L`anteprima di Ragazze nella felicità coniugale con il
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L`anteprima di Ragazze nella felicità coniugale con il
© 1986 Edna O’Brien Pubblicato in accordo con Farrar, Straus and Giroux, LLC, New York Titolo originale: Girls in Their Married Bliss da The Country Girls Trilogy and Epilogue Traduzione dall’inglese di Cosetta Cavallante I edizione marzo 2014 © 2014 Lit Edizioni s.r.l. Elliot è un marchio di Lit Edizioni. Sede operativa: Via Isonzo 34, 00198 Roma [email protected] www.elliotedizioni.com Edna O’Brien RAGAZZE NELLA FELICITÀ CONIUGALE Traduzione di Cosetta Cavallante A Ted Allan 1 Non molto tempo fa, Kate Brady e io stavamo bevendo insieme un paio di malinconici gin fizz, su a Londra, lagnandoci del fatto che niente sarebbe mai cambiato, che saremmo morte così com’eravamo: con quel tanto che basta per mangiare, maritate con chissà chi, insoddisfatte. Siamo amiche da sempre. Da bambine, in Irlanda, dormivamo insieme e io la spingevo apposta giù dal letto, sperando che si spaccasse la testa o qualcosa del genere. Mi era simpatica e tutto – anche se ero gelosa da morire, ovviamente – ma lei era troppo posata, troppo buona, quel genere di bontà insulsa… capito no? Tipo chiederti sempre come stai, come stanno i genitori, eccetera eccetera. Alla scuola pubblica scriveva i temi al posto mio e al Convento della Pietà stavamo sempre insieme, perché le altre ottanta ragazze erano imbranate persino più di lei, e con questo ho detto tutto. Dopo aver mollato il convento, finimmo in una topaia di linoleum a Dublino e poi in un’altra topaia, qui a Londra, dove, nell’arco di diciotto mesi, rimediammo tre inviti a cena a testa, il che significava sei pasti in due, perché avevamo fatto un patto: chi di noi andava a mangiare fuori doveva portare un po’ di cibo alla Cenerentola di turno. Non avete idea di quante borsette ho rovinato con questa storia… Dopo nemmeno un anno incontrò di nuovo quello spo9 stato di Eugene Gaillard, che aveva conosciuto in Irlanda. Ricominciò la solita tiritera, si innamorarono, o almeno credevano di esserlo, e in quattro e quattr’otto mandarono tutto a farsi benedire, ovvero si sposarono nella sacrestia di una chiesa cattolica. Ci furono costretti. Non potevano farlo davanti a tutti, perché lui era divorziato e lei incinta, con una pancia grossa così. Io ero la damigella d’onore. Un vestitino di chiffon rosa e un cappellino con la veletta, tutto pagato da loro. Sembravo io la sposa. Kate invece si era messa addosso un enorme prémaman a righe tutto sformato e la sua bella faccia da bambina. È una furbetta, lei, un tipino che riuscirebbe a sembrare innocente persino se tenesse la madre rinchiusa nell’armadio. Il prete non le guardò la pancia nemmeno una volta. Quando uscimmo dalla sagrestia, Eugene si mise al volante e partì a tutta birra e questa cosa mi stupì, perché lui è uno di quegli ometti puntigliosi che ti fa mille raccomandazioni prima di farti salire sulla sua macchina: «Non saltare sul predellino. Non spostare il sedile troppo indietro. Non spostare gli altri sedili troppo avanti…». Tutto per sentirsi importante. Partì come un razzo e lungo la strada guidò a velocità folle, manco fosse un pilota di Formula 1. E se la rideva pure, una cosa che non fa spesso. «Che succede?» gli chiedo io. «Il nostro amatissimo parroco avrà una bella sorpresa» rispose, e allora Kate gli domandò «In che senso?», proprio come fanno le mogli. A quanto pare la busta che aveva consegnato al prete con dentro le venti sterline per il matrimonio conteneva in realtà una solitaria banconota irlandese, di un colorino arancione, un pezzo da dieci scellini avvolto dentro vari fogli di carta, in modo da far sembrare la busta più gonfia. 