Le condizioni di indigenza dei genitori non possono essere di

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Le condizioni di indigenza dei genitori non possono essere di
Cesare Massimo Bianca
Le condizioni di indigenza dei
genitori non possono essere di
ostacolo all’esercizio del diritto del
minore alla propria famiglia
Un mio contributo pubblicato nel fascicolo inaugurale di questa prestigiosa Rivista era
intitolato “Dove va il diritto di famiglia?”. In quel contributo avevo espresso il convincimento che il diritto di famiglia non si limita a lambire l’isola della famiglia, come nella famosa
similitudine del grande Jemolo, ma penetra profondamente nella sua realtà. Questa realtà
si evolve e promuove l’evoluzione del diritto di famiglia, ma tende a sua volta a recepire
e a conformarsi alla regola giuridica, per cui diritti ed obblighi regolanti i rapporti interfamiliari diventano essi stessi parte della realtà della famiglia.
Un giusto diritto di famiglia, osservavo, è pertanto condizione prima di una giustizia
sociale della famiglia.
Alla domanda dove va il diritto di famiglia si può rispondere che esso va verso un diritto più giusto e promuove una più giusta realtà della famiglia. Guardando al contesto
nazionale ed europeo può dirsi, più precisamente, che il diritto di famiglia si muove lungo
direttrici miranti ad una più ampia tutela del familiare debole, quale convivente nei nuclei
non fondati sul matrimonio e quale vittima delle violenze consumate nell’ambito della
famiglia (istruttive sono le pagine di Salvatore Patti sul tramonto delle immunità familiari).
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Ma il familiare debole è soprattutto il figlio minore. La tutela di questo familiare può
dirsi assurta a momento centrale del diritto di famiglia. Vistose tappe hanno segnato al
riguardo il recente cammino del diritto di famiglia verso la realizzazione di prioritarie
istanze di giustizia sociale.
La felice rinascita di Familia offre l’occasione per dare uno sguardo a questo cammino.
In primo luogo può osservarsi come la grave ingiustizia denunziata in quel contributo, la
discriminazione sancita a carico dei figli nati fuori del matrimonio, sia stata rimossa dalla
recente riforma della filiazione, che ha finalmente proclamato il principio della unicità
dello stato di figlio.
In secondo luogo va notato che la nuova disciplina della filiazione contiene l’enunciazione dello statuto dei diritti del figlio. Tra questi diritti è incluso il diritto del figlio di
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crescere nella propria famiglia, già enunciato nella legge sull’adozione come revisionata
nel 2001.
Di questo diritto, e dell’esigenza di una sua effettiva tutela, credo che si debba ancora
parlare. L’occasione per parlarne mi è stata offerta di recente dall’invito a partecipare ad
un convegno su “minori fuori famiglia” tenutosi presso la sede della Camera dei Deputati
il giorno 21 dicembre 2015.
Quella che segue è la traccia della mia relazione1.
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Il mio personale coinvolgimento nello studio di questo tema ebbe inizio diversi anni
fa quando appresi dal telegiornale che sei minori erano stati tolti alla loro famiglia da un
tribunale per i minorenni presso il quale era stato avviato il procedimento per la dichiarazione di adottabilità. Io mi offrii di assumere la difesa di quella famiglia, che versava in
condizioni estremamente disagiate, essendo il padre invalido e disoccupato e la madre
casalinga priva di reddito. I figli vivevano in uno stato di degrado. Basti pensare che per
nutrirsi questi bambini erano costretti a chiedere il cibo ai vicini di casa.
Si potevano lasciare questi bambini in tale stato? Ma era giusto toglierli alla loro famiglia? E come giustificare l’inerzia dello Stato quando la nostra Costituzione sancisce solennemente che nei casi di incapacità dei genitori la legge provvede a che siano assolti i
loro compiti e che la Repubblica agevola con misure economiche e altre provvidenze la
formazione della famiglia e l’adempimento dei compiti relativi, con particolare riguardo
alle famiglie numerose?
A questi interrogativi non rimase indifferente l’allora Ministro per le politiche della famiglia, Livia Turco, che si adoperò per fare inserire al primo articolo della legge sull’adozione
la disposizione ai sensi della quale “le condizioni di indigenza dei genitori non possono
essere di ostacolo all’esercizio del diritto del minore alla propria famiglia. Lo Stato, le
Regioni e gli enti locali, nell’ambito delle proprie competenze, sostengono, con idonei
interventi, nel rispetto della loro autonomia e nei limiti delle risorse finanziarie disponibili
i nuclei familiari a rischio, al fine di prevenire l’abbandono e di consentire al minore di
essere educato nell’ambito della propria famiglia”.
Ma, come si ebbe presto occasione di osservare, la mancanza di una norma di attuazione lasciava aperto il problema della sorte dei minori quando le famiglie non sono in
grado di mantenerli.
