Abuso del diritto, buona fede ed elusione fiscale

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Abuso del diritto, buona fede ed elusione fiscale
Approfondimenti
Abuso del diritto, buona fede ed elusione fiscale
Seminario di aggiornamento professionale per i
Magistrati delle Commissioni tributarie della Regione
Lombardia, Milano 23-24 novembre 2007
autore Sara Armella - Avvocato in Genova e Milano
SOMMARIO
1. Premessa
2. Nesso tra buona fede, elusione e abuso del diritto
3. Tutela del legittimo affidamento. Esimente dall’applicazione del tributo e
delle sanzioni
4. La tutela della buona fede nell’ordinamento europeo
5. Recenti orientamenti della Corte di Giustizia
6. Rapporto tra abuso del diritto (nozione comunitaria) ed elusione fiscale
(nozione interna)
7. Efficacia dei principi antiabuso nell’ordinamento interno
Bibliografia
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Premessa
Il tema che mi è stato assegnato è particolarmente interessante, ancorché articolato
e complesso. Si tratta, com‟è noto, di un argomento di grande attualità e interesse, anche
alla luce degli indirizzi espressi recentemente dalla Corte di Cassazione e dalla Corte di
Giustizia delle Comunità europee.
Il punto di partenza dell‟indagine è rappresentato dalla nozione di “buona fede” in
senso oggettivo. Essa, riferita all‟Amministrazione finanziaria, è derivazione dei principi di
imparzialità e buon andamento della Pubblica Amministrazione e si estrinseca in un
obbligo di condotta coerente, non contraddittoria o discontinua. Ne sono corollario i principi
di tutela del legittimo affidamento e di certezza del diritto.
Riferita al contribuente, la buona fede può essere definita come dovere di
correttezza, di solidarietà sociale che si esprime attraverso la leale contribuzione alle
spese pubbliche e si riflette nel divieto di comportamenti elusivi.
Correlato a tali istituti è l‟abuso del diritto. Secondo la definizione della migliore
dottrina, per abuso del diritto si intende un comportamento apparentemente conforme al
contenuto di una posizione giuridica soggettiva attribuita dall‟ordinamento ma, in realtà, in
contrasto con le ragioni sostanziali poste a fondamento di tale attribuzione. L‟abuso è
integrato dall‟esercitare un diritto entro limiti soltanto formali, ma in sostanziale conflitto
con le ragioni e gli interessi per cui il diritto è riconosciuto dall‟ordinamento giuridico.
Nesso tra buona fede, elusione e abuso del diritto
Il collegamento tra elusione, buona fede e abuso del diritto viene esplicitato con
chiarezza, per la prima volta, dalla nota sentenza della Corte di Cassazione 10 dicembre
2002, n. 17576, con la quale la Corte afferma che i doveri di buona fede e collaborazione,
dal lato del contribuente, implicano il divieto di condotte sostanzialmente connotate da
abuso dei diritti o tesi a eludere una “giusta” pretesa tributaria.
Gli atti e i comportamenti tesi a eludere la giusta imposta, in quanto confliggenti con il
dovere generale di buona fede, vanno considerati affetti da abuso.
Questa affermazione è raggiunta muovendo dal principio di buona fede codificato
dall‟art. 10 Statuto dei diritti del contribuente, il quale prevede – com‟è noto – che “I
rapporti tra contribuente e amministrazione finanziaria sono improntati al principio della
collaborazione e della buona fede”.
La sentenza 17576 del 2002, ancòra i principi di buona fede e affidamento ai precetti
costituzionali di imparzialità, buon andamento, capacità contributiva ed uguaglianza, per
giungere alla conclusione che buona fede e affidamento sono principi immanenti
all‟ordinamento tributario, che trovano applicazione anche per fattispecie realizzatesi
anteriormente allo Statuto.
Il carattere immanente si desume, secondo la Corte di Cassazione, dai principi di
diritto enunciati dalla Corte Costituzionale, dalla Corte di Giustizia e dal giudice
amministrativo. In particolare, la Consulta, nell‟affrontare il problema dell‟efficacia
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retroattiva delle leggi interpretative, ha affermato che il principio dell‟affidamento del
cittadino nella sicurezza giuridica è essenziale nello Stato di diritto e non può essere leso
da norme con effetto retroattivo che incidano irragionevolmente su situazioni regolate da
leggi precedenti (Corte Cost., sentenza 22 novembre 2000, n. 525).
Nella ricostruzione delle fonti, la Corte di Cassazione ricorda che la Corte di Giustizia,
già a partire da alcune risalenti pronunce (3 maggio 1978 causa 112/77; 21 settembre
1983, causa 205-215/82, in www.curia.eu.int), ha affermato che tutela del legittimo
affidamento e certezza nel diritto costituiscono principi generali dell‟ordinamento
comunitario. Il giudice comunitario ha, di conseguenza, stabilito che la revoca di un atto
amministrativo favorevole è soggetta a condizioni molto rigorose finalizzate a tutelare il
contribuente.
Il Supremo Collegio richiama infine anche la giurisprudenza del Consiglio di Stato, il
quale ha stabilito che nei procedimenti amministrativi i principi del legittimo affidamento e
della buona fede sono i canoni regolatori dei rapporti tra Pubblica Amministrazione e
cittadini.
Sempre nella sentenza n. 17576/2002, la Corte di Cassazione osserva che l‟art. 10
dello Statuto svolge una funzione integrativa rispetto alle specifiche previsioni normative:
si tratta, in altri termini, di una regola idonea a improntare il fondamento stesso del
rapporto tributario, integrando le previsioni di diritti e obblighi previsti dalle singole norme.
Tutela del legittimo affidamento.
Esimente dall’applicazione del tributo e delle
sanzioni
Alcune recenti pronunce sono pervenute alla conclusione, innovativa nel nostro
ordinamento, secondo la quale il principio di tutela del legittimo affidamento esclude
l‟applicazione non solo delle sanzioni, ma anche del tributo.
