GIANCARLO SCODITTI “LA MEMORIA DELL`ISOLA”
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GIANCARLO SCODITTI “LA MEMORIA DELL`ISOLA”
GIANCARLO SCODITTI “LA MEMORIA DELL’ISOLA” - Bollati Boringhieri 2001 1. Cambridge, 1971. La mia intenzione è di studiare i simboli incisi e colorati sulle tavole policrome della grande canoa cerimoniale trobriandese. Non ho voglia, non ho intenzione, di interessarmi alla struttura di parentela degli abitanti di quelle isole: non vedo perché si debba parlare di questa struttura per capire i meccanismi seguiti da un trobriandese quando incide una tavola policroma. La maggior parte degli antropologi degli anni ’50 e ’60 , sembra che abbia avuto a che fare con strutture astratte, mai con uomini e donne che hanno costruito quelle strutture. È come se si volesse negare a un uomo la capacità di progettare, immaginare, fantasticare …. al punto di concepire queste culture come degli oggetti immobili, come dei congegni ossessionati solo di ripetere in eterno gli stessi movimenti [pag. 10-11]. 2. Kiriwina, giugno 1973. Ero [già] predisposto «naturalmente» a guardare con l’occhio e la mente le tessiture grafiche di un oggetto, di una superficie, più che la funzione pratica che gli veniva, spesso arbitrariamente, attribuita dal curatore di un museo [etnografico] o di un’esposizione [18]. Sono nell’attesa di trovare un battello per Kitawa[1], dove ho deciso di passare almeno un anno. Malinowski rappresenta Kitawa quasi sottolineandone la diversità rispetto alle Trobriand: dopo anni passati sull’isola mi accorgo che ha ragione anche se non l’ha mai visitata [23]. Gli stessi abitanti di Kiriwina contribuiscono ad allontanarla in uno spazio irreale: raccontano che è difficile arrivarci, che è abitata da potenti maghi e streghe volanti. Per ora mi incuriosisce l’ostinazione degli abitanti di Kiriwina di confinare a Kitawa tutto ciò che è pauroso, misterioso, potente, magico, mostruoso e non conosciuto [24]. Ho fatto amicizia con un vecchio, Mulapokala. È lui che mi parla, per la prima volta, degli incisori delle tavole policrome per canoe cerimoniali di Kitawa: sono famosi in tutto il kula ring, soprattutto Towitara Buyoyu [25]. Mulapokala incide mortai e spatole di ebano. Con lui preparo le prime domande sul «meccanismo mentale seguito da un incisore quando lavora» [26]. A convincermi [a salpare per Kitawa] è stato il «desiderio etnografico» di non condurre una ricerca dove già c’è stato un altro antropologo. Ma è anche vero che a Kitawa costruiscono e incidono le canoe più belle, nello stile tadobu di tutta la Milne Bay [27]. 3. Kitawa. L’isola si presenta come un cono verde dalla base larga che si alza tranquillo dentro la nebbia grigia. Man mano che ci si avvicina si distingue une serie di gradoni coperti di alberi dal fogliame denso. Il battello si ferma tra un isolotto e la spiaggia. Il mare e calmo e lascia vedere i coralli colorati del fondo. Arrivano sette canoe da pesca. Si fanno sottobordo e gli uomini caricano i bagagli. Sulla spiaggia resto a lungo silenzioso come gli uomini delle sette canoe. Poi mi fanno cenno che è ora di incamminarsi verso i villaggi. Starò a Kumwageïya, nella parte a sud est dell’isola, che degrada in modo meno ripido verso il mare. Quando arriviamo, il paese si prepara a dormire. Poco dopo è come se le capanne parlassero; dal tono, intuisco che sono domande. Una capanna chiude lo spazio del villaggio. I bauli e le scatole vengono accatastati nella veranda. Poi tutti spariscono all’improvviso. Solo all’alba intravedo una figura che posa un piatto di legno sulla mia veranda. Un’offerta silenziosa che si ripeterà per circa nove mesi, fino a quando non riuscirò a parlare la lingua di Kitawa. Mi sento isolato su un’isola. Poi, all’improvviso, scoppia un lamento seguito da pianto. È morto un ragazzino, di malaria. Scambio