Più volte ho sentito dire che i minori non vengono mai dichiarati in stato di adottabilità
sol perché la famiglia non è in grado di mantenerli. Con toni piuttosto accesi questo mi fu
comunicato da un giudice in occasione di un incontro promosso dal Consiglio Superiore
della Magistratura. Per una singolare coincidenza quel giudice faceva parte di un tribunale
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La relazione è stata preceduta da parole di ringraziamento per l’Associazione Rete Sociale, organizzatrice del Convegno, in persona
dei suoi rappresentanti, la Senatrice Anna Cinzia Bonfusco, e gli Avvocati Tiziana Di Tullio e Catia Pichierri.
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Le condizioni di indigenza dei genitori non possono essere di ostacolo all’esercizio del diritto del minore alla propria famiglia
per i minorenni che aveva emesso una sentenza di dichiarazione dello stato di adottabilità
di due minori. Nella sentenza, pubblicata su una rivista giuridica (Giur. mer., 1997, 918), si
legge che la sola mancanza di assistenza materiale può integrare l’abbandono quando non
siano soddisfatte le più elementari necessità dei minori, i quali nel caso di specie vivevano
di stenti, poiché nessuno dei genitori aveva uno stabile lavoro.
La sentenza è anteriore alla legge di revisione dell’adozione ma non si può dire che
molto sia cambiato a seguito dell’emanazione di tale legge.
Significativa, al riguardo, è una sentenza della Corte di Cassazione del 2009 (la n. 24589
del 21 novembre), che ha affermato la conformità alla legge di una sentenza di dichiarazione dello stato di adottabilità di quattro figli, rilevando che nonostante le precarie
condizioni economiche e logistiche i genitori avevano dato luogo a continue gravidanze
e con irresponsabile pervicacia erano in attesa di un altro figlio. Nella sentenza si legge
che i giudici minorili avevano tenuto in conto il rifiuto degli interventi sociali offerti alla
coppia. Ma che cosa era stato offerto a questa coppia?: il ricovero della madre con i figli
presso una casa famiglia. Una tale offerta, avrebbe dovuto essere osservato, comportava
lo smembramento del nucleo familiare e per altro verso attestava che la convivenza dei
figli (quanto meno) con la madre era stata ritenuta per loro non pregiudizievole sol che la
convivenza si fosse svolta presso la casa famiglia.
Ma la conferma che le condizioni di indigenza dei genitori sono ancora di ostacolo
all’esercizio del diritto del minore alla propria famiglia ci viene dalle condanne della Corte
Europea dei Diritti dell’Uomo.
Emblematica al riguardo è la sentenza del 21 gennaio 2014 sul caso Zhou contro Italia.
Zhou è una ragazza madre alla quale era stato tolto il figlio, dichiarato in stato di abbandono. Si trattava di un’immigrata di nazionalità cinese, la quale aveva un precario lavoro di
infermiera che non le consentiva di occuparsi del figlio, per cui aveva inutilmente tentato
di trovare persone disposte a tenerlo di giorno. La Corte di Strasburgo rilevava che “risulta
dalle consulenze disposte dal tribunale che la richiedente era incapace di esercitare il suo
ruolo, ma che il suo comportamento non era negativo per il bambino […] e che le autorità
non hanno messo in atto delle misure finalizzate a preservare il legame tra la richiedente
e il figlio”.
Altra più recente sentenza, condanna l’Italia, responsabile per una sentenza dichiarativa dello stato di adottabilità pronunziata senza essere state riscontrate quelle eccezionali
circostanze (indegnità, maltrattamenti, abusi) che solo possono giustificare il distacco del
minore dalla propria famiglia (Paradiso e Campanelli c. Italia, 20 gennaio 2015).
Nel caso Zhou è evidente che un ruolo determinante era rappresentato dall’insufficienza della condizione economica della madre, a causa della quale il figlio è stato dichiarato
in stato di adottabilità e definitivamente tolto alla sua famiglia.
Il problema dei minori fuori famiglia non concerne tuttavia solo i figli dati in adozione
ma anche quelli dati in affidamento familiare. L’affidamento familiare è sicuramente una
alternativa più favorevole al minore rispetto al ricovero presso strutture di accoglienza,
ma è pur sempre una misura che allontana il figlio dalla sua famiglia. L’allontanamento
dovrebbe essere provvisorio, ma nella vita di un minore anche un distacco di due anni in-
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cide profondamente sulla sua esistenza alterando il mondo dei suoi affetti. All’affidamento
familiare dovrebbe quindi farsi ricorso, come prevede la legge, solo quando il minore sia
privo di un ambiente familiare idoneo.
Ma come viene inteso l’ambiente familiare idoneo?
In un caso emblematico, non di scuola ma di vita vissuta, un tribunale dispone l’affidamento familiare di due bambini che vivevano in un tugurio. La madre, impiegata come
colf, non poteva permettersi di dar loro un alloggio migliore. Questo è un caso a lieto fine
in quanto si costituì un comitato cittadino per raccogliere i fondi occorrenti a prendere in
affitto un appartamento e farvi alloggiare gratuitamente quella famiglia. Il provvedimento
di affidamento fu quindi revocato.
Cose del passato?