Un caso in cui la Suprema Corte ha esplicitato tale principio riguarda l‟accordo tra un
privato e il Comune in materia di Tarsu (Cass., 6 ottobre 2006, n. 21513, in bancadati
Fisconline). In questa sentenza il Supremo Collegio, pur affermando che esula dall‟ambito
del giudizio la legittimità o meno del patteggiamento tra ente impositore e contribuente,
sottolinea “l‟idoneità di un comportamento storicamente assunto dal Comune a fondare un
affidamento, ritenuto dal giudice ragionevole e, quindi, meritevole di tutela”.
La pronuncia, in linea con due precedenti del 2002 e 2004, afferma che “il principio di
tutela del legittimo affidamento, reso esplicito in materia tributaria dell‟art. 10, l. 212/2000,
trovando origine nella Costituzione, e precisamente negli artt. 3, 23, 53 e 97 è immanente
in tutti i rapporti di diritto pubblico e costituisce uno dei fondamenti dello stato di diritto
nelle diverse articolazioni, limitandone l‟attività legislativa e amministrativa”.
Per questa ragione - prosegue Cass. 21513/2006 – l‟esimente del legittimo
affidamento “si applica sia a rapporti tributari sorti in epoca anteriore alla sua entrata in
vigore (Cass. 7080/2004, 1757/6/2002), sia ai rapporti tra contribuente ed ente impositore
diverso dall‟amministrazione finanziaria dello Stato sia ad elementi dell‟imposizione diversi
da sanzioni e interessi”.
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Questo passaggio è estremamente significativo, giacchè la Suprema Corte afferma
che i casi di tutela espressamente enunciati dal comma secondo dell‟art. 10 (non
applicabilità di sanzioni e interessi) riguardano situazioni meramente esemplificative, ma
non limitano la portata generale della regola, idonea a disciplinare una serie indeterminata
di casi concreti (Cass. 17576/2002). Da questa premessa (elencazione esemplificativa e
non esaustiva), il Supremo Collegio fa discendere il potere di annullamento
dell‟accertamento tributario anche per la parte relativa al tributo.
Quanto ai presupposti in presenza dei quali può affermarsi il ricorrere di un‟ipotesi di
legittimo affidamento, secondo l‟orientamento espresso dalla Corte di Cassazione (in linea
con la giurisprudenza comunitaria), chiarisce che l‟affidamento non è una situazione
soggettiva di cieca e supina fiducia (buona fede soggettiva), ma implica una ragionevole
valutazione delle circostanze che generano lo stato soggettivo (buona fede oggettiva).
La ricostruzione svolta dal Supremo Collegio si avvicina all‟elaborazione della
giurisprudenza comunitaria nell‟applicazione dell‟art. 220, paragrafo secondo del codice
doganale comunitario (Reg. CE 12 ottobre 1992, n. 2913, in prosieguo c.d.c.). Il
collegamento tra ragionevolezza dell‟affidamento e meritevolezza della tutela è infatti
espressamente richiesto dalla Corte di Giustizia, la quale ha affermato che l‟errore
esimente (dal pagamento dei dazi doganali e dalle sanzioni) è quello che non può essere
ragionevolmente scoperto dal debitore, il quale ha operato con diligenza nel rispetto di
tutte le condizioni relative alla dichiarazione in dogana.
La ragionevolezza dell‟affidamento implica un comportamento diligente del
contribuente nel momento in cui valuta l‟altrui comportamento e ripone in esso
assegnamento.
Il fondamentale precedente con cui la Cassazione ha stabilito la non applicazione
delle imposte in caso di legittimo affidamento è rappresentato dalla sentenza 12 febbraio
2002, n. 17576. Nella fattispecie concreta l‟Amministrazione, con un processo verbale di
constatazione, aveva contestato al contribuente il superamento del plafond Iva; tale atto,
tuttavia, era stato oggetto di archiviazione, disposta dal direttore dell‟Ufficio per intervenuta
sanatoria. Nonostante tale archiviazione, l‟Amministrazione ha successivamente mutato il
proprio orientamento, notificando al contribuente un avviso di rettifica Iva.
La Corte di Cassazione ha annullato tale atto, sia per la parte sanzioni che per la
parte accertamento del tributo.
Attenta dottrina (1) ha sottolineato che in entrambe le sentenze (la n. 17576 relativa
alla rettifica Iva e la n. 21513 in materia di Tarsu) l‟annullamento dell‟atto amministrativo è
motivato dal contrasto con uno specifico precedente, indirizzato a quel determinato
contribuente e riferentesi a una ben individuata fattispecie.
In altri termini, perché sia integrato il presupposto del legittimo affidamento del
contribuente, è necessario che vi sia una evidente contraddizione tra un provvedimento
favorevole al contribuente e uno successivo a egli sfavorevole.
Anche per questo aspetto, la pronuncia è in linea con alcune norme dell‟ordinamento
comunitario e con la relativa giurisprudenza della Corte di Giustizia. Si segnalano, in
particolare, il già citato art. 220 c.d.c, il quale esclude il recupero dei dazi doganali in caso
di “errore” dell‟autorità doganale e di buona fede dell‟importatore, che ha rispettato le
norme dettate in materia di dichiarazione doganale.
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In questo caso, affinché sia applicabile l‟esimente è necessario che sia configurabile
un errore delle autorità competenti, il quale si realizza in presenza di uno specifico atto
relativo a una particolare importazione (es. certificato di origine che attribuisce trattamento
preferenziale), il quale poi si riveli carente dei relativi presupposti o comunque invalido.
Tale atto, però, è idoneo a ingenerare il legittimo affidamento del contribuente nella
correttezza dell‟operato dell‟Amministrazione e il successivo provvedimento di recupero
dei dazi, ponendosi in violazione della norma di cui all‟art. 220 c.d.c., avrà per sorte
l‟integrale annullamento.