il pianto rituale per dolore vero. Imparerò col tempo che la ritualità è una continua ripetizione di qualcosa che è già accaduto: ripetere non significa affatto credere nell’atto ripetuto. Guardando meglio, vedo che qualcuno sta fumando oppure mastica noce di betel. Qualcun altro, tra un lamento e l’altro, ride. Eppure prendo tutto per vero, dentro questo mutismo. È la lingua che mi manca, e l’attenzione alla cantata della lingua nowau diventerà una delle mie ossessioni etnografiche: solo nel 1992 finirò il lavoro sulla poesia orale di Kitawa [29-36]. Passo quasi tutte le mattine sulla spiaggia, davanti alle capanne che proteggono le canoe cerimoniali. Disegno e coloro con i pastelli le tavole policrome degli scafi: la tessitura dei segni grafici sembra senza significato. Cerco di capire se possono essere considerati come unità espressive. Con alcuni mi sembra di riuscirci, con altri no. Mi ostino a intuire il meccanismo che deve aver spinto l’incisore a intagliare e incidere la tavola secondo un progetto. Lévi-Strauss ha raccontato della sua ossessione di negare la possibilità di un progetto grafico dietro un oggetto prodotto da un «nativo». Mi sembra che urti in modo sfacciato con quello che ora vedono i miei occhi. Com’è possibile che l’ordine che regge i segni grafici sulla tavola di legno non siano il risultato di un progetto, di un concetto formale, preciso? Non mi sembra possibile che questi prodotti risultino da tentativi fatti di errori e correzione di questi errori. Ma non mi sembra che questo procedimento sia tipico di una cultura orale, «selvaggia». Ernst Gombrich, a questo punto, mi sembra più stimolante per capire che cosa significhi arrivare alla definizione formale di un progetto grafico [36-37] Ogni tanto qualche abitante si ferma nei pressi della mia capanna incuriosito da me che leggo, dalla mia pipa e dalla scatola del tabacco. Si ferma e guarda le pagine. Ma soprattutto i fogli con i disegni delle tavole policrome della canoa cerimoniale. Cominciano a essere tanti e ogni sera li tiro fuori. I contatti con gli abitanti sono fatti di sguardi curiosi, a volte diffidenti. Sono attratti dai tre bauli, dalle macchine fotografiche, dai libri e, soprattutto, dai pacchi di carta che si coprono di disegni. Sono incuriositi (lo confesseranno dopo mesi) dal mio modo di fare, da un bianco che non è un missionario né un rappresentate dell’amministrazione fiduciaria australiana. Tutte le sere parlano di me. Decidono che amo molto le tavole policrome delle canoe: i ragazzini che mi seguono, attratti dai disegni e dalle matite colorate, raccontano dei miei progressi «visivi» e che mi fermo sempre più spesso davanti alla grande canoa cerimoniale costruita e incisa dal vecchio Towitara Buyoyu [38-41]. 4. Towitara Buyoyu. Si vede nel villaggio solo all’alba. Lo sguardo è di un uomo che passa il suo tempo a pensare, progettare, ricordare e selezionare immagini [42]. Non si incontra mai, se non quando c’è da tagliare un albero per lo scafo di una canoa cerimoniale o quando assiste al varo delle nuove canoe. O quando, con il figlio della sorella, nella foresta cerca un tronco adatto per sagomare una delle due tavole policrome ( lagimu, il volto del Sole, e tabuya, il volto della Luna) che decorano una canoa per il kula [42.43] La fama di Towitara corre da decenni per tutto il kula ring. È uno dei pochi tokula («uomo che partecipa allo scambio rituale») che sia riuscito a toccare tutte le isole poste nel cerchio del «divertimento», interpretato come una metafora visiva della conoscenza perfetta. È inutile cercarlo. È lui che decide quando farsi vedere e con chi parlare. Ma tutto questo lo fa in modo naturale, un modo che in chiunque altro sarebbe arroganza [44]. Si crea tra noi una corrente di simpatia silenziosa: aspetta con pazienza che faccia progressi con il nowau. Giorni