Patch Adams: il sogno di una medicina diversa

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Patch Adams: il sogno di una medicina diversa
Patch Adams: il sogno di una medicina diversa
Patch Adams nasce nel 1945, suo padre era ufficiale di fanteria e artiglieria e quindi poco
presente in casa, sua madre invece, si dedicò completamente alla sua cura e a quella del fratello
Robert.
Per il lavoro del padre, Patch e la sua famiglia, venivano continuamente trasferiti: Germania,
Texas, Oklahoma e in tanti altri posti, e così Patch imparò ben presto a socializzare e crearsi amici
molto facilmente.
Quando Patch aveva 16 anni, il padre venne a mancare per un attacco di cuore, e questo gli
diede molta sofferenza e tanta rabbia: non aveva un bel rapporto con il padre e i due si stavano
riavvicinando proprio in quel periodo.
I tre anni che seguirono furono molto difficili per Patch, si stabilì dallo zio materno, che
diventò per lui un padre. Questo negli anni ‘60, periodo in cui, in America, il Movimento per i
Diritti Civili portava avanti numerose battaglie contro la discriminazione sociale, contro l’ipocrisia
della borghesia e tante altre. Patch sfruttò queste battaglie per “sfogare” la sua rabbia.
Tre anni dopo il suo trasferimento dallo zio, questi si suicidò e per Patch arrivò,
nuovamente, il momento di confrontarsi con una realtà molto dura e deludente. Patch stesso, da quel
momento in poi, tentò il suicidio più volte, facendo richiesta alla fine di essere ricoverato in un
ospedale psichiatrico.
Tale esperienza portò una vera svolta alla sua vita: si rese conto dell’importanza dell’amore
di chi gli stava accanto e della positiva influenza che ciò aveva su di lui. Dopo 12 giorni, decise di
uscire dall’ospedale e di dedicare la sua vita a “servire”, entrò nella facoltà di Medicina e decise di
non avere mai più giornate tristi.
Con pazienza e amore, grazie anche al contatto con le altre persone, è divenuto la persona
che è oggi: un evento decisivo avvenne tra il 1963 e il 1964.
In questo periodo, entrò nella facoltà di medicina e l’impatto non fu dei migliori. Si rese
conto di quanto fosse inesistente il rapporto tra medico e pazienti, con questi ultimi confusi
semplicemente con il nome della malattia. Patch si oppose sin da subito a tutto questo, portando
allegria e buon umore nei reparti. I momenti più difficili per Patch erano le visite ai pazienti, dove il
distacco e la freddezza erano le regole di base, anche se questo di certo non valeva per lui perché
amava interagire con i pazienti il più possibile.
Agli inizi degli anni ’70, Patch elabora quello che sarà il suo progetto per una struttura
medica ideale, il suo sogno: lavorare tenendo in considerazione tutti gli aspetti umani della vita.
Nasce così il Gesundheit Institute, una comunità medico-olistica completamente gratuita (Adams,
2005, pp. 1-18).
Come detto, dunque, il dott. Patch Adams è fondatore e direttore del Gesundheit Institute, un
progetto nato per creare un ospedale aperto a tutti i problemi di assistenza sanitaria. Non ha mai
chiesto denaro, né accettato rimborsi per conto terzi, né stipulato assicurazioni in caso di cure
sbagliate. È il primo ospedale che porta a piena integrazione tutti i percorsi di guarigione e che si
focalizza sul benessere e sulle arti. L’ospedale è una casa sia per il personale che per i pazienti. Il
Gesundheit, primo caso della storia di ospedale “sciocco”, si sta ora espandendo verso
l’ecovillaggio (Adams, 2005, p. 130).
Patch Adams stesso, in un’intervista, definisce il Gesundeith Institute un sogno, il sogno di
tante persone, un esperimento della medicina olistica, basato sulla convinzione che non si può
separare la salute dell’individuo dalla salute della famiglia, della comunità, del mondo. Uno dei
fondamenti della filosofia di questo nuovo ospedale è che la salute si basa sulla felicità:
dall’abbracciarsi e fare il pagliaccio al trovare la gioia nella famiglia e negli amici, soddisfazione
nel lavoro e nell’estasi per la natura e le arti (Urech, 2001).
Ma qual è la storia del Gesundheith Institute? Come Patch Adams ha cercato di realizzare
questo sogno?
Questo medico stravagante, nel seminario “Curare con gioia”, tenutosi a Milano il 26
Maggio del 2001, ha raccontato la sua esperienza e di come è riuscito a realizzare questo grande
sogno.
