dal teschio e superò le candele spente e fumanti.
Cassie non sapeva come fosse stata in grado di vederla – il garage era nero
come la pece. Ma poteva sentirla. Riusciva a percepire quell'essere come
costituito di un'oscurità più profonda del buio normale che colmava la
stanza. La "presenza" le passò accanto a tutta velocità, sollevandole i
capelli. La ragazza tese un braccio in avanti per proteggersi il volto, ma
ormai la "cosa" era andata.
Qualcuno piangeva debolmente nell'oscurità.
Poi tornò la calma.
«Accendete le luci», gemette qualcuno.
All'improvviso, Cassie riuscì di nuovo a vedere. Adam era in piedi
accanto all'interruttore. Anche Diana era in piedi, il viso bianco e
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terrorizzato. Tutti i volti intorno al cerchio emanavano allarme e paura,
tranne quello di Nick, impassibile come sempre.
Faye era seduta. Sembrava fosse stata scagliata all'indietro da una forza
tremenda. Parlò a Sean con la rabbia che le ardeva negli occhi: «Mi hai
spinta!».
«Non è vero!». Sean si guardò intorno in cerca di sostegno. «Voleva
prendere il teschio! Si è allungata in avanti per prenderlo!».
«Piccolo verme bugiardo! Tu stavi cercando di scappare. Stavi per
spezzare il circolo».
«Lei...».
«Non ho fatto niente!».
«È tutto a posto!», urlò Diana.
Adam la raggiunse. «Non importa chi ha fatto cosa», disse con voce
tesa. «Quel che importa è quella... energia... che è fuggita».
«Quale energia?», chiese Faye bruscamente, esaminandosi i gomiti in
cerca di ferite.
«L'energia che ti ha buttata a terra», disse tetramente Diana.
«Sono caduta. Perché questo essere spregevole mi ha spinta».
«No», disse Cassie prima di potersi trattenere. Stava cominciando a
tremare a scoppio ritardato. «L'ho avvertita anch'io. Qualcosa è uscito dal
teschio».
«Tu l'hai sentita. Ha parlato l'esperta». Faye le rivolse un'occhiata piena
di disprezzo e avversione. Cassie guardò gli altri, ancora seduti, e fu
sorpresa di leggere l'incertezza sui loro volti. Certamente l'avevano
avvertita anche loro, o no?
«Ho sentito... qualcosa», disse Melanie. «Qualcosa di oscuro all'interno
del teschio. Una specie di energia negativa».
«Qualunque cosa fosse, è fuggita quando il circolo si è spezzato», disse
Adam. Poi guardò Diana: «È colpa mia. Non avrei dovuto lasciare che
accadesse».
«Vuoi dire che avresti dovuto tenerci nascosta l'esistenza del teschio?»,
disse aspramente Faye. «Per usarlo a tuo piacimento».
«Che differenza fa?», urlò Laurel dall'altro lato del circolo. «Se qualcosa
è fuggita dal teschio, adesso è là fuori. A fare Dio solo sa cosa».
«È... cattiva», disse Cassie. Avrebbe voluto dire "malvagia", ma
sembrava una parola troppo melodrammatica. Tuttavia, ciò che aveva
percepito nell'essere oscuro era malvagità allo stato puro. E volontà di
distruggere, di fare del male.
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«Dobbiamo fermarlo», disse Adam.
Suzan stava giocherellando con un bottone della sua camicetta.
«Come?».
Il silenzio che seguì fu lungo e insopportabile. Adam e Diana si
guardavano a vicenda, come se stessero avendo una specie di oscura
conversazione silente. Anche i fratelli Henderson si stavano telegrafando
qualcosa con gli occhi, ma sembrava che un essere omicida e malvagio a
spasso per la comunità non li preoccupasse. A dirla tutta, sembravano
contenti.
«Forse troverà chi ha ucciso Kori», disse alla fine Chris.
Diana lo fissò. «È questo che pensate?». Poi la sua espressione cambiò.
«È a questo che pensavate quando lo stavamo studiando? È questo che
desideravate?»
«Avremmo dovuto solo provare a leggere le ultime impronte», disse
Melanie con una rabbia che Cassie trovò inedita.
I fratelli Henderson si scambiarono un'occhiata e scrollarono le spalle.
L'espressione di Deborah era un misto di severità e allegria. Suzan stava
gingillandosi ancora con il bottone. Nick si alzò con il volto inespressivo.
«Sembra che per stanotte sia tutto», disse.
Diana esplose.
«Puoi dirlo forte!», urlò, con sorpresa di Cassie. Afferrò il teschio con
entrambe le mani. «Lo metterò in un posto sicuro, come avrei dovuto fare
sin dall'inizio. Avrei dovuto sapere che eravate troppo irresponsabili per
averci a che fare». Stringendosi il teschio al petto, uscì di corsa dal garage.
Faye si mise subito in azione, come un gatto che vede la coda guizzante
di un topo. «Non credo sia stato un modo carino di parlarci», disse con
voce roca. «Non credo che si fidi di noi. Votiamo: quanti vogliono essere
guidati da qualcuno che non si fida di noi?».
Se gli sguardi potessero mutilare, quello di Melanie avrebbe potuto
trasformare Faye in un tronco umano. «Oh, falla finita, Faye», disse nel
suo tono elegante. «Andiamo, Laurel», aggiunse e si alzò per raggiungere
Diana in casa.
Cassie, non sapendo che fare, le seguì. Alle sue spalle sentì Adam che
diceva a Faye con una voce bassa e molto controllata: «Vorrei che fossi un
maschio».
E la risposta roca e beffarda di Faye: «Adam, non credevo che avessi
certe inclinazioni!».
Diana stava rimettendo il teschio sulla pirofila di pyrex quando Adam
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entrò alle spalle di Cassie. Raggiunse Diana e l'abbracciò.
Lei si abbandonò tra le sue braccia per un istante, con gli occhi chiusi,
ma non lo abbracciò. E subito dopo si distaccò da lui.
«Sto bene. Sono solo arrabbiata con loro, e ho bisogno di pensare».
Adam si sedette sul letto, passandosi una mano tra i capelli. «Avrei
dovuto tenerglielo nascosto», disse. «È colpa del mio stupido orgoglio...».
«No», disse Diana. «Sarebbe stato sbagliato nascondere al club qualcosa
che gli appartiene».
«Più sbagliato di lasciarglielo usare per ragioni stupide e malvagie?».