e mesi di silenzio, alleggeriti da una forte curiosità per tutto quello che mi circonda. Commetto un «errore linguistico» imperdonabile: ogni volta che ascolto qualcuno tento di capire dove sia il verbo oppure il soggetto. Penso dove cercare il plurale oppure il maschile e il femminile. Ma non funziona. Applico al nowau un metodo da «uomo della scrittura»: sono del tutto disabituato ad ascoltare una lingua senza poterla leggere, senza poterla vedere ridotta alla forma scritta. A Kitawa la lingua suona in modo diverso e, soprattutto, io devo imparare a rilassarmi quando ascolto. Non mi resta che partecipare alla vita del villaggio. In compenso immagazzino parole, modi di dire. Tutto entra nella scatola della mia memoria-mente senza pensarci sopra. Mi sembra di cogliere meglio le parole nowau e, se non tutta la frase, afferro in modo sintetico il suo significato [45-47] Towitara aspetta la mia visita e si diverte ai miei primi tentativi di palare nowau. Non potrò lavorare con lui fino a quando non sarò in grado di sostenere una conversazione nella lingua. Non solo perché lui non parla inglese ma, soprattutto, perché discutere di bellezza, armonia, senso dell’ordine, simmetria e forma, richiede una competenza lessicale specifica: non mi è mai passato in mente di affrontare uno studio sulla estetica degli incisori di tavole policrome senza ammettere, come un vero a priori, l’esistenza di un lessico specifico relativo all’estetica. Qualche volta è Towitara che viene a trovarmi. Guarda i miei disegni delle tavole policrome. Il suo commento è costruito con sorrisi e veloci passate di mano su quelli che non approva. Gli è ormai chiaro perché mi trovo a Kitawa [47-49]. 5. Conversazione I Le conversazioni estetiche iniziano dopo i primi nove mesi passati a Kitawa. Pongo le domande in modo tendenzialmente astratto e alcuni problemi di cui mi piacerebbe discutere non riguardano solo il suo modo - la tecnica - di incidere: per es., quando lavora, un incisore è preso solo da problemi di forma (come organizzare una tessitura cromatica di segni)? Non vedo perché debba parlare delle tavole policrome di Towitara come se queste fossero diverse, dal punto di vista dei meccanismi che determinano la loro progettazione e costituzione, da un quadro di Piero della Francesca o da una scultura di Henry Moore [51-52]. La mia attenzione alla cultura di Kitawa, in particolare alla produzione estetica (all’inizio solo alle forme visive, poi anche verso le espressioni poetiche orali) è di origine metodologia, non «esotica». Come etnologo a Kitawa devo dimostrare che il mio modo di pensare e di analizzare non è solo mio, né tanto meno della sola cultura a cui appartengo, ma è anche di un altro uomo, per esempio un incisore di tavole policrome per canoa cerimoniale, quindi di oggetti estetici di una cultura melanesiana. Come mettere in parallelo due menti che possono elaborare modelli di riferimento simili e/o dissimili prodotti dallo stesso meccanismo mentale? Questo, il mio stato d’animo quando comincio a discutere con Towitara [52-53]. 6. Conversazione II. Il vero problema è rappresentato dal controllo della lingua e dal tipo di lessico estetico da usare nelle nostre conversazioni. Dobbiamo parlare di tavole incise e colorate, oggetti che vanno percepiti con la mente-occhio. Potrei solo guardarli, fotografarli, godermeli … Ma devo parlarne per capire perché vengono costruiti e come vengono progettati, per individuare il meccanismo mentale che fa loro da modello di riferimento (allo stesso modo, il progetto di un architetto, l’immagine di una casa sulla carta, precede il programma esecutivo) [54]. Non è semplice trovare le parole quando si tratta di un oggetto visivo costruito all’interno di una cultura che non usa memorizzare la lingua in forma scritta. Inoltre è necessario lavorare, parlare, con la