Altre ipotesi in cui l‟ordinamento comunitario riconnette valore scriminante al principio
di tutela del legittimo affidamento è quello delle informazioni doganali vincolanti, in materia
di origine e tariffaria, disciplinate dagli artt. 12 ss. c.d.c. Si tratta di provvedimenti ad hoc,
che presentano forti analogie con le risposte alle istanze di interpello. Essi sono emessi
dalle autorità doganali su specifica richiesta dell‟importatore, quando questi intende
conoscere preventivamente l‟origine doganale di un prodotto o la sua classificazione
tariffaria; la risposta fornita dall‟autorità doganale abilita l‟importatore a un determinato
trattamento tariffario, che non può essere smentito da un atto di accertamento in contrasto
con la precedente pronuncia.
Per questi pronunciamenti dell‟autorità amministrativa, il legislatore comunitario ha
previsto che, anche in caso di revoca o di annullamento, il revirement non abbia effetti
retroattivi, e ciò anche in caso di errore dell‟autorità doganale che le ha rilasciate e di
modifica normativa.
A ben vedere, anche nell‟ordinamento italiano la tutela del legittimo affidamento si
riconnette all‟adozione di un provvedimento specifico, in relazione al quale matura il
convincimento del contribuente circa la validità del principio là affermato. Tale
ricostruzione è chiaramente espressa nella regola che prevede la nullità dell‟avviso di
accertamento reso in violazione della risposta fornita a un‟istanza di interpello.
Nello stesso senso, ossia nel riconoscimento del legittimo affidamento solo in
presenza di un provvedimento specifico e rivolto al contribuente, si è espressa anche la
recente sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione n. 23021 (2). In essa
chiaramente si afferma che “la circolare non vincola la stessa Autorità che l‟ha emanata, la
quale resta libera di modificare, correggere e anche completamente disattendere
l‟interpretazione adottata”.
Le conclusioni raggiunte dalle Agenzie fiscali in relazione all‟interpretazione di una
norma non rappresentano, pertanto, un‟attività idonea a determinare la formazione di un
legittimo affidamento del contribuente, trattandosi di atti a contenuto generale, i quali
difettano di valore vincolante anche nei confronti degli stessi uffici fiscali.
Le Sezioni Unite della Suprema Corte hanno pertanto escluso che, in caso di
mutamento di un indirizzo interpretativo espresso con un circolare, si possa configurare un
legittimo affidamento del contribuente: ciò colliderebbe con il principio di indisponibilità
dell‟obbligazione tributaria.
“Tutt‟al più”, afferma il Supremo Collegio, il mutamento di indirizzo in cui il
contribuente possa aver fatto affidamento può essere valutato ai fini della disapplicazione
delle sanzioni.
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Questa recente pronuncia conferma la linea interpretativa già espressa dalla Corte di
Cassazione e rinvenibile anche nella legislazione comunitaria citata, secondo la quale
perché possa integrarsi un‟ipotesi di legittimo affidamento del contribuente –
eventualmente idoneo a escludere l‟applicazione di sanzioni e (secondo un indirizzo
ricostruttivo) delle imposte – è necessario che l‟Amministrazione abbia espresso, nei
confronti di quello specifico contribuente e in relazione a una particolare fattispecie, un
provvedimento in seguito contraddetto da un atto di accertamento.
La tutela della buona fede nell’ordinamento
europeo
Informazioni doganali vincolanti
Nell‟ordinamento europeo la necessità di regole normative in grado di assicurare la
tutela della buona fede oggettiva del contribuente è stata avvertita già a partire dagli
anni ‟80.
Ne rappresentano un chiaro esempio la disciplina delle informazioni vincolanti in
materia doganale, uno strumento che consente di conoscere preventivamente
l‟interpretazione dell‟Amministrazione con riferimento a uno specifico caso concreto; la
risposta fornita vincola l‟Amministrazione in relazione alle operazioni doganali in
seguito compiute dal medesimo contribuente.
Questo istituto è stato introdotto dal reg. Cee n. 1697/79, in seguito modificato dal reg.
Cee n. 1854/89 ed è attualmente disciplinato dagli art. 12 ss. codice doganale
comunitario.
Rispetto all‟interpello ordinario, le informazioni doganali vincolanti si caratterizzano per
avere un oggetto predefinito: esse, infatti, possono essere pronunziate solo per la
classificazione tariffaria e per la determinazione dell‟origine della merce, elementi
essenziali per la liquidazione dei dazi doganali. Le informazioni doganali, emanate su
motivata richiesta scritta dell‟importatore anteriormente al compimento dell‟operazione
doganale, hanno efficacia in tutta l‟Unione europea, con la conseguenza che la
risposta fornita da un‟Amministrazione nazionale vincola anche tutte le altre.
Altro elemento caratterizzante l‟istituto è la durata delle informazioni doganali
vincolanti: dalla loro emanazione, esse hanno efficacia per sei anni, se rese in
relazione alla classificazione tariffaria e per tre anni, se hanno a oggetto l‟origine della
merce.
Tutela del legittimo affidamento del titolare dell‟informazione risulta evidente nell‟ipotesi
in cui il provvedimento emesso dall‟Amministrazione risulti, a un successivo riesame
della fattispecie, non spettante, come avviene in caso di errore dell‟Amministrazione
oppure a seguito di una modifica normativa o di sentenze della Corte di Giustizia.
In generale, per effetto di tali atti a efficacia normativa dovrebbe venir meno
l‟informazione doganale: tuttavia, a tutela dell‟affidamento del contribuente, la
legislazione comunitaria prevede che se il titolare è obbigato da un contratto
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giuridicamente vincolante di vendita o di acquisto della merce, l‟informazione può
ancora essere usata per altri sei mesi.
Art. 220, paragrafo 2, lett. b) codice doganale comunitario.