Diana si voltò e si appoggiò all'armadio.
«A volte», disse pacatamente Adam, «mi chiedo cosa stiamo facendo.
Forse dovremmo lasciar perdere i vecchi poteri. Forse sbagliamo a pensare
di poterli controllare».
«Un potere è solo un potere», disse Diana con voce stanca, senza
voltarsi. «Non è buono o cattivo. Solo ciò che decidiamo di farne lo è».
«Ma forse nessuno può servirsene senza finire col procurare del male».
Cassie ascoltava, desiderando essere altrove. Era consapevole che Adam
e Diana, in un modo estremamente civile, stavano litigando. Incrociò lo
sguardo di Laurel e si accorse che anche lei era a disagio.
«Non ci credo», disse Diana con un filo di voce. «Non credo che
l'umanità sia così terribile. Così malvagia».
L'espressione di Adam era cupa e piena di speranza, come se volesse
condividere la fede di Diana.
Cassie lo guardò in viso e sentì una fitta di dolore, seguita da un senso di
vertigine. Cercò un posto dove sedersi.
Diana si voltò immediatamente. «Stai bene? Sei pallida come un
lenzuolo».
Cassie annuì e scrollò le spalle. «Mi gira un po' la testa... Credo sia
meglio che torni a casa».
La rabbia era sparita dagli occhi di Diana. «Va bene», disse. «Ma non
voglio che vai da sola. Adam, ti va di accompagnarla? Potete passare dalla
spiaggia, farete prima».
Cassie aprì la bocca per l'orrore. Ma Adam si affrettò ad annuire.
«Certo», disse. «Ma non voglio che tu resti da sola...».
«Melanie e Laurel restano qui», disse Diana. «Voglio cominciare a
purificare il teschio come si deve, con essenze floreali», disse guardando
Laurel. «E con altri cristalli», aggiunse rivolgendo lo sguardo verso
Melanie. «Non m'interessa se ci vorrà tutta la notte. Voglio farlo ora. E
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voglio cominciare subito. In questo stesso istante».
Le due ragazze annuirono. E anche Adam. «Va bene», disse.
Cassie, che era rimasta con la bocca aperta, improvvisamente pensò a
qualcosa e annuì. La mano tastò meccanicamente il contenuto della tasca
anteriore dei jeans.
E fu così che si ritrovò a camminare in spiaggia con Adam.
Non c'era la luna quella notte. Le stelle splendevano in modo feroce e
gelido. Le onde ruggivano e sibilavano sulla riva.
Per niente romantico. Grezzo. Primitivo. Tranne che per le deboli luci
delle case sulla scogliera, avrebbero potuto trovarsi a migliaia di
chilometri dalla civiltà.
Erano quasi arrivati allo stretto sentiero che portava al numero 12,
quando Adam le pose la fatica domanda. Dentro di sé, Cassie sapeva che
non avrebbe potuto evitarla per sempre.
«Perché non vuoi che si sappia che ci conosciamo?», disse
semplicemente.
Cassie tirò un respiro profondo. Era il momento di scoprire quanto
valeva come attrice. Era molto calma; sapeva cosa doveva fare, e in
qualche modo ce l'avrebbe fatta. Doveva farlo, per il bene di Diana... e di
Adam.
«Oh, non lo so», disse, e si meravigliò di quanto la sua voce suonasse
disinvolta. «Non volevo che qualcuno, tipo Suzan o Faye, si facesse
un'idea sbagliata. Non ti dispiace, vero? Non mi sembrava così
importante».
Adam la stava guardando in modo strano, esitante, ma annuì. «Se è
questo che vuoi, non ne farò parola con nessuno», disse.
Cassie si sentì sollevata, ma continuò a parlare a voce bassa.
«Ok, grazie. Oh, a proposito», aggiunse, frugando in tasca. «Volevo
ridarti questo. Tieni». Era strano come le sue dita sembravano serrarsi sulla
rosa di calcedonio, ma riuscì ad aprirle e lasciar cadere il cristallo nella
mano di Adam. Ora giaceva sul suo palmo, i cristalli di quarzo che
sembravano catturare un po' della luce delle stelle.
«Grazie per avermelo prestato», disse. «Ma adesso che sono una strega a
tutti gli effetti, dovrò trovare le pietre che fanno per me. E inoltre», piegò
le labbra in un sorriso provocatorio, «non vogliamo che qualcuno si faccia
un'idea sbagliata anche su questo, vero?».
In vita sua non era mai stata così con un ragazzo, stuzzicante,
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spensierata e sicura. Quasi che flirtasse senza dare a vederlo. Ed era così
facile – non avrebbe mai immaginato che potesse essere così facile.
Pensava fosse dovuto al fatto che stava interpretando una parte. Non era
Cassie a parlare, ma qualcun altro, qualcuno che non aveva paura perché il
peggio era passato e non c'era altro da temere.
Un sorriso beffardo sfiorò le labbra di Adam, come se stesse
rispondendo automaticamente al tono di Cassie, ma scomparve quasi
subito. La stava fissando con forza, e Cassie fece di tutto per restituirgli
uno sguardo dolce e innocente, come quello rivolto a Jordan sulla spiaggia
quel giorno di agosto. "Credimi", pensò, e questa volta si fidò del potere
dei propri pensieri, il potere a cui poteva attingere per rinforzare la propria
volontà. " Terra e acqua, sabbia e mare. Se io lo voglio, così deve
andare... Credimi, Adam, credimi. Credimi".
Adam distolse lo sguardo, voltandosi bruscamente verso l'oceano.
Questo gesto ricordò a Cassie, con sua sorpresa, il modo in cui lei stessa si
era liberata dallo sguardo ipnotico di Faye.
«Sei cambiata», disse, e c'era stupore nella sua voce. Poi tornò a
rivolgerle il suo sguardo duro e implacabile. «Sei decisamente cambiata».
«Certo. Adesso sono una strega», disse Cassie. «Avresti dovuto dirmelo
allora, mi sarei risparmiata un sacco di casini», aggiunse, in tono di
rimprovero.
«Non lo sapevo. Riuscivo a sentire... qualcosa dentro di te, ma non avrei
mai pensato che fossi una di noi».
«Oh, be', tutto si è risolto per il meglio», si affrettò ad aggiungere
Cassie. Non le piaceva che lui parlasse di quello che aveva avvertito in lei.
Era troppo pericoloso. «Comunque, grazie per avermi accompagnata a
casa. Abito qui».