Una settimana fa in un programma televisivo, “La vita in diretta”, è stata fatta conoscere
la storia di una coppia di genitori con dieci figli. A causa delle loro condizioni di indigenza (non hanno lavoro stabilito e vivono in un monolocale) nove di questi figli sono stati
collocati in strutture di accoglienza. Ai genitori è stato lasciato solo il figlio più piccolo,
che ha quaranta giorni di vita.
Uno stimato e benemerito magistrato, Melita Cavallo, presidente del tribunale per i
minorenni di Roma, ha commentato la storia osservando che si è trattato di un provvedimento provvisorio e che i ragazzi sono stati allontanati per avere un pasto caldo e poter
stare in spazi adeguati.
Qui vien subito da osservare che non è giusto negare ai bambini un pasto caldo e un
alloggio idoneo ma non è neppure giusto che per avere un pasto caldo e un alloggio idoneo i bambini debbano essere allontanati dalla loro famiglia.
Si dirà che in un caso del genere il tribunale è impotente in quanto nella sua competenza può solo assumere provvedimenti di affidamento o di adozione e che impotente è
anche lo Stato in quanto l’erario pubblico non può assumersi l’onere di corrispondere a
tutti i nuclei familiari a rischio quanto occorre per il mantenimento dei figli.
Ma l’infondatezza dell’ultima osservazione è di tutta evidenza sol che si consideri che le
rette corrisposte alle case famiglia sono a carico dei Comuni e che, ad es., la retta minima
corrisposta alle case famiglia del Lazio è di sessanta euro al giorno per ogni ricoverato. Nel
caso dei nove bambini il ricovero presso case famiglia comporterebbe presumibilmente
per l’erario pubblico un onere di più di 500 euro al giorno.
Aiuti economici sono attualmente corrisposti alle famiglie ma si tratta di iniziative sparse di enti locali in alcune aree del territorio nazionale e soprattutto si tratta di iniziative
prese su un piano amministrativo che rimane distinto rispetto a quello giudiziario, senza
che tra essi sussista un canale di collegamento. Il tribunale non ha la competenza per
chiedere al Comune di occuparsi di questa o di quella famiglia.
Al riguardo un passo avanti è stato fatto dalla riforma della filiazione, grazie alla quale
è stato inserito nella legge sul diritto del minore alla famiglia l’art. 79 bis, ai sensi del quale
“il giudice segnala ai comuni le situazioni di indigenza di nuclei familiari che richiedono
interventi di sostegno per consentire al minore di essere educato nell’ambito della propria
famiglia”.
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Le condizioni di indigenza dei genitori non possono essere di ostacolo all’esercizio del diritto del minore alla propria famiglia
Questa disposizione consente ai tribunali di contattare l’ente locale al fine di far aprire
un’istruttoria sulla situazione della famiglia a rischio.
Nella sua discrezionalità l’ente locale può tuttavia rispondere di non avere una risorsa
finanziaria disponibile per l’intervento richiesto.
Al riguardo ricordo che la Commissione di studio per la riforma della filiazione ebbe
a proporre lo stanziamento di un fondo specificamente destinato all’avvio di interventi
sperimentali in favore dei nuclei familiari a rischio per prevenire l’abbandono e consentire
al minore di essere educato nella ambito della propria famiglia. Il Ministro per la cooperazione internazionale e l’integrazione, Andrea Riccardi, approvò la proposta e dichiarò il
suo impegno per farla diventare legge, ma ciò fu impedito dalla caduta del Governo.
Grazie all’interevento dell’On. Donatella Ferranti, Presidente della Commissione Giustizia della Camera e dell’On. Giuseppe Berretta, è stato infine possibile suscitare nell’ambito
della compagine governativa l’interessamento per l’idea dello stanziamento di un fondo
destinato a favore dei nuclei familiari in attuazione della legge sull’adozione2.
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Successivamente allo svolgimento del Convegno è stata emanata la legge di stabilità,
che ha dato il via ad un piano nazionale contro la povertà prevedendo che nelle more
della sua attuazione saranno adottati provvedimenti intesi a garantire in via prioritaria
interventi per nuclei familiari con figli minori, con particolare riguardo alle famiglie con
figli inseriti nel circuito giudiziario, da definire con decreti dei Ministri del Lavoro e dell’Economia (art. 24).
Un emendamento, presentato delle Onorevoli Donatella Ferranti, Barbara Pollastrini e
Roberta Agostini, era inteso a specificare doversi tener conto di quanto previsto dall’art. 1
della legge 4 maggio 1983, n. 184. L’emendamento non è passato alla votazione essendo
stato ritenuto superfluo rispetto al testo della disposizione approvata.
Al diritto di famiglia spetta quindi di compiere l’ulteriore passo inteso ad assicurare che
l’aiuto alle famiglie in crisi sia reso effettivamente operativo.
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Particolarmente interessati si sono dimostrati il Ministro Maria Elena Boschi e il Sottosegretario alla Giustizia Cosimo Ferri, e
preziosamente collaborativi il Dott. Mauro Antonelli, il Cons. Carla Garlatti e la Dott. Francesca Quadri.
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