10 Be’, Kate si arrabbiò da matti e diventò tutta viola in faccia. Lui le disse che non era altro che una contadinotta convertita alla dattilografia, e lei gli rispose che era talmente spilorcio che non le avrebbe permesso nemmeno di comprare dei vestitini per il neonato. Una frecciatina inutile, perché lui era già stato sposato e aveva di certo messo da parte la carrozzina e pure i pannolini. Lui allora le disse che era una maleducata e che se intendeva essere volgare avrebbe fatto meglio a scendere dalla macchina. Disse anche che avrebbe donato quelle venti sterline a un’istituzione meno perniciosa della chiesa cattolica, e a quel punto Kate sbottò: «Bene, allora fallo! Ferma una poveretta per strada e dalle quei soldi». Ma lui non si mosse, rimase immobile davanti al volante come un palo della luce e guidò dritto fino a un mediocre ristorante di Soho, dove pranzammo senza particolare allegria, bevendo un vinello leggero e frizzante che piacque così tanto a Eugene che strappò l’etichetta umidiccia dalla bottiglia e se la mise nel portafoglio, per non dimenticarsi di quel vino. Magari per il prossimo matrimonio… Kate gli tenne il muso per tutto il tempo, e nemmeno io avevo tanta voglia di ridere. Andarono a vivere in campagna, dopo la nascita del bambino, e lei mi scrisse un biglietto che ho conservato. Non so perché l’ho tenuto, comunque diceva: Cara Baba, abitiamo in una valle da cui si vedono una collina ricoperta di felci basse e dorate e gli uccelli che fanno il nido sui rami, tra i germogli appena sbocciati. La casa è di pietra grigia, con lastre di ardesia sul tetto, travi di legno all’interno e pareti gibbose intonacate di bianco, vasi di fiori dappertutto; le assi del pavimento scricchiolano a ogni passo e lui mi ama e avere un figlio e vivere nella valle ed essere amata è mera11 viglioso, più bello di qualunque altra cosa io e te abbiamo mai conosciuto nei nostri giorni più spensierati. Sempre tua, Kate Sempre tua, Kate… Io me la passavo da schifo in quel periodo. Sempre un accidenti, Kate! Quella sera stessa mi misi il mio vestito più bello e me ne andai in un pub irlandese. Il caso volle che proprio là incontrassi il mio costruttore. Si chiamava Frank, spendeva soldi come se niente fosse e raccontava barzellette. Ve ne dico una delle sue, così vi fate un’idea di com’ero messa: “due pescatori abbracciano un donnone tondo e prosperoso e uno dice all’altro: ‘Bella pesca!’”. Basta alzare il gomito e si ride di qualsiasi cosa, sempre che non ci si metta a litigare o a fare a botte. Comunque, Frank mi accompagnò a casa, mi offrì dei soldi – ha la mania di offrire soldi a chi sta per dirgli di no – e poi mi chiese se aveva l’aria di una persona istruita. Istruita! Era un tipo grosso, rozzo, coi capelli unti e due sopracciglia così folte che formavano un’unica striscia pelosa. Allora gli dissi: «Mai fidarsi di quelli col monociglio, perché nel loro cuore abita un coniglio». Quant’è vero Iddio, all’appuntamento seguente il monociglio era sparito, rasato proprio sopra il naso, schiacciato come quello dei pugili. Era talmente ottuso da non capire che quella era la cosa più interessante di lui. Ottuso. Ma anche gentile. Le persone vulnerabili sono gentili, di solito, almeno io la penso così. Un’altra cena. Due cene in una sola settimana e un mazzo di fiori recapitato a casa. Appena vidi i fiori pensai subito che avrei potuto rivenderli a metà prezzo. Così li offrii alle ragazze che abitavano al piano di sopra e anche a 12 quelle del piano di sotto, ma tutte mi dissero di no, tranne un’imbecille che accettò di comprarli. Siccome non trovava più il borsellino e io mi sentivo particolarmente spilorcia le dissi: «Guarda, facciamo così: te ne do la metà». Tenni per me l’altra metà del mazzo, ma quando Frank venne