Gli rivolse un ultimo sorriso, si voltò e si affrettò lungo lo stretto
sentiero. Non riusciva a crederci. Ce l'aveva fatta! Il sollievo era in realtà
doloroso, e quando raggiunse la fine del sentiero e vide finalmente la casa
della nonna, le sue ginocchia sembravano di gelatina. "Oh, grazie", pensò.
«Aspetta», disse una voce vivace e autoritaria alle sue spalle.
"Avrei dovuto aspettarmelo, che non sarebbe stato così facile", pensò
Cassie. Lentamente, con il volto inespressivo, ruotò su se stessa.
La debole luce proveniente dall'alto rifletteva i lineamenti del volto di
Adam, che sostava sul promontorio con l'oceano alle spalle. Gli zigomi
alti, le labbra allegre ed espressive. Ma adesso non c'era traccia di allegria.
I suoi occhi erano intensi e penetranti come quella volta che aveva
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guardato Jordan e Logan in spiaggia: sprigionavano un potere che Cassie
non riusciva a comprendere, e che la inquietava. Adesso quegli occhi la
stavano spaventando.
«Sei brava», le disse. «Ma io non sono un idiota. C'è qualcosa che mi
stai nascondendo, e voglio sapere di cosa si tratta».
«No che non lo vuoi». Le parole uscirono dalle sue labbra prima che
riuscisse a fermarle, ma la loro schietta sincerità era inequivocabile.
«Voglio dire... Non ti sto nascondendo niente».
«Ascoltami», disse Adam, e con sgomento di Cassie le si avvicinò. «La
prima volta che ti ho incontrata», disse, «non avevo idea che fossi una di
noi. Come potevo? Ma sapevo che eri diversa da quella tua sciocca amica.
Non eri solo una ragazza carina come tante, ma qualcuno di speciale».
"Carina? Crede che io sia carina?", stava pensando furiosamente Cassie.
La calma chiara e disperata la stava abbandonando, ma ci si aggrappò con
tutte le sue forze. "Devi essere fredda e inespressiva", si ordinò. "Indaga in
modo discreto. Non lasciar trapelare nulla".
Adesso gli occhi di Adam brillavano e il suo volto strano e orgoglioso
rivelava chiaramente la sua rabbia. Ma a confondere maggiormente Cassie
era il dolore vivo che si intuiva in fondo a quegli occhi.
«Eri diversa da qualunque esterna che avessi mai conosciuto, tu
accettavi i misteri, persino le essenze mistiche, senza esserne spaventata o
cercare di distruggerli. Eri... aperta. Tollerante. Non odiavi né respingevi a
priori ciò che era diverso».
«Non tollerante quanto Diana. Diana è la più...».
«Questo non ha nulla a che fare con Diana!», disse, e Cassie capì che era
sincero. Talmente sincero e schietto che l'idea del tradimento non gli aveva
mai sfiorato la mente.
«Pensai», proseguì, «che potevo fidarmi di te. Che potevo persino
mettere la mia vita nelle tue mani. E quando ti vidi tenere testa a Jordan –
un tizio praticamente il doppio di te – capii che avevo ragione. È stata una
delle cose più coraggiose che abbia mai visto fare in vita mia. Hai lasciato
che ti facesse del male per me, e neppure mi conoscevi».
"Non mostrare nulla", pensò Cassie. "Niente di niente".
«E dopo ho sentito qualcosa di speciale che mi univa a te. Un'intesa
particolare. Non so come spiegartela. Ma è da allora che continuo a
pensarci. Ti ho pensato tanto, Cassie, e non vedevo l'ora di parlare di te a
Diana. Volevo che sapesse che aveva ragione, che ci sono degli esterni con
cui possiamo collaborare, di cui possiamo fidarci. Che possono essere
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amici della magia. È da tempo che sta cercando di convincere il club che
una cosa del genere è possibile. Volevo dirle che mi hai aperto gli occhi, in
più di un modo. Dopo averti incontrata, durante l'ennesima uscita in barca
in cerca degli Strumenti Supremi, improvvisamente ero in grado di vedere
cose che in precedenza non riuscivo a vedere. Forse la mia vista si era
acuita, o forse era l'oceano che mi stava rivelando i suoi segreti. Come se
volesse aiutarmi. Volevo raccontare anche questo a Diana, e capire se
poteva spiegarlo in qualche modo».
«E in tutto questo tempo», finì Adam, dirigendo tutta la potenza dei suoi
occhi su Cassie, «non mi sono mai pentito di averti dato il calcedonio –
anche se è una cosa che non facciamo mai con gli esterni. Speravo che non
ti trovassi mai in guai abbastanza seri da dovertene servire, ma volevo
esserci per te, in caso fosse successo. Se mai avessi fatto come avevo
detto, se lo avessi stretto nel pugno e avessi pensato a me, lo avrei saputo e
ti avrei rintracciata, ovunque tu fossi. Pensavo che fossi speciale fino a
questo punto».
"È vero?", si chiese Cassie stordita. Aveva toccato così tante volte quella
pietra, ma non l'aveva mai stretta nel pugno pensando a lui. Non aveva mai
seguito le sue istruzioni, perché non credeva nella magia.
«E adesso torno e scopro che non sei un'esterna. O meglio, lo sei per
metà. Ero felice di vederti qui, e sentire che ti era unita al circolo. Inoltre,
da quello che ha detto Diana, anche lei si è resa conto di quanto tu sei
speciale. Ma non potevo dirle che ti conoscevo, perché per qualche motivo
tu non volevi che gli altri lo sapessero. Ho rispettato la tua scelta, ho tenuto
la bocca chiusa e ho pensato che mi avresti spiegato tutto alla prima
occasione. E invece...». Allargò le braccia. «Questo. Mi hai snobbato per
tutta la settimana, e adesso ti comporti come se tra noi non fosse mai
successo niente. Hai persino evocato un potere per convincermi a credere a
una menzogna. E adesso voglio sapere perché».
Calò il silenzio. Cassie riusciva a sentire le onde che si infrangevano
sulla costa come tuoni deboli e ritmati. La fredda brezza notturna. Alla
fine, come se fosse stata costretta, Cassie alzò gli occhi verso il volto di
Adam. Aveva ragione lui, lei non poteva mentirgli. Anche se avesse riso di
lei, anche se l'avesse compatita, doveva raccontargli la verità.
«Sono innamorata di te», disse con calma e semplicità. E si costrinse a
non distogliere lo sguardo.