Partendo dall’inizio della sua carriera universitaria, Patch si rese conto che l’erogazione dei
servizi sanitari degli Stati Uniti negli anni ‘60 non era delle migliori e si chiese così come
migliorarla, decidendo di dedicare parte del suo tempo a studiare i modelli ed i sistemi di
erogazione di cure sanitarie.
Volendo ideare un sistema ospedaliero che facesse fronte a tutte le criticità di quel tempo,
sviluppò interesse per la teoria sistemica. Il problema principale a cui fece fronte fu che la medicina,
ora come allora, è un business e i più disagiati non potevano e non possono accedervi.
Da questa riflessione derivò l’idea di creare un ospedale che erogasse cure gratuite ai
pazienti, indistintamente. L’idea era quella di eliminare dalla cura il peso del debito: il paziente
curato, non doveva sentirsi indebitato con il medico ma doveva partecipare alla comunità che si
stava creando.
Il paziente ideale, per questo nuovo tipo di ospedale, era ed è un individuo che vuole
sviluppare un’amicizia, un rapporto profondo con il medico. Patch con i collaboratori si chiesero
come insegnare l’amicizia, come aiutare la gente a trovare il vero significato della vita, come
affrontare le giornate con la gioia nonostante la malattia. Decisero così di integrare alla medicina le
arti, i mestieri, l’intrattenimento, l’educazione.
In quegli anni, nessuno diede loro un ospedale e così trasformarono la loro casa in ospedale.
Nei primi dodici anni del progetto pilota vi erano 20 operatori che occupavano questa casa in cui
erano presenti solo sei camere da letto, grazie alle quali riuscivano ad avere dai cinque ai quindici
ospiti a notte.
In questi dodici anni, nessun’organizzazione li sostenne finanziariamente e ciò nonostante,
nei primi nove, nessuno degli operatori se ne andò e la vera ragione era che ciò che stavano creando
era, ed è tuttora, un ospedale unico, in cui si cercava di rendere tutto divertente: il vivere ed anche il
morire.
Successivamente, il gruppo si rese conto che non avendo sostegno finanziario non era
possibile continuare quest’attività che, quindi, venne chiusa e gli operatori si aprirono all’esterno
per cercare fondi significativi ed aprire un vero ospedale. In tal senso, ancora oggi, Patch risponde
ad inviti per conferenze in tutto il mondo, ricevendo in compenso donazioni per la fondazione di
quest’ospedale. Inoltre, fu deciso di dare avvio a missioni umanitarie in cui i clown, con la loro
allegria, incontravano, nei diversi paesi ospitanti, persone disagiate per portare loro gioia e sorrisi.
Nel 2011, finalmente, dopo più di 40 anni, ad Arlington in Virgina, sono state gettate le
fondamenta per la costruzione del Gesundheit Institute.
Da questa convinzione, da questo sogno e da queste missioni umanitarie nasce la terapia del
sorriso.
La comico-terapia, definizione e attuazione
Molti ospedali hanno un’atmosfera deprimente che è largamente dovuta all’atteggiamento
troppo serio dei medici. Questi, pensano che il loro atteggiamento serio e cupo impressionerà i
pazienti. Raramente capiscono che le persone ammalate sono come i bambini impauriti, che
desiderano la vicinanza, l’intimità e una mano leggera. I medici aiuterebbero se stessi, e soprattutto
i loro pazienti, se ricordassero le parole di Robert Burton: «Lo humour ripulisce il sangue, rendendo
il corpo più giovane, più vitale, e adatto per qualsiasi uso» (cit. in Bokun, 1997, p. 81).
In tal senso, i medici e le infermiere dovrebbero essere addestrati a praticare lo humour.
Trattando le persone con un atteggiamento umoristico e giocoso, potrebbero aiutare i loro pazienti a
raggiungere uno stato di allegria e giovinezza, due stati d’animo che sviluppano un grande
potenziale di recupero (Bokun, 1997, pp. 81-82).
Da queste riflessioni, il medico statunitense Patch Adams ha gettato le basi per la sua
“rivoluzione” sanitaria e da qui ha preso il via la terapia del sorriso o comicoterapia.