consapevolezza di muoversi all’interno di un linguaggio metaforico[55]. Sostituiamo il linguaggio verbale a quello non-verbale delle tavole policrome. Inoltre discutere di una tavola policroma non è la stessa cosa che progettarla, inciderla, colorarla e percepirla: è un livello di analisi che non ha niente a che fare con la capacità di incidere e colorare. Un incisore deve solo saper incidere e non è rilevante che sappia parlare anche di quello e su quello che incide. Ma Towitara oltre che un incisore - uno dei più abili della storia dell’arte di Kitawa e della Milne Bay- è «anche» un critico raffinato e acuto [56-57]. 7. Conversazione III . Prima di incontrare Towitara preparo una serie di domane: ho bisogno di scriverle per «vedere» se abbiano un senso in nowau. Mi aiuta molto guardare i disegni che ho fatto dei legimu e tabuya, e della canoa cerimoniale. Con il vecchio artista discuterò solo di sera. L’argomento va tenuto segreto, non se ne deve parlare davanti a tutti. Ci sono aspetti che toccano la sfera del magico, inteso come metafora di ciò che non può essere divulgato, soprattutto a livello tecnico [58-59]. Disegnando i vari legimu e tabuya nei diversi luoghi dell’isola ho notato qualcosa di comune: una figura, una sagoma, vagamente geometrica, una specie di triangolo isoscele che racchiude i segni grafici incisi sul lagimu , mentre il tabuya somiglia grosso modo a un triangolo rettangolo, giusto la metà del primo. Su tutte le tavole, oltre a segni grafici apparentemente secondari , ce ne sono altri più importanti che spesso spariscono sotto la stesura dei tre colori bianco, rosso e nero, incisi sempre con la stessa forma e negli stessi spazi. Essi catturano l’occhio: è come se uno notasse che tutte le chiese barocche di Roma hanno facciate con campanili che si attorcigliano, anche se questo effetto è raggiunto con tecniche e materiali diversi. Con Towitara voglio stabilire se questa intuizione sia corretta e cerco di capire se la ripetitività della sagoma delle due tavole policrome sia solo funzionale allo scafo oppure se racchiuda, come una sintesi visiva, la nozione di «schema» che, a sua volta, incapsuli un insieme di valori più ampi di quelli estetici . La maggior parte degli etnologi vedrebbe, nelle tavole policrome, una ripetizione continua di modelli formali, attribuendone la ripetitività alla mancanza di immaginazione (Lévi-Strauss suggerisce che una « cultura selvaggia » si muove come un moto perpetuo, senza la minima variante). A me interessa capire cosa determina l’adozione di uno stesso modello posto come base per costruire forme che possono, o non possono, essere tra loro simili oppure uguali [60-62]. Dai disegni delle tavole policrome di cui discuto con Towitara salta agli occhi, quando i colori ricoprono la tessitura grafica delle tavole, che ci sono segni che si ripetono con varianti minime. Towitara mi indica e classifica con i rispettivi nomi tutti i segni grafici e specifica quali sono quelli non modificabili che ogni incisore è tenuto a riprodurre. Sono quattro e sono visibili in tutta chiarezza nella parte alta del lagimu. Ma perché solo quattro – e perché proprio questi quattro? Forse esprimono il concetto di schema, la struttura? O forse sto introducendo concetti, immagini, figure che non sono di Towitara né della cultura nowau. Ma questo dubbio, a sua volta, non è un « vizio da etologo »? Perché non accettare che in una cultura lontana apparentemente dalla nostra, funzionino modelli di riferimento simili e in molti casi uguali? In questo caso, non si tratta della traduzione dei termini da una lingua all’altra, ma di accettare l’uguaglianza o la similitudine di due meccanismi mentali (di Towitara e mio) che, pure, costruiscono modi di esprimersi diversi [62-64]. Discutendo con Towitara del perché siano quattro i segni grafici non modificabili, e