Adam non rise.
La stava fissando con aria incredula. Come se non riuscisse a capire
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quello che aveva appena sentito.
«Quel giorno sulla spiaggia, anche io ho sentito qualcosa di speciale»,
disse Cassie. «Ma anche qualcosa di... più. Come se noi due, in qualche
modo, fossimo... uniti. Come se qualcosa ci avesse spinto a incontrarci.
Come se appartenessimo l'una all'altro».
Riusciva a leggere la confusione negli occhi di Adam – la stessa
confusione vorticante e disorientante che aveva provato lei quando aveva
trovato il cadavere di Kori.
«So che suona stupido», disse. «Non riesco neppure a credere di avertelo
detto, ma volevi la verità. Tutto quello che ho provato quel giorno in
spiaggia era sbagliato, adesso lo so. Tu hai Diana. Nessuno che sia sano di
mente desidererebbe altro. Ma quel giorno... mi vennero un sacco di
pensieri sciocchi. Pensai davvero di vedere qualcosa che ci univa, un filo
d'argento. E mi sentivo così vicina a te, come se ci comprendessimo a
vicenda. Come se fossimo nati l'uno per l'altra, e pensavo che non ci fosse
motivo di opporre resistenza...».
«Cassie», disse Adam. I suoi occhi erano neri per l'emozione. Uno
sguardo di... cosa? Totale incredulità? Repulsione?
«Adesso so che non è vero», disse disperatamente. «Ma allora non lo
avevo capito. Mi eri così vicino, e mi guardavi, e io pensavo che mi
avresti...».
«Cassie».
Era come se le sue parole avessero evocato qualcosa di magico, o
migliorato le sue percezioni. Il respiro le restò in gola, quando lo rivide. Il
filo d'argento. Ronzava e luccicava, più potente e vibrante che mai,
legandoli. Era come se il cuore di Cassie fosse collegato a quello di Adam.
Il suo respiro si faceva sempre più veloce, e confusa alzò gli occhi verso il
suo volto.
I loro sguardi si incrociarono. Immediatamente, Cassie capì qual era
l'emozione che poco prima aveva incupito quegli occhi grigio blu.
Non incredulità, ma consapevolezza. Una comprensione che si faceva
strada, uno stupore che le fece piegare le ginocchia.
"Adam sta... ricordando", pensò Cassie. Stava pensando a quello che era
successo tra loro sotto una nuova luce. Stava realizzando a livello conscio
cosa aveva realmente provato quel giorno.
Cassie ne era perfettamente consapevole, come se Adam glielo avesse
detto a parole. Lei lo conosceva. Riusciva a sentire ogni battito del suo
cuore, riusciva a sentire il mondo attraverso i suoi occhi. Riusciva persino
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a capire come lui vedeva lei. Una creatura fragile e timida dalla bellezza
quasi nascosta, come un fiore di campo all'ombra di un albero, ma con un
cuore di acciaio splendente. E come riusciva a intuire il modo in cui la
vedeva, così riusciva a sentire quel che lui provava per lei...
"Oh, che sta succedendo?", pensò Cassie. Il mondo si era fermato, e
c'erano solo loro due. Adam aveva gli occhi spalancati e sconvolti, le
pupille enormi, e Cassie sentì che stava per caderci dentro. Una ciocca dei
suoi capelli – di quei meravigliosi capelli arruffati e ondulati con tutti i
colori dell'autunno del New England – gli era scivolata sulla fronte.
Sembrava un dio dei boschi uscito alla luce delle stelle per corteggiare una
timida ninfa, ed era irresistibile.
«Adam», disse, «noi...».
Ma non riuscì a concludere la frase. Adesso lui era troppo vicino, Cassie
riusciva a sentirne il calore, i loro campi elettrici che si fondevano. Sentì le
sue mani stringersi sui gomiti. Poi lentamente, molto lentamente, si sentì
spinta verso di lui finché le sue braccia non la circondarono,
abbracciandola completamente. L'esistenza del filo d'argento non poteva
essere più negata.
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Cassie avrebbe dovuto respingerlo, sarebbe dovuta scappare. Invece,
respirando affannosamente, affondò la testa nel suo petto, nel tepore del
suo spesso maglione irlandese. Si sentiva circondata dal suo calore, che
l'ancorava, la riparava. La proteggeva. Aveva un buonissimo odore, di
foglie autunnali, di ceppi per il camino e di venti oceanici. Il cuore le
batteva all'impazzata.
Fu allora che comprese il significato delle parole "amore proibito".
L'amore proibito era questo, era avere un desiderio fortissimo, provare
sensazioni meravigliose, e sapere che erano sbagliati. Sentì Adam che si
scostava leggermente da lei. Lo guardò, e capì che anche lui era sopraffatto
da quella situazione.
«Non possiamo», disse con voce impastata. «Non possiamo...».
Guardando i suoi occhi, del colore dell'oceano che quella notte le aveva
sussurrato di immergersi per sempre nelle sue acque, le labbra di Cassie
formarono un "no", muto. Fu allora che Adam la baciò.
E in quell'istante tutti i pensieri coerenti andarono perduti. Cassie fu
travolta da un'ondata salmastra di pura sensazione. Le sembrò di essere
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finita in una corrente marina, risucchiata, sballottata da una parte all'altra
senza possibilità di fermarsi. Stava morendo, ma così dolcemente.
Tremava in modo incontrollabile. Non fosse stato per Adam, sarebbe
caduta. Nessun ragazzo era mai riuscito a farle provare delle sensazioni
simili. Immersa in una confusione selvaggia e violenta, non poteva fare
altro che arrendersi, abbandonarsi con tutta se stessa, donarsi.
Ogni attimo di dolcezza era più intenso del precedente. Era quasi
insensibile per il piacere, e neppure aveva più voglia di resistere.
Nonostante tutto, non era spaventata. Perché poteva fidarsi di lui. Adam
stava conducendo Cassie, con gli occhi spalancati e meravigliati, in un
mondo di cui lei ignorava l'esistenza.
Lui continuava a baciarla, e a baciarla. Erano entrambi inebriati, ubriachi
di quella follia. Cassie sapeva di avere le guance e la gola completamente
in fiamme; riusciva a sentire il calore prodotto dai loro corpi attaccati.