Anche in questo caso, si tratta di una norma risalente agli anni „80 (reg. Cee 1697/79,
in vigore dal 1° gennaio 1980), in forza della quale non si applicano i dazi doganali
quando l‟importo non è dovuto per un errore dell‟Autorità che non poteva essere
ragionevolmente scoperto dall‟importatore, avendo questi agito in buona fede e
rispettato tutte le condizioni previste dalla normativa in vigore riguardo alla
dichiarazione in dogana (1).
Più precisamente, la disciplina comunitaria impedisce che si proceda all‟accertamento
doganale in rettifica della dichiarazione presentata all‟atto dell‟importazione, quando
«l‟importo dei dazi legalmente dovuto non è stato contabilizzato per un errore
dell‟Autorità doganale, che non poteva ragionevolmente essere scoperto dal debitore
avendo questi agito in buona fede e rispettato tutte le disposizioni previste dalla
normativa in vigore riguardo alla dichiarazione in Dogana» (art. 220, comma 2, lett. b,
c.d.c.).
E‟ importante sottolineare, in proposito, che è la stessa norma comunitaria ad attribuire
alla buona fede dell‟importatore efficacia esimente rispetto al pagamento dei dazi
doganali e delle sanzioni.
Si tratta di un aspetto di particolare rilevanza: mentre nell‟ordinamento nazionale
l‟assenza di colpevolezza tradizionalmente rileva quale esimente dal pagamento delle
sanzioni (mentre solo recentemente un orientamento giurisprudenziale, ancora incerto
nei suoi sviluppi, ritiene applicabile l‟esimente anche nei riguardi dell‟imposta),
l‟ordinamento comunitario riconosce esplicitamente, all‟art. 220 del codice doganale
comunitario, l‟esonero anche dal pagamento del tributo.
La giurisprudenza comunitaria ha costantemente affermato che, ai sensi dell‟art. 220,
n. 2, lett. b, c.d.c., il mancato recupero a posteriori dei dazi è subordinato a tre
condizioni cumulative (2), in presenza delle quali l‟importatore ha diritto a che non si
proceda al recupero a posteriori dei dazi, con il conseguente obbligo delle Autorità
doganali di astenersi dall‟azione di accertamento.
La prima condizione è rappresentata dal fatto che i dazi non siano stati riscossi al
momento dell‟importazione a causa di un errore delle Autorità competenti. Tale errore,
inoltre, non deve poter essere ragionevolmente riconosciuto dal debitore in buona fede,
nonostante la sua esperienza professionale e la diligenza di cui è tenuto a dar prova
(seconda condizione). La terza e ultima condizione è rappresentata dal rispetto, da
parte del debitore, di tutte le disposizioni previste per la sua dichiarazione in Dogana,
secondo la normativa vigente.
Il primo presupposto cui è subordinata l‟applicazione dell‟esimente è l‟errore delle
Autorità competenti, vero e proprio nucleo essenziale della norma e ratio dell‟istituto in
esame. Con la sentenza Mecanarte (3), la Corte di giustizia europea ha chiarito che
l‟art. 220 c.d.c. «ha l‟obiettivo di tutelare il legittimo affidamento del debitore circa la
fondatezza dell‟insieme degli elementi che intervengono nella decisione di recuperare
o meno i dazi doganali». La norma di esonero, pertanto, rappresenta una previsione in
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cui si concretizza, nel settore doganale, il generale principio di tutela del legittimo
affidamento del privato nei confronti di un atto promanante da una pubblica Autorità.
L‟affermazione è importante perché chiarisce che la previsione non ha natura
eccezionale, ciò che ne avrebbe limitato l‟applicazione entro i rigorosi limiti di
un‟interpretazione strettamente letterale. L‟avere affermato che l‟esonero rappresenta
esplicitazione del principio di tutela del legittimo affidamento significa considerare la
norma come espressiva di un principio fondamentale dell‟ordinamento comunitario,
assoggettandola agli ordinari canoni ermeneutici.
Muovendo da tale assunto, la Corte ha concluso che «la nozione di errore non può
essere limitata ai semplici errori di calcolo o di trascrizione, ma comprende qualsiasi
tipo di errore che vizi la decisione adottata, come avviene, in particolare, nel caso di
una scorretta interpretazione o applicazione delle disposizioni applicabili» (4). Non il
solo errore di fatto, dunque, ma anche l‟errore di diritto, concernente i presupposti
dell‟obbligazione doganale, può legittimare l‟esonero dal pagamento dei dazi, come nel
caso Seafood import (5), in cui è stato escluso il pagamento dei dazi e delle sanzioni a
fronte di un‟erronea classificazione tariffaria della merce importata, commessa
dall‟importatore e avallata dalle Autorità doganali.
Quanto al secondo presupposto, ossia la buona fede dell‟importatore, la
giurisprudenza comunitaria è costante nell‟affermare che «è compito del giudice
nazionale accertare se il debitore non abbia potuto scoprire l‟errore commesso dalle
Autorità doganali competenti, tenendo conto della natura dell‟errore, dell‟esperienza
professionale dell‟operatore interessato e della diligenza di cui quest‟ultimo ha dato
prova» (6). Per quanto attiene alla natura dell‟errore, la giurisprudenza della Corte ha
precisato che occorre accertare se la regolamentazione di cui trattasi sia complessa
ovvero sufficientemente semplice perchè l‟esame dei fatti consenta di scoprire
agevolmente l‟errore. Così, nel caso in cui si ritenga necessario adottare una disciplina
ad hoc per precisare la corretta classificazione doganale di alcune merci, vi è un
importante indizio diretto a provare la complessità del problema da risolvere e,
conseguentemente, la diligenza dell‟operatore interessato (7).