perché proprio questi quattro, riscopro il valore metaforico della parola. L’imbarazzo di Towitara di fronte alla mia insistenza di voler sempre associare un concetto, un’immagine a una sola e data parola, mi aiuta a capire che, anche senza volerlo, nego la possibilità all’interno di una data cultura (in questo caso) di elaborare forme di linguaggio metaforiche [64-65]. Quando Towitara mi dice che quattro sono i segni grafici non modificabili vuol dire che essi metaforizzano i punti che reggono la figura del lagimu. Che poi vengano chiamati gigiwani (crisalidi), doka (una conchiglia) weku (un uccello ) e kwaisaruvi (un pesce) non è rilevante al fine dei valori che garantiscono. Ma eliminare uno solo di questi quattro segni, metafore visive dei quattro punti-cardine, significherebbe distruggere la figura del lagimu: «Come se -mi spiega Towitara - nella capanna in cui siamo seduti si eliminassero i quattro pali portanti. Eliminarli significa far crollare la capanna». In realtà nel passato a Kitawa si costruiva un altro tipo di capanna (le pareti ed il tetto erano formati da due pezzi unici); le poche di questo tipo che sono sopravvissute, sono l’ultimo esempio di un diverso modo di progettare e costruire. Eliminare i quattro segni grafici, significherebbe distruggere non solo un lagimu e/o un tabuya, ma anche un dato progetto di tavola policroma per la canoa cerimoniale [65-67]. 8. Conversazione IV. La lucida spiegazione di Towitara del rapporto tra schema e modello di una canoa cerimoniale mi lascia stordito. Ma continuo a cercare le parole nowau per rappresentare i concetti che Towitara esprime. Questa ossessione, durata per i primi due anni passati a Kitawa, mi ha permesso tuttavia di raccogliere il lessico relativo all’estetica nowau. Però, in primo luogo, Totiwara è riuscito a farmi intendere non solo la tecnica di incisione ma anche il meccanismo di progettazione di una tavola policroma. Dicendo che la figura è progettata con quattro segni fondamentali, e che eliminare uno di questi significa modificare la tavola, o anche distruggerla, mi comunica che la sua cultura ha elaborato i concetti di schema e di struttura [68-70]. L’insieme dei quattro segni e i rapporti armonici visualizzano una data nozione di triangolarità che, a sua volta, regge e guida la progettazione e la costruzione della tavola policroma. Così, la canoa cerimoniale non va interpretata solo come un oggetto simbolico ma anche come il dispiegamento con una metafora visiva di un certo modo di ragionare e progettare schemi, secondo il metodo deduttivo. Ma progettare in base a uno schema, significa anche instaurare funzioni tra lo schema e vari modi di interpretarlo: i lagimu di Towitara sono diversi da quelli di altri artisti che seguono lo stesso schema tadobu (oggi il più seguito per le canoa cerimoniale) ma, appunto, interpretano il modello, senza esaurire tutti i valori etico - estetici della schema [71-72]. Aderire a questa armonia significa condividere una data scelta etica ed estetica, che non è mai statica: introdurre varianti, nel rispetto dei quattro segni fondamentali, garantisce un’interpretazione dinamica ma nello stesso tempo nega, attraverso l’imposizione del rispetto dei valori tradizionali, la distruzione di questa scelta. L’incisore esplica e sintetizza sulla tavola policroma un dato schema culturale nowau. Questo mi ha detto Towitara [72-73]. 