Non seppe quanto tempo rimasero in quella posizione, stretti in un
abbraccio che avrebbe potuto sciogliere le rocce intorno a loro. Solo in
seguito si rese conto che Adam, senza mai lasciarla, l'aveva guidata verso
una roccia di granito che affiorava dal terreno. Con il respiro che tornava a
rallentare, Cassie affondò di nuovo la testa nel suo petto.
E lì trovò pace. La passione incontrollabile aveva infine ceduto il posto a
un sopore caldo e languido. Era al sicuro, apparteneva a qualcosa. Ed era
così semplice, così bello.
«Cassie», disse Adam, con un tono che lei non gli aveva mai sentito
usare prima. A quel suono il suo cuore si sciolse e abbandonò il suo corpo,
evaporando dai piedi, dai palmi e dalla punta delle dita. Non sarebbe stata
più la stessa.
«Ti amo», disse Adam.
Cassie chiuse gli occhi senza parlare. Riusciva a sentire le labbra
dischiuse di Adam che riposavano sui suoi capelli.
Il filo d'argento li aveva avvolti in un bozzolo luccicante, come una
pozza d'acqua cheta illuminata dalla luna. Ora tutto era tranquillo, ovattato.
Cassie sentì che avrebbe potuto galleggiare lì per sempre.
"Il mio destino", pensò. L'aveva raggiunta, alla fine. Ogni momento
della sua vita non aveva fatto altro che condurla lì, in quel posto, in quel
momento. Perché l'aveva tanto temuto, perché aveva voluto sfuggirgli? Lì
non c'era altro che felicità. Non avrebbe dovuto più preoccuparsi di
niente...
E poi ricordò.
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Un fremito di puro orrore le attraversò il corpo. "Oh, Dio, che abbiamo
fatto?", pensò.
Si allontanò così bruscamente che Adam dovette tenerla per non farla
cadere. «Oh, Dio», disse, sentendo l'orrore che spazzava via qualsiasi altra
emozione. «Oh, Dio, Adam, come abbiamo potuto?», mormorò.
Per un istante, gli occhi di Adam si persero nel vuoto, aperti ma ciechi,
come se non capisse per quale motivo Cassie avesse rotto quella
meravigliosa atmosfera. Ma poi Cassie si avvide che anche lui aveva
compreso: gli occhi blu argento del ragazzo andarono in frantumi.
Emanavano pura angoscia.
Ancora tra le sue braccia, con lo sguardo sempre fisso sul suo volto,
Cassie cominciò a piangere.
Come avevano potuto lasciare che accadesse? Come poteva aver fatto
questo a Diana? Diana, che l'aveva salvata, che l'aveva aiutata, che si era
fidata di lei. Diana, a cui voleva tanto bene.
Adam apparteneva a Diana. Cassie sapeva che la sua amica non aveva e
non avrebbe mai pensato a una vita senza Adam, che tutte le sue speranze e
i suoi piani e i suoi sogni comprendevano lui. Era scritto che Diana e
Adam stessero insieme, erano nati per questo...
Cassie ripensò al modo in cui gli occhi verdi e ammalianti di Diana si
illuminavano quando lo vedeva, a come si addolciva e si ravvivava quando
parlava di lui.
E anche Adam amava Diana. Cassie ne era certa, così come era certa dei
propri sentimenti. Adam adorava Diana; l'amava di un amore puro, forte e
indistruttibile come quello con cui Diana lo ricompensava.
Ma adesso Cassie sapeva che Adam amava anche lei. Come puoi amare
due persone? Come puoi essere innamorato contemporaneamente di due
persone? Eppure era impossibile negarlo: la chimica tra lei e Adam,
l'empatia, il legame che li univa: tutto ciò non poteva essere ignorato.
Evidentemente, allora, era possibile amare due persone allo stesso tempo.
Ma Diana aveva la precedenza.
«L'ami ancora», sussurrò Cassie. Aveva un disperato bisogno che Adam
confermasse le sue supposizioni. Dentro di lei, cominciava a farsi strada il
dolore.
Adam chiuse gli occhi. «Sì», disse con voce rotta. Poi continuò: «Dio,
Cassie... mi dispiace...».
«No, è tutto ok», lo rassicurò Cassie. Riconosceva quel dolore. Era il
dolore della perdita, del vuoto, e stava crescendo. «Dispiace anche a me. E
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non voglio ferirla. Non era mia intenzione farle del male. È per questo che
mi ero ripromessa di non raccontare nulla, per questo non volevo che
nessuno di voi due sapesse...».
«È colpa mia», disse Adam, e Cassie riuscì a sentire l'autocondanna
nella sua voce. «Avrei dovuto rendermene conto prima. Avrei dovuto
capire cosa provavo e affrontarlo. Invece ti ho costretta a fare proprio
quello che fino all'ultimo hai cercato di evitare».
«Non mi hai costretta», disse Cassie delicatamente, con sincerità. La sua
voce era calma e ferma; tutto era di nuovo semplice e chiaro. Sapeva cosa
doveva fare. «La colpa è di entrambi. Ma questo non importa; l'unica cosa
che importa è che non deve più accadere. In un modo o nell'altro,
dobbiamo esserne certi».
«Ma come?», disse Adam cupamente. «Possiamo sentirci in colpa
quanto vogliamo – posso arrivare persino a odiarmi – ma se dovessimo
trovarci di nuovo da soli... Non so cosa potrebbe succedere».
«Allora faremo in modo di non essere mai da soli. Mai. E non ci
siederemo mai uno accanto all'altra, e non ci sfioreremo, e non penseremo
neppure di farlo». Gli stava dicendo cosa fare, ma non era preoccupata.
Sentiva solo che quel che stava dicendo era giusto.
Gli occhi di Adam erano scuri. «Ammiro il tuo autocontrollo», disse
ancor più cupamente.
«Adam», disse Cassie. Solo a pronunciare il suo nome sentiva qualcosa
sciogliersi dentro di sé. «Dobbiamo. Quando sei arrivato, mercoledì notte,
dopo la mia iniziazione, quando ho capito che tu e Diana... Be', quella
notte ho giurato che non avrei mai permesso al mio amore per te di ferire
Diana. Tu hai intenzione di tradirla?».
Ci fu un momento di silenzio. Cassie sentì lo sforzo involontario dei
suoi polmoni, e con i suoi sensi più intimi avvertì l'agonia di Adam. Poi
Adam butto fuori l'aria e chiuse di nuovo gli occhi. Quando li riaprì,
Cassie sapeva già la sua risposta. L'avvertì mentre Adam la lasciava e si
sedeva, l'aria fredda che soffiava tra i loro corpi, separandoli
definitivamente.