Per quanto riguarda l‟esperienza professionale dell‟operatore, il giudice nazionale
deve, in particolare, verificare se si tratti o meno di un operatore economico di
professione, la cui attività consista essenzialmente in operazioni di importazione e di
esportazione, e se egli avesse già una certa esperienza del commercio delle merci
considerate, in particolare se avesse effettuato in passato operazioni analoghe per le
quali i dazi doganali erano stati calcolati correttamente (8). Assumono così rilievo, nella
valutazione della diligenza dell‟importatore, eventuali precedenti informazioni doganali
di cui il soggetto ha avuto conoscenza, seppur non vincolanti nei suoi confronti perché
rilasciate su richiesta di altri soggetti (ad esempio, su istanza proposta da una
controllata comunitaria) nonché il fatto che la classificazione doganale indicata nella
dichiarazione non sia stata contestata per un periodo di tempo relativamente lungo da
parte delle Autorità competenti al recupero (9).
Per contro, la Corte di giustizia ha escluso la buona fede del debitore e la scusabilità
dell‟errore quando esse è determinato dall‟ignoranza della legge comunitaria. Nella
fattispecie oggetto della sentenza Covita (10), la Corte ha affermato che le norme
comunitarie che istituiscono una tassa di compensazione devono obbligatoriamente
essere pubblicate sulla Gazzetta Ufficiale delle Comunità Europee; a far data da
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questa pubblicazione, si presume che nessuno possa ignorare l‟esistenza di tale tassa.
«Tale ipotesi ricorre in ogni caso, allorché un operatore di professione che proceda ad
importazioni di merci ha conoscenza del rischio imminente dell‟istituzione di una tassa
di compensazione su tali merci. Un operatore del genere non può aspettarsi che ogni
Ufficio doganale sia immediatamente informato dell‟istituzione della tassa, ma deve
sincerarsi, dalla lettura delle relative Gazzette Ufficiali, delle norme comunitarie
applicabili alle operazioni che effettua» (11). In tali circostanze, pertanto, la mancata
applicazione della tassa di compensazione, da parte delle competenti Autorità
doganali, non rappresenta un‟esimente dal recupero a posteriori del dazio, potendo
imputarsi all‟importatore una condotta negligente.
La terza e ultima condizione richiesta per escludere il recupero a posteriori dei dazi
consiste nell‟osservanza di tutte le disposizioni previste dalla regolamentazione in
vigore per quanto attiene alle dichiarazioni in Dogana. Secondo quanto precisato dal
giudice comunitario, tale condizione implica che il dichiarante debba fornire tutte le
informazioni necessarie previste dalle norme comunitarie alle competenti Autorità
doganali che, se del caso, le completano e le traspongono in relazione al trattamento
doganale chiesto per la merce di cui trattasi (12).
Recenti orientamenti della Corte di Giustizia
Com‟è noto, il diritto nazionale non prevede una disciplina di contrasto dell‟elusione in
materia di Iva, mentre si va delineando un orientamento giurisprudenziale europeo che
eleva l‟abuso del diritto a principio generale del diritto comunitario.
L‟attualità del divieto di abuso del diritto europeo è da ricondurre a tre recenti sentenze
della Corte di Giustizia, tutte del 21 febbraio 2006, con le quali il giudice comunitario è
stato chiamato a pronunciarsi proprio sugli strumenti per contrastare l‟elusione in materia
di Iva.
Il caso più noto è quello deciso con la sentenza Halifax (1).
Halifax è una banca che esercita attività finanziaria, esente ai fini Iva, che intende
costruire quattro call center per la propria attività d‟impresa, da realizzare su terreni presi
in locazione o di sua proprietà.
L‟operazione che si realizza per ottenere tale risultato è così articolata: la banca
finanzia una propria società interamente controllata, affinchè questa possa acquisire dalla
stessa banca i diritti sugli immobili; la società controllata affida i lavori, tramite altra
controllata, a costruttori indipendenti; i lavori sono pagati da Halifax in via anticipata alla
prima società e poi da questa alla seconda. I contatti con i costruttori indipendenti sono
tenuti direttamente dalla banca.
Secondo la Corte di Giustizia, l‟insieme delle operazioni è strumentale a consentire la
detrazione dell‟Iva da parte delle due società costituite dalla banca.
In tale sentenza, il contribuente ha sostenuto la tesi dell‟inesistenza, nell‟ambito del
sistema Iva, di una teoria giuscomunitaria dell‟abuso del diritto che le autorità fiscali di uno
Stato membro possano invocare contro i cittadini, per respingere le loro domande di
recupero o di detrazione dell‟imposta assolta a monte.
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Il Governo del Regno Unito, pur rilevando la mancanza di una regolamentazione
nazionale di contrasto all‟elusione nel settore Iva, ha affermato che l‟abuso del diritto è un
principio generale del diritto comunitario.
La Corte di Giustizia, in questa importante sentenza, muove dall‟assunto secondo il
quale “l‟applicazione della normativa comunitaria non può estendersi fino a comprendere i
comportamenti abusivi degli operatori economici, vale a dire operazioni realizzate non
nell‟ambito di transazioni commerciali normali, bensì al solo scopo di beneficiare
abusivamente dei vantaggi previsti dal diritto comunitario”.
Si afferma così il principio, di fonte giurisprudenziale, di divieto di abuso: con la
sentenza Halifax, esso è per la prima volta esteso al settore dell‟Iva, con ciò ribadendosi la
natura generale del principio.
Secondo la Corte, “perché possa parlarsi di un comportamento abusivo, le operazioni
controverse devono, nonostante l’applicazione formale delle pertinenti disposizioni della
sesta direttiva e della legislazione nazionale, procurare un vantaggio fiscale la cui
concessione sarebbe contraria all‟obiettivo perseguito da queste stesse disposizioni”.
Tenuto conto dell‟indirizzo espresso dalla Corte di Giustizia, ribadito in altre due
sentenze di pari data, si può dunque rilevare come, affinché un‟operazione sia rispettosa
del diritto comunitario, e dunque legittima, non è sufficiente il rispetto del mero dato
letterale delle norme e la loro applicazione in presenza dei presupposti di fatto previsti.