a prendermi quella sera incominciò a contare quanti fiori c’erano dentro il barattolo di vernice, perché un vaso non ce l’avevo, e lo sapete cosa ha fatto? È andato a telefonare al fiorista per dirgli che l’aveva imbrogliato. Se ne stava al telefono sul pianerottolo, a gridare dentro la cornetta che aveva ordinato tre dozzine di rose e che erano dei ladri e che non avrebbe comprato mai più fiori da loro, e intanto io, nella mia stanza, mi tappavo la bocca con le mani, perché non mi sentisse ridere. «Magari non sei istruito» gli dissi «ma il commercio ce l’hai nel sangue. Farai strada». Finì che il fiorista promise di mandare altre rose, e così fu. Frank allora mi accompagnò in macchina da Woolworth a comprare un vaso di plastica da due scellini, perché il barattolo si sarebbe rovesciato se ci avessi infilato dentro un altro fiore. Ci vollero almeno altri sei inviti a cena prima che mi chiedesse di andare a letto con lui, e la cosa mi colpì. Non sapevo se esserne contenta oppure offesa. Era ubriaco fradicio la sera che me lo chiese e la soffitta in cui vivevo era una ghiacciaia e non assomigliava per niente a un nido d’amore. Le rose erano appassite ma ancora non le avevo buttate, e avevo un letto piccolissimo e corto, così corto che gli spuntavano fuori i piedi. Mi sdraiai accanto a lui, tutta vestita, senza nemmeno infilarmi sotto le lenzuola. Frank incominciò ad armeggiare con la mia cerniera e naturalmente la ruppe, e io sperai che mi lasciasse almeno i soldi per riparare il danno, ma anche se l’avesse fatto mi ci sarebbe voluto un corso di sartoria per imparare a cucire 13 una cerniera, che è una faccenda piuttosto complicata. Lo sapevo che il letto si sarebbe rotto. Purtroppo si scopre che i letti sono difettosi soltanto durante un certo tipo di utilizzo. Finalmente riuscì ad abbassarmi la cerniera, a raggiungere la sottoveste – io intanto stavo congelando – e a toccarmi con un dito o due, proprio sul girovita che iniziava a ingrossarsi per colpa di tutte quelle cene abbondanti, con salsine e roba simile. Mi resi conto che dovevo fare qualcosa anch’io e incominciai a tastarlo qua e là, e quando gli sfiorai la pelle nuda fui sorpresa di scoprire che era morbida e non ruvida come la sua faccia. La mano di Frank incominciò a scendere sempre più giù, ingorda all’inizio, ma all’improvviso si fermò: si era addormentato. Andò avanti così per un bel pezzo, prima palpeggiava e poi si appisolava, finché alla fine mi disse «Adesso cosa facciamo?», e allora capii il motivo per cui non ci aveva provato prima. Un vero irlandese: buono per guerre, assedi e massacri. Non per l’amore. Ma me l’aspettavo. In fondo questa cosa lo rendeva molto, ma molto più carino di tutti quei pescecani con cui ero uscita, che non ti pagavano nemmeno il biglietto del cinema, ti prendevano sul sedile posteriore della macchina oppure ti si intrufolavano in casa e ti mangiavano pure i fagioli lessi, e magari pretendevano di sperimentare un modo nuovo di fare sesso e non gliene fregava niente se restavi incinta, perché a loro piaceva farlo “al naturale”, senza aggeggi di mezzo. Gli preparai una tazza di caffè solubile e quando si addormentò di nuovo lo coprii con la trapunta e spensi la luce. Mi sedetti a pensare a quei diciotto mesi a Londra, a tutti gli uomini che avevo conosciuto e alla faticaccia di rammendarsi i collant sul tallone e di mantenere la pelle del viso ben idratata per quell’Uomo Giusto che doveva arrivare, prima o poi. Lo sapevo già che sarei finita con Frank. Perché era 14 ricco e cafone, ed era quel genere di uomo che ti compra le pasticche per il mal di mare prima dell’imbarco. Non ci crederete, ma un po’ mi faceva pena quando si preoccupava di non essere istruito o di non farsi fregare dai fioristi o di non