«No», disse Adam, con una nuova forza nella voce. E una nuova
risolutezza sul volto.
Si guardarono, non come amanti, ma come soldati. Come compagni
d'armi fermamente determinati a raggiungere uno scopo comune. La
passione doveva essere trattenuta e rinchiusa, così in profondità che nessun
altro potesse vederla. Era un nuovo modo di stare vicini, forse persino più
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intimo della fiducia che c'è tra due fidanzati. Qualunque cosa fosse
successa, qualunque fosse stato il prezzo, non avrebbero tradito la ragazza
che entrambi amavano.
Guardandola negli occhi, Adam disse: «Quale giuramento hai
pronunciato la notte dell'iniziazione? Era tratto da un Libro delle ombre?»
«No», rispose Cassie. «O meglio, non lo so», precisò. «Ero convinta che
fossero parole mie, ma adesso ho come l'impressione che siano parte di un
brano più lungo. Cominciava così: "Né con parola, né con sguardo o
azione"».
Adam stava annuendo. «Ne ho letto uno che contiene questa frase. È un
giuramento antico... e potente. Puoi evocare i quattro poteri, ma se rompi il
giuramento, essi sono liberi di attaccarti. Vuoi giurare di nuovo adesso?
Con me?».
La rapidità della sua domanda le tolse il fiato. Ma quando annuì quasi
senza esitare, fu estremamente orgogliosa di sé.
«Ci serve del sangue», disse Adam. Si alzò e prese un coltello dalla tasca
posteriore dei jeans. Cassie pensò di essere sorpresa, ma poi decise che
non era così. Per quanto fosse carino, Adam era abituato a badare a se
stesso.
Il ragazzo s'incise il palmo della mano senza tante cerimonie. Il sangue
sgorgò nero sotto la tenue luce argentata. Poi il coltello passò a Cassie.
Cassie inspirò a fondo. Non era coraggiosa, odiava il dolore, ma strinse i
denti si e poggiò la lama sul palmo della mano. "Pensa alle sofferenze che
avresti potuto causare a Diana", pensò, e con un gesto rapido fece scivolare
la lama verso il basso. Sentì dolore, ma non emise alcun suono.
Poi alzò gli occhi verso Adam.
«Adesso ripeti le mie parole», disse Adam sollevando il palmo verso il
cielo stellato. «Fuoco, Aria, Terra, Acqua».
«Fuoco, Aria, Terra, Acqua».
«Ascoltate e siate testimoni».
«Ascoltate e siate testimoni». A dispetto delle semplici parole, Cassie
riusciva a sentire che gli elementi erano stati davvero evocati e li stavano
ascoltando. La notte crepitava improvvisamente di elettricità, le stelle
sopra le loro teste sembravano più brillanti e fredde che mai. Cassie aveva
la pelle d'oca.
Adam girò la mano e le gocce nere caddero sull'erbaccia incolta e sulla
sabbia. Cassie osservava ipnotizzata. «Io, Adam, giuro di non tradire il mio
giuramento, di non tradire Diana», disse.
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«Io, Cassie, giuro di non tradire il mio giuramento...», sussurrò
guardando il proprio sangue colare a terra.
«Né con parola, né con sguardo o azione, in veglia o in sonno, con la
voce o col silenzio...».
Cassie ripeté con un filo di voce.
«...in questa terra o qualsiasi altra. Possa il fuoco bruciarmi, l'aria
soffocarmi, la terra inghiottirmi e l'acqua sommergere la mia tomba, se
dovessi farlo».
Cassie ripeté ogni parola. Mentre pronunciava le ultime parole, sentì un
rumore secco, come se qualcosa si fosse messo in moto. Come se il tessuto
dello spazio e del tempo si fossero lacerati e stessero rimbombando.
Ascoltò quel suono per un momento, trattenendo il fiato.
Poi guardò Adam. «È finita», sussurrò Cassie, e non parlava solo del
giuramento.
Gli occhi di Adam erano due cavità oscure bordate di argento. «È
finita», ripeté, e tese il palmo sporco di sangue verso Cassie. Cassie esitò,
poi gli prese la mano. Sentì, o immaginò di sentire, il loro sangue che si
mescolava, che gocciolava a terra nello stesso momento, simbolo di ciò
che non sarebbe mai stato.
Poi, lentamente, Adam la lasciò.
«Restituirai la rosa a Diana?», gli chiese con voce ferma.
Adam tirò fuori il pezzo di calcedonio dalla tasca e lo tenne nel palmo
ancora umido. «Sì, gliela restituirò».
Cassie annuì. Non riusciva a dire quel che pensava, e cioè che la pietra
apparteneva a Diana, così come Adam.
«Buonanotte, Adam», disse Cassie dolcemente, guardando Adam con il
cielo notturno che si stagliava alle sue spalle. Poi si voltò e si diresse verso
le finestre illuminate della casa della nonna. Questa volta, lui non la fermò.
«Oh», disse la nonna di Cassie. «L'ho trovata questa mattina. Qualcuno
deve averla lasciata cadere nella cassetta della posta». Porse a Cassie una
busta.
Erano sedute al tavolo della colazione, il mattino domenicale che filtrava
dalle finestre. Cassie era stupita di quanto ogni cosa fosse normale.
Ma le bastò un'occhiata alla busta per sentire un tuffo al cuore. Sulla
parte anteriore della busta, in una grafia ampia e frettolosa, c'era scritto il
suo nome. L'inchiostro era rosso.
L'aprì e fissò il biglietto al suo interno, mentre i cereali s'inzuppavano di
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latte. C'era scritto:
Cassie...
Come vedi questa volta ho usato il mio nome. Vieni a casa mia (al numero 6) in
giornata. C'è qualcosa di speciale di cui voglio parlarti. Credimi, non te ne pentirai.
Baci e abbracci.
Faye
PS: Non parlarne con nessuno del club. Capirai quando ci vedremo.
Cassie sentì un fremito di paura. Il primo impulso fu quello di chiamare
Diana, ma se la sua amica, come pensava, era davvero rimasta in piedi
tutta la notte per purificare il teschio, probabilmente adesso era stanca
morta. Faye era l'ultima persona con cui avrebbe voluto avere a che fare.
"Va bene, non la disturberò", pensò. "Andrò a vedere cosa vuole Faye.
Scommetto che riguarda la cerimonia. O forse vorrà parlarmi delle
elezioni".
La casa di Faye era una delle più belle della strada. Un guardiano la
lasciò entrare; Cassie ricordò che Diana le aveva detto che la madre di
Faye era morta. C'erano un sacco di famiglie con un solo genitore in
Crowhaven Road.
La stanza di Faye era la stanza di una ragazza ricca. Cordless, computer,
tv, videoregistratore e tonnellate di CD. Fiori grandi e rigogliosi
decoravano qualsiasi cosa, tra cui il letto su cui erano impilati cuscini
soffici e guanciali ricamati. Cassie si sedette sulla panca sotto la finestra,
in attesa di Faye. Sul comodino c'erano delle candele rosse spente.
All'improvviso, dalla mantovana posta sul letto sbucò il muso di un
gattino dal pelo arancione, seguito un attimo dopo da un altro cucciolo
grigio.
«Oh, che carini», disse Cassie, suo malgrado attratta da quei dolci
animaletti. Non avrebbe mai immaginato che Faye fosse un'amante dei
gatti. Le due piccole creature andarono verso di lei. Saltarono sulla sua
sedia, facendo le fusa come barche a motore.
Cassie rise nervosamente e si contorse mentre uno dei gattini si
arrampicava sul suo maglioncino. Le si appollaiò in equilibrio precario su
una spalla. Erano dei gattini adorabili: quello arancione con una corta
pelliccia di peli morbidi, quello grigio con il pelo lucente e pulito. I piccoli
artigli appuntiti le pizzicavano la pelle mentre i due felini si impegnavano
nella scalata del suo corpo. Il gattino arancione le si infilò tra i capelli
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dandole dei colpetti dietro le orecchie. Cassie rise di nuovo.
Poi iniziò ad affondare il muso e le zampette nel suo collo. Cassie
riusciva a sentire il suo piccolo naso freddo. Il gattino grigio, intanto,
faceva lo stesso sull'altro lato. "Oh, che carini...", pensò Cassie.
«Ahi!», urlò subito dopo, quando cominciarono a farle davvero male con
gli artigli appuntiti. «Ahi! Via! Scendete!».
Allungò le mani verso i piccoli corpi cercando di levarseli di dosso. Si
tenevano ai capelli con le unghie e i denti. Quando finalmente riuscì ad
acchiapparli, quasi li scaraventò a terra. Poi si portò le mani nuca.
Le sue dita si bagnarono. Fissò con sgomento le chiazze rosse che le
macchiavano le mani.
Quei piccoli mostri l'avevano morsa! E adesso erano seduti sul
pavimento e si stavano leccando tranquillamente il sangue sui baffi. Cassie
fu sopraffatta da una violenta ondata di repulsione.
Faye, in piedi sulla porta, ridacchiò.
«Forse la sbobba che mangiano non dà loro la giusta dose di vitamine e
minerali», commentò.
Quella mattina Faye era stupenda. I capelli neri spettinati le scendevano
lungo le spalle in riccioli naturali, ancora bagnati dopo la doccia. La pelle
umida risplendeva candida, in contrasto con l'accappatoio bordeaux.
"Non sarei dovuta venire", pensò Cassie, avvertendo un'ondata di paura
irrazionale. Ma Faye non avrebbe più osato farle del male. Diana sarebbe
venuta a saperlo, e anche il circolo. Non poteva passarla liscia, lo sapeva
anche lei.
Faye si sedette sul letto. «Allora, piaciuta la cerimonia di ieri notte?»,
chiese con disinvoltura.
"Lo sapevo", pensò Cassie. «Sì, finché qualcosa non è andato storto»,
rispose. E guardò di nuovo Faye.
Faye scoppiò nella sua solita risata, intensa e indolente. «Oh, Cassie. Mi
piaci. Davvero. Ho sempre saputo che avevi qualcosa di speciale. Mi rendo
conto che non abbiamo cominciato con il piede giusto, ma credo che le
cose cambieranno. Credo che diventeremo ottime amiche».
Per un istante, Cassie rimase senza parole. Poi riuscì a dire: «Non credo,
Faye».
«Io penso di sì, Cassie. Ed è questo che conta».
«Faye...». La notte precedente Cassie aveva avuto il coraggio di dire
delle cose che non avrebbe mai creduto di riuscire nemmeno a pensare in
modo compiuto. Forte della sua conquista, parlò a Faye senza alcuna
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remora: «Faye, non credo che noi due abbiamo molto in comune. E non
penso neppure di voler essere tua amica».
La ragazza sorrise.
«Questo è male», disse. «Perché, vedi, io so un paio di cose. E sono
certa sia il genere di cose che vorresti sapesse solo un'ottima amica».
Cassie sentì la terra aprirsi sotto i suoi piedi.
Faye voleva dire... Oh, no, era impossibile. Cassie la fissò, sentendo
qualcosa di simile al ghiaccio solidificarsi nel suo stomaco.
«Ascoltami bene», proseguì Faye. «Si dà il caso che io abbia un
mucchio di amici. Amici che mi raccontano cose, cose interessanti che
vedono e sentono qui intorno. E la sai l'ultima? Stanotte uno di questi miei amici
ha visto qualcosa di molto, molto interessante, sul promontorio».
Cassie si sedette con la vista annebbiata.
«Ha visto due persone all'altezza del numero 12. E queste due persone
erano... Be', diciamo che erano intime. Molto intime. Da quel che ho
sentito, è stato un incontro piuttosto caldo».
Cassie aprì la bocca, ma non riuscì a parlare.
«Non immagineresti mai chi erano questi due! Neppure io ci avrei
creduto, se non fosse stato per una poesia che avevo letto. Com'è che
diceva? "Ogni notte mi addormento e ho un'unica speranza"...».
«Faye!». Cassie scattò in piedi.
Faye sorrise. «Credo tu abbia capito. Diana non sa niente di questa
poesia, vero? Non credo proprio che ne sappia qualcosa. Be', Cassie, se
non vuoi che lei venga a conoscenza della poesia, o di quel che è successo
ieri notte sul promontorio, forse è il caso che cominci a considerarmi tua
amica, e velocemente. Non pensi?»
«Non è andata così», disse Cassie. Era accaldata e tremava per la rabbia
e la paura. «Tu non capisci niente...».
«Certo che capisco. Adam è molto bello. E io ho sempre sospettato che
la storia dell'"eterna fedeltà" fosse solo una posa. Non ti condanno, Cassie.
È una cosa molto naturale...».