Nella vita, Patch è un clown nel senso che tutte le mattine si veste da clown e si toglie
questi panni solo quando va a dormire la sera. Con i suoi baffoni da ussaro, i quasi due metri di
altezza, una camicia sgargiante e con i suoi pantaloni bizzarri, prende l’aereo, l’autobus e solo per il
fatto di essere vestito in quel modo, attrae l’attenzione e la curiosità degli altri, con la sua aria mite e
buffa, spargendo subito intorno un’atmosfera di ilarità e di salutare sdrammatizzazione delle solite
dinamiche seriose della routine quotidiana (Ferrario, 2012, pp. 104-105).
Patch Adams ha aperto una strada: la medicina mondiale sembra orientata verso il
riconoscimento delle innumerevoli possibilità terapeutiche legate al ridere. Molti sono ormai gli
ospedali che hanno adottato tecniche di comico-terapia: dalle più semplici, come i clown nelle
corsie pediatriche, a quelle più strutturate, come preparare il personale a dispensare buonumore, ai
veri e propri reparti di terapia del ridere. Esistono pertanto due sostanziali modalità di fare comicoterapia negli ospedali: una di tipo più “passivo” per il paziente, che consiste nel far intervenire nelle
corsie dei clown volontari, e quindi non medici veri e propri, e l’altra modalità più “attiva”, che
consiste nell’allestire un vero e proprio reparto di terapia del ridere (ibidem, pp. 106-107).
Non sempre far ridere è semplice e far ridere le persone malate è ancora più difficile; quando
poi si tratta di far ridere bambini malati è un’impresa, perché ciò comporta un cambiamento del
modo di rapportarsi a loro: l’adulto che vuol far divertire il bambino deve necessariamente sapersi
porre sul suo stesso piano, deve trovare una sintonia in grado di liberare le emozioni e di accogliere
lo scherzo (Biatò, 2003, p. 130).
Un altro problema è di analizzare ciò che fa più paura al bambino nella situazione del
ricovero. Ovviamente il personale sanitario, proprio a causa del ruolo che deve investire, un ruolo
intrusivo che invade lo spazio del minore e della famiglia, che invade la corporeità altrui, rimane
l’oggetto di maggiore ansia da parte dei degenti. Sarà su questa figura che si dovrà lavorare per far
ridere ma anche per far passare un po’ la paura (ibidem).
Da qui la scelta di trasformare il medico, con il suo impeccabile camice e “gli strumenti del
mestiere”, in un personaggio un po’ goffo, simile a quelli che si vedono nelle favole o nei cartoni
animati; ecco che il tramite è stato creato: il “dottore cattivo”, nella fantasia di molti, diventa un
clown, da sempre figura rivolta ai bambini e tutto questo grazie all’input dato da Patch Adams
(ibidem).
Ma, precisamente, un clown-dottore cosa fa per attuare la sua terapia del sorriso?
Riprendendo l’esempio di Patch Adams, egli visita i bambini con il naso rosso, un copricapo buffo,
ma in modo mite, instaurando con i piccoli un rapporto tattile e un po’ trasgressivo, magari
mettendo i piedoni sul letto dei piccoli pazienti. Poi tira fuori una borsa con tante tasche, nelle quali
vi sono i rimedi più disparati che estrae e ritrae, mostra e nasconde come fanno i prestigiatori:
compresse, erbe, pietre. Il suo fare è magico, rituale e sempre sorridente. Coinvolge il bambino
nella terapia, chiedendogli, ad esempio, di tenere una medicina o una pietra particolare sull’organo
malato (Ferrario, 2012, p. 105).
A partire da questo approccio, si sono aperte numerose associazioni per la formazione di
clown “dottori” che, non da medici ma da semplici volontari, portassero nei reparti ospedalieri
questa “tecnica” del buonumore. Il lavoro del clown-dottore si svolge primariamente nei reparti ospedalieri, ma da diverso
tempo si sta sperimentando l’utilizzo della clown-terapia anche in altri contesti (Pino, 2010, p. 46).
La clown-terapia, come già detto, si riferisce all’applicazione di un insieme di tecniche,
derivate dal circo e dal teatro di strada, in contesti di disagio quali ospedali, case di riposo, case
famiglia, orfanotrofi, centri diurni, centri di accoglienza, che si avvale del clown-dottore il quale
porta in questi ambiti la “terapia della risata” (Lorenzini, 2008, p. 64).
Sembrerà strano ma la clown-terapia opera anche in situazioni di emergenza come terremoti
e catastrofi. Un esempio ci è stato dato dalla catastrofe del 6 Aprile 2009 che distrusse l’Aquila.