essere scambiato per un bifolco irlandese dai camerieri, che poi erano quasi tutti bifolchi italiani. Avrei potuto mandarli all’inferno, perché ero bella e avevo pure una gran faccia tosta e non avevo paura di nessuno, e non mi importava se piacevo o meno alla gente, che è poi la cosa di cui quasi tutti hanno paura. So che il fatto di piacere o non piacere agli altri è del tutto casuale e che dipende da loro, mica da te. È così anche per l’amore, anzi soprattutto per l’amore. Be’, tagliando corto, l’ho sposato e abbiamo fatto le cose in grande, con un bel banchetto, un paggio che gridava il nome degli invitati e un tappeto rosso. Per essere precisi non era nemmeno un tappeto vero e proprio, ma un coso di velluto. Comunque io ho fatto finta di niente, perché altrimenti lui si sarebbe messo subito a litigare e avrebbe chiamato i fotografi per avere le prove della fregatura. A sposarci fu l’abate di un monastero che la ditta di Frank aveva costruito. La cerimonia fu grandiosa, con tanto di discorsi sullo sport, la felicità e altre baggianate. Ricevemmo novantaquattro telegrammi d’auguri. Venni poi a sapere che Frank aveva dato istruzioni alla sua segretaria di spedircene una vagonata, a nome di questo o quell’operaio della ditta. Sarebbe morto se non avesse ricevuto più telegrammi di chiunque altro o se il suo non fosse stato il discorso più spiritoso. Non era difficile risultare spiritosi, con gli invitati che avevamo. Aveva preparato il suo discorso con settimane di anticipo. Pensate che roba: per quattro sere fece le prove con una maestra di dizione. Una persona normale avrebbe pagato qualsiasi cifra pur di non parlare come quella. Strillava e squitti15 va di continuo, e i due se ne stavano rinchiusi in una stanza a fare “AAA” e “OOO” per ore. Era una classica cicciona inglese, gonfia di pane, chiacchiere e nient’altro. Naturalmente ci ubriacammo tutti al matrimonio e quando arrivammo all’aeroporto, io nel mio tailleur da viaggio parigino color carta da zucchero, si rifiutarono di imbarcarci perché lui sembrava un handicappato, tanto era sbronzo. Frank fece una piazzata coi fiocchi e se ne uscì con le solite smargiassate: «Lei non sa chi sono io» e «Non vede che mia moglie veste Balenciaga», eccetera eccetera. Comunque fummo costretti ad andarcene e la mia sola consolazione fu che la prima notte di nozze Frank non sarebbe stato in grado di fare niente a letto, perché quella era la mia sola, grande paura. Vedete, era un aspetto di lui che proprio non mi andava giù. Mi piacevano i suoi soldi e i suoi modi da spaccone, non mi dava fastidio stare mano nella mano al cinema, ma non avevo nessunissima fretta di entrare in un letto insieme a lui. Tutto il contrario, semmai. Arrivai persino a confidarmi con mia madre. Non parlavamo quasi mai, perché quando a quattro anni avevo avuto la scarlattina lei mi aveva spedito in una Gaeltacht 1, a imparare il gaelico. Mi aveva spedito, proprio così, tipo pacco postale, solo per non doversi occupare di me, dato che la governante era in vacanza per due settimane. La Gaeltacht le era sembrata una gran bella idea – per il mio bene, ovviamente. Dopo neanche un giorno mi ricoverarono in ospedale. Mi dettavano le lettere da scrivere a casa: Cara mammina (“non sono tua madre” dicevi sempre “sono mammina”), sto molto meglio adesso. Stamane ho bevuto il succo d’arancia dalla cannuccia. Cara mammina, saluto tanto te e papà. Non voglio mica fare la martire per questa cosa, sta di 16 fatto che io non le raccontavo mai i fatti miei, anche se le parlai comunque del mio problema “fisico” con Frank e lei mi consigliò di non preoccuparmi, di stringere i denti e sopportare. Mi disse che era per colpa dell’attrazione fisica che tanti matrimoni andavano a gambe all’aria, che era