«Non è successo niente. Non c'è niente tra noi...».
Faye sorrise. «Da quel che ho sentito, tra voi c'era molto poco... Scusa.
No, davvero, Cassie, vorrei crederti, ma mi chiedo se anche Diana ti
crederà. Soprattutto quando scoprirà che hai appositamente dimenticato di
dirle di aver conosciuto il suo fidanzato questa estate – quando lui ti ha
"risvegliata", se non ricordo male. Com'è che diceva la poesia?».
«No...», sussurrò Cassie.
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«Per non parlare della faccia che hai fatto dopo la tua iniziazione... Be',
Diana non se n'è accorta, ma devo ammettere che la tua espressione mi ha
fatto già nascere dei sospetti: la scena sul promontorio me li ha solo
confermati. Quando lo racconterò a Diana...».
«Non puoi farlo», gridò Cassie disperata. «Non puoi raccontarglielo. Ti
prego, Faye. Non capirebbe. Non è andata come dici tu, ma Diana non
capirebbe».
Faye schioccò la lingua. «Ma, Cassie, Diana è mia cugina. Abbiamo lo
stesso sangue. Devo dirglielo».
Cassie si sentiva come un topo in un labirinto, impegnato in una corsa
cieca alla ricerca di un'uscita inesistente. Il panico le faceva rimbombare il
sangue nelle orecchie. Faye non poteva raccontarlo a Diana. Non poteva
accadere. Il pensiero di come Diana avrebbe guardato... di come l'avrebbe
guardata...
E Adam. Quello era quasi peggio. Diana avrebbe pensato che lei e Adam
l'avevano tradita.
E lei non l'avrebbe sopportato.
«Non puoi», bisbigliò. «Non puoi».
«Be', Cassie, te l'ho già detto. Se fossimo amiche, amiche per la pelle,
potrei riuscire a mantenere il segreto. Io e Diana siamo cugine, ma farei
qualsiasi cosa per un'amica. E...», continuò Faye, con gli occhi color miele
che non abbandonava mai il volto di Cassie, «...mi aspetto che la mia
amica, a sua volta, faccia qualsiasi cosa per me».
Fu allora che Cassie capì cosa stava succedendo. Il mondo intorno a lei
si era fermato, tutto era immobile. Il suo cuore sembrò affondare come
piombo. Giù, sempre più giù.
Dal fondo di un pozzo, chiese a Faye con voce spenta: «Tipo?».
Faye sorrise. Si appoggiò al letto, rilassata, con l'orlo dell'accappatoio
che si scostava mostrando una gamba nuda e perfetta.
«Be', vediamo», disse lentamente, prolungando quel momento,
gustandoselo. «Ricordo che c'era qualcosa... Oh, sì. Vorrei tanto quel
teschio di cristallo che ha trovato Adam. Sono certa che tu sai dove lo tiene
Diana. E, se non lo sai, sono sicura che riuscirai a scoprirlo».
«No!», esclamò Cassie inorridita.
«Sì», disse Faye, e sorrise di nuovo. «È quello che voglio, Cassie. Voglio
capire quanto vali come amica, e solo questo potrà dimostrarmelo».
«Faye, tu hai visto cos'è successo stanotte. Quel teschio è malvagio.
Qualcosa di terribile è a piede libero per colpa sua; se lo usi ancora, chi lo
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sa cosa potrebbe accadere». "E soprattutto", le suggerì all'improvviso la
sua mente intorpidita, "chissà Faye per quale scopo ha intenzione di
usarlo". «Perché lo vuoi?», le chiese.
Faye scosse la testa tollerante. «Questo è il mio piccolo segreto. Forse,
se diventiamo amiche abbastanza strette, te lo rivelerò».
«Non lo farò. Non posso. Non posso, Faye».
«Be', questo è male». Faye sollevò le sopracciglia e contrasse le labbra
carnose. «Perché vuol dire che dovrò chiamare Diana. Credo che mia
cugina abbia il diritto di sapere cosa fa il suo fidanzato».
Raggiunse il telefono e cominciò a premere i pulsanti con le eleganti dita
con le unghie laccate di rosso.
«Diana? Sei tu?»,
«No!», urlò Cassie afferrandole il braccio. Faye mise la telefonata in
attesa.
«Questo significa che abbiamo un accordo?», le chiese.
Cassie non riusciva a formulare né un no né un sì.
Faye tese un braccio e prese il mento di Cassie tra le dita, come aveva
fatto il primo giorno di scuola sui gradini della collina. Cassie riusciva ad
avvertire la durezza delle sue lunghe unghie, la freddezza e la forza delle
sue dita. Faye la stava fissando con quegli strani occhi color miele. "I
falchi hanno occhi gialli", pensò Cassie all'improvviso. E le dita di Faye
sembravano artigli. Non aveva scampo. Era in trappola... presa... come un
topolino bianco ghermito da un uccello rapace.
Quegli occhi la stavano ancora guardando... la guardavano dentro.
Cassie era stordita, tormentata. E questa volta sotto i piedi non aveva
nessuna roccia a darle forza. Era nella camera al secondo piano della casa
di Faye, lontana da qualsiasi forma di aiuto.
«Abbiamo un accordo?», ripeté Faye.
Nessuna via di fuga. Nessuna speranza. La vista di Cassie si stava
annebbiando, indebolendo.
Sentì gli ultimi residui di resistenza, di volontà, che si dissolvevano.
«Allora?», chiese Faye con il suo tono canzonatorio e roco.
Ciecamente, quasi inconsapevolmente, Cassie annuì.
Faye la lasciò andare.
Poi riprese la telefonata: «Scusami, Diana. Ho sbagliato numero. Volevo
chiamare l'idraulico. Ciao, ciao!». Detto questo, riattaccò.
Si stiracchiò come un gatto gigante, riponendo il telefono sul comodino
mentre si stendeva sul letto. Poi si sistemò le braccia dietro la testa e
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guardò Cassie sorridendo.
«Va bene», disse. «Per prima cosa portami il teschio. E dopo... Be', dopo
penserò a qualcos'altro. Spero tu ti renda conto che da oggi mi appartieni,
Cassie».
«Pensavo», sussurrò Cassie, ancora incapace di vedere al di là della
nebbia grigia, «che fossimo amiche».
«Quello era un eufemismo. La verità è che d'ora in avanti tu sarai la mia
schiava. Sei mia, Cassie Blake. Il tuo corpo e la tua anima mi
appartengono».
[Continua]
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