In quei terribili giorni, in mezzo alle macerie e alla disperazione, c’erano anche i clowndottori, volontari di diverse associazioni di comico-terapia, giunti da tutta Italia per far tornare ai
bambini la voglia di giocare anche in una tendopoli, per riuscire a far “evadere” un adulto dalla
tristezza e dallo smarrimento (Faiella, 2010).
Immediatamente i clown-dottori hanno operato, in accordo con la Protezione Civile,
cercando di cambiare il clima emotivo, contenendo ansia e paura ricorrendo al sorriso (Ricci, 2010,
p. 23).
In quest’occasione, i clown-dottori sono stati di supporto nel tentativo di ripristinare la
normalità, conquistando la fiducia anche di adulti e anziani. Hanno dato un aiuto nel risolvere i
conflitti derivati dalla convivenza nelle tende e sono riusciti a convincere, spesso con il sorriso, chi
aveva paura di ritornare nella propria casa, anche se agibile (Faiella, 2010).
In contesti come le case di riposo per anziani, invece, qual è il ruolo del clown-terapeuta?
Senz’altro non quello di un intrattenitore per feste. E’ indispensabile, in questo contesto, la
periodicità degli interventi, che devono essere tappe di un percorso continuo di facilitazione delle
relazioni umane, al fine di inserirsi nel piano educativo di ciascun ospite. Il clown-dottore, in un
contesto come la casa di riposo, ha il compito di rendere possibile all’anziano un invecchiamento
sereno, dato dalle iniziative che vengono proposte per arricchire la giornata degli ospiti delle case di
degenza. La clownerie è efficace se riesce a cogliere il valore formativo del proprio intervento e per
saperlo cogliere è necessario che la tecnica artistica sia supportata da rigorose conoscenze
pedagogiche e competenze educative (Ricci, 2010, pp. 26-27).
Ormai è largamente accettata, nei reparti di pediatria, la figura del “dottor Sogni”, che
riveste una funzione primaria, tanto nella fase di accoglienza del malato quanto in quella del suo
inserimento nella struttura ospedaliera. Il clown, metaforizzando il lavoro dei medici veri, permette
al bambino ospedalizzato di conservare quella dimensione ludica che maggiormente gli appartiene.
Anche il clown-dottore compie un giro visite nelle stanze, col compito di alleggerire la situazione
attraverso delle pillole di ottimismo (Pino, 2010, p. 46).
Il clown in corsia chiede il permesso di entrare nella stanza e, una volta dentro, non offre
uno spettacolo comico, ma ascolta, osserva, entra in contatto con quello che trova, senza giudicarlo
e permettendo al bambino di dar voce alle proprie emozioni (ibidem, p. 48).
Il clown-dottore entra nella vita del malato, ne condivide la parte sana, ci gioca e arriva là
dove le normali relazioni si possono fermare, vede oltre perché si pone come persona che fallisce e
vive il proprio fallimento con humor (Flangini, 2010, p. 34).
L’amorevolezza che caratterizza la relazione tra bambini e clown può essere estesa anche ad
altri servizi socio-sanitari attraverso “le cure” dei clown-dottori. Molti ospedali stanno iniziando a
sperimentare queste figure professionali anche in altri reparti diversi dalla pediatria, come le sale di
attesa dei day-hospital oncologici, dei pronto soccorsi, le residenze sanitarie assistite, le comunità
terapeutiche (Pino, 2010, p. 48).
Questi nuovi ambiti permettono di verificare in altri contesti le potenzialità dell’arte del
clown come veicolo di sentimenti di prossimità, amorevolezza, sensibilità, apertura incondizionata
all’altro, non giudizio, responsabilità, capacità di progettazione e capacità di aiutare le persone ad
orientare la propria esistenza in quei momenti in cui, per molteplici motivi, sembrerebbe prevalere il
drammatico preoccuparsi, il caos, la complessità (ibidem, pp. 48-49).
DI PAOLA ANTONELLA
BIBLIOGRAFIA
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Lorenzini D. (2008), Il sorriso come terapia, Roma, Sovera Editore.
Pino L. (2010), Il clown professionale nei servizi alla persona: formazione e ambiti di intervento,
in Ricci G.F, Resico D. e Pino L. (a cura di), Il clown professionale nei servizi alla
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Ricci G.F. (2010), La clownerie nell’ottica della Pedagogia Speciale, in Ricci G.F., Resico D. e
Pino L. (a cura di), Il clown professionale nei servizi alla persona. Materiali per la
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agg al 30.03.2016.