una specie di droga. “Droga” era il termine con cui mia madre identificava qualunque cosa aiutasse la gente a campare. Non ce l’ho mica con lei. Non credo che i genitori debbano fare chissà che cosa per i figli, giusto la registrazione all’anagrafe e magari comprare un paio di scarpe nuove ogni tanto. Lei disse quel che disse solo per portare acqua al suo mulino, perché Frank ci teneva al guinzaglio tutte e due, finanziandoci entrambe. Grazie ai suoi soldi, mia madre era venuta a stare a Londra e faceva la bella vita a sue spese: pedicure, vestiti nuovi e gin sling ogni sera in qualche albergo elegante, e poi tutti insieme (lui non faceva un passo senza un codazzo di dieci o dodici persone) si andava in qualche locale, dove un omino o una donnetta volgare strimpellavano il pianoforte dandosi un sacco di arie. Sai che spasso… Mia madre però si divertiva. «È un brav’uomo, il tuo Frank» mi diceva, protesa sul tavolino di uno di quei postacci infami, e poi lo cercava con lo sguardo e alzava il bicchiere dicendo «Alla tua, Frank!», e poi brindavano pure alla mia, alla salute dell’agnello sacrificale. Vent’anni prima, mia madre non gli avrebbe permesso nemmeno di pisciare nel nostro gabinetto all’aperto. Penserete che stia esagerando, ma non è vero. Morì poco tempo dopo. Le venne un cancro allo stomaco e se ne andò nel giro di qualche mese. Penso che nelle ultime ventiquattr’ore prima di morire abbia lottato con tutta se stessa contro quel male, e devo dire che ho sentito la sua mancanza più di quanto avrei mai immaginato. Finché uno non tira le cuoia puoi sempre sperare che cam17 bi o che si riesca ad andare d’accordo, ma quando muore capisci che nulla di tutto ciò è possibile. Bene, adesso vi spiego come andarono le cose. Io e Frank traslocammo in una casa di lusso. Adoro l’odore che si respira nelle case dei ricchi, nei negozi dei ricchi, adoro fiori e tappeti, riempirei il mondo intero di fiori e tappeti, se potessi. La nostra casa dava sul Tamigi: vista grandiosa, controfinestre, allarme antifurto, doppie porte, non mancava niente. Per certi versi fu divertente appendere i quadri e rifare le stanze come fosse il Vaticano. Il nostro bagno finì addirittura su una rivista di arredamento, e ci finii anch’io, seduta su un trono di vimini. Comprammo dozzine di copie della rivista e le spedimmo in Irlanda, a tutti i parenti. Dormivamo in letti separati all’inizio, finché Frank non lesse da qualche parte che erano fuori moda. Così acquistò un orrendo lettone matrimoniale con una testiera scandinava. Da allora non ebbi più pace. Oltre a tutto il resto, Frank si rigira nel sonno di continuo, e scalcia e grugnisce e scava coi piedi peggio di un cane da tartufi. Anche la Brady tornò a Londra. Alla fine, tutta quella natura e la quiete mortifera della sera non avevano funzionato. Ci incontravamo regolarmente per raccontarci le nostre sventure. La sua vita assomigliava alla storia della Santa Inquisizione. Lui voleva che restasse sempre in casa e che gli curasse pure le emorroidi. Un giorno notai una strana luce nei suoi occhi. «Che c’è?» le chiesi. Avrei dovuto immaginarlo. Aveva incontrato un altro, si era innamorata, insomma la solita storia, trita e ritrita. Incominciò a parlare di lui con un tale entusiasmo che fui sul punto di vomitare. Era un vero tesoro, una perla rara, eccetera eccetera. Presero l’abitudine di vedersi da me, il pomeriggio, per bere il tè e 18 chiacchierare, e arrivai persino a uscire di casa per dargli l’opportunità di stare soli, ma non si spinsero mai più in là del soggiorno. Preferivano dedicarsi ai canti di denuncia, quei due. Mi chiedevo spesso quando sarebbe finita, ma a parte questo non davo troppa importanza alla loro storia. Il che vi dimostra quanto io mi possa sbagliare. 19