Diventa necessario, invece, soffermarsi anche sulle finalità e sugli obiettivi delle norme per
verificarne il rispetto nel caso concreto.
La nozione di “abuso del diritto” è delineata dalla Corte di Giustizia sulla base di
elementi oggettivi e soggettivi.
Il primo requisito (di natura oggettiva) è il conseguimento di un vantaggio fiscale
contrario alle finalità della norma, nel caso di specie, l‟obiettivo perseguito era la neutralità,
la non incidenza dell‟Iva sulle forniture effettuate nei confronti di soggetto esente.
Quanto al secondo requisito, la finalità di conseguire un risparmio, la Corte afferma
che “deve risultare da una serie di elementi oggettivi che lo scopo delle operazioni
controverse è essenzialmente l‟ottenimento di un vantaggio fiscale”.
Il requisito dello scopo di ottenere un vantaggio fiscale è quello destinato a creare il
maggiore contrasto interpretativo, data la difficoltà di scindere gli obiettivi economicoaziendali da quelli meramente tributari e operare una valutazione di prevalenza tra i due.
Sarà foriero di dubbi interpretativi, inoltre, il criterio di “prevalenza” espresso dal
giudice comunitario: ci si chiede, in altri termini, se - come afferma la sentenza Halifax - il
vantaggio fiscale debba essere la finalità “prevalente” dell‟operazione o, invece, se debba
configurarsi come obiettivo “esclusivo” per potersi parlare di abuso. E‟ una questione di
estremo rilievo, come comprovato dalla circostanza che per dirimere tale dubbio la Corte
di Cassazione, con l‟ordinanza di rinvio 4 ottobre 2006, n. 21371, ha rimesso la questione
alla Corte di Giustizia europea.
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Le finalità perseguite dal contribuente devono rappresentare oggetto di una
scrupolosa e attenta valutazione da parte del Fisco, il quale ha l‟onere di provare – con
dati oggettivi – l‟esistenza di uno schema preordinato, la volontà di compiere l‟abuso. Si
rende dunque necessaria una disamina delle azioni del contribuente per cogliere gli
elementi di contraddizione rispetto alle ordinarie finalità imprenditoriali, da cui desumere la
mancanza di ogni altra motivazione economica per l‟attività, se non quella di ottenere un
beneficio fiscale.
Problemi interpretativi suscita anche l‟ulteriore requisito della contrarietà dei vantaggi
conseguiti rispetto agli obiettivi delineati dal diritto comunitario. E‟ ravvisabile un notevole
grado di indeterminatezza nei presupposti delineati dalla Corte di Giustizia, con il rischio di
una incertezza nell‟applicazione del diritto e di una eccessiva discrezionalità riconosciuta
all‟Amministrazione.
Rapporto tra abuso del diritto (nozione
comunitaria) ed elusione fiscale (nozione interna)
In dottrina si è osservato come, pur non riferendosi la Corte di Giustizia in via
esplicita a fattispecie “elusive”, sia comunque possibile delineare una convergenza tra la
nozione di abuso del diritto comunitario e quella di elusione nella disciplina domestica.
In comune, anzitutto, vi è la descrizione della fattispecie elusiva, intesa quale
operazione produttiva di un vantaggio fiscale, ma priva di valide ragioni economiche.
Come si è rilevato e come si tornerà a ricordare in seguito, la sentenza Halifax adotta
un‟interpretazione più ampia di elusione, nella misura in cui ritiene elusive le operazioni in
cui la finalità del vantaggio fiscale è soltanto prevalente e non esclusiva, come invece
richiesto dalla norma nazionale.
In comune, inoltre, vi è il requisito della contrarietà del risultato conseguito rispetto
allo spirito della legge.
Secondo la normativa nazionale (art. 37 bis, secondo comma, d.p.r. 600 del 1973) il
ricorrere di una fattispecie elusiva determina il disconoscimento dei vantaggi fiscali
realizzati, con l‟applicazione delle imposte dovute in base alle disposizioni eluse. Anche
l‟abuso del diritto, quale precisato dalla giurisprudenza comunitaria, comporta che “ove si
constati un comportamento abusivo, le operazioni implicate devono essere ridefinite in
maniera da ristabilire la situazione quale sarebbe esistita senza le operazioni che quel
comportamento hanno fondato” (sentenza Halifax).
E‟ noto, tuttavia, che l‟applicazione della clausola antiabuso nel sistema Iva non può
essere ancorata all‟art. 37 bis: la norma, infatti, è collocata in un testo normativo
denominato “Disposizioni comuni in materia di accertamento delle imposte sui redditi”. La
norma è estesa oggi anche ai trasferimenti liberali, ma in forza di un‟espressa previsione
normativa (art. 16, comma, 3, legge 18 ottobre 2001, n. 383).
La clausola antielusiva nazionale, inoltre, individua un‟elencazione tassativa di
operazioni “sospette” che possono rappresentare oggetto di contestazione, mentre la
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portata della previsione antielusiva comunitaria è generale. La norma nazionale, inoltre,
individua una specifica modalità di contestazione della condotta elusiva, assente invece
nell‟elaborazione comunitaria, secondo la quale i meccanismi di contestazione dell‟abuso
del diritto sono quelli ordinari.
Diverso è, inoltre, il percorso argomentativo: nella giurisprudenza della Corte di
Giustizia, la fonte del potere di accertamento è la mera interpretazione della legge,
giacchè l‟indetraibilità dell‟Iva discende direttamente dall‟applicazione teleologica delle
norme sostanziali; nell‟ottica dell‟ordinamento interno, l‟inopponibilità discende invece
dall‟applicazione della specifica norma antielusiva.
Le difficoltà che emergono dall‟indirizzo comunitario sono principalmente collegate
all‟emersione di un‟alea di incertezza delle conseguenze giuridiche derivanti dalle scelte
imprenditoriali, giacchè la clausola antielusiva generale in materia di Iva rimette alla
sensibilità dei soggetti accertatori l‟individuazione del confine tra lecita pianificazione
fiscale e risparmio indebito.