9. Conversazione V. Devo essere sicuro di non fraintendere quello che Towitara mi dice. Mi fa capire la funzione di sintesi che la metafora svolge all’interno di una cultura orale: condensa con « figure » tutto un insieme di valori ritenuti validi dai membri di quella cultura. Alcuni valori risultano immodificabili perché più di altri garantiscono il meccanismo di funzionamento del sistema culturale: perciò la loro intangibilità è dichiarata « sacra ». I segni grafici fondamentali di un lagimu, per esempio, sono quattro « figure » che ricordano un insieme di valori costruiti dagli antenati che vanno rispettati, almeno fin a quando sono ritenuti validi. Un incisore è autore di metafore visive che durano più a lungo nel tempo: anche il poeta e il cantore si esprimono con metafore, verbali o sonore, ma queste [in una civiltà orale come quella nowau] col passare degli anni, si sfilacciano mentre le due tavole policrome sono forme di memorizzazione «forte» come due « testi scritti » che condensano un insieme di valori – un insieme che, trasferito su una tavola incisa e colorata, diventa tendenzialmente estetico. Più o meno, è quel che succede nell’Oratorio di Borromini che risolve in modo del tutto nuovo l’insieme di valori cattolici della Controriforma inserendo le superfici concave e convesse nello spazio, proponendosi come un « oggetto estetico » [74 -75]. Ormai l’Oratorio è percepito come esempio di architettura barocca. Lo stesso vale per i quattro segni grafici che , una volta incisi, sono percepiti solo come elementi di una tessitura: tutti i valori che sono stati loro associati, vengono de-funzionalizzati a favore esclusivo della carica estetica, tipica dell’opera d’arte. Ognuno dei quattro segni rappresenta un valore ancora condiviso ma una sua esecuzione su una tavola policroma non esaurisce tale valore. Towitara mi spiega che la sacralità di ognuno dei segni grafici fondamentali non è incapsulata nella figura ma nelle funzioni che svolge all’interno della tessitura grafica simbolica del lagimu. Sono queste funzioni a essere immodificabili, mentre la loro interpretazione visiva, sul piano pratico non è assoluta. Mi spiega inoltre che, per modificare i segni grafici fondamentali è necessario un lavoro di riprogettazione, di ripensamento dell’intera tessitura grafica, mentre per i segni grafici collaterali è sufficiente un maggior senso dell’equilibrio formale che non contraddica la struttura fornita dai quattro segni fondamentali [76-77]. ”I quattro segni grafici fondamentali pur essendo, posti con un “atto logico”, come non modificabili tuttavia possono essere su un lungo periodo di tempo variati, ri-progettati “[2]. Questo può accadere se ci si è resi conto del rapporto tra il valore etico - estetico del segno e il meccanismo che lo sintetizza in una n uova figura. Così, pur entro uno schema rigido, con uno stratagemma ottico Towitara ha risolto un problema: ribilanciare visivamente lo squilibrio tra lo scafo della canoa e il bilanciere. In navigazione, mentre il bilanciere si alza a destra, lo scafo affonda sinistra e la tessitura grafica e cromatica del lagimu appare disarmonica, squilibrata. Ponendo a destra il segno grafico a tutto tondo, pieno e colorato di nero (il kwaisaruvi) contrapposto alla figura di sinistra, formata da due fori racchiusi da due volute (il weku), grazie al gioco del pieno-nero contrapposto al vuoto-bianco, Towitara ha “suggerito” l’appesantimento dello scafo dalla parte del bilanciere, ristabilendo l’armonia grafica del legmiu. [78-79]. 10. Conversazione VI. Le conversazioni con Towitara si fanno sempre più articolate. Ogni tanto penso me lo suggerisce l’atteggiamento degli abitanti del villaggio- che mi sto muovendo in un ambito intellettualen- te aristocratico [81-82]. Towitara è un grande artista. La sua influenza sugli abitanti di Kitawa ha raggiunto livelli mitici. Rappresenta «l’uomo classico novau». Oltre che nella progettazione e incisione del kwaisaruvi, la sua «classicità» si dimostra nel rispetto del doka, il segno grafico che non ha modificato né avrebbe potuto, perché rappresenta il meccanismo stesso seguito dall’incisore quando lavora. Sintetizza, infatti, la nascita di una forma, metaforizza lo stesso processo di progettazione e, in generale, di trasmissione di un concetto. Il doka riproduce per astrazione e sintesi la conchiglia del Nautilus pompilius e l’avvolgimento della spirale allude alle fasi successive in un continuo processo di crescita di cui non si può stabilire la conclusione. Per ciò è impossibile dimenticare il passato o negarlo senza il pericolo di uno strappo doloroso. È Towitara a suggerirmi che capire il meccanismo di crescita del Nautilus pompilius significa capire anche il meccanismo di crescita della propria cultura: non negare il passato (come potrebbe un’elica della conchiglia negare la precedente?) ma incapsularlo e svilupparlo con forme nuove (grafiche per l’incisore, poetiche per il poeta, sonore per il cantore). La scelta del Nautilus pompilius non dev’essere stata casuale: questa conchiglia è una delle dimostrazioni in natura della spirale logaritmica, della sezione aurea, del Numero d’Oro, che racchiude in sé il proprio processo armonico di sviluppo [83-84]. Il doka (che in nowau è sia il segno grafico che la forma verbale per l’attività del pensiero) interpretato nel tempo in forme diverse, è inciso in tutte le tavole del kula ring. Significa che è stato accettato come sintesi grafica di un certo modo di progettare e costruire. «Modo» che per un nowau è intangibile, sacro, com’è intangibile e sacro il doka sulla tavola policroma. Sacro come «simmetria» (il doka occupa la parte centrale, in alto, tra i segni grafici tracciati a destra e a sinistra del legimu). Sacro come «sviluppo armonico», come conservazione del passato (nella progressione delle eliche, ciascuna ingloba e sviluppa la precedente). Tutti questi valori che sono etici, o nascono come tali, diventano estetici quando trovano la loro rappresentazione nella tavola policroma della canoa cerimoniale [85-86]. 11. La partenza . Sono quasi due anni che mi trovo a Kitawa e devo decidermi se partire o restare. È lo stesso Towitara a spingermi ad andarmene. Mi lascia un mwari, il bracciale di conchiglie che gli uomini si scambiano all’interno del kula ring. Mi regala il ligogu, la piccola ascia dal manico a forma di airone, e la martellina di ebano: sono levigati dal tempo e dalla sua intelligenza e abilità di incisore del volto del Sole (lagimu) e del volto della Luna (tabuya): dal loro incontro nasce l’eroe mitico Monikiniki [89]. Salgo su una delle due canoe e Towitara mi accompagna sotto lo scafo, il vecchio corpo immerso nell’acqua fino al perizoma. Solo all’ultimo momento, quando la canoa punta verso Kiriwina, mi dice che se fossi tornato a Kitawa non lo avrei più ritrovato. Arriviamo che è sera. Avverto come un vento improvviso, e per la prima volta dopo la partenza, il distacco da Kitawa [90-91]. Towitara Buyoyu, del clan Nukuwasisiga, è morto il 25 maggio 1975. [1] Kitawa è la prima isola delle Marshall Bennets a est di Kiriwina, Trobriands, nella Milne Bay Province (Papua-New Guinea). È uno dei punti strategici del Kula Ring, definito da Malinowski –in Agonauts of the Western Pacific- quando tratta dello scambio rituale tra le isole, poste a semicerchio, dell’arcipelago. La complessa struttura di questa forma di scambio è “metamorfizzata” da due doni simbolici- il waiguwa (stringa di spondilo madreperla e conchiglie) che circola da occidente verso oriente; e il mwari (una sezione di conus litteratus decorata con una struttura di perline, conchiglie e pendagli di madreperla) che circola da occidente verso oriente. [2] Così in Scoditti, Ricercari Nowau. Una forma di oralità poetica in Melanesia, Centro Internazionale di Studi di Estetica, Palermo 1991- p 45. «Se quattro sono i segni grafici non modificabili questo potrebbe significare che la cultura Nowau ha avvertito la necessità di selezionare quattro valori fondamentali (nel caso specifico bellezza, voce-suono, intelligenza e immaginazione) per memorizzare e metaforizzare se stessa». (Ivi).