Efficacia dei principi antiabuso nell’ordinamento
interno
La dottrina è divisa in merito all‟applicabilità dei principi antiabuso Iva espressi dalla
Corte di Giustizia nel diritto interno.
Muovendo dagli autori più attenti ai temi del diritto comunitario (Tesauro), si è rilevato
che il diritto comunitario primario, collocato in posizione sovraordinata rispetto al diritto
comunitario derivato, è formato dalle norme del Trattato e dai principi generali del diritto. I
principi generali del diritto, individuati dalla Corte di Giustizia, appartengono alle norme
comunitarie primarie e sono dunque prevalenti sia sul diritto comunitario derivato che sul
diritto nazionale.
Secondo tale condivisibile ricostruzione, sostenuta anche da Attardi (1), la matrice
comunitaria della previsione antielusiva, espressione di un principio generale del diritto
europeo, fa sì che tale principio possa trovare applicazione anche nell‟ordinamento
interno, ma soltanto nelle materie disciplinate dalla normativa comunitaria (Iva, accise,
dogane).
Nei casi in cui la materia sia lasciata alla determinazione del legislatore interno, non
troverebbe spazio la clausola antiabuso europea, ma la disciplina italiana.
Tale indirizzo interpretativo trova conferma in una nota sentenza della Corte di
Cassazione in materia di Iva. Il Supremo Collegio, pur riconoscendo l‟assenza di una
clausola generale antielusiva, ha tuttavia rilevato l‟emergenza di un principio tendenziale
del diritto comunitario, “secondo il quale non possono trarsi benefici da operazioni
intraprese ed eseguite al solo scopo di procurarsi un vantaggio fiscale” (2). La stessa
sentenza ha precisato che la valutazione del carattere abusivo ed elusivo è giudizio che
spetta al giudice di merito.
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La fattispecie esaminata riguarda una neocostitutiva società che aveva acquistato un
immobile sostenendo le spese di ristrutturazione; l‟Iva era stata detratta e l‟immobile, una
volta ristrutturato, era stato ceduto al socio. La società non aveva compiuto altre attività.
Questa operazione è stata ritenuta elusiva.
Vi è da ricordare che la portata del principio antielusivo comunitario sarà chiarita da
una pronuncia di rinvio della Corte di Cassazione. Secondo la Cassazione, infatti, non è
chiaro se il fine di eludere le imposte debba essere perseguito “essenzialmente” o se
debba essere il “solo scopo dell‟operazione”; in altri termini, se la presenza di ragioni
economiche marginali possa escludere l‟appicazione del principio antielusivo (ordinanza 4
ottobre 2006, n. 21371).
Vi è anche da rilevare che, secondo altro orientamento dottrinale, le pronunce della
Corte di Giustizia in materia regolata da direttive comunitarie non sarebbero applicabili, se
sfavorevoli al contribuente, direttamente nell‟ordinamento interno.
L‟efficacia diretta e verticale delle direttive self executing, infatti, dovrebbe operare
esclusivamente in bonam partem per il contribuente: il singolo potrebbe invocare tali
previsioni solo se a lui favorevoli.
Secondo Perrone (3), l‟effetto di penetrazione verticale non dovrebbe prodursi in
malam partem, perché ove si ammettesse la diretta applicabilità delle norme comunitarie
anche quando il singolo ha rispettato la norma interna contraria alla normativa
comunitaria, si consentirebbe allo Stato inadempiente di trarre vantaggio dalla sua
violazione del diritto comunitario. Nello stesso senso anche Lupi e Giorgi (4).
Contro questa opinione autorevole ma minoritaria, però, altri rilevano che si verrebbe
a produrre una frammentazione in sede di applicazione del diritto comunitario negli
ordinamenti nazionali.
La Suprema Corte, nella sentenza citata e nell‟ordinanza di rinvio, sembra avere
disatteso questa ricostruzione interpretativa, ritenendo direttamente applicabile
nell‟ordinamento interno la clausola generale antielusiva elaborata dalla giurisprudenza
comunitaria in materia di Iva.
Diversa è poi la ricostruzione operata dalla Corte di Cassazione con riferimento alle
note sentenze del 2005 in materia di dividend washing (5) e di dividend stripping (6).
La soluzione prospettata in tali pronunce fa riferimento agli istituti di assenza di
causa e di nullità contrattuale propri del diritto interno.
Pur riferendosi a fattispecie anteriori all‟entrata in vigore della clausola antielusiva di
cui all‟art. 37 bis, d.p.r. 600 del 1973, la Corte di Cassazione ha affermato che, anche
prima dell‟introduzione della norma, sarebbe emerso “dall‟ordinamento un principio
tendenziale che deve spingere l‟interprete alla ricerca di appropriati mezzi per contrastare
la diffusione dell‟elusione”.
E‟ noto che in tali pronunce, oggetto di un vivace dibattito dottrinale, la Corte ha
affermato che le operazioni esaminate sarebbero prive di valide ragioni economiche
13
diverse dal mero risparmio fiscale e ha ritenuto i contratti privi di causa negoziale e
dunque nulli. Tale nullità può essere riscontrata in via incidentale dal giudice tributario.
Molte le argomentazioni sostenute dalla dottrina avverso l‟impianto motivazionale
della sentenza. Si è così rilevato che la tradizionale nozione di causa come “funzione
economica sociale tipica e astratta” è di natura oggettiva ed è da escludersi l‟assenza di
causa in un contratto tipico (la tesi espressa dalla sentenza renderebbe di difficile
individuazione il confine tra causa e motivi del contratto).
Altra conseguenza che potrebbe determinare la conferma dell‟indirizzo
giurisprudenziale in materia di dividend washing è l‟incertezza dei rapporti giuridici: se il
contratto è nullo, anche i privati potrebbero utilizzare lo stesso schema, chiedendo al
giudice civile la dichiarazione di nullità di contratti privi di valide ragioni economiche.
Infine, secondo la teoria maggioritaria, è ancora assente nel nostro ordinamento un
principio generale antielusivo che possa applicarsi a fattispecie diverse da quelle
contemplate dalla normativa comunitaria nei settori da essa disciplinati o dallo specifico
campo di applicazione delle norme antielusive interne.
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TUTELA DEL LEGITTIMO AFFIDAMENTO__________________________________________
(1) TRIVELLIN M., Un’altra pronuncia della Cassazione esclude il recupero del tributo per violazione del
principio di tutela dell’affidamento: alcune note sulle ragioni della soluzione adottata, nota a sentenza
Cass., sez. trib., 6 ottobre 2006, sent. n. 21513, in Riv. dir. trib., 2007, II, p. 271.
(2) Cass., SS. UU., 2 novembre 2007, n. 23021, in bancadati Fiscovideo
LA TUTELA DELLA BUONA FEDE NELL’ORDINAMENTO
EUROPEO__________________________________________
(1) Sul punto mi permetto di rinviare ad Armella, L’errore delle autorità doganali preclude il recupero dei
dazi, in Dir.prat.trib.int., 2003, 339; Buona fede dell’importatore e responsabilità per invalidità dei
certificati, in GT, 2007, 1073.
(2) La giurisprudenza della Corte di giustizia, con orientamento univoco, afferma che qualora le tre
condizioni siano soddisfatte, il debitore ha diritto a che non si proceda al recupero. Corte di giustizia CE,
Sez. III, 1° aprile 1993, causa C-250/91, «Hewlett Packard France», in Racc., 1993, I-1819; Id., 27
giugno 1991, causa C-348/89, «Mecanarte-Metalurgica de Lagoa», ivi, 1991, pag. I-3277; Id., 22 ottobre
1987, causa 341/85, «Foto-Frost», ivi, 1987, pag. 4199; Id., 23 maggio 1989, causa 378/87, «Top Hit»,
ivi, 1989, pag. 1359; Id., 23 luglio 1989, causa 161/88, «Binder», ivi, 1989, pag. 2415.
(3) Corte di giustizia, Sez. III, 27 giugno 1991, causa C-348/89, «Mecanarte-Metalurgica de Lagoa», cit.
(4) Corte di giustizia CE, Sez. III, «Mecanarte», cit., punto 20.
(5) Corte di giustizia CE, Sez. I, 12 dicembre 1996, causa C-38/95, «Seafood import», in Racc., 1996, pag. I6543.
(6) Corte di giustizia, «Hewlett Packard France», cit., punto 22; Id., sentenze 16 luglio 1992, causa C-187/91,
«Società cooperativa Belavo», in Racc., 1992, pag. I-4963; Corte di giustizia CE, 8 aprile 1992, causa C371/90, «Beirafrio», in Racc., 1992, pag. I-2728; Id., 26 giugno 1990, causa C-64/89, «Deutche
Fernsprecher», ivi, 1990, pag. I-2535.
(7) Corte di giustizia CE, «Hewlett Packard France», cit., punto 23.
(8) Corte di giustizia CE, «Hewlett Packard France», cit., punto 26; Id., «Deutsche Fernsprecher», cit., punto
21.
(9) Corte di giustizia CE, «Hewlett Packard France», cit., punto 27.
(10) Corte di giustizia, Sez. II, 26 novembre 1998, causa C-370/96, «Covita Ave», in www.europa.eu.int.
(11) Corte di giustizia CE, «Covita Ave», cit., punto 26.
(12) Corte di giustizia CE, sentenza 23 maggio 1989, causa 378/86, «Top hit Holzvertrieb», in Racc., 1989,
pag. 1359, punto 26.
RECENTI ORIENTAMENTI DELLA CORTE DI
GIUSTIZIA__________________________________________
1) Corte di Giustizia, sentenza 21 febbraio 2006 c. 255/02, in www.curia.eu.int.
EFFICACIA DEI PRINCIPI ANTIABUSO NELL’ORDINAMENTO
INTERNO__________________________________________
(1) ATTARDI C., L’elusione nell’iva. L’impatto del divieto comunitario di abuso del diritto, in Fisco, 2007,
p. 4572.
(2) Cass., 5 maggio 2006, n. 10352, in Fisconline.
(3) L’armonizzazione dell’Iva: il ruolo della Corte di Giustizia, gli effetti verticali delle direttive e
l’affidamento del contribuente, in Rass. Trib., 2006, 430
(4) In Dialoghi di diritto tributario, 2004, 254 e 261.
(5) Cass., sez. trib., 21 ottobre 2005, n. 20398, in Fisconline
(6) Cass., sez. trib., 26 ottobre 2005, n. 20816; Cass., sez.trib., 14 novembre 2005, n. 22932, in Fisconline.
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materia d’iva e ne tratteggia le conseguenze sul piano impositivo: epifania di una
clausola generale antielusiva di matrice comunitaria?, nota a sentenza Corte
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STEVANATO D., Le “ragioni economiche” nel dividend washing e l’indagine sulla “causa
concreta” nel negozio: spunti per un approfondimento nota a sentenza Cass., sez.
trib., 21 ottobre 2005, n. 20398, in Rass. trib., 2006, p. 295.
TRIVELLIN M., Brevi cenni sulle relazioni tra abuso del diritto e clausola di buona fede.
Alla ricerca di una norma generale antielusiva, in Elusione fiscale: la nullità civilistica
come strumento generale antielusivo. Riflessioni a margine dei recenti orientamenti
della Cassazione civile. in Fisconline.
TRIVELLIN M., Un’altra pronuncia della Cassazione esclude il recupero del tributo per
violazione del principio di tutela dell’affidamento: alcune note sulle ragioni della
soluzione adottata, nota a sentenza Cass., sez. trib., 6 ottobre 2006